Giovanni Cardone Novembre 2023
Fino al 4 Febbraio 2024 si potrà ammirare a Palazzo Strozzi Firenze la mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal a cura di Arturo Galansino. Questa esposizione  ideata e realizzata insieme al celebre maestro che ha rivoluzionato l’idea di scultura nell’arte contemporanea propone un percorso tra monumentali installazioni, ambienti intimi e forme conturbanti, creando un originale e coinvolgente dialogo tra l’arte di Anish Kapoor, l’architettura e il pubblico di Palazzo Strozzi, è promossa e organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi. Main Supporter: Fondazione CR Firenze. Sostenitori: Comune di Firenze, Regione Toscana, Camera di Commercio di Firenze, Comitato dei Partner di Palazzo Strozzi. Main Partner: Intesa Sanpaolo. Con il contributo di Città Metropolitana di Firenze. Con il supporto di Maria Manetti Shrem e Fondazione Hillary Merkus Recordati. Si ringrazia Galleria Continua. La mostra si inserisce nell’ambito della Florence Art Week, iniziativa promossa dal Comune di Firenze in programma dal 28 settembre all’8 ottobre 2023. Attraverso opere storiche e recenti, tra cui una nuova produzione specificatamente ideata in dialogo con l’architettura del cortile rinascimentale, la mostra rappresenta l’opportunità di entrare in contatto diretto con l’arte di Kapoor nella sua versatilità, discordanza, entropia ed effimerità. Palazzo Strozzi diviene un luogo concavo e convesso, integro e frantumato allo stesso tempo in cui il visitatore è chiamato a mettere in discussione i propri sensi. Nell’arte di Anish Kapoor, l'irreale (unreal) si mescola con l'inverosimile (untrue), trasformando o negando la comune percezione della realtà. Ci invita a esplorare un mondo in cui i confini tra vero e falso si dissolvono, aprendo le porte alla dimensione dell'impossibile. Caratteristica distintiva è il modo in cui le sue opere trascendono la loro materialità. Pigmento, pietra, acciaio, cera e silicone, per citare solo alcuni dei materiali con cui lavora, vengono manipolati, scolpiti, levigati, saturati e trattati mettendo in discussione il confine tra plasticità e immaterialità. Il colore in Kapoor non è semplicemente materia e tonalità, ma diventa un fenomeno immersivo, dotato di un proprio volume, spaziale e illusorio allo stesso tempo. Le opere di Anish Kapoor uniscono spazi vuoti e pieni, superfici assorbenti e riflettenti, forme geometriche e biomorfe. Rifuggendo categorizzazioni e distinguendosi per un linguaggio visivo unico che unisce pittura, scultura e forme architettoniche, Kapoor indaga lo spazio e il tempo, il dentro e il fuori, invitandoci a esplorare i limiti e le potenzialità del nostro rapporto con il mondo che ci circonda e a riflettere su dualismi come corpo e mente, natura e artificio. Le sue opere suscitano stupore e inquietudine, mettendo in discussione ogni certezza e sollecitandoci ad abbracciare la complessità. In un mondo in cui la realtà sembra sempre più sfuggente e manipolabile, Anish Kapoor ci sfida a cercare la verità oltre le apparenze, invitandoci a esplorare il territorio dell'inverosimile e dell'irreale, untrue e unreal. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Anish Kapoor che è divenuta modulo monografico e seminario universitario apro il mio saggio dicendo : Per meglio comprendere lo sviluppo della poetica di Anish Kapoor a mio parere avere una visione più vasta della situazione dell’Inghilterra all’interno del panorama artistico dagli anni trenta del ‘900 . Nel 1931 il critico inglese Herbert Read scrisse, nel suo testo The Meaning of Art, «Possiamo dire senza esagerazione che l'arte della scultura è morta in Inghilterra da quattro secoli; ugualmente, senza esagerare, credo che possiamo affermare che rinasca nel lavoro di Henry Moore».  Le due tendenze europee di arte moderna riconosciute da Moore erano l’astrattismo e il surrealismo, tendenze che trovavano l’appoggio di un gruppo di artisti inglesi preoccupati di inserire l’Inghilterra all’interno di un contesto europeo: Unit One. La posizione della Gran Bretagna si caratterizza per oscillare da periodi di isolamento a periodi di apertura verso la cultura artistica straniera.
Negli anni ’30, nuovamente negli anni ‘60 e nei primi anni ‘70, gli artisti inglesi si muovono verso uno stile che si può definire internazionale ma questa disponibilità nell’accettare idee da fuori si combina col desiderio ricorrente di sposare queste influenze esterne con interessi nazionali. Questo atteggiamento è visibile nei pittori quali Graham Sutherland e Paul Nash. Sutherland si dedica principalmente a paesaggi ad olio, nel 1936 partecipa alla International Surrealist Exhibition a Londra, con opere che assorbono la corrente surrealista nella tradizione del paesaggio inglese. Nash diventa un promotore del modernismo in Inghilterra, contro il provincialismo e l’insularità, attraverso lo studio delle avanguardie europee quali surrealismo e astrattismo; annuncia la nascita del gruppo Unit One al “Times” nel 1933 e collabora con la rivista “Circle”, edita da Ben Nicholson, Naum Gabo e Leslie Martin. “Circle: An International Survey of Constructivist Art”, illustra la progressiva presa di coscienza degli artisti ed architetti inglesi e il loro desiderio di riconoscimento internazionale, grazie anche allo stimolo dei rifugiati in terra britannica come, appunto, Naum Gabo, Walter Gropius, László Moholy Nagy e Piet Mondrian. I toni ottimistici, quasi utopici, delle loro dissertazioni mirano a coinvolgere tutti gli aspetti della vita, cadono le divisioni tra le varie discipline