Pallante rileva una connessione profonda e singolare tra i valori che regolano attualmente il sistema economico e quelli su cui poggia il mondo dell’arte, nonostante l’esplicito atteggiamento di rifiuto che quest’ultimo (o almeno parte di esso) esibisce nei confronti della produzione industriale e del mercato. Il concetto condiviso dai due ambiti è quello di novità. Ad esso si assegna un valore assoluto e gli si costruisce attorno una robusta cornice di nozioni tutt’altro che neutre sul piano assiologico. Il nuovo, sotto questo profilo, è (il) moderno e (il) buono. Ed è anche migliore del passato e della tradizione.
L’idea del nuovo è così in grado di orientare l’apprezzamento, costituendo un parametro di valutazione essenziale tanto per le merci quanto per le opere artistiche. L’odierno regime economico – sostiene l’autore – ha lavorato molto per promuovere il radicamento del nuovo come valore cardinale nell’immaginario collettivo: ciò alimenta, infatti, tipi di produzione e di consumo altamente redditizi (per pochi) e assai poco sostenibili (per i più).
Secondo Pallante inoltre, che ribadisce il punto varie volte nel corso del testo, l’arte ha svolto una parte determinante nella diffusione della catena concettuale di cui s’è detto. Per dirla con le sue parole: «la valorizzazione dell’innovazione nell’arte ha contribuito in maniera decisiva a modellare nei paesi occidentali l’immaginario collettivo e a offrire un consenso di massa al processo che [...] stava sostituendo le economie di sussistenza con sistemi economici basati sulla crescita della produzione di merci (p. 30)».
Ora, indipendentemente dalla condivisione o meno delle teorie economiche dello studioso, si può certo discutere se, e nel caso in che misura, il mondo dell’arte abbia influenzato l’assetto culturale e assiologico occidentale, finendo in sostanza per fiancheggiare e persino favorire l’avanzata di un certo modello di capitalismo. La tesi dell’autore, tutto sommato, sembra attribuire all’universo artistico un ruolo sovradimensionato rispetto alla sua reale incidenza sul tessuto sociale. Inoltre, se è vero che l’innovazione ha assunto un posto cardinale nella modernità artistica, pare esagerato sostenere che in ambito creativo il mercato conceda diritto di accesso solo a chi è innovativo (p. 35). Del resto, è una forzatura strumentale anche affermare che, nel sistema dominato dal valore del nuovo, «se un’opera d’arte non è innovativa e originale [...] è illegittima e inaccettabile. Non è arte» (p. 36).
Nondimeno, il libro contiene diverse osservazioni interessanti, specie nella sua parte più spiccatamente critica, a proposito delle storture che il culto del nuovo può comportare nel contesto artistico. Degne d’attenzione risultano, ad esempio, le analisi dedicate alla paradossale sostituzione dei vincoli della tradizione con quelli della “tradizione della modernità” nei programmi degli artisti e delle correnti che pure dichiarano di volersi sbarazzare di qualsiasi vincolo nel nome della libertà e dell’originalità imposta come fine. Così come meritano considerazione le note sulla singolare consonanza tra il mercato dell’arte e quello delle merci. Dice in proposito Pallante: «il sistema di promozione e di distribuzione commerciale» legato all’arte contemporanea «ha mutuato, in qualche caso anticipandole, le tendenze e le evoluzioni in corso negli altri mercati, in particolare la mondializzazione delle reti di vendita e la standardizzazione dei prodotti offerti nei punti vendita della rete» (pp. 67-68).
Il contributo che qui pare comunque più opportuno porre in evidenza – anche perché lo si ritiene largamente condivisibile – riguarda l’esame del modo in cui la contrapposizione artificiosa ed enfatizzata tra le categorie di nuovo e vecchio sia funzionale alla ratifica dell’ordine attuale del mondo dell’arte e alla delegittimazione dei suoi critici. Lo scenario contemporaneo è permeato dalla narrazione in cui si fronteggiano da un lato i progressisti, sostenitori della modernità, e dall’altro i conservatori, irriducibili paladini del passato.
