Giovanni Cardone
Fino al 4 Maggio 2025 si potrà ammirare Kursaal Santalucia di Bari  la mostra dedicata a Pino Pascali e Toti Scialoja – Confluenze a cura di Federica Boragina , Eloisa Morra e Antonio Frugis. L’esposizione è promossa dalla Fondazione Pino Pascali e dal Dipartimento Turismo, Economia della Cultura e Valorizzazione del Territorio della Regione Puglia, insieme alla Casa editrice Electa. E’ la prima mostra dedicata a Pino Pascali a Bari dal 1981 omaggio e celebrazione del grande artista pugliese, riconosciuto a livello internazionale e le cui opere sono presenti nelle più grandi collezioni al mondo. La mostra è realizzata con la partecipazione della Fondazione Toti Scialoja di Roma. Il dialogo personale e artistico fra Toti Scialoja e Pino Pascali, protagonisti delle vicende artistiche italiane degli anni Cinquanta e Sessanta. Il percorso espositivo articolato in cinque sezioni, in mostra 115 opere tra dipinti, sculture, documenti e video, entrambi mettono in luce le sperimentazioni nate da ispirazioni condivise, rendendo tangibile una sorprendente serie di corrispondenze tra temi e immaginari. L’incontro fra Pascali e Scialoja avviene nelle aule dell’Accademia di Belle Arti di Roma in via Ripetta, dove l’artista pugliese si iscrive nel 1955 e dove Scialoja è il titolare del corso di scenotecnica, tra i docenti meno accademici e più apprezzati. A questa altezza cronologica Scialoja è un artista già noto e affermato, in contatto con il panorama artistico internazionale e invita i suoi giovani allievi a sperimentare senza riserve nonché a confrontarsi con i linguaggi contemporanei. Pascali, poco più che ventenne, è fra gli allievi più ricettivi e dalla frequentazione delle lezioni di Scialoja derivano visioni inaspettate e cariche di vitalità, specchio di quell’irrequieta fascinazione per la materia ereditata dal suo maestro e ampiamente documentata nella prima sezione. In  una mia ricerca storiografia e scientifica sulle figure di Pino Pacali e Toti Scialoja apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta si formarono in Italia numerosi raggruppamenti artistici sotto il nome di Gruppo N, fondato nell’inverno del 1959 a Padova, di Gruppo T, nato nello stesso periodo a Milano, di Gruppo Uno, formatosi nel 1962 a Roma e a seguire il Gruppo Atoma di Livorno, il Gruppo Tempo 3 di Genova ed altri ancora, accomunati da una medesima idea in cui l’opera d’arte nasce da un progetto che tende ad evidenziare le strutture psichiche, tecniche e ottiche dei fenomeni percettivi che l’opera stessa ricostruisce e propone di percorrere. La singolarità di questi raggruppamenti fu determinata dal fatto che le loro opere furono presentate come lavoro di gruppo, sotto la firma del raggruppamento stesso, abolendo così l’idea tradizionale e individuale dell’artista. Sotto il profilo formale i loro lavori si caratterizzarono per l’attenzione di processi di percezione dei fenomeni visivi, volti ad un maggiore coinvolgimento emotivo del pubblico. Appare chiaro, quindi, che l’opera fu arricchita di un parametro nuovo incarnato proprio dal pubblico stesso. Questi si trasformò da fruitore passivo ad animatore attivo dell’opera d’arte in quanto, spesso, gli venne chiesto di azionare il meccanismo che l’azionava l’opera, avviando così il procedimento artistico. In questa nuova concezione dell’arte, l’opera fu quasi sempre concepita per essere in movimento, dove quindi all’immagine statica venne a sostituirsi da un fenomeno temporale in corso. Per la realizzazione di queste opere non erano richieste conoscenze delle tecniche tradizionali del fare artistico ma abili capacità tecnologiche e meccaniche, e di essere a conoscenza dei fenomeni ottici per quel ciò che riguardò le opere statiche. Le diverse esperienze vissute dai vari gruppi vennero etichettate dalla critica sotto la dicitura di arte ottico-cinetica, nate con la precisa volontà di superare il soggettivismo insito nell’informale. Il paesaggio dell’arte che si aprì in Italia fra la fine degli anni Cinquanta e per tutto il decennio successivo vide non solo l’imporsi dell’esperienze ottico-cinetiche ma anche l’affermarsi di diversi movimenti artistici che si incrociano tra loro. Sono proprio quelli gli anni dell’affermazione di movimenti internazionali come il New dada, la Pop e la Minimal art, la cui diffusione in Italia avvenne attraverso diversi canali di conoscenza, tra cui la Biennale di Venezia, l’attività espositiva di alcune gallerie private e la nascita di nuove riviste specializzate in arte. Il panorama delle arti visive che si andò delineando presentava molteplici direzioni di ricerca sperimentale, tutte svincolate delle tecniche tradizionali di realizzazione, segnando l’inizio di una profonda trasformazione nel tessuto culturale in Italia. Si assistette innanzitutto alla definitiva fine dell’arte ideologica, di ‘impegno’ politico e sociale, di cui si erano nutriti i dibattiti del dopoguerra, tra i sostenitori di un’arte realista e quelli di un’arte astratta, nonché si affermò la volontà di superare le componenti romantiche, esistenziali ed estetizzanti dell’Informale. Parallela all’esperienza ottico-cinetica nel 1959 si affermò in Italia il New dada, attraverso le opere di Jasper Johns e di Robert Rauschenberg, esposte rispettivamente a Milano e Roma. e nel 1960 Pierre Restany pubblicò a Milano il manifesto del “nouveau réalisme”. Tale conoscenza del neodadaismo internazionale ebbe notevoli ricadute su alcuni artisti italiani, che partendo dalla messa in discussione delle tecniche tradizionali giunsero alla formulazione di una nuova estetica che ruotava attorno l’idea di oggetto artistico. Fu subito chiaro che l’utilizzo di nuovi materiali e di nuove tecniche dovesse inevitabilmente condurre verso nuove forme e un nuovo modo di fruire l’opera d’arte. La rottura con l’arte del passato, intesa non solo nelle tecniche ma anche nei contenuti, condusse gli artisti alla sperimentazione di ogni sorta di materiale a loro disponibile e alla creazione di nuovi linguaggi visivi. In tale ambito, significative furono le opere di Manzoni, Linee (1959), Corpo d’aria (1959-60), Uova scultura (1960), Merda d’artista (1961) che generarono grosso clamore, in quanto ai tradizionali valori estetico-culturali del bello, dell’eterno, dell’appagante si affermavano di contro nuove concezioni per l’opera d’arte legate al transitorio e all’inconsistente. Ma il panorama dell’arte in Italia all’epoca appariva molto vario e articolato, pertanto all’esperienza neodadaista si affiancarono opere di gusto pop, come dimostra de resto l’opera di Pino Pascali intitolata Omaggio a Billie Holliday. Labbra rosse (1964). Ma il percorso artistico di Pascali, contraddistinto da una continua sperimentazione di materiali non convenzionali, come il cartone, la plastica, le retine di metallo, il legno, la tela, la paglia, il terreno, l’acqua, come si possono rintracciare in opere come 1 Mc di Terra e 2 Mc di Terra (1967), 32 Mc di mare circa (1967), Bachi da setola (1968), si indirizzò anche verso ricerche di stampo poverista come vedremo in seguito. Posso dire che: Giuseppe (Pino) Pascali nacque a Bari, in via Dalmazia, il 19 ottobre 1935. I genitori erano entrambi di Polignano a Mare e Pino era il loro unico figlio. I genitori riuscivano a farlo stare fermo e tranquillo solo dandogli dei giocattoli meccanici o elettrici, delle matite, dei pastelli, o delle forbici e carta di giornale. Allora lui se ne stava buono lì a colorare e a ritagliare la carta e a costruire aeroplanini, animali, navi o armi. Dal 1940 al 1941, durante il conflitto italo-greco-albanese, il padre venne trasferito ad un posto di polizia a Tirana, in Albania. Sua moglie, insieme al piccolo Pino, attraversò più volte l’Adriatico per raggiungere il marito, da Bari a Durazzo o Valona e viceversa. Spesso viaggiavano su aerei civili o militari e su navi a convoglio. Su queste ultime, quando scattava l’allarme di attacco, Pino faceva di tutto per divincolarsi dalla madre e per sfuggire al controllo dell’equipaggio e rimanere sopra coperta a guardare gli aerei nemici, dimostrando, con un pizzico di incoscienza, un coraggio non comune per la sua età. Aveva solo cinque anni. Rientrato in Italia, Pino venne iscritto alla scuola materna Regina Elena. Nel ‘45, alla fine della guerra, Pino assistette al passaggio degli alleati dal balcone della sua casa a Bari, salutandoli con gioia e fingendo spari con le pistole finte, i suoi giocattoli preferiti, anche se a volte, nelle mani di Pino capitavano le armi vere del padre sfuggite al controllo dei genitori.  A dieci anni iniziò le scuole medie. La sua eccessiva vivacità, la sua forte vitalità crescendo non diminuivano, e i suoi professori osservavano che era difficilissimo tenerlo fermo e concentrato per più di tre o quattro ore. Ma era proprio questa vitalità la caratteristica che lo rendeva simpatico a chiunque. «È chiaro che i discorsi razionali, tutto quello che appartiene, non so, a un fatto organizzato, mentale va benissimo, cioè mi aiuta, però mi annoia terribilmente perché se continuassi all’infinito questo discorso veramente mi distruggerebbe perché sarebbe come un punto che gira in un foglio senza fermarsi mai, lo può riempire tutto ma senza aver fatto neanche un’immagine» . Anche alle scuole medie dimostrò di avere brillanti doti nel disegno dal vero e nelle materie tecniche ed i professori consigliarono i genitori di iscriverlo al Liceo scientifico.  Anche al liceo Pino continuava a dedicare più ore ai giochi e ai suoi hobby che allo studio. Cominciò con l’aeromodellismo, costruendo modellini di sua invenzione. Poi passò a costruire modelli a motore che funzionavano a carburante con i quali partecipò ad alcune gare indette da diversi enti qualificandosi sempre primo . Questa passione per i motori e la tecnologia faceva sperare il padre che Pino potesse proseguire gli studi iscrivendosi alla facoltà di ingegneria. Ma il suo professore di disegno, che aveva notato una indiscutibile predisposizione artistica, gli consigliò di iscriverlo all’Accademia di Belle Arti. Le intuizioni del professore si rivelarono giuste molto prima del tempo, perché Pino, al IV anno del liceo scientifico  già ripetente  cambiò indirizzo scolastico e si trasferì a Napoli per iscriversi al IV anno del Liceo artistico dove poi si diplomò. «Gli studi scolastici che limitavano la mia libertà e fantasia mi spinsero a rifugiarmi in un genere di gioco isolato che consisteva nella progettazione dei miei giocattoli. Durante le lezioni, disegnavo e a casa li costruivo. Erano aeroplani, sommergibili, navi da battaglia in miniatura, ecc. In seguito, piuttosto che continuare gli studi scientifici che avevo intrapreso, spinto da questa necessità di libertà, mi sono rivolto allo studio artistico» .  