artistiche tra pittura e scultura, tra ingegneria, scultura e architettura, attitudine che rappresenta in germe un atteggiamento artistico che prenderà piede nelle avanguardie successive. Gabo vuole cambiare l’approccio all’opera d’arte che deve essere vista come un puro oggetto plastico, pur rendendosi conto che il pubblico ricerca nell’opera le forme familiari che vede in natura. Come la musica si basa su sette note fondamentali, così l’arte dovrebbe essere compresa attraverso le forme geometriche semplici, ciò che esse significano da sole e il ritmo che generano le une con le altre. «Spazio e tempo», afferma nel Manifesto del realismo firmato a Mosca il 5 agosto del 1920, «sono le uniche forme su cui è costruita la vita e, quindi, anche l'arte deve essere costruita» . Gabo ha creato la forma dallo spazio stesso, non fissa e senza massa o volume, costruendo oggetti in materiali nuovi come plastica trasparente, acciaio inossidabile, vetro. Egli crede nelle responsabilità dell'artista che si esplicano nel promuovere un’idea di progresso nella società . Nel suo Manifesto del realismo , Gabo aveva lanciato le basi per la nascita del costruttivismo. Moore, Barbara Hepworth e Gabo intendono far entrare lo spazio e la luce nelle loro sculture, e questo rappresenta un’enorme rottura col passato . L’astrazione si pone in contrasto col naturalismo dell’arte sovietica. Il centro dell’arte astratta negli anni ’30 era stato Hampstead, frazione di Londra, ma durante la guerra gli artisti, tra i quali ricordiamo Terry Frost, Roger Hilton, Patrick Heron, William Scott e Alan Davie, si erano dispersi, rifugiandosi per lo più a St Ives in Cornovaglia, ritiro privilegiato fin dal 1880, dove il modernismo aveva trovato una culla grazie proprio alla migrazione di artisti che condividevano questa ricerca verso l’astrazione ispirata ai luoghi, al paesaggio e quindi alla natura locale. La luce, il bianco e l’astrazione purista del gruppo di St Ives non sopravvissero alla guerra. Moore e Hepworth erano ovviamente ancora in vita, ma altre idee stavano prendendo vigore nella capitale. Dopo la guerra la scultura si avvicina nuovamente alla figura umana, precedentemente denigrata. I nuovi artisti studiano le forme aperte dei loro predecessori e cercano altri materiali e tecniche per realizzare le loro opere. Le prime visite di Alexander Calder in Inghilterra pubblicizzano proprio l’utilizzo di nuovi materiali. La Gran Bretagna partecipa alla Biennale di Venezia nel 1952 con il suo padiglione, con un gruppo di rappresentanti della nuova sensibilità inglese, tutti nati tra il 1913 e il 1924, mentre Moore partecipa con una sola scultura posta al di fuori del padiglione. La mostra, intitolata New Aspects of British Sculpture, rappresenta un evento importante perché conferma una generazione di giovani scultori: Robert Adams, Kenneth Armitage, Reg Burtler, Lyn Chadwick, Bernard Meadows, Eduardo Paolozzi. In questo modo vengono conosciuti non solo in Europa, ma anche in America grazie all’interesse di figure carismatiche come Alfred H. Barr, il direttore del prestigioso Museum of Modern Art di New York. Herbert Read, che presenta la mostra nel catalogo, scrive che questi artisti ovviamente hanno imparato da Moore, ma che non si limitano ad essere semplici imitatori, è nella guerra che va ricercata la loro forza creativa: «Queste nuove immagini appartengono all'iconografia della disperazione, o della sfida; e quanto più l'artista è innocente, tanto maggiore è l’efficacia con cui egli trasmette la colpevolezza collettiva. Qui si vedono le immagini di volo, di scheggiati artigli che corrono attraverso il pavimento di mari silenziosi, di carne escoriata, di sesso frustrato, di geometria della paura»  . In relazione alla figurazione e la preferenza di questi scultori per il ferro saldato, Read descrive le loro figure come relitti ferrosi. Read puntualizza anche che essi eliminano la monumentalità, iniziano a lavorare i metalli in modo diretto e per lo più si caratterizzano per non aver un curriculum di studi artistici alle spalle. Britain’s new iron age è il titolo che Lawrence Alloway dà a un articolo che scrive nel 1953, nel quale tratta degli scultori dell’epoca: Reg Burtler, Lynn Chadwick, Bernard Meadows . Le origini di questa “geometria della paura”, come con i dipinti concorrenti di Francis Bacon, Lucian Freud e Graham Sutherland, possono essere ricondotte al dialogo fecondo tra Parigi e Londra nei primi anni dopo la Seconda Guerra Mondiale. Alla fine degli anni ‘50 e inizi ‘60 si vede riemergere una poetica costruttivista, supportata da un piccolo gruppo di lavoro. Un nuovo impeto è dato dalla pubblicazione di Art as the Evolution of Visual Knowledge del pittore e scultore Charles Biederman nel 1948 in America. Lo stile di Biederman si focalizza sulle forme, è un tipo di arte concreta che abbandona qualsiasi fattore d’illusione. L’artista, infatti, asserisce che poiché la fotografia ha ormai il predominio di registrare il mondo esterno con maggiore precisione rispetto alle altre forme d’arte, agli artisti non resta che avvalersi dell’inventiva. Victor Pasmore, che si era dedicato prima alla pittura, fu uno dei primi artisti ad abbandonare le rappresentazioni realistiche di Londra per dedicarsi all’astrazione. Questo è dovuto agli interessi dell’artista alla situazione artistica dell’America post-bellica e quello che succedeva in Europa. Il passo dall’astrazione alle forme geometriche è breve già nel 1951 assembla oggetti di legno, metallo e plastica. Attorno a Pasmore e alle scuole d’arte del Camberwell College e della Central School of Art, si riuniscono lo scultore Robert Adams, i pittori Kenneth e Mary Martin, Adrian Heath e Antony Hill. Il gruppo espone nell’estate del 1951 per la prima volta. In seguito si uniscono anche John Ernest e Stephen Gilbert, e la loro storia insieme culmina nel 1956 con la mostra This Is Tomorrow, dove gli artisti collaborano anche con alcuni architetti per creare un environment espositivo. Ci sono alcune differenze fondamentali rispetto al lavoro degli artisti americani: l’impiego del colore, ad esempio, a cui gli artisti inglesi si opponevano fermamente.  