Tale schema narrativo, che certamente in alcuni periodi è servito a fotografare lo stato delle cose, ha assunto poi progressivamente il carattere di un mito, attraverso il quale si continua spesso a rappresentare abusivamente e con intenti propagandistici le dinamiche del mondo dell’arte e i rapporti con i suoi presunti nemici. Nel racconto, infatti, i progressisti sono arruolati automaticamente dalla parte del bene, perché perseguono il nuovo e coltivano la libertà. Tutti coloro che invece esprimono dubbi sulla consistenza di certe proposte vengono schierati altrettanto automaticamente sul fronte dell’autoritarismo passatista. Anzi, sono persino segnati con un marchio di infamia. Estremizzando un po’ (ma neppure troppo) i termini della questione, Pallante cita il falso sillogismo che risuona non di rado come rumore di fondo nei dibattiti recenti: «i nazisti hanno combattuto l’arte contemporanea, tu la critichi, tu sei nazista» (p. 85).
Il mito del modernismo progressista produce insomma un’argomentazione seducente e persuasiva, che funziona in maniera egregia sia tra gli addetti ai lavori sia all’esterno del sacro recinto dell’arte: la posizione “positiva”, del resto, possiede una naturale e irresistibile capacità di attrazione, mentre l’altra è così scomoda da indurre anche i più scettici ad aderire senza troppi rimorsi al partito del nuovo. Chi, d’altra parte, perlomeno in pubblico, vorrebbe fare la figura del ragionier Fantozzi dopo la proiezione della Corazzata Potëmkin (posto che, naturalmente, il film di Sergej Ejzenštejn resta di qualità incomparabile rispetto a buona parte delle opere spacciate in musei e gallerie)?
La cornice imposta dal racconto mitico produce, dunque, almeno tre risultati: 1) comporta un impoverimento della dialettica legata agli scenari contemporanei, dato che certe tesi sono censurate e persino autocensurate preventivamente; 2) contribuisce ad autorizzare e rafforzare anche le operazioni più bislacche e strampalate; 3) genera nel pubblico non professionalmente attrezzato quell’odioso senso di inadeguatezza espresso di norma con la frase che dà il titolo al libro di cui ci si sta occupando, con la conseguente adesione (resa?) incondizionata al verbo dei competenti.
L’autore lamenta soprattutto la condizione dei non addetti ai lavori, propensi a conformarsi alle tendenze modaiole e disposti ad accettare qualsiasi sciocchezza gabellata dai critici, pur di non apparire degli zoticoni incapaci di cogliere quanto sia interessante l’arte contemporanea, perché – si dice – incatenati al vecchio e ormai tramontato concetto di bellezza. A tale proposito, le conclusioni di Pallante sono lucide e vanno citate per esteso:«la vittoria culturale della lobby dell’arte contemporanea – dice lo studioso – non si misura col consenso di coloro che danno a vedere di apprezzare le opere esposte nei suoi musei, bensì con l’umile rassegnazione di coloro che li frequentano per non apparire retrogradi e parrucconi, anche se non riescono a capire nulla di ciò che vedono nonostante l’impegno che ci mettono, e tra sé e sé, senza esternarlo per non fare la figura degli idioti, si dicono:“sono io che non capisco”. Non sono nemmeno sfiorati dal dubbio che non ci sia niente da capire oltre la speculazione finanziaria in corso» (p. 75).
Il libro, insomma, mette in guardia dalle retoriche dell’ideologia del nuovo, che sembra essere alla base delle strategie comunicative e del funzionamento tanto dei supermercati quanto (di parte) del mondo artistico. Ammonisce, dunque, in modo salutare a non lasciarsi abbindolare dai falsi automatismi logici (“se è nuovo allora è migliore”) radicati e promossi nella cultura contemporanea, che garantiscono il mantenimento e l’amministrazione di certi sistemi di potere, economico, politico e artistico. Facendo chiarezza sul meccanismo persuasivo che orienta e dispone gli animi nei confronti dell’avanguardia perenne, il pamphlet suggerisce infine di astenersi dalla sospensione volontaria dell’incredulità di fronte alle nuove proposte dell’arte, per poter discriminare senza essere necessariamente bollati come illiberali. E, soprattutto, per riconoscere e poter additare come tali le flagranti idiozie propinate talvolta dagli “esperti”, senza essere necessariamente tacciati di vile ignoranza.
Francesco Sorce, 26/8/2013
Maurizio Pallante, Sono io che non capisco. Riflessioni sull'arte contemporanea di un obiettore alla crescita,
Prefazione di Paolo Portoghesi, Roma, Editori Riuniti, 2013, Pagine 128, € 12,00
Didascalie immagini
1. M. Pallante, Sono io che non capisco, copertina
2. Visitatore del Centre Pompidou, in M. Pallante, Sono io che non capisco, p. 70
3. La décroissance, n.71, 2010, pag.8, in M. Pallante, Sono io che non capisco, p. 82
4. Maurizio Pallante, ritratto