A volgere lo sguardo sugli artisti contemporanei avverti l’inanità dell’interrogare personaggi che ti provocano l’impressione, e il dubbio, di aver a che fare con protagonisti “in cerca” dell’arte. E l’impressione e il dubbio permangono anche quando ti sei presa la sollecitudine di guardare alla loro vita e di analizzare le loro opere. Un fatto, però, è certo. Dopo un primo, forse giustificato, sospetto, la mente ritorna a disegnare il profilo dell’artista in cui sei incappato e ti accorgi che non hai a che fare con un ectoplasma ma con una molto probabile personalità, capace di svelarti nuovi mondi per il pensiero e l’immaginazione.
Il pensiero, questa facoltà raziocinante, messa a dura prova da filosofi e scienziati, non pare, allora, un esclusivo appannaggio di costoro. “Ci mettono le mani” e le vorticano a loro piacimento anche coloro che sembrano mille miglia lontano dai sillogismi logici: gli artisti, appunto. E sì, perché, a loro modo, ti costringono a fermarti e a riflettere, cioè, a pensare. Si distingue, per questa singolare caratteristica, ma è senza dubbio uno fra tanti, l’artista bulgaro Christo Vladimirov Javacheff.
1935: nasce a Gabrovo. 1956: un anno prima del diploma, passa a Praga. L’Ungheria viene invasa dalle truppe del Patto di Varsavia. 1957: superando la cortina di ferro, raggiunge Vienna. 1958: si porta a Parigi. Qui incontra l’”altera ego” della sua vita, Jeanne-Claude Denat, sua stretta collaboratrice, incaricata di “ottimizzazione” nell’allestimento delle sue opere, fino al conseguimento della doppia firma per tutti i lavori successivi al 1994. 1961: prima installazione in uno spazio pubblico:
Stacked Oil Barrels and Dockside Packages, al porto di Colonia. 1963: presenta bella che impacchettata una
Vespa in mostra alla Galleria Apollinaire a Milano. 1964: con Jeanne si stabilisce definitivamente a New York, Manhattan. Negli anni successivi opererà con allestimenti a volte veramente sorprendenti in Olanda (
Air Package, un grosso pallone riempito d’aria, alto 117,5 metri con diametro di 67,6); e, così di seguito a Kassel, Berna, Chicago. A Spoleto (1968) impacchetta la
Torre medievale e la
Fontana Barocca in piazza del Mercato. La sua fama lo spinge a Little Bay, presso Sidney (
Wrapped Coast). Di lui si ricorderanno, altresì, le opere più significative quali gli impacchettamenti delle statue di
Vittorio Emanuele II e
Leonardo a Milano, la
Valley Curtain in Colorado, le
Surrounded Islands, l’impacchettamento del
Pont Neuf a Parigi,
The Umbrellas (Tokio), l’imballaggio del
Reichstag di Berlino, la serie dei
Wrapped Trees,
The Gates al Central Park di New York. Nel 2016, l’opera più singolare in Italia:
The Floating Piers, sul lago d’Iseo. Altrettanto caratteristica l’installazione a Londra,
The Màstaba. Dopo la sua morte (2020), i suoi collaboratori portano a termine l’imballaggio
dell’Arc de Trionphe a Parigi (2021)
Christo appartiene alla schiera degli operatori più ispirati, i quali, mettendo in discussione, anzi – ancor più degli avanguardisti dei primi anni del secolo scorso – letteralmente stracciando quel ch’era avanzato del concetto di “arte”, rinvengono nella “trovata”, nel “coup de théâtre”, nell’”invenzione” la via della loro espressione.
Ma non si tratta di funamboli, di “re di ciarlatani”: parlano un linguaggio mai prima udito e, molto probabilmente, non lo fanno per gioco o per involontari travestimenti: se ci si ferma un attimo a riflettere, anche i loro predecessori, gli artisti che noi consideriamo tra i più gloriosi, hanno sempre parlato un linguaggio “nuovo” rispetto a quello corrente, anticipando in tal modo visioni, schemi mentali, stilemi espressivi di là da venire. Così, ora, è la volta degli artisti contemporanei e spetta a noi, in qualche modo, coglierne i segni e i messaggi.