L’utilizzo da parte degli inglesi di sistemi matematici che li portano a creare forme concrete, artificiali, di là dall’astrazione del mondo naturale. La collaborazione con il mondo dell’architettura permette di sperimentare su larga scala; un esempio è la creazione dell’edificio che ospitò il Congress of the International Union of Architects, nel 1961. Heath e Adams si erano già allontanati dal costruttivismo ma Martins, Hill e una schiera di giovani adepti avrebbe continuato su questa strada, grazie anche a collaborazioni con la rivista “Structure” fondata dall’artista olandese Joost Baljeu che venne pubblicata dal 1958 al 1964. La posizione degli artisti inglesi rispetto agli sviluppi dell’arte americana si basava sulle rare opportunità di vedere le opere degli artisti americani in mostra in piccole gallerie. Il critico e curatore americano Lawrence Alloway ad esempio organizzò alcuni incontri all’ICA di Londra che presentavano alcuni espressionisti astratti. Risale al 1953 la mostra Opposing Forces, dove era presente, tra le altre cose, One  del 1950 di Jackson Pollock. Altrimenti, chi aveva la possibilità, poteva disporre di libero accesso alle opere attraverso le riviste o i giornali come “Life”, “Art News”, “Art in America” e “Arts”. La chiave di volta fu la mostra Modern Art in the United States: Selections from the collections of the Museum of Modern Art ospitata alla Tate Gallery di Londra dal 5 gennaio al 12 febbraio 1956, che esponeva gli artisti devoti all’espressionismo astratto: Arshile Gorky, Franz Kline, Willem de Kooning, Robert Motherwell, Jackson Pollock e Mark Rothko, per la prima volta esposti, in gruppo, in Inghilterra. «Quando si tenne presso la Tate Gallery la mostra di pittura americana , essa, in un primo tempo, fu accolta con limitato entusiasmo in Europa  negli anni successivi, tuttavia, lo sviluppo di quello che è stato definito espressionismo astratto ha fatto acquistare agli Stati Uniti un primato, che non aveva mai esercitato prima, sull'arte europea». L’impatto esplosivo della scuola americana sulla generazione di artisti inglesi è ben documentato; sia l’importanza del gesto, che l’astrazione audace rappresentarono una novità rispetto alla tradizione francese fino ad allora preminente. Anche la comunità di St Ives, lontana dal centro nevralgico di Londra, non rimase immune a questa nuova tendenza e si tramutò da colonia di pittori dediti al paesaggio pittoresco a mecca del modernismo artistico del ventesimo secolo. Patrick Heron, che apparteneva a quella generazione di artisti i cui lavori astratti risentono del dialogo tra tradizione europea dei maestri francesi e cultura americana, rispose con entusiasmo alla sfida lanciata dalla pittura americana: «Sono rimasto subito affascinato dalle dimensioni, dall'energia, dall'originalità, l'economia, e l'audacia inventiva di molti dei dipinti. Ritengo che la loro vacuità creativa rappresenti una scoperta radicale, come ha fatto la loro piattezza, o meglio la loro superficialità  adesso dobbiamo volgere il nostro sguardo con entusiasmo a New York come facciamo per Parigi per assistere ai nuovi sviluppi senza dimenticare i nostri, vorrei aggiungere» . Heron era a conoscenza dei lavori dei pittori astratti ancor prima della mostra del 1956, questo grazie ad un viaggio a New York nel 1953 e alla mostra Opposing Forces. Se durante gli anni ’30 e dopo la seconda guerra mondiale il modernismo aveva significato primato europeo di arte e design, dal 1956 la situazione si alterò a favore delle conquiste americane nell’ambito dell’avanguardia artistica. Questo spostamento fu sintomatico del nuovo equilibrio di poteri generati dal Piano Marshall, che condizionò la Gran Bretagna accentuando la sua dipendenza dagli Stati Uniti. Nonostante le riforme attuate dal primo ministro Clement Attlee per alleviare la situazione finanziaria inglese, infatti, il percorso per raggiungere la stabilità economica sarebbe stato lento. Come Serge Guilbaut afferma nel testo How New York stole the Idea of Modern Art l’ascendente della cultura americana su quella europea era sostenuta dalla ricchezza del paese. La dottrina di purezza artistica e astrazione perpetuato dai critici modernisti come Clement Greenberg, secondo Guilbaut, corrisponde perfettamente con gli ideali democratici di libertà e individualità, e basandosi su ciò che si evince dal testo, si può affermare che l'arte astratta americana abbia funzionato da emblema altamente politicizzato di una retorica anti-comunista. Per Guilbaut e altri, tra cui Eva Cockroft, Victor Burgin, e Max Kozloff, le mostre del MoMA come The New American Painting del 1958, sono stati dei veicoli di propaganda. L’atteggiamento di alcuni artisti inglesi, e in particolare di Heron, comunque, non si dimostra unicamente positivo nei riguardi dell’ascesa della tradizione americana, l’entusiasmo di quest’ultimo lascia spazio a una critica verso l’utilizzo dei colori e la composizione, specialmente in artisti come Pollock e de Kooning. Attacca