Nel 1954 Pino conseguì la maturità al Liceo artistico di Napoli, e nel ‘55, andò a Roma per iscriversi al corso di scenografia dell’Accademia di Belle Arti . Pino seguì con forte impegno ed entusiasmo i corsi ed aumentò notevolmente il suo rendimento lasciandosi conquistare dai temi, dalle tecniche e dagli stimoli sempre più interessanti proposti dagli insegnanti, sperimentando e muovendosi in totale libertà. Alla fine del quadriennio, nel 1959, si diplomò in scenografia con una tesi su Oskar Kokoschka con il massimo dei voti.  A Toti Scialoja era affidata la cattedra di scenotecnica , ma la materia lo interessava poco e i suoi insegnamenti erano molto poco tecnici. Nell’anno accademico 1957-58 Scialoja fu trasferito alla cattedra di “Bianco e nero”, da anni vacante ed oggi completamente eliminata. Al corso di “Bianco e nero” si studiava prevalentemente il disegno della figura in bianco e nero e sembra che fosse un corso legato alla Scuola libera del nudo. Nonostante ciò, Scialoja preferiva seguire un programma personale, tanto che il tema che decise per «quell’anno fu sul “collage”, e quello per l’anno seguente sulla “pittura materica”» . Scialoja portava con sé una didattica diametralmente opposta allo stile di Peppino Piccolo: via l’accademismo, via il realismo, via lo stile ottocentesco. Voleva far fiutare ai suoi studenti l’atmosfera del nuovo decennio che stava per arrivare, e indicava ai ragazzi i nuovi orizzonti dell’arte internazionale. Come la mostra di Rauschenberg alla Tartaruga di Plinio De Martiis che visitò insieme ai suoi studenti di Accademia, fra il ‘58 ed il ‘59, destando curiosità, disprezzo, paure, giudizi positivi e valutazioni negative. Questa didattica innovatrice, unita alle due Muse ispiratrici, lo scherzo ed il gioco, fu fondamentale per determinare in Pascali il suo percorso stilistico. Toti Scialoja tornava dall’America, dove l’esplosione della Pop Art era ormai prepotentemente entrata nelle gallerie d’arte e dalla quale aveva appreso le nuove tendenze che in Italia faticavano a radicarsi. Scialoja disse basta alle tempere e propose ai suoi studenti l’uso del bitume, delle vernici, di materiali fino a quel momento neanche immaginati come la sabbia o la polvere di marmo. E soprattutto uno stile tendente all’astrattismo, forse derivante dalla sua precedente attività di scenografo per balletti, dove una scenografia prevalentemente astratta ben si presta a fare da sfondo ad una coreografia guidata da una musica sinfonica. «La materia, la materia è importante», disse una volta a Mambor mentre insieme, passeggiando in via del Corso, si erano fermati ad osservare una scolatura di catrame ancora calda e di cui Pino parlava come di una cosa viva. Mambor non condivideva il pensiero del suo amico, che giudicava troppo legato all’Informale. Certo è che Pino Pascali aveva una passione per la materia e fu entusiasta delle nuove tecniche suggerite da Scialoja. A differenza degli insegnamenti tradizionali come l’uso di matite, carboncini, acquerelli e colori a tempera, Pino fu il primo a comprare bitume, petrolio, smalti e diluenti alla nitro. Questo poter variare tecniche, lo spinse a sperimentare anche la benzina, l’olio, la cenere di sigaretta, la tempera murale e a creare nuove mescolanze. Versava questi ingredienti su fogli di carta o di cartone e li trascinava con un pennello o con una stecca di legno aggiungendo o togliendo questi componenti al fine di ottenere gli effetti che desiderava, che risultavano sorprendenti. Oltre ai pennelli, interveniva con garze, carte assorbenti, spugne, sabbia e nastri adesivi. Si impegnava molto in quello che stava facendo e, più che un lavoro, sembrava una sfida. Non tutte queste sostanze si amalgamavano, anzi, spesso si respingevano, dando vita a forme ed immagini nuove ed inconsuete. Non correggeva mai; se qualcosa non lo convinceva, buttava via tutto e ricominciava daccapo, con una caparbietà rara. La stessa irrequietezza che aveva alle elementari, Pascali continuava a manifestarla anche all’Accademia. Aveva una fantasia esuberante anche in classe. Tullio Zitkowsky  compagno di Accademia  ricorda che quando non c’era nessuno, Pascali entrava in aula, prendeva una squadra ed una stecca o una riga e imitava il mitra, sparando qua e là. O ancora, mentre Piccolo spiegava in classe che cos’è una piattabanda, Pino divagava con la fantasia e disegnava una fila di omini col mitra, inquadrandoli in un rettangolo stretto e lungo: una banda piatta. Aveva la tendenza a scherzare con il doppio significato delle parole e trasformare il linguaggio verbale in linguaggio visivo. Si pensi, a questo proposito, ai calembours di certi titoli come Biancavvela, Vedova blu o Bachi da setola.  Nonostante la sua infatuazione per la pittura americana, la Pop Art, era tormentato dal fatto di essere italiano, un italiano del sud, nato nella profonda terra del meridione, e di non avere nulla a che fare con la Coca Cola, ma semmai con la zolla e con l’aratro. «Cercava disperatamente di capire come avrebbe potuto conciliare questi due aspetti che non avevano alcun legame logico. Gli facevo osservare ricorda Giuliano Cappuzzo compagno di Accademia che non poteva preconcettualmente porsi questi limiti, e che l’influenza della pittura d’oltre Oceano avrebbe avuto comunque il suo peso. Le opere degli artisti della scuola americana facevano le loro apparizioni nelle mostre più importanti della città, e, volenti o nolenti, per il fatto stesso che li guardavamo e li criticavamo, qualcosa era già mutato in noi». E continuava asserendo che, anche se fossero stati fuori dalla cerchia della scuola romana, sarebbero stati comunque positivamente influenzati. «O malamente!», correggeva Pino con ironia. Insomma, l’ “italianità” stava stretta a Pascali, la sentiva come un forte ostacolo che avrebbe limitato la sua creatività artistica e che gli avrebbe permesso di competere solo a livello nazionale, se non addirittura soltanto a livello regionale. Le discussioni su questi argomenti non terminavano mai, a pranzo, a cena, sugli scalini di piazza di Spagna. A Pino non piaceva essere contraddetto. Si ostinava a vedere la Pop Art come un gigante fastidioso che lui, armato solo di un pugno di terra e di un rudimentale aratro, non avrebbe mai potuto combattere, ma in cuor suo Jasper Johns, Dine e Oldemburg gli piacevano. Nei pomeriggi spesso andava con Giuliano Cappuzzo e Jannis Kounellis all’EUR, dove abitava un altro loro compagno di Accademia, Umberto Bignardi. Il quartiere, molto meno urbanizzato rispetto ad oggi, conservava intere aree verdi e prati incolti. Andavano lì per giocare con gli archi, le balestre e le frecce fabbricate da Pino.  Fabbricava personalmente arco, frecce e bersagli con materiali rudimentali che risultavano comunque molto belli e armoniosi. Erano sì costruiti artigianalmente, ma perfettamente funzionanti. Aveva anche realizzato una micidiale balestra fatta recuperando proprio la balestra di un’automobile, presa da qualche sfasciacarrozze, e a casa si allenava a tirare avendo come bersaglio un’insegna della Coca-Cola tonda, bombata e di metallo. Finita l’Accademia, Pino cominciava a muoversi e a prendere contatti nel mondo del lavoro, che, chiaramente, cercava nel suo ambiente. Cominciò a collaborare come aiuto scenografo e come grafico pubblicitario, guadagnando di più e cominciando a dare un aspetto più ordinato alla sua vita e permettendosi anche di dedicare tempo e denaro alla sua ricerca artistica. Il nuovo appartamento in via dell’Orso era un grande ambiente unico in cui Pino ricavò una zona letto ed una zona lavoro per poterlo usare sia come abitazione che come studio. Vi si trovava come al solito di tutto: cose strane, curiose, pezzi di ogni genere accatastati, oggetti che andavano dall’ala di un aeroplano, alla ruota di una bicicletta, un rubinetto, pannelli di legno, sassi. Per recuperare questi diversi articoli, era spesso indaffarato a prendere, se li trovava, oggetti lasciati per la strada o buttati via. Più che di uno studio, entrando si aveva l’impressione di trovarsi in un’officina.  In via dell’ Orso Pino conosceva tutti, salutava tutti, i bottegai, gli artigiani e dava del tu a tutti. E questi, a loro volta, lo conoscevano e lo salutavano da lontano, quel ragazzo curioso e incantato che osservava il lavoro artigianale con lo sguardo rapito che viaggiava nella sua fantasia, attratto da quella manualità che voleva apprendere per lavorare anche lui la materia, la stessa materia di un restauratore, di un falegname o di un fabbro, ma per farla vivere in un’altra dimensione, distante dal suo logico uso, ma capace di generare nuovi elementi con un sottile gioco ironico. Pino aveva frequentato il corso di scenografia e per questo avrebbe dovuto diventare uno scenografo ma lui si considerava più scultore che scenografo. O forse nessuno dei due. «Io penso di non essere uno scultore, ho questa impressione verso me stesso: è una cosa che potrebbe essere anche grave, per me anche quello è divertente». Di esporre non ne voleva sapere; con Plinio de Martiis della Tartaruga ebbe una discussione da Kounellis perché non voleva neanche mostrargli lo studio». Ma lo spirito da scultore ce l’aveva ed era proprio per questo spirito che gli oggetti casuali risvegliavano in lui la curiosità e diventavano sculture. Un giorno lavorò a delle lamiere di ondulato, lucide e nuove, sfregiandole con dei colpi di accetta. Sandro Lodolo lo prendeva in giro e lo punzecchiava scherzosamente su quello che faceva. Ma quei tagli, come aveva ironicamente concluso il suo amico, non erano il frutto di uno sfogo di rabbia. Pino gli spiegò che aveva cercato degli effetti di luci dati dai tagli sul metallo, come se con un taglio di lama avesse voluto creare un taglio di luce. Esperimenti gestuali di una ricerca visiva, cercata nei modi più vari.  Dopo aver abitato per poco più di un anno in via dell’Orso 55, nel 1961 Pino si trasferì a Trastevere, dividendo un appartamento con il suo compagno di Accademia, Giuliano Cappuzzo. Pino continuava a collaborare come scenografo alla RAI e come grafico pubblicitario, e Giuliano lavorava come scenografo nella trasmissione Nata per la musica con Caterina Valente.  