Una costante, tuttavia, rimane a testimoniare dell’autenticità del loro operare. V’ha una forte vena di poesia che li ispira e anima tutti. Così, tra i tanti, Cattelan, non estraneo alle lusinghe della meraviglia e dello spaesamento; Viola, con le sue
performances capace di affrontare i temi assoluti della vita e della morte:; Koons con attacchi contro la banalità della vita quotidiana; Manzoni che, oltre il suo ben noto “eccesso”, propone una sua personale “consumazione” di opere d’arte; e Accardi che pare ritentare, in chiave simbolista, l’avventura della figura umana.
Christo, però, veleggia alto su tutti. La sua “arte” (adesso l’uso della parola può apparire legittimo) si apre a ventaglio, come una vela appunto, partendo dall’”imbrigliamento” degli oggetti più vicini e comuni (bottiglie, bidoni vuoti, lattine) e, sospinta dal vento di un costante, determinato, impegno – anche finanziario – riesce ad “avvolgere”, “circondare”, “impachettare”, “animare”, “imballare” manufatti (monumenti, palazzi, ponti, sedi parlamentari) ed elementi naturali, giardini, spiagge, intere valli, fiumi, laghi).
Appare difficile restare impassibili di fronte ad opere che erroneamente sono state ammirate più per la loro singolarità formale che per i contenuti sottesi. A Parigi il suo
Projet du mur provisoire de tonneau metalliques (1962) crea una cesura reale nella comunicazione stradale, cesura che però assume immediatamente il sapore profetico di una possibile e reale “separazione”, così come la si vedrà ventisette anni più tardi a Berlino.
Stanata l’idea dell’
impacchettamento, Christo non tarda un attimo a coglierne tutte le valenze sul piano artistico: impacchetta musei (la Kunsthalle di Berna, il MoCA di Chicago, lo Haus Lange di Krefeld) e alberi (Berower Park, Basilea). Nel primo caso, le sedi per eccellenza preposte alla conservazione dei beni culturali sono fatti oggetto solo apparentemente di un tentativo di “nascondimento” e, perciò, di “annullamento”; ma c’è chi non vede altro che un’operazione di strenua, simbolica “protezione” e perenne “conservazione” dell’istituzione museale. Nel secondo caso, realizzati con estesi teli trasparenti di poliestere, gli “avvolgimenti” degli alberi, sorpresi nella loro stagione di riposo, si sposano, specialmente su far del tramonto, con godibili effetti pittorici e, anche qui, con un ineludibile e implicito invito alla protezione e alla conservazione del paesaggio naturale.
La
London Màstaba, a mo’ di tronco di piramide, ispirata alla forma monumentale delle prime tombe egizie, realizzata con 7506 barili, rappresenta e segna a suo modo, su un immaginario arco temporale, la “congiunzione terrestre” con la cultura del mondo più antico: un’unità spazio-tempo indissolubile.
Infine, la realizzazione a noi più nota,
Floating Piers, sul Lago d’Iseo, forse l’opera d’arte più “calpestata”: una passerella galleggiante, lunga 3 chilometri, sorretta da 220 mila cubi di polietilene. Il successo non poteva essere più appagante. Migliaia di visitatori hanno vissuto l’esperienza forse unica e più “memorabile” di
camminare sull’acqua. Con questa opera Christo compie il
top della sua produzione. La si voglia vedere più vicina, ancora una volta, alla “trovata” invece che all’”
arte”, questa è ormai una questione stucchevole. Se l’emozione, infatti, alla fine, è l’anima dell’arte, si presenti pure il primo a gridare che quella di Christo arte non è.
Luigi Musacchio
Giugno 2022