l’espressionismo astratto accusandolo di sacrificare l’arte della pittura nella sua corsa verso la ricerca della soluzione estrema. Nel 1966 pubblica un articolo intitolato The Ascendency of London in the Sixties nel fascicolo di dicembre di “Studio International”, dove contesta la supremazia americana nella sfera artistica astratta. Heron in particolar modo dissente con il pensiero di Clement Greenberg riguardo alla paternità americana, e in particolar modo di New York, dell’espressionismo astratto. Contesta la poca attenzione di Greenberg alla pittura astratta inglese, che il critico considera unicamente una rassegna di paesaggi sotto mentite spoglie. Invece l’artista inglese elogia la complessità pittorica dei modernisti inglesi come la manifestazione di: «alcune risorse europee di sensibilità e istinto che contrastano straordinariamente con quelle dei pittori americani, che sembrano, al confronto, molto più dominate dal concettuale più assoluto, dal solo intelletto» . Egli cerca di dimostrare come, piuttosto che un passaggio a senso unico dall’America all’Inghilterra, si abbia assistito durante gli ultimi decenni a un vero e proprio scambio di influenze tra le due nazioni. Egli asserisce anche che il movimento astrattista americano abbia portato alla sterilità, fondandosi principalmente sulle facoltà intellettuali, e che l’arte per esistere necessiti di un equilibrio tra intelletto e intuizione. L’aspetto più emotivo dell’espressionismo astratto lasciò infatti, progressivamente il posto a interessi più laconici l’artista Richard Smith, ad esempio, inizia a combinare le teorie dei mass media e dei sistemi di comunicazione con le tendenze del modernismo americano, il tutto condito da un atteggiamento distaccato e a tratti ironico che prelude alla poetica pop. In Inghilterra si andò diffondendo progressivamente, come negli Stati Uniti, una poetica “popolare”, di cultura di massa, che abbracciò come soggetto favorito il linguaggio promosso dalla pubblicità e dai media. La mostra This is Tomorrow si tiene nel 1956 a Londra. L’esposizione era organizzata dagli interessi comuni dei membri dell’Independent Group, che occasionalmente s’incontravano all’Institute of Contemporary Art (ICA) di Londra. L’euforia dell’arte Pop, anche quando è caratterizzata da toni di presa in giro questo avviene nel1956 tutto si concentra in un collage colorato le due attrazioni del momento: la tecnologia moderna e la cultura dei mass-media. Molte delle lezioni e discussioni tenute dall’Independent Group riguardarono proprio i metodi di comunicazione. Hamilton nel suo lavoro si diverte nell’esaminare l’efficacia dei simboli e lo slittamento dei significati che è causato proprio dall’uso ironico dei moderni metodi di riproduzione. Quello che ha unito i diversi membri dell’Independent Group con la seconda e terza ondata pop, entrambe emerse dal Royal College di Londra, è stata una linea comune di pensiero: l’arte pop, così come il dadaismo prima di essa, aveva espanso i confini dell’arte, era stata un deliberato affronto al gusto comunemente condiviso. L’etica degli anni ’60, con la sua enfasi sul consumo e sul consumatore, la moda e l’innovazione, si concentrava sulla vita urbana. Le città erano diventate la fonte e il centro vitale di questa esperienza, pochi paesaggi furono dipinti in questo decennio che era chiaramente interessato più all’artificio che alla natura. L’arte degli anni ‘60 esplorò anche le limitazioni della superficie pittorica: la op art, ad esempio, si concentra sulla distruzione della superficie per opera dell’illusione ottica. Colori e motivi vengono composti in modo da creare movimento, non sulla tela ma nella retina dell’osservatore. Bridget Riley inizia a lavorare unicamente sul bianco e nero, per poi approdare a una gamma più estesa di pigmenti, costruendo delle immagini caratterizzate da un forte rigore geometrico. Principalmente l’artista sfrutta il modo in cui l’immagine di una striscia colorata possa influenzare quella successiva. Guardati da una certa distanza, infatti, i suoi dipinti sembra che contengano molti più colori di quelli che in realtà sono presenti. Le strisce provocano delle vibrazioni e ritmi intersecati che creano interessanti motivi visivi. Una volta che l’immagine è divenuta instabile l’arte stessa, inizia a muoversi, diventa “cinetica” . In questo momento i confini tra pittura e scultura si fanno più labili, con tele modellate da oggetti e sculture che si appropriano di richiami ottici e del colore. Negli Stati Uniti Frank Stella realizza intorno al 1960 le sue prime shaped canvas, che per via del loro spessore poco tradizionale risultano essere quasi dei veri e propri oggetti, opere a tre dimensioni. Donald Judd afferma, a riguardo della tensione che si viene a creare nello scarto tra lo spazio fisico dell’opera scultorea e lo spazio fittizio che crea la pittura le tre dimensioni sono lo spazio reale. Ciò elimina il problema dell’illusionismo e dello spazio inteso in senso letterale, dello spazio che contiene o è contenuto, nei segni e nei colori, il che vuol dire che ci siamo liberati di uno dei residui più imbarazzanti e inaffidabili lasciati in eredità dall’arte europea. Le molteplici limitazioni della pittura non esistono più. Un’opera può essere forte quanto si vuole che sia. Lo spazio reale è intrinsecamente più potente, più specifico che qualsiasi pigmento spalmato su una superficie piana . Sono opere che possono assumere forme disparate e ricorrere a materiali differenti; a differenza dei quadri tradizionali, infatti, s’inseriscono direttamente nello spazio dell’osservatore senza aprire passaggi verso mondi “altri” come faceva la pittura tradizionale. Le forme sono semplificate, sono liberate da quel senso di mistero, d’interiorità e pathos, per cui adesso la percezione del loro significato è più diretta. L’idea che associa la pittura alla scultura, la scultura all’architettura e l’introduzione del colore diventano i motivi di studio dell’opera di Anthony Caro, artista inglese che fa da pioniere a questo cambiamento. La conferma della priorità del senso della vista su quello del tatto deriva dalla posizione che viene ad assumere l’architettura nel mondo dell’arte. Il volume deve essere compreso dando uno sguardo generale all’opera e allo spazio circostante, non toccandola.