Nel 1961 Giuliano affittò a Roma un piccolo appartamento in via Pietro della Valle, proprio vicino a Castel sant’Angelo, aprendo uno studio di grafica pubblicitaria, il New Style, in collaborazione con Piero Gratton, un grafico pubblicitario che già lavorava alla RAI. Poco dopo aver aperto il suo studio, Giuliano prese contatti con la rivista dell’INAPLI (Istituto Nazionale Addestramento Professionale per Lavoratori dell’Industria) per realizzare alcune copertine. Il direttore aveva dato libera scelta di realizzazione, preferendo immagini astratte. E Giuliano affidò a Pino questo lavoro, ritenendolo adatto come stile. A Pino non sembrò vero! Questa assoluta libertà di esprimersi, che inoltre incontrava il suo stile astratto e materico, lo proiettò in una copiosa produzione di esempi e prototipi alcuni dei quali vennero poi scelti per la stampa. Queste tecniche, abbastanza innovative per l’epoca, Pino le riportava sulla carta ottenendo gli effetti astratti per i lavori di Giuliano e che calzavano perfettamente con la linea che si voleva dare allo studio che, appropriatamente, si chiamava New Style. Inoltre a Pino fu affidata la realizzazione di una sorta di campionario da proporre ad eventuali altri clienti: furono realizzati dei bozzetti inventati da presentare come lavori già eseguiti per cercare di aumentare il prestigio della società. A Pino, Giuliano aveva anche messo a disposizione lo scantinato del suo studio per poter realizzare pannelli decorativi su lamiera di zinco, di medie e grandi dimensioni, usando bitume e benzina, che poi Pascali vendeva a dei negozi di arredamento. Oltre a collaborare con Giuliano, Pino condivideva con l’amico svago, uscite serali e gite ai Castelli. Il gruppo era vario ma quelli che lo componevano erano Umberto Bignardi, Jannis Kounellis, Ettore Innocente, Pino e Giuliano. Occasionalmente si univa anche Sandro Lodolo che, sia per amicizia che per medesima attività lavorativa, frequentava il gruppo, portando il suo punto di vista sull’arte e contribuendo ad aumentare le discussioni sul valore e sul senso dell’espressione creativa. Renato Mambor conobbe il gruppo più tardi e all’inizio si univa occasionalmente. Ad ogni modo, fra tutti, sia che si frequentassero assiduamente o meno, vi era come comune denominatore il concetto di rivoluzione, non tanto politica si è già visto che Pascali non andava alle manifestazioni ma culturale, trovare cioè una linea espressiva che cambiasse il modo di pensare, che aprisse nuovi punti di vista alla società.  Nel 1962 i genitori di Pino Pascali si trasferirono a Roma e presero due piccoli appartamenti a largo Boccea, uno per loro ed uno per il figlio. I genitori di Pino erano due personaggi stupendi: la madre, era una donna piccolina, minuta con gli occhiali spessi un dito, che preparava dei pranzetti casalinghi squisiti; il padre, un uomo non alto, magro e dalla carnagione olivastra, era di un’umiltà a volte eccessiva e andava in giro per Roma con la sua Bianchina. Con Sandro Lodolo aveva un atteggiamento a dir poco ossequioso e lo trattava come se fosse stato il presidente della RAI, dandogli ovviamente del lei, nonostante potesse essere suo figlio. L’appartamento a largo Boccea era ad un primo piano dal quale si accedeva, tramite una scala interna, in un altro ambiente a livello stradale, completamente indipendente da quello sopra. Era lo studio-abitazione di Pino dove, oltre a dormire, lavorava alle sue opere. Pieno, anche questo, di mille oggetti e pezzi curiosi, era uno spazio comodo in cui Pascali riusciva, nonostante la gran quantità di materiale, a tenere tutto molto ordinato. Anche se, nei momenti di frenetica attività produttiva, l’ordine veniva “animato” dall’attività creativa. C’è da dire che gli artisti del giro di Pascali, e ancora di più artisti a lui precedenti, un pò per comodità, un pò per moda, avevano tutti gli studi nel centro di Roma, se non in via Margutta, in zone limitrofe e in bei palazzotti antichi, carichi di storia e gloria, anche se molto diroccati come nel caso degli studi che sceglieva Mario Schifano. Alcuni venivano dalla estrema periferia, come Maurizio Mochetti ed Eliseo Mattiacci, che all’inizio degli anni ‘60, avevano gli studi sulla via Prenestina, oltre il raccordo anulare, in una sorta di villaggio di studi artistici voluti da uno scultore anni prima. Pino Pascali fece il contrario e dalla centrale, storica e rinomata Trastevere, fregandosene delle mode, scelse di abitare e lavorare in periferia, sulla via Boccea. Fu una rivoluzione. Perché andare in quella squallida periferia anonima, con quella triste architettura “da periferia”? «Cosa potrà mai fare un artista in questo contesto così deprimente?» si chiedeva nel ‘66 la moglie di Calvesi mentre accompagnava il marito a visitare lo studio di Pino. Ma una volta entrata dovette ricredersi: lo spazio era tutto invaso da enormi volumi bianchi: animali decapitati, trofei attaccati alle pareti e il mare di tela. E poi c’era una marea di giocherelli! Al critico e a sua moglie, rimasti senza parole di fronte a questo zoo di tele algide, l’attenzione cadde anche su tutti questi giochi: pentole che si muovevano, trottole e altri oggetti fatti diventare personaggi. L’occasione della visita di Calvesi fu la mostra delle armi alla galleria Sperone di Torino. Ma il critico aveva già incontrato Pascali l’anno prima alla Tartaruga, dove le opere di Pino erano state presentate da Cesare Vivaldi. Gli chiese di andare a visitare il suo studio che era pieno con un terrazzo anche strapieno di relitti di aereo, pezzi di macchine, un accumulo impressionante di oggetti di tutti i tipi. Dalla fine dell’Accademia, da quando Pino collaborava con agenzie pubblicitarie o lavorava occasionalmente come scenografo, la sua situazione, sia economica che lavorativa, era abbastanza serena, e questo gli permetteva di poter dedicare i suoi guadagni alla produzione di opere piuttosto impegnative e di procurarsi arnesi ed utensili necessari al suo lavoro. Pascali riusciva a far piacere tutta la sua arte a tutti. Riusciva a trovare la mediazione giusta. Non a caso era amico di Kounellis, il quale si definiva un vagabondo, un ballerino, un personaggio cioè capace di assimilare ed adattare la propria interpretazione secondo il pubblico che aveva davanti. La mediazione era anche la capacità di Pascali e per questo era amico di tutti. Cosa che diventava la sua grande forza. Ed anche nell’arte questa capacità ha avuto risultati strabilianti perché è riuscito a fare delle opere inserite nella modernità, nell’innovazione, nella ricerca e che piacevano a tutti perché erano belle, esteticamente ben fatte, ben proporzionate. Forse davano l’idea di essere anche queste “buone”. Sì, come hanno detto in tanti, quella di Pascali era un’arte affettuosa. I galleristi, ghiotti di novità e di linguaggi originali, sarebbero stati ben contenti all’epoca di conoscere un personaggio interessante e dotato di una grande forza espressiva. Ma Pino non era ancora pronto e alle mostre nelle gallerie ci andava come pubblico. Proprio in occasione di una di queste, nel 1964 Pascali conobbe Cesare Tacchi alla Tartaruga. Tacchi, un tipo duro al primo impatto ma dal cuore tenero, aveva alle spalle già altre mostre organizzate nel quartiere di Cinecittà, dove viveva e dove abitavano anche Franco Angeli, Tano Festa, Renato Mambor, Sergio Lombardo e Mario Schifano. Insieme avevano esposto alla sezione del Partito Comunista e, nel 1959, alla galleria Appia Antica, di Emilio Villa. Poeta e critico d’arte fuori dalle righe e dagli schemi, Villa sostenne quel gruppo di giovani promettenti intuendone le potenzialità. Si può dire che dall’Appia Antica partì il fenomeno della “Scuola di Piazza del Popolo”. Cesare Tacchi non aveva voluto frequentare l’Accademia di Belle Arti, ritenendola superflua, ma preferendo mettersi a lavorare per conto proprio. In realtà Tacchi si ricorda di avere visto Pascali prima di quell’anno, in occasione di altre mostre alle quali Pino arrivava con un fare sempre molto critico e polemico, pronto alla discussione sulle opere esposte su cui esprimeva il proprio punto di vista arrabbiandosi. Ma la mostra alla Tartaruga nel ‘64, fu l’occasione per conoscersi. Tacchi aveva già esposto da Plinio De Martiis, insieme a Sergio Lombardo e Renato Mambor in occasione del “Premio Tartaruga”. Un anno dopo, nel ‘64, appunto, Tacchi presentò i suoi quadri imbottiti. Si trattava di lavori che utilizzavano la tecnica del tappezziere, per dare al soggetto, in modo artigianale, l’idea del bassorilievo, nel tentativo di uscire dal piano bidimensionale. Le figure erano tratte dalla realtà, dalla pubblicità, dal cinema, eccetera. Oggetti-quadro che colpirono per la loro originalità. Pino arrivò alla galleria e come al solito si accese in forti considerazioni polemiche: rivendicava di avere già realizzato quadri bidimensionali e di avere il diritto all’originalità. Le sue dichiarazioni incuriosirono Plinio De Martiis che volle andare al suo studio per vedere le opere di Pino e scoprì che effettivamente Pascali aveva già realizzato quadri con la caratteristica della bidimensionalità, pur usando un’altra tecnica. Le opere che si trovò davanti erano La gravida, Seni, Primo piano labbra e Labbra rosse, omaggio a Billy Holiday. La polemica verso i quadri imbottiti di Cesare Tacchi servì inconsapevolmente a Pino per uscire allo scoperto con la sua prima personale dove espose Muro di pietra, Biancavvela, Grande bacino di donna, Seni, Colosseo e Ruderi su prato (Sull’Appia Antica). Questi ultimi due, soggetti che, osserva Sandra Pinto, appartengono allo stesso genere dei «simboli romani nei quadri di Angeli e degli “obelischi” di Tano Festa». Alla sua prima mostra a La Tartaruga nel 1965, Pino fu presentato da Cesare Vivaldi. Nonostante questi momenti di polemica, generalmente Pascali aveva la caratteristica un pò inconsueta di essere solidale con gli altri artisti, come in occasione della sua mostra alla galleria L’Attico, nel 1966, in cui si mosse affinché il gallerista Fabio Sargentini conoscesse i lavori di Jannis Kounellis e di Eliseo Mattiacci.  Dopo l’incontro-scontro e la polemica sui quadri di Tacchi, i due diventarono amici stimandosi a vicenda. Artisticamente ognuno seguiva la sua strada e non ci furono più motivi di rivendicazioni. Anzi, la stima era un mezzo di sostegno reciproco del gruppo. Ottimismo, fantasia e grande attività erano le caratteristiche con le quali Pascali entrò nel gruppo degli artisti di piazza del Popolo e con i quali organizzò mostre collettive in più occasioni. Tacchi parla delle mostre di Pascali come dei veri e propri eventi, degli spettacoli. Le mostre con Pino diventavano teatro nel quale voleva coinvolgere il più possibile il pubblico. Un desiderio voluto anche da altri artisti, come Michelangelo Pistoletto che già nel 1962, con i suoi quadri specchio, inseriva le immagini riflesse degli spettatori nelle sue opere.  Dopo Cesare Vivaldi e Giorgio De Marchis, Pino incontrò un altro critico che si mostrava interessato a conoscerlo: Maurizio Calvesi. Lo conobbe ospitandolo a vedere il suo studio a largo Boccea. Maurizio trovò l’ambiente pieno di cannoni. Alla seconda visita i cannoni avevano occupato anche il terrazzo. Li ritrovò in un garage, e da lì furono trasportati a Torino. «Ma il garage rimase sgombro per poco; quando vi rimisi piede è il caso di dirlo, così al singolare, perché l’altro non arrivava a poggiare da nessuna parte era inondato di cose anche inondato è proprio il caso di dire, infatti vi erano alcune dozzine di onde (un intero “mare”) con dorsi e code di animali acquatici e barche in naufragio né basta, se tutto intorno giacevano ippopotami al naturale, pezzi di giraffe e via discorrendo». Erano i lavori che a breve avrebbe esposto a L’Attico di Sargentini nel ‘66. Calvesi scrisse il testo critico. Infatti, dopo il rifiuto di De Martiis che non volle esporre le armi, Pino cambiò galleria e Maurizio Calvesi lo presentò a L’Attico del giovanissimo Fabio Sargentini. Fabio Sargentini aveva cominciato a lavorare a fianco del padre Bruno che aveva la galleria L’Attico, a piazza di Spagna, dove esponevano artisti come Matta, Fontana, Capogrossi e Mafai. Ma presto cominciò ad avere idee divergenti, dando inizio ad una lunga serie di mostre su nuovi panorami artistici. Circa nel ‘66 Fabio andò da Calvesi, che allora era direttore della Calcografia, per dirgli che avrebbe voluto fare una mostra con Ceroli. Ma non era facile organizzarla, perché in quel periodo Ceroli era molto legato a Plinio De Martiis. E Calvesi aggiunse: «Senti, c’è un altro giovane che tu forse ancora non conosci, ma che è molto, molto bravo anche lui. Si chiama Pino Pascali». Fu così che Fabio Sargentini e Pascali si conobbero, iniziarono un importante periodo di collaborazione e diventarono amici, anzi, secondo Maurizio Calvesi, addirittura fratelli. «Il rapporto che avevo con lui non era un rapporto normale come tra un gallerista e un artista, era un sodalizio formidabile, insomma, perché era il mio più grande amico. Era un sodalizio di amicizia e di lavoro ed era un rapporto particolare perché Pascali trasferiva nella comunicazione con gli altri un senso di onnipotenza». La prima mostra a L’Attico, come si vedrà più avanti, fu fatta nell’ottobre del ‘66 e aveva il titolo “Nuove sculture”.  «L’arte è trovare un sistema per cambiare: come l’uomo che ha inventato la scodella per prendere l’acqua la prima volta. Così nasce la civiltà, dalla voglia di cambiare. Dopo la prima volta fare la scodella è accademia. Fare un ponte di corde, fare un dio di legno, vincere una fatalità, un condizionamento, una paura. Quello che faccio è l’opposto della tecnica come ricerca, l’opposto della logica e della scienza». Nel settembre del ‘65 ci fu la manifestazione Revort I alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Palermo. Insieme a Pascali c’erano Lombardo, Ceroli e Tacchi che costituivano il gruppo romano. Le opere che Pascali portò erano Torso di negra al bagno e Primo piano labbra. La manifestazione era curata da Mario Diacono, Vittorio Rubiu e Cesare Vivaldi.  A Palermo il rapporto fra Pino e Maurizio Calvesi diventò più amichevole. Una conseguenza comune che nasceva dai rapporti di lavoro fra quasi tutti gli artisti i critici o i galleristi e che rendeva le relazioni spontanee e cordiali. Anche se Calvesi ricorda sempre un senso di soggezione, benché lieve, nei confronti dei critici, forse per il fatto che fossero di qualche anno più grandi. Ma nonostante queste impercettibili sensazioni di timidezza, il gruppo di artisti come Tano Festa, Mario Schifano, Ceroli, Tacchi, Mambor, Kounellis, Pascali e altri, si “arricchiva” ed allargava sempre di più. Quindi ecco che la sera a Piazza del Popolo si inserivano Fabio Sargentini, Plinio De Martiis, Gian Tomaso Liverani e Giorgio Franchetti, socio del gallerista Plinio De Martiis e collezionista.  Franchetti conobbe Pascali attraverso Kounellis. Fu anche lui un visitatore del suo studio a largo Boccea che ricordava così: «Un giorno, trovandomi lì, mi portò in cortile e mi fece vedere un recinto, un parco di armi, macchine da guerra siluri, missili, cannoni. Io rimasi totalmente stupito e sorpreso e, addirittura, come eccitato da questa cosa, scoppiai in una gran risata. Era talmente sorprendente vedere un arsenale in un cortile di un palazzo a Roma, nella periferia di Roma, in un palazzo di sette, otto piani, e questo cortile pieno di polli, di galline e in mezzo un parco di armi. Tanto più che erano fatte talmente bene da ingannare completamente. Sembravano vere Sembrano vere!».  L’anno dopo, nel ‘66, ci fu la mostra insieme a Mambor dove Pino conobbe Achille Bonito Oliva. Questi era un giovane poeta non ancora trentenne al suo primo esordio come critico d’arte. La mostra si tenne alla Libreria Galleria Guida a Napoli. Qui c’era la rinomata “saletta rossa”, dove avvenivano incontri e dibattiti culturali e che già aveva ospitato intellettuali e scrittori come Ungaretti, Moravia, Montanelli e Kerouac. All’inaugurazione Achille Bonito Oliva intervistò i due artisti. Pascali esponeva il Muro del sonno e la Clessidra, Mambor i Cubi mobili. Pascali era l’artista che aveva una visione materiale dell’arte, mentre Mambor era più mentale, “magrittiano”. Ma già in Pascali si intuiva l’anticipazione dell’arte povera osserva Achille Bonito Oliva riferendosi a opere minimaliste come il Mare. Pascali non era un artista asettico, scolastico, era vitale e spiritoso. Il giovane critico fu profondamente colpito da questo personaggio ironico e allo stesso tempo profondo, considerandolo già un passo avanti rispetto agli altri artisti del momento. Erano gli anni in cui cominciava un’arte fatta di materiali naturali, col poverismo contrapposto alla civiltà opulenta e industriale. Facciamo a questo punto un riesame delle personalità coinvolte o escluse dall’Arte Povera deve indurci infine a riflettere con più attenzione sul posizionamento di Pino Pascali la sua presenza tra le fila dei Poveristi ha destato sin da subito notevoli perplessità, per via del fatto che egli non regredisce mai a uno stadio effettivamente “preiconografico”, ma rimane implicato nella problematica dell’Im-Spazio. Riosservando attentamente le opere realizzate dall’artista a partire dalla metà degli anni Sessanta, si possono infatti cogliere gli elementi di una poetica genuinamente pop che non verranno mai meno, neppure dopo aver partecipato alla nascita ufficiale dell’Arte Povera. I Frammenti anatomici (1964-65) rivelano la loro radice pop sia nelle forme sintetiche assunte da un labbro o da un torso di donna, sia nella logica del blow-up che ingigantisce i dettagli del corpo. Pascali recepisce notevoli stimoli dalle proposte della Biennale di Venezia del 1964 elaborando poi quella sintassi dell’artificio e dell’oggetto che lo avrebbe portato alla realizzazione delle cosiddette “finte sculture”, esiti di un giocoso bricolage che intende spiazzare e ingannare il fruitore. Anche le Armi (1965), citate nel primo scritto di Celant sull’Arte Povera come esiti di un libero configurarsi dell’artista, pertengono ancora a un universo pop, a una poetica dell’artificio: si tratta infatti di grandi armigiocattolo con cui l’artista può giocare e divertirsi, come dimostrano le note fotografie dell’artista in divisa militare vicino a esse. All’universo ludico appartengono anche i Dinosauri, la Vedova Blu, i Bachi da setola e tutti gli altri animali del 1967-68 “rifatti” con materiali sintetici e coloratissimi, pescati direttamente dal mondo industriale. L’evidente carattere scenografico di queste opere pone il loro fruitore in una condizione quasi attoriale che però non è, come nel caso dell’arte di comportamento, partecipazione ai processi della vita e della materia, ma ingresso in un immaginario fantastico che fa leva ancora su una sintassi iconica, su una sinteticità squisitamente pop. Lo stesso vale per opere del 1967 come Il mare o le Pozzanghere, definite da Celant come “sineddochi naturali di un mondo naturale privato di ogni maschera, violato nel suo tabù di banalità, spogliato e denudato”, che si rivelano invece essere artificiali, sofisticate. Le vasche dei 32 metri quadri di mare circa (1967), esposte per la prima volta a Lo spazio dell’immagine, nel 1967, non contengono acqua marina bensì comune acqua colorata con anilina, che il rigore modulare dei contenitori contribuisce peraltro a determinare plasticamente: il valore visivo appare prioritario rispetto a quello materico e fa ancora leva su logiche illusorie, per una rappresentazione astratta e geometrizzante del mare. Anche la problematica della misurazione, fattasi centrale nelle esperienze concettuali, viene affrontata con una certa ironia, come conferma la presenza di quel “circa” nel titolo, proprio a indicare la vanificazione di criteri esatti in forza di una più sbrigativa approssimazione . Se le strategie dell’Arte Povera prevedono interventi ambientali diretti, senza filtri e senza mediazioni, con fluidi inneschi processuali o piatte e neutre constatazioni tautologiche, quelle di Pascali provvedono invece ad ampliamenti virtuali dell’ambiente stesso secondo una riedizione artificiale degli elementi naturali, risultando perciò diametralmente opposte. L’autore si fa infatti erede di quell’ambizione a una “ricostruzione artificiale dell’universo” che risale al Secondo Futurismo e che portava artisti come Giacomo Balla e Fortunato Depero a celebrare le materie sintetiche, le sostanze sgargiantissime e “i liquidi chimicamente luminosi di colorazione variabile” , come l’anilina utilizzata da Pascali. Le idee di un giocattolo futurista, di un complesso plastico, di un animale metallico o di un paesaggio artificiale messe a punto da Balla e Depero riaffiorano in tutto l’immaginario dell’artista pugliese, che non rinuncia alla forza plastica dei materiali artificiali e scintillanti neppure nel “rifare” oggetti e reperti di antiche civiltà come L’arco di Ulisse, La tela di Penelope o Il ponte, tutti del 1968, realizzati perlopiù in lana d’acciaio e ispirati dalla lettura de Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss. L’immaginario è ora mutato e l’artista si avvia alla riscoperta di un mondo lontano e mitico, rigenerando così il rapporto con il proprio, rimanendo pur sempre nella dimensione della virtualità rappresentativa. Restano però da analizzare le due opere con cui l’artista partecipa alla mostra genovese del 1967 figurando nella sezione Arte Povera, ossia 1 e 2 metri cubi di terra, opere in cui Pino Pascali sembra prendere le distanze dall’elaborazione di un immaginario per spostarsi sulle problematiche della tautologia, sposando così la causa poverista . Il carattere geometrico dell’opera, che nella mostra genovese fa da contraltare ideale alla coeva Catasta di Boetti, ispira il rimando a una grammatica minimalista che però stride con la comprovata volontà poverista di evadere la rigidità e la regolarità della forma. Sembra intervenire a ovviare a questo problema un intento analitico, l’indicazione di un tautologico atto di misurazione che ascriverebbe le due opere di Pascali al filone del Concettuale, sottolineando la pura autoreferenzialità del cubo terroso. Ma una più attenta analisi dell’opera ci permette di comprendere come questo tentativo si riveli del tutto fallace, segno forse di un’inadeguatezza dell’autore a quelle problematiche: i cubi di Pascali, infatti, si pongono ancora nell’ordine costruttivo delle sue “finte sculture”. Affissi alla parete, come a sfidare la loro ipotetica pesantezza, i due prismi manifestano una compattezza difficile da ottenersi con un materiale così informe e friabile. I blocchi non sono infatti pieni, ma cavi, perché costituiti da leggere intelaiature in legno, come quella dei Dinosauri, ma ricoperte di terriccio. Come per le Pozzanghere, anche qui le dimensioni fornite sono approssimate, ancora una volta a sfidare l’ipotetico valore di verità insito nell’opera. I Metri cubi di terra, dunque, non sono tali come sembrano suggerire i loro titoli, rivelando un carattere tutt’altro che tautologico, attestando ancora per l’autore l’importanza dell’illusione, della virtualità, dell’opera come ludico inganno. Alcune affermazioni dello stesso Pascali non lasciano dubbi sulla contrarietà dei suoi orientamenti poietici in rapporto a quelli poveristi: Gli americani si possono concedere il lusso di prendere una cosa e di inchiodarla su un quadro e il quadro viene, di prendere un fumetto e rifarlo e il quadro è un quadro perché loro nel loro gesto riassumono storicamente quello che veramente è la loro civiltà, la più progredita dal punto di vista tecnologico. la nostra civiltà è, invece, una civiltà che, sul piano tecnologico, è indietro rispetto a quella americana, per cui un’azione diretta fra uomo e materiale è pazzesco.  In fondo, ormai, gli artisti devono usare i materiali che fanno gli scienziati perché la natura si è esaurita, è nata una nuova natura.  Siamo nati qui e abbiamo quel patrimonio d’immagini, ma, proprio per vincere queste immagini, dobbiamo vederle freddamente e, proprio, fisicamente per quello che sono e verificare che possibilità hanno per esistere ancora. Se questa possibilità è una finizione, uno accetta la finzione  Io, praticamente, per sentirmi uno scultore devo fare delle finte sculture. A differenza delle opere realizzate da Anselmo, Calzolari, Kounellis o Zorio tra il 1966 e il 1968, in nessuna opera di Pascali è possibile avvertire una vocazione processuale, la necessità di un’interazione attiva con il tempo e con la corruttibilità o la resilienza dei materiali. L’evaporazione dell’acqua che si verifica nelle sue Pozzanghere durante il tempo di una mostra non costituisce un elemento significante dell’opera, ma rimane un limite della natura cui è inevitabile ovviare, rabboccando di tanto in tanto le vasche. A fronte del “libero progettarsi” predicato da Celant, Pascali ha peraltro sempre agito nella direzione di una solida coerenza stilistica, talvolta ricorrendo anche a strutture modulari di matrice concretista, ma quasi sempre approntando iconografie sintetiche e replicabili, rispondendo ancora, in pieno clima poverista, a una mai spenta volontà di forma. Posso dire che solo tre anni di attività artistica Pino ha guadagnato l’attenzione dei maggior critici d’arte italiani (Vivaldi, Calvesi, Brandi, Rubiu, Boatto, Bucarelli, De Marchis) e di galleristi d’avanguardia, come Sargentini, Sperone e Jolas che si contendevano le sue opere. La sua breve vita è stata un turbine di attività, di creatività e di idee, grazie al suo carattere estroso, al suo modo di fare ed alle sue capacità espressive. Un carattere particolare nel quale si è cercato di indagare, raccogliendo decine di testimonianze, di aneddoti e di curiosità per conoscere ancora di più questo “ragazzo terribile”. Proporre l’opera di Pino Pascali mira a dare continuità al legame tra l’artista e la scenografica dimora manierista ponendo quest’ultima come ideale palcoscenico per la breve e straordinaria parabola dell’autore, innovatore multiforme e poliedrico interprete, e ribadendone il ruolo centrale di officina della contemporaneità dalle forti radici nella storia. Mentre il mondo poetico e pittorico di Toti Scialoja, pittore professionista e poeta per diletto: è questa l’immagine che ancora oggi nonostante gli sforzi ermeneutici di Raboni, Manganelli, Arbasino, Mauri, Porta, Frabotta, Serianni si ha dell’artista romano Toti Scialoja. Pittore talentuoso, molto apprezzato anche all’estero soprattutto in Francia e negli Stati Uniti, esponente di spicco, forse il maggiore, dell’espressionismo astratto italiano, critico d’arte, scenografo, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma con “il pallino” della letteratura. Si tratta di un’immagine estremamente semplicistica e pregiudiziale che, non solo fa torto al poeta negandone la posizione di rilievo, che pure gli spetta, nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento, ma offusca e limita la piena comprensione del pittore, la cui attività artistica, caratterizzata da una continua, estenuante, ricerca di sintesi e di libertà. L’abbandono temporaneo della poesia non costituisce, però, un freno alla passione di Scialoja per la scrittura che, anzi, tra il 1941 e il 1950, pubblica numerose recensioni e cronache d’arte su «Il Selvaggio» (con lo pseudonimo Nero di Bugia), su «Mercurio» di Alba De Cèspedes (dal 1° settembre del 1944) e più tardi su «Immagine», rivista di arte, critica e letteratura di Cesare Brandi alla quale collabora sin dal primo numero (maggio 1947) insieme con Giovanni Macchia, Luigi Magnani, Giuseppe Raimondi e Roman Vlad. A partire da quegli anni, fecondi di studio segue anche le lezioni di Merleau-Ponty alla Sorbonne e di grande fervore creativo, il percorso poetico di Scialoja procede parallelamente a quello pittorico, caratterizzato quest’ultimo da una costante ricerca di nuovi stimoli e linguaggi, da continue “crisi” e “rinascite” che scandiscono un itinerario sofferto, ma sempre coerente nelle premesse e negli intenti: Tutto detto e tutto contraddetto. Tutto fatto e tutto disfatto. Sono sempre da capo, in una continuità che non si fonda sulla memoria; piuttosto sul rinascere sempre delle stesse cose, pensieri, intuizioni eccetera, in un apparente sperpero di energia. Grandi rincorse per saltare ogni mattina lo stesso fossato. Ma facciamo un passo indietro e ripercorriamo brevemente gli anni della formazione e dell’esordio pittorico di Scialoja che si compie assai precocemente, verso la seconda metà degli anni Trenta, quando il giovane Toti si accosta all’ambiente degli espressionisti della cosiddetta «Scuola romana». Frequenta Mafai, Scipione, Savinio, Cagli, Levi e gli altri pittori legati alla neonata “Galleria della Cometa” diretta dall’amico poeta Libero de Libero. Negli stessi anni espone i suoi primi disegni e dipinti, ricevendo apprezzamenti e incoraggiamenti da Birolli, Guttuso e soprattutto da Brandi. Verso la metà degli anni ’40 Scialoja «prende a guardare Morandi, cercandovi una misura agra e sorvegliata, ed un cromatismo sommesso», ed è ancora nell’alveo di un figurativismo di tipo morandiano, alla ricerca di nuovi valori tonali del colore, quando comincia ad avvicinarsi alle sperimentazioni cubiste, recependone gradualmente la rivoluzione formale, soprattutto per quanto concerne la rappresentazione della figura nello spazio. Negli anni Quaranta comincia anche la multiforme collaborazione di Scialoja con il mondo del teatro un’attività tutt’altro che marginale, svolta con particolare intensità negli anni 1943-1956, durante i quali il giovane Scialoja collabora, tra gli altri, con il regista Vito Pandolfi, con il coreografo ungherese Aurel M. Milloss, con Cesare Brandi, cimentandosi in regie, scrivendo saggi sulla moderna scenografia pittorica e sul rapporto danzapittura e, soprattutto, creando memorabili scenografie, nelle quali il linguaggio espressionista delle prime realizzazioni si evolve progressivamente in senso antinaturalistico, metafisico, approdando a creazioni totalmente astratte (in sintonia con quanto accadeva nel parallelo percorso pittorico). Un importante riconoscimento dell’attività svolta da Scialoja in ambito teatrale è costituito dall’incarico straordinario di Scenotecnica ottenuto nel 1953 presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (della quale, nel 1982, diviene direttore) e conservato fino al 1957. Tra i suoi allievi: Mario Ceroli, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Giosetta Fioroni, tutti incantati dalle lezioni del maestro che «realizzava le sue opere in classe» e «attraverso il teatro arrivava poi alla pittura, alla letteratura, alla filosofia»: Il senso aprospettico dello spazio, l’idea di superficie, la pittura gestuale e l’automatismo psichico, tutto quello che Scialoja andava formulando in questi anni come sua poetica, prendeva corpo e veniva trasmesso in classe. L’attività teatrale di Scialoja  per l’originalità delle sue teorie e per la bellezza dei costumi e dei décor realizzati, di cui restano fotografie e filmati d’epoca  è dunque parte fondamentale della sua biografia artistica e meriterebbe senz’altro una maggiore attenzione critica; ma, più in generale, essa costituisce un capitolo importante della storia del teatro italiano del secondo dopoguerra, soprattutto per l’azione di rottura portata avanti nei confronti della tradizione scenografica italiana basata sulla vetusta idea della scena «come puro fondale immobile, semplice arredo della rappresentazione». Avverso questa visione rigidamente classica e supinamente realistica del teatro, l’artista romano propone una concezione nuova a-simmetrica e a-prospettica  dello spazio scenico che, «mobile e metamorfico», è essenzialmente «spazio illusivo, incommensurabile certo allo spazio naturale». All’interno dello spazio scenico così inteso, tutte le arti (musica, pittura, danza) devono entrare in gioco e concorrere ad esaltare nel modo più felice possibile la figura assolutamente centrale dell’attore-danzatore. Al centro dell’azione teatrale, infatti, c’è sempre l’Uomo con la sua espressività corporea, con la sua gestualità, con la «sua straordinaria umanità», che la pittura, la danza e la musica devono saper valorizzare ciò «in netto contrasto con l’azzeramento della componente umana professata dai futuristi». In pittura il mezzo espressivo è il colore, in musica è il suono, in teatro è l’uomo, l’uomo che appare agli altri. Adoro questa sua straordinaria umanità. Il teatro è voce e apparizione, è arte visiva. Tutte le arti che partecipano a questa spazialità devono avere, mantenere la loro autonomia la pittura deve essere una bella pittura però devono anche assumere contemporaneamente, parallelamente, un funzione nuova, diversa. È qui la vena dell’umanizzazione, della presenza umana. Lo spazio pittorico quando diventa spazio di teatro deve servire a tirar fuori il più possibile questa apparizione, questa maschera che è l’uomo, senza perdere i suoi valori. Nel biennio 1947-48 Scialoja, però, non solo si dedica con particolare fervore al lavoro teatrale, sviluppando la sua idea di scenografia come «spazialità espressiva», ma ha anche modo di approfondire la propria ricerca pittorica, attraverso due importanti soggiorni parigini, il primo dei quali risale all’estate del 1947 in compagnia di Petrassi, Milloss e dei pittori Tamburi e Gentilini. Nella capitale francese, meta obbligata per tutti i giovani artisti della sua generazione, Scialoja si accosta a Soutine «e la pennellata, da breve e interrotta, si fa lunga, nervosa, filante» e a Braque «e sarà proprio da lui, oltre che da Morandi, che muoverà la sua crisi e il suo nuovo linguaggio». Il 1948 è soprattutto un anno di riflessione: invitato a partecipare alla XXIV Esposizione biennale internazionale d’arte a Venezia, Scialoja rifiuta di prendervi parte; poco dopo comincia ad allontanarsi dalla figurazione, prende a «fare delle cose un po’ picassiane», senza però riuscire ancora a trovare la sua strada, quella dell’astrazione. Gli anni Cinquanta sono quelli decisivi, della “svolta”. Innanzitutto, nel 1952, nelle Edizioni della Meridiana esce la raccolta di poemetti in prosa I segni della corda. Scritti tra il 1948 e il 1951, i poemetti segnano l’inizio, sia pure non entusiasmante, della carriera letteraria di Scialoja e sono recensiti sul «Corriere della Sera» dall’amico Eugenio Montale che usa caute e affettuose parole d’incoraggiamento, apprezzando la «schiettezza e l’acuta sensibilità» del neo-poeta: Chi conosce l’intelligenza e la cultura del giovane artista non si stupirà che anche in questo genere letterario che poco invoglia i nostri scrittori egli abbia lasciato un’impronta sua.  Consigliamo il piccolo libro a coloro che non buttano nel cestino le molte plaquettes di poeti contemporanei. Non è di facile lettura ma conferma il temperamento di un artista che, sia che scriva o dipinga, sa esprimersi con schiettezza e acuta sensibilità. Finora, come accade ai giovani, egli vuol dire tutto di sé. La maturazione, la scelta, dovranno essere le sue conquiste di domani. Di segno completamente opposto il giudizio di Pasolini, che stronca impietosamente i poemetti tacciandoli di «storicismo e di espressionismo, un’accoppiata in cui il “poeta civile” vedeva addensarsi il colmo della “decadenza”». Del resto come ha scritto Orietta Bonifazi autrice di un’accuratissima bibliografia scialojana questi «erano gli anni in cui Scialoja si allontanava dal gruppo del realismo , anni furenti di rotture, con Pasolini, con Guttuso, con Brandi ». Ma se in campo letterario Scialoja fa fatica ad affermarsi e la «maturazione» di cui parla Montale è ancora di là da venire, in ambito pittorico la situazione si presenta assai diversa. Ritenute insufficienti le proposte elaborate dalle contemporanee poetiche neocubiste, Scialoja sempre distante dalle tendenze e dalle mode del momento si rivolge idealmente al recente passato, cerca di mettere a fuoco gli elementi del suo nuovo linguaggio visivo andando alle origini dell’esperienza pittorica moderna: “scopre” Picasso, oltre a Braque, e soprattutto Cézanne. La forma, allora, negli anni di questo mutamento di indirizzo, non prende più avvio dalla realtà fenomenica ma cerca di esistere nel suo stesso “farsi”, nella libertà del gesto. Anche qui, come più tardi nella poesia, la composizione è cercata nel ritmo, il ritmo interno del braccio che si muove e definisce la superficie. Nell’ottobre del 1954 l’artista può dichiarare di essere giunto alla sua «verità», di aver trovato, cioè, quella pienezza espressiva che solo una «pittura di sensazione» poteva finalmente garantirgli: Da una pittura di impressione o deformazione ottica attraverso un tirocinio operato su elementi razionali di forma e concettuali di spazio sono arrivato alla mia verità: ad una pittura di sensazione. Una pittura che rientra e partecipa direttamente al flusso della realtà, a questa comunicazione incessante. La lenta maturazione della «nuova pittura» ovvero le singole fasi di questa sorta di «resurrezione» artistica è registrata minuziosamente da Scialoja nel Giornale di pittura: il diario redatto con meticolosa precisione e con passione tutta letteraria nel decennio 1954-1964, al fine di documentare, giorno dopo giorno, la «gradualità irresistibile» del suo cambiamento ovvero il passaggio dal figurativismo alla pura astrazione e di «procedere per gradi verso una decente consapevolezza intellettuale». Parzialmente edito da Editori Riuniti nel 1991 con prefazione di Gillo Dorfles e poscritto di Doriano Fasoli, il Giornale è senz’altro un documento prezioso della ricerca filosofica e pittorica condotta da Scialoja negli anni CinquantaSessanta: Un documento cui Scialoja affida tutto il suo pensiero sull’arte: da quello filosofico all’esperienza artigianale, dalla considerazione critica sulla pittura di artisti incontrati sul suo cammino e amati fino allo spasimo, fino ai pensieri più intimi; quasi ad accompagnare, in un immaginario dialogo con se stesso, le scelte teoriche e l’esatta definizione del suo pensiero sull’arte. Dal corpus del Giornale un voluminoso dattiloscritto conservato presso l’Archivio della Fondazione Toti Scialoja di Roma l’artista estrapolò nel corso degli anni numerose pagine (operando quindi una prima significativa selezione d’autore), e utilizzò quelle riflessioni estemporanee come presentazioni di sue mostre personali o scelse di pubblicarle su riviste letterarie e d’arte, sollecitato da Chiaromonte e Silone (per «Tempo presente») o da Luciano Anceschi (per «Il Verri»). Eppure quelle pagine avverte Fasoli nascevano d’impeto, quasi sempre al mattino, «con tanta furia e tanto abbandono», come una sorta di confessione, di sfogo, di dialogo con se stesso; appunti scritti di getto, in velocità, «rabbiosamente» e senza pensare ad una loro eventuale pubblicazione: Pagine di diario scritte direttamente a macchina, quasi convulsamente, senza badare a refusi o a parole rimaste sulla punta delle dita. Scialoja non avrebbe mai pensato, abbandonandosi alle parole delle sue visioni e persino delle sue contraddizioni, ad una pubblicazione di queste righe partorite con tanta furia e tanto abbandono; e, probabilmente, nemmeno di tessere una tale testimonianza storica (oltre che personale). Senza dubbio il Giornale costituisce un documento interessante per gli storici dell’arte, in quanto Scialoja registra in presa diretta e commenta “a caldo” gli eventi legati alla rivoluzione artistica in atto in America a partire dall’action painting della metà degli anni Cinquanta fino all’esplosione della Pop art di Wharol e Dine e i riflessi che quella rivoluzione ebbe in Europa e in Italia, tra adesioni entusiastiche e strascichi polemici. Ma prima di ogni altra cosa il Giornale è un diario, non un journal intimo «non vi sono registrati, se non per frammenti irrisori, avvenimenti, incontri, o emozioni del vivere quotidiano», ma uno zibaldone di «pensieri sulla pittura», scaturito da un bisogno pressante di chiarire a se stesso le ragioni del dipingere e di documentare in progress le fasi di una tormentata ricerca e di una conseguente «scoperta», senza paura di ripetersi o di contraddirsi. Nell’Avvertenza al Giornale da cui è tratta questa citazione scritta nel luglio del 1958, Scialoja dichiara di aver steso i suoi appunti «in modo sbrigativo e quasi automatico» e di aver lasciato le pagine «così come sono state scritte di volta in volta a parte qualche indispensabile messa a punto formale», al fine di conservare una loro «documentaria obiettività». Naturalmente l’esistenza di questa Avvertenza fa supporre che Scialoja ! contrariamente a quanto sostiene Fasoli ! non escludesse la possibilità di una pubblicazione, in toto o in parte, del Giornale, ma al contempo intendesse salvaguardare la spontaneità dei pensieri contenuti in quelle pagine e preservare la naturalezza di una scrittura priva di mediazioni, di correzioni o autocensure: “Giornale di pensieri per servire alla pittura”, o meglio “Giornale di pensieri sulla pittura” potrebbero intitolarsi questi appunti cominciati a scrivere nella primavera del 1954, in fretta e a lunghi intervalli. Via via questo Giornale è diventato un’abitudine, e le pagine si sono infittite. Considerato l’alto tasso di “letterarietà” presente in queste straordinarie pagine di diario che fanno da contrappunto lirico-filosofico all’attività pittorica di quegli anni è senz’altro lecito considerare il Giornale un’importante prova di scrittura creativa; e certo non è un caso che la sua interruzione alla metà degli anni Sessanta coincida con la riscoperta da parte di Scialoja della propria vocazione poetica. Come ha scritto Fasoli nel suo poscritto all’edizione del ’91, l’interruzione del diario può essere spiegata proprio con l’esaurirsi di un’importante stagione di ricerca durante la quale Toti aveva scritto «tutto ciò che gli era servito per scavare e per indagare». In realtà, Scialoja pittore aveva davanti a sé ancora molta strada da percorrere e nuove stagioni creative da attraversare: da quella delle cosiddette «quantità cromatiche» (negli anni Settanta), che segna una ripresa di moduli geometrici abbandonati da tempo, alla riscoperta del gesto negli Ottanta, fino alla piena liberazione formale nell’ultima esplosiva stagione degli anni Novanta. Purtroppo l’evoluzione della ricerca pittorica scialojana degli ultimi tre decenni non è documentata nel Giornale che, come abbiamo detto, s’interrompe nel ’64 in concomitanza con il ritorno a Roma dell’artista dopo il triennale soggiorno parigino anche se Scialoja continua negli anni successivi a stendere appunti, ad annotare riflessioni sempre più astratte, filosofiche, meno legate all’attualità e ad eventi personali , lo fa sporadicamente, senza più la regolarità, quasi quotidiana, degli anni precedenti. Un tema di centrale importanza nell’ambito del dibattito internazionale sulla crisi e sulle nuove prospettive dell’arte contemporanea sul quale Scialoja torna con insistenza in molte pagine del diario è, come è stato detto, la rivoluzione artistica portata avanti da Pollock e dagli altri esponenti del cosiddetto espressionismo astratto americano nella seconda metà degli anni Cinquanta. Molte pagine del Giornale risalgono proprio al soggiorno americano del 1956-57, un biennio fondamentale per la maturazione dell’artista trascorso a New York tra mostre, dibattiti, vecchi e nuovi amici dal quale prende avvio il nuovo corso della sua pittura (puntualmente registrato nel diario), con la scoperta della libertà espressiva del gesto e con l’adesione convinta alla poetica dell’astrattismo. Nell’autunno del ’56 Scialoja è a New York: straordinaria «città senza crosta», dalla quale resta profondamente colpito tanto da parlarne spesso nelle lettere agli amici così come nelle pagine del Giornale, alle quali affida delle descrizioni di grande suggestione poetica, scritte come al solito in velocità, con tocchi rapidi come pennellate, sull’onda di un’emozione immediata. In una città così umorosa e organica, vitale ed estroversa, immenso “involucro trasparente” nel quale l’uomo vive e lavora «spoglio d’ogni principio d’autorità, di ogni trascendenza e gerarchismo sacerdotale»; in una città libera da tradizioni opprimenti, «sbucciata» di ogni pregiudizio e sovrastruttura fino a rivelare il suo fondo brulicante di vita, è potuta nascere una nuova pittura. Nelle opere realizzate dopo il soggiorno a New York, dunque, Scialoja che, già dal ’54, ha «distolto l’oggetto, e con esso qualsiasi relitto di referenzialità naturalistica» rinuncia anche alla profondità ingannevole della prospettiva (con la sua illusione di trascendenza), preferendo la verità nuda e cruda della superficie intesa «heideggerianamente»- «come unico spazio e unico tempo possibile: il presente temporale, su cui inscrivere la traccia dell'esistenza, il ritmo». Nel maggio del ’57 Scialoja può finalmente scrivere: «La superficie pittorica oggi ha per me la saldezza, la presenza e la luce incancellabile di un dato di coscienza». Nei lunghi e concitati appunti del Giornale, datati “New York, 28 novembre-4 dicembre 1956”, l’artista, dopo aver passato in rassegna le tecniche e le modalità degli action painters americani, si volge ad analizzare le ragioni della sua nuova «pittura di confessione» e come sia pervenuto ad essa attraverso una lenta e faticosa ricerca personale; l’adesione al nonfigurativo è intesa ora «come premessa assoluta dell’immaginare pittorico, del costruire pittorico», in quanto «la vita dell’anima può essere manifestata plasticamente non solo dall’espressione del viso, dai gesti del corpo, dalla voce e dalle lacrime, ma anche dalla disposizione di segni che non significano nulla». «Oggi pittura vuol dire soltanto presenza gremita di segni», scrive l’artista in un appunto del diario datato “Roma, maggio 1956”tracce liberamente impresse sulla superficie che, in apparenza non significanti, esprimono in realtà un bisogno imperioso di “confessarsi”, di farsi tutt’uno con la materia, di immergersi liberamente nel fluire delle cose: «posso nuotare o volare, posso respirare con la materia dell’universo. Sono del tutto immerso finalmente libero». Sulla tela affiorano ora segni incongrui, contraddittori, asimmetrici, che però trasudano amore per la vita, grondano vita, in quanto «bisogna partire dall’incongruo per essere vitali». Scialoja, insomma, che nella seconda metà degli anni Cinquanta scopre la straordinaria forza liberatoria del gesto, che lo sospinge lontano da quello che Pasolini definiva il «volgare ornato geometrico-coloristico che è stato con qualche eccezione, l’astrattismo patrio di questo decennio» punta non più alla rappresentazione di forme e colori nello spazio ma a dipingere lo spazio del quale sente di essere parte; l’inebriante percezione che ne deriva è quella di «essere vivo» e finalmente «in comunione» con la realtà e con la natura «essere ricongiunto e ricongiungersi continuamente alle cose»: La pittura cosiddetta ‘astratta’ mi ha insegnato a sentirmi vivo, ad essere vivo, mi ha dato gli strumenti per essere vivo e riconoscermi nella realtà. Quel che io faccio non è più un dipingere, è solo un vivere la pittura. Nuova sensazione, nuovo concetto di spazio, di cui faccio parte e che ‘agisco’ dal di dentro. È come se l’universo fosse entrato in me. Come se la mia intera vita si fosse sparpagliata intorno a me con la misura e il respiro di ogni altra cosa che esista insieme. Posso dire che la compagnia dei poeti e dei critici letterari è particolarmente gradita a Scialoja negli anni Settanta, anni difficili sul piano dell’invenzione pittorica, durante i quali all’evidente insofferenza verso le coeve, «aberranti», esperienze artistiche italiane si accompagna il ritrovato gusto per la parola che, con le sue magiche sonorità sembra offrirgli una “boccata d’ossigeno”, una possibile via di fuga: scrisse nonsense per vent’anni, poi raccolti nei Versi del senso perso, uscito per Mondadori nel 1989. Ricoprirono l’intero ventennio delle Quantità ritmiche, quelle strisce di carta colorata incollata sulla tela che imbrigliavano la libera gestualità dentro una fuga geometrica, con l’ossessione della ripetizione. Era la stagione più fredda e mentale del pittore, arroccato a resistere a “un mondo sconvolto e quasi delirante” E le parole venivano come “spiragli di luce, luoghi aerei della speranza”. Sono gli anni anche dei piccoli collages, «strisce e frammenti di carta di giornale, che l’artista dipinge e giustappone nelle infinite varianti degli accostamenti cromatici», composizioni che danno vita «a nuovi ritmi formali, ma forse più freddi, e avviano Toti ad un allontanamento da quel gesto espressivo che gli era così congeniale». Il recupero del geometrismo e il conseguente sviluppo di una tecnica basata sull’assemblaggio ritmico di forme e colori (un modus operandi distante anni luce dalla libertà istintiva che guidava la mano dell’artista nella felice stagione delle Impronte) può dar luogo alle più diverse interpretazioni da parte degli esperti d’arte, ma senza dubbio è il riflesso di una fase, se non di crisi, senz’altro di “ripiegamento” dell’artista verso una pittura meno “viscerale” e più “cerebrale”; una scelta dettata forse da un intimo bisogno di far chiarezza dentro di sé, di “ricapitolare”, riattraversandole, le esperienze del passato in attesa di scoprire, di lì a poco, un nuovo linguaggio espressivo finalmente “liberato”. In questi rettangoli di colore giustapposti sulla tela in molteplici variazioni e gradazioni cromatiche permane la ricerca, mai abbandonata, di una temporalità piena, di nuovi «rapporti ritmici» tra gli elementi della superficie: Il nuovo corso dell’arte di Scialoja si è maturato nel momento in cui il pittore ha rinunziato alla tecnica delle impronte per ritmare il suo spazio-tempo con strisce di carta dipinta, giustapposte perpendicolarmente alla base del quadro.  Ha rinunziato insomma alla sua personale applicazione dell’action painting in favore di una scansione delle superfici più controllata, spersonalizzata, obiettiva . «Superfici più controllate», dunque, queste degli anni Settanta, nelle quali sono del tutto assenti il “calore”, il disperato vitalismo, la libertà espressiva del gesto. Una paralizzante purezza di forme, dalla cui «prigione» Scialoja sente ben presto di dover uscire, come annota in un appunto del Giornale di pittura nel maggio del 1979. Tornare al gesto, al gesto unico, al grande gesto automatico che annulli la negazione, che annulli l’altro da sé la prigione. Che annulli l’ostinazione mortuaria del prestabilito, la falsa superficie di ciò che è sigillato, la rugosità di ogni constatazione inerte.  Tornare al gesto fisico e semplice, al grande gesto automatico che vale perché è il più somigliante. Il gesto dello scancellare. Tornare a una pittura che valga come finale scancellazione dell’inerte, dell’anonimo orrore della sopravvivenza. L’imperativo dell’artista è ora chiaro: reagire alla paralisi formale, uscire dall’angusta gabbia nella quale si era volontariamente rinchiuso negli ultimi dieci anni, recuperando la fisicità, semplicità, libertà del gesto. Tuttavia non si tratta di un mero ritorno al passato, di una ripresa tout court di moduli e tecniche già sperimentate vent’anni prima: c’è sicuramente questo, ma c’è anche dell'altro. Un viaggio a Madrid nel 1982 e la conseguente scoperta del “Goya nero” «Non vidi la processione di San Isidro ma una ridda libera di pennellate, uno sfregamento di gesti pittorici » schiudono altri orizzonti di ricerca e determinano l’inizio di una nuova stagione pittorica. Nel dicembre del 1984 Scialoja espone a Roma, presso la “Galleria L’Isola”, le tele del suo nuovo ciclo. La presentazione del catalogo della mostra è affidata a Lorenza Trucchi, che così ricostruisce il movente, le fasi salienti e gli elementi costitutivi di quest’ultima svolta: Il motivo scatenante, la scintilla che ha alimentato il gran fuoco della scoperta, dell’autorivelazione, sono i dipinti della Quinta del sordo di Goya, rivisti al Prado nella primavera dell’82. Poco dopo a Roma, chiuso nel proprio studio, il pittore rivive come una lunga febbre, quell’intensa emozione in una serie di opere dipinte furiosamente.  È chiaro che oggi egli non privilegia il tempo, ma bada piuttosto a incarnarlo in un’azione in un gesto non seriale, di volta in volta diverso e irripetibile. Ancora una volta c’è l’automatismo del gesto «che impegna tutto il corpo», ma la mano non impugna più lo straccio intriso di colore, bensì il pennello che “schiaffeggia” la superficie della tela, l'aggredisce con l’urgenza e la violenza di una atto liberatorio. In un appunto del 1983, Scialoja scrive: Queste nuove pennellate si muovono nell’indistinto dell’automatismo psichico, ma sono, nella loro oscurità, ostinatamente consapevoli. La traccia di queste pennellate, che si succedono sempre come una scrittura, come la processione nera e convulsa di San Isidro, viene creando un rapporto tra figure. Si viene così ripopolando una situazione spaziale, una “composizione” per pennellate. La novità ora è questa: lascio che la cosa avvenga. Accetto che le tracce compongano tra loro. Una nuova fase, dunque, del percorso artistico di Scialoja da intendersi non come “strappo” rispetto alle esperienze passate, ma come naturale evoluzione e approfondimento delle precedenti “incarnazioni”: La temporalità cercata da me nella ripetizione delle impronte o delle quantità rettangolari, si condensava interamente nel percorso libero della pennellata. L’automatismo psichico da me sempre esplorato, si risolveva ora naturalmente in una gestualità che implicava tutto il mio corpo: polso, gomito, spalla, torsioni e movimenti sulla tela posta al suolo; sulla quale io mi muovevo come all’interno di una zattera. Nei dipinti della metà degli anni ’80 Toti ritrova, insomma, l’immediatezza e la spontaneità del gesto approdando definitivamente ad un espressionismo astratto in cui la superficie della tela, nuovamente di grandi dimensioni, viene ripetutamente colpita dalla mano, dal braccio del pittore, riempiendosi di macchie, di segni e colature di colore secondo la tecnica del dripping, di derivazione pollockiana.
Le tele si presentano via via sempre più sature di colore è pittura all’ over, “a tutto campo” ed esprimono un’ansia di emancipazione totale da ogni forma di rappresentazione; un desiderio di astrazione e di sintesi, un bisogno irrefrenabile di libertà espressiva che esploderà con ancora maggiore vitalismo nelle ultime tele degli anni ’90. Il lungo cammino di Scialoja pittore verso l’astrazione totale e la conquista finale di una piena libertà di spirito e di linguaggio. Ma in che misura e fino a che punto quest’ultima stagione artistica anarchica ed esplosiva e s’interseca con l’ultima fase della poesia scialojana che sembrerebbe che ad un certo momento, il filo che teneva unite le due esperienze che consentiva il passaggio di idee, tecniche, invenzioni dall'una all'altra, in un costante flusso bidirezionale si spezzi. Più o meno al principio degli anni Ottanta, la pittura e la poesia di Scialoja subiscono un mutamento profondo rispetto al passato, ma se identica è l'ansia di rinnovamento l'entusiasmo con cui l'anziano artista si cimenta in nuove sfide, con se stesso e con la propria arte, mostrando un inesausto desiderio di esplorare la realtà e di entrare in comunicazione con essa profondamente diverse sono le direttrici del cambiamento. Se negli anni ’60, e fino alle soglie degli ’80, ricerca pittorica e prassi poetica paiono convergere e procedere su binari paralleli e, come abbiamo visto, il «metodo puramente automatico linguistico» con cui il poeta costruisce i versi nonsensici appare il corrispettivo in campo poetico dell’automatismo psichico che guida il gesto del pittore sulla tela, negli anni ’80 e ’90 è certo più arduo procedere per riscontri e parallelismi; le “due anime” di Scialoja, negli ultimi anni, paiono prendere strade divergenti se non addirittura contrastanti. All’estrema libertà di espressione e alla totale emancipazione dalla “prigione” della forma, cui giunge Scialoja nella sua ultima stagione pittorica, corrisponde in campo poetico la ricerca di massimo rigore formale e la necessità di calare l’invenzione verbale, sempre strepitosa, in rigide «gabbie metriche»: dalla doppia quartina di settenari delle poesie degli anni Ottanta all’«esametro» delle ultime raccolte degli anni Novanta. Giovanni Raboni che ha definito l’artista romano «poeta-pittore dai destini incrociati» ha interpretato forse nella maniera più semplice e corretta la «perfetta simmetria» esistente tra le due “anime” di Scialoja, individuando nella «radicale estraneità al ricatto del senso comune» l’unico vero tratto unificante: “la sua pittura e la sua poesia sono, più che contigue, quasi perfettamente simmetriche: maestro dell'informale nella prima, maestro della forma nella seconda; fedele, nei suoi quadri, a un'ispirazione impetuosa e violenta, risolta nell'infallibilità quasi medianica del gesto, e cultore, nelle sue poesie, di una elaborazione genialmente meticolosa attraverso la quale ogni verso, ogni parola, ogni sillaba vanno a incasellarsi, come i frammenti di un puzzle, nell'unico spazio loro predestinato... Una personalità artistica, insomma, stupendamente bifronte, che ha la propria unità profonda in quella che si potrebbe definire una totale, radicale estraneità al ricatto del senso comune”. Ad avvicinare i percorsi di Scialoja e Pascali è, inoltre, la comune curiosità riservata all’America e al rinnovamento impresso alla tradizione europea dalla cultura d’oltreoceano, oggetto della seconda sezione della mostra, dove trovano spazio le celebri impronte di Scialoja e le sperimentazioni pop di Pascali. Non secondarie sono poi le rispettive esperienze teatrali, viatico ai linguaggi dinamici della televisione e della pubblicità, esplorati con ampiezza nella terza sezione del percorso. È Scialoja complice un’esperienza teatrale iniziata negli anni Quaranta e protrattasi per decenni a far entrare in contatto Pascali col teatro d’avanguardia, delineando uno spazio scenico volto a costruire una seconda realtà, illusoria e antinaturalistica. Riflessioni che Pascali ha modo di sviluppare prima nelle tesine redatte in Accademia, poi, in modi diversi, nei lavori per la pubblicità, dai quali emerge uno spiccato interesse per la performance (non mancano casi in cui Pascali stesso interpreta in prima persona alcuni personaggi, come negli spot per la Cirio). Ulteriori confluenze si rintracciano nella comune fascinazione per il mondo animale a cui è dedicata la quarta sezione. Sin dagli anni Sessanta, infatti, ragni, balene, giraffe e ghepardi divengono protagonisti della poesia del ‘senso perso’ di Scialoja, corredata da disegni dal tocco zen, e si ritrovano nell’Arca di Noè ingrandita delle celebri ‘finte sculture’ di Pascali, appassionato lettore di romanzi d’avventure e filastrocche. Nascono così due bestiari antinaturalistici, irriverenti e spiazzanti, che non smettono di parlarsi l’un l’altro per via della comune attitudine alla giocosità e all’approccio metafisico all’esistenza. A concludere il percorso l’omaggio di entrambi per i luoghi del Mediterraneo, quali Procida e Polignano, geografie sentimentali e creative mai dimenticate. Il catalogo della mostra è edito da Electa con la Fondazione Pascali.
Biografie di Pino Pascali e Toti Scialoja
Pino Pascali  è protagonista di una carriera breve e folgorante. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1959, lavora con successo come scenografo, realizzando bozzetti, disegni e “corti” per “Carosello” e altre trasmissioni tv. Nel 1965 ha la sua prima personale a Roma presso la galleria “La Tartaruga” e, in soli tre anni è riconosciuto dai maggior critici d’arte e da galleristi d’avanguardia. Nel 1968 partecipa con una sala personale alla XXXIV Biennale di Venezia, ma nell’ottobre dello stesso anno, muore prematuramente in un tragico incidente. Scultore, scenografo, performer, Pascali ha saputo coniugare in modo geniale e creativo forme primarie e mitiche della cultura e della natura mediterranee con le forme infantili e ironiche del gioco, precorrendo l’Arte Povera, la Body Art, l’arte concettuale degli anni settanta.
Toti Scialoja abbandonati gli studi di giurisprudenza, nel 1937 si dedica esclusivamente alla pittura. Nel 1939 espone alla III Quadriennale di Roma e nel 1941 tiene una personale alla Società Amici dell’Arte di Torino. Prende parte attiva alla Resistenza e lavora anche per il teatro, realizzando nel 1943 le sue prime scenografie. In contatto con la cultura artistica europea, sperimenta una ricerca di matrice neo-cubista e, dopo il viaggio negli Stati Uniti nel 1956 si concentra sul colore, la materia e il gesto. Numerose sono nel frattempo le sue partecipazioni a importanti rassegne sia nazionali che internazionali. Partecipa alla Biennale di Venezia del 1964. Gli anni settanta segnano un periodo di scarsa operosità artistica, che riprende nuovamente dal 1983. Oltre che pittore Scialoja è stato poeta, scrittore, scenografo e docente all’Accademia di Belle Arti di Roma, di cui fu direttore per un lungo periodo
 
Kursaal Santalucia di Bari 
Pino Pascali e Toti Scialoja. Confluenze
dal 9 Novembre 2024 al 4 Maggio 2025
dal Giovedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 13 .00
e dalle ore 17.00 alle ore 20.00  ( Ingresso Gratuito )
dal Lunedì al Mercoledì Chiuso
 
Foto Allestimento Mostra Pino Pascali e Toti Scialoja Confluenze Kursaal Santalucia di Bari  dal 9 Novembre 2024 al 4 Maggio 2025 credit © Barbara Rigon