Le sue prime sculture in ferro sono realizzate nel 1960 dopo il suo ritorno in patria da New York. In seguito ai consigli dell’amico, il critico americano Clement Greenberg, Caro rifiuta di continuare a modellare la creta a favore del ferro saldato e composto in modo diretto e impersonale in unità. Il suo intento è di scardinare la scultura, allontanandola dall’estetica più rarefatta della tradizione, collocandola nel mondo reale. Per ottenere questo, elimina il piedistallo e lavora direttamente a terra, nello spazio dello spettatore. Nonostante le sue creazioni siano astratte, si rapportano alle esperienze più prettamente corporee per via del senso di pesantezza, compressione, equilibrio, etc. Rifacendosi al suo esempio, anche grazie alle lezioni impartite da Caro in seguito all’accettazione della cattedra alla St. Martin’s School of Art di Londra, un gruppo di scultori che espose alla Whitechapel Art Gallery nel 1965 prende vita. L’etichetta che acquistarono fu quella di New Generation. Ciò che li caratterizza è una ricerca della modernità e una forte emulazione delle tecniche di costruzione moderne, quindi dell’ambiente architettonico. La “nuova generazione” è anche influenzata dalla psicologia della gestalt, che considera l’opera nella sua totalità, alla luce dei suoi elementi globali, concentrandosi sull’analisi dei particolari solo in un secondo momento. Seguendo questo principio logico, l’opera deve essere immediatamente riconoscibile ed esplicita e la sua forma semplice e comprensibile. Quest’atteggiamento porta allo sviluppo del minimalismo, un movimento che inizialmente prende piede in USA dal 1960, e rappresenta un inspessimento ulteriore dei caratteri dell’astrattismo: le sculture sono ripetizioni identiche di unità, si utilizzano materiali industriali che sono deliberatamente inespressivi e infine si perpetua un totale abbandono delle qualità estetiche tradizionali. In Gran Bretagna nonostante questo movimento sia conosciuto e i suoi principi analizzati, non si viene mai a creare un gruppo di artisti o una scuola minimalista prettamente inglese. Ciò nonostante durante gli anni ’70 si producono alcuni lavori che si possono definire latentemente “minimalisti”. Le opere di Bob Law, Peter Joseph e Alan Charlton, ad esempio, danno enfasi alla progressione seriale di forme geometriche ripetute. La mostra dei minimalisti americani che nel 1969 esposero alla Tate in The art of the Real conferma ancora una volta la posizione inglese di autonomia critica. La prima collettiva di artisti concettuali inglese si ha nel settembre del 1969, con la mostra When attituds become form, organizzata all’ICA, in sostanza una replica di ciò che era avvenuto alla Kunsthalle di Berna, dove l’esibizione si era tenuta in precedenza. La mostra inglese non ebbe molto successo, molti artisti per evitare l’utilizzo di strumenti convenzionali decisero di esporre fotografie, video, mappe, diagrammi, ma senza una consistente profondità concettuale. Nel 1969 è da ricordare anche la pubblicazione del primo numero del giornale “Art and Language”, fondato dagli artisti Terry Atkinson e Michael Baldwin, che si occupano di definire meglio il ruolo del linguaggio all’interno del mondo dell’arte, poiché fondamentalmente l’arte concettuale è, secondo le parole del musicista Henry Flynt, “un’arte il cui materiale sono i concetti, così come il materiale della musica è il suono. Poiché i concetti sono strettamente legati al linguaggio, l’arte concettuale è una forma d’arte che ha come materiale base il linguaggio” . Questo principio espresso da Flynt, amico di John Cage e membro di Fluxus, pronunciato nel 1961 contribuisce a definire un progressivo processo di smaterializzazione dell’oggetto d’arte per cui nel processo di creazione diventa essenziale unicamente l’idea. Il gruppo di artisti che cresce intorno alla rivista “Art and Language” lavora su basi fortemente teoriche. Per applicare le loro teorie all’arte sfruttano il dialogo, la didattica, i processi comunicativi. Il carattere di ripetizione seriale si manifesta nell’utilizzo di mezzi come la fotografia, che permette di riprodurre l’immagine all’infinito svuotandola dell’aura dell’opera d’arte unica, ma anche di registratori, indici, etc. Si va a definire anche una progressiva tendenza a delegare la realizzazione dell’opera a terzi, per cui essa viene progettata in studio ma eseguita altrove, da artigiani esperti. L’opera d’arte è unicamente un prodotto finito. Sotto la definizione del movimento concettuale, la scultura perde i suoi attributi tradizionali e si differenzia in una gamma diversificata di attività che includono anche la performance. Nel 1978 due mostre segnano la nuova fase di interesse sociale dell’arte: Art of Whom promosso dalla Serpentine Gallery e Art and Society della Whitechapel Art Gallery. Verso la fine degli anni ’70 anche il movimento femminista inglese si va definendo sempre più. La caratteristica che sembra dominare però all’interno del panorama inglese, specialmente per quello che riguarda le avanguardie contemporanee, è che manchi un unico stile o percorso di idee dominante. La ricerca individuale ha la precedenza sull’impegno collettivo. Dal momento quindi che la pratica artistica non era più definita da un’evoluzione lineare, il termine postmodernismo viene utilizzato a indicare la tendenza a riportare alla luce ciò che era stato soppresso dal modernismo: l’interesse per la narrazione, il mito, la tradizione, l’espressionismo e il primitivismo. Anish Kapoor durante la sua prima permanenza nell’isola britannica, che avviene a partire dal 1973, aderisce al movimento New British Sculpture, nome dato al lavoro di un gruppo di artisti, principalmente scultori, tra cui Tony Cragg, Richard Deacon, Stephen Cox, Barry Flanagan, Antony Gormley, Shirazeh Houshiary, Alison Wilding e Bill Woodrow. Iniziano a esporre insieme attorno al 1980- 1981 e alcuni di loro vengono scelti a partecipare alla mostra Objects and Sculpture, alla galleria Arnolfini a Bristol e allo ICA di Londra. Nel 1982 Cox, Cragg, Deacon, Gormley, Kapoor, Wilding e Woodrow espongono alla Biennale di San Paolo, Brasile. Il fatto che gran parte di essi sia stato rappresentato dalla stessa galleria ne ha rafforzato l’identità comune. Diverse mostre presentano questo gruppo a confronto della generazione precedente solitamente identificata nelle figure di Michael Craig Martin, Ian Hamilton, Bruce McLean e David. Se si ragiona volendo identificare questi artisti secondo i curricula di studi si nota che un cospicuo numero di essi frequenta la Royal Academy: Richard Wentworth, Alison Wilding, Tony Cragg e Richard Deacon, rispettivamente tra il 1966 e il 1977. David Nash, Bill Woodrow, Shirazeh Houshiary, vanno alla Chelsea School, i primi due nei primi anni ’70, gli altri verso la fine. Il dipartimento di scultura del Royal College attraversa un momento di sperimentazione proficua tra il 1968 e il 1975 gli artisti lavorano sull’idea di scultura nell’accezione di simbolo e metafora. Essi si relazionano con l’avanguardia internazionale degli anni ’70, e con altre culture e stimoli provenienti da fuori della Gran Bretagna stessa. Mantengono un interesse vivo per il materiale e il processo costruttivo dell’opera pur sviluppando quello un ritorno al soggetto. Le loro radici affondano nel dibattito che aveva riguardato i diversi modi di interpretare la scultura durante gli anni ‘60, attraverso la land art, l’arte processuale e le installazioni.  Questi artisti percepiscono la scultura quale oggetto, principio questo del lavoro di Caro e della New Generation Sculpture, come qualcosa che doveva essere osservato, messo in mostra. Innanzitutto li caratterizza l’enfasi per l’assenza di qualsiasi elemento umano, essi offrono una personale visione, più o meno ristretta, del mondo contemporaneo che spesso suggerisce una incapacità di controllare completamente gli eventi per cui l’oggetto diventa soggetto, parla direttamente allo spettatore, recita la sua performance visiva. La scultura inglese degli anni ottanta guarda al minimalismo, al pop, all’arte povera, così come alla tradizione, della storia dell’arte e della cultura tradizionale. Gli scultori si sono distaccati dall’interesse che gli artisti del decennio precedente avevano manifestato per il paesaggio e i suoi materiali, per affrontare invece i problemi legati alla città, al consumo, ai manufatti. La mostra Objects and Sculpture del 1981 all’Institute of Contemporary Arts, di Londra e alla Arnolfini Gallery in Bristol espose, tra gli altri Tony Cragg, Bill Woodrow, Richard Deacon e Kapoor, artisti che, appunto, vogliono riavvicinare la scultura inglese alla cultura urbana. Prendiamo ad esempio i temi trattati da Woodrow in Car Door, Armchair and Incident  del 1981. L’iconografia è quella della vita urbana, la narrazione sembra quasi sospesa, come se ci trovassimo di fronte ad una scena del crimine appena compiuto all’interno di una vettura, per cui vediamo gli effetti dello sparo che letteralmente lanciano pezzi del sedile, e quello che pare sangue, sulla parete adiacente. In effetti non c’è né sangue, né vittime, nessuna storia o fatto di cronaca, solo lo smembramento dei pezzi di una vettura e di una poltrona ricomposti a dare l’illusione del contesto tragico. Sta all’osservatore ricomporre il puzzle e rendere espliciti i dettagli che l’artista mette in scena. Dopo aver sperimentato con vari tipi di performance, installazioni e opere più o meno concettuali, Kapoor, Nash, Woodrow tornano all’oggetto ma lo privano del superfluo. Le opere non sono metafore o allusioni a qualcos’altro, la loro non è un’arte autoreferenziale, intimista, ma permette allo spettatore di partecipare allo stimolo che suscita. Queste sculture partono da una base concettuale ma presentano uno slittamento verso il reale. Wentworth viene così descritto nelle parole di Fenella Crichton: «Con grande precisione Wentworth dà alle cose una forma semplice ma intrinsecamente poetica che permette loro di parlarci, non solo con il linguaggio dell'arte, ma anche circa il mondo in cui viviamo» . Cragg aggiunge: «Personalmente, a metà degli anni settanta, la questione cruciale è diventata quella di trovare un contenuto, e da questa ricerca è nata l'idea che esso potrebbe evolversi attraverso un approccio più formale al lavoro» . Dal 28 maggio 1988 al 4 settembre 1989 la Tate Gallery di Liverpool ha ospitato la mostra Starlit Waters: British Sculpture 1968-1988. La mostra focalizzava la sua attenzione sul gruppo di artisti inglesi, per la maggior parte scultori, che emersero dal panorama artistico dalla fine degli anni ’70, primi decenni degli anni ’80. I soggetti differivano sostanzialmente dalle sculture metalliche degli anni ’60, anche se fondamentalmente il progetto s’inseriva nella tematica circa la natura e il significato della scultura dibattuto in quegli anni. Gli scultori che parteciparono a Starlit Waters erano diciotto in tutto, alcuni di loro giunti in Gran Bretagna per studiare e rimasti per proseguire la carriera artistica, altri inglesi di nazionalità ma residenti all’estero; quello che li univa non è uno stile ma un intento comune. La mostra rappresentava una sorta di retrospettiva storica di quegli artisti associati al Vocational Sculpture Course tenuto da Frank Martin alla St Martin’s School of Art di Londra alla fine degli anni ’60 (Bruce McLean, Barry Flanagan, Richard Long, Hamish Fulton, John Hilliard) e quegli scultori associati alla galleria Lisson che vi espongono dal 1980 Tony Cragg, Richard Deacon, Shirazeh Houshiary, Anish Kapoor, Richard Wentworth, Bill Woodrow. Oltre a questo la mostra sembrava essere un tributo al ruolo essenziale che ha giocato il lavoro di John Latham, Ian Hamilton Finlay, Michael Craig-Martin e Art and Language. Il gruppo di artisti che va a definire la nuova scultura degli anni ’80 inglesi si evolve nel tempo anche grazie all’esperienza formativa particolarmente favorevole di ciascuno dei membri. Il contributo delle scuole d’arte in Inghilterra peraltro è fondamentale, dal momento che gli stessi accademici sono molto spesso loro stessi degli artisti. Oltre a questo la pratica diffusa di invitare professionisti stranieri a tenere lezioni occasionali è utile a mantenere gli studenti aggiornati delle ultime tendenze: «La scuola d'arte è unica nel settore dell'istruzione superiore britannica. Si incoraggia un atteggiamento di apprendimento attraverso prove ed errori, attraverso un’esperienza fatta giorno per giorno, piuttosto che attraverso l'istruzione»  . Gli artisti della generazione di Kapoor in particolare hanno avuto accesso tramite mostre e attraverso questa struttura di rapporti tra mondo dell’arte e scuola, che definisce la situazione inglese del periodo, ai loro diretti predecessori, come Richard Long, Gilbert e George, Barry Flanagan e Bruce McLean. Proprio nelle aule della St Martin’s School of Art, dove questi ultimi avevano studiato nella fine degli anni ’60, si era aperto il dibattito su cosa dovesse significare la scultura, poi protrattosi negli anni ’70 grazie anche all’ausilio delle riviste d’arte . Due mostre sono sintomatiche delle due principali tendenze. La prima, The New Art, del 1972, curata da Anne Seyrmour per l’Hayward Gallery, raggruppa circa una dozzina di artisti che nella loro carriera si erano dedicati anche alla scultura ma che non si ritengono necessariamente scultori di professione: Flanagan, Gilbert e George, Craig Martin, Long. Nel catalogo della mostra, la Seyrmour specifica che nonostante l’utilizzo di materiali disparati nella realizzazione delle opere, questi sono meno importanti dell’idea che sta dietro l’opera. L’affermazione inserisce il lavoro di questi artisti all’interno di un fenomeno internazionale e lo fa seguendo due vie: la prima è quella che riconosce in determinate discipline come la filosofia, l’antropologia, la cibernetica, le basi per analizzare il mondo. La seconda è quella che vede nell’utilizzo di materiali a portata di mano il segreto per ottenere un risultato finale di spessore artistico che non sia ristretto e definito da un rigido formalismo. Tre anni dopo si tiene The Condition of Sculpture, sempre alla Hayward Gallery, questa volta curata dal critico William Tucker, che definisce la scultura tridimensionale, autosufficiente, soggetta alla gravità e rivelata dalla luce, per cui il soggetto si definisce in primo luogo attraverso la nozione di forma. Uno degli aspetti che durante questa ricerca ha stimolato il mio interesse è stato riuscire a comprendere quali siano gli stimoli percettivi e gli intenti formali dell’artista. Attraverso una serie di similitudini morfologiche riscontrate nell’analisi delle diverse opere da lui realizzate nel corso degli anni, sono arrivata alla conclusione che Kapoor si muova attorno ad un insieme di argomenti estetici e filosofici, che ricorrono nel suo lavoro, che attivano e invocano un approccio illusionistico alla realtà. Se il fine dell’arte è quello di dilatare la percezione in modo da comprendere meglio lo spazio che ci circonda, è lecito domandarsi, come nel mio caso, cosa questi oggetti stiano cercando di comunicare. La mia ricerca, nel definire il percorso estetico dell’artista, che attraversa tempi e luoghi disparati, si è accostata al pensiero di filosofie orientali che mi hanno aiutato a comprendere meglio il background culturale da cui l’artista proviene. Esse, successivamente, si sono poi andate ad amalgamare con quella che era la tradizione di pensiero europea, che ha visto inserirsi Kapoor in un processo rivolto a definire un rapporto sempre più stretto tra l’opera e il fruitore e la sua percezione. La poetica di Kapoor è stata spesso interpretata come affiancata alla corrente di pensiero minimalista, anche se manca una argomentazione vera e propria riguardo a questa affermazione all’interno della critica sull’artista indiano. Sappiamo che l’enfasi data dai minimalisti ad eliminare qualsiasi segno di autorialità dall’opera d’arte ha portato inevitabilmente a ritenere che il significato di quest’ultima non si trovasse più all’interno bensì in superficie, e di conseguenza questo ha portato a rivalutare lo spazio fisico in cui l’opera risiede. Sappiamo anche per certo che Robert Morris e il critico Michael Fried abbiano letto il testo di Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, e che siano venuti a contatto quindi con le analisi sul corpo, il movimento e l’orientamento nello spazio del filosofo francese. Se è lecito interpretare questo testo come strumento teorico per comprendere la poetica minimalista, è possibile allora affiancarlo anche all’evoluzione artistica di Kapoor, che una volta giunto in Inghilterra ha assimilato il contesto artistico degli anni ‘70 inglesi al bagaglio di nozioni estetiche legate all’India e alle sue tradizioni. Il pensiero di Merleau-Ponty è stato associato al visibile e sopratutto alla pittura per via delle sue analisi su Paul Cezanne e Paul Klee, ma le sue affermazioni ritengo possano essere trasposte anche al panorama che interessa la mia ricerca più da vicino. Egli dà infatti molta importanza alla territorialità primordiale del corpo che viene prima del pensiero: noi arriviamo a conoscere noi stessi, e il mondo attorno a noi, in relazione ai nostri corpi. È proprio il corpo che tiene in vita lo spettacolo del visibile. «Essenza ed esistenza, immaginario e reale la pittura confonde tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di rassomiglianze efficaci, di significazioni mute». Nel caso di Kapoor non si tratta essenzialmente di pittura, ma ritengo che con la mia analisi abbia dimostrato che la sua arte ha come presupposto proprio quello digiocare con la percezione che abbiamo del nostro corpo, e del mondo circostante. Il soggetto deve necessariamente relazionarsi all’arte in una maniera corporale piuttosto che prettamente visuale. L’artista, mettendo in discussione le nostre certezze, o espandendo i nostri sensi in maniera inaspettata, ci suggerisce di non fermarci alla superficie visibile dell’oggetto bensì di scardinarla per scoprire uno spazio nuovo, lo spazio del possibile. La nostra relazione col mondo, in effetti, si esplica proprio nel rapporto tra vedente e visibile. Abito il mondo, e esso abita in me, perché trova nel mio corpo e nel mio sguardo lo spazio per realizzarsi. Kapoor presenta questo connubio di vedente e visto soprattutto attraverso la trasposizione in opere di specchio, dove la nostra visione si attua attraverso il movimento del nostro corpo e, mentre guardiamo, abbiamo la consapevolezza di esser guardati a nostra volta: siamo riflessi nello specchio, e oggetto dello sguardo anche di altri osservatori. Ma l’artista offre al nostro sguardo anche qualcos’altro. «Il senso è invisibile, ma l’invisibile non è il contrario del visibile: l’invisibile è la contropartita segreta del visibile, non appare che in esso e ogni sforzo per vederlo lo fa scomparire, ma esso è nella linea del visibile, né è il fuoco virtuale» . Esso rimanendo sulla soglia del visibile non è mai pienamente raffigurabile o comprensibile, eppure l’artista indiano non ha creato semplicemente degli oggetti, ma ha avviato il loro prendere corpo nella visione, suggerendo la presenza di qualcosa di intangibile. La visione si attua in questo movimento in avanti, nel suo divenire. Per questo ritengo che all’interno della poetica di Kapoor rimanga fondamentale il concetto di autogenerazione, perché il fruitore non deve rapportarsi con l’opera, bensì col “farsi” dell’opera. La percezione, come caratteristica dell’essere al mondo è «una specie di diaframma interno che  determina ciò verso cui i nostri riflessi e le nostre percezioni potranno dirigersi nel mondo, la zona delle nostre operazioni possibili, l’ampiezza della nostra vita» . Quando il fruitore si muove intorno ad un’opera di Kapoor, agisce all’interno dello spazio e in un certo senso lo definisce attraverso le sue azioni. Lo spazio si configura grazie al suo movimento, e il suo corpo si prolunga nello spazio stesso, disegnando rapporti con l’oggetto e con gli altri. Se la mia interpretazione della percezione dello spazio secondo Merleau-Ponty è giusta, ossia è essa espressione del nostro essere nel mondo, attraverso la relazione tra il nostro corpo e il mondo stesso, allora anche il lavoro di Kapoor sembra funzionare su di un piano altrettanto sensoriale dell’esperienza umana. L’artista, parlando di alcune sue opere, tra cui Memory, dice: «uno torna sempre a un simile insieme di problemi circa la reazione del nostro corpo con le cose nello spazio. Questi progetti sono rischiosi ma anche molto interessanti, dal momento che nessuno sa mai veramente cosa può accadere». Ciò che ne ho tratto è la percezione che le mie sensazioni, normalmente localizzate nel mio corpo, siano state momentaneamente trasposte altrove. La prospettiva di localizzare le mie sensazioni nel corpo di qualcun altro, o in un oggetto inanimato o spazio vuoto non è così incoerente, e ricordo di esser rimasta affascinata dalla consapevolezza di perdere il senso di proprietà del mio corpo, o ancora meglio di identificazione, come se non mi riconoscessi più nella mia stessa pelle di fronte alla superficie convessa riflettente di questo enorme organismo alieno. Solo attraverso il senso del tatto, una volta avvicinatami alla scultura, e quindi insieme al movimento del mio corpo, ho riacquistato coscienza di esso. La mia lettura del lavoro di Kapoor è stata incentrata d’altro canto, proprio sulla ricerca di questo processo di costruzione della percezione corporea.
La Mostra
Anish Kapoor. Untrue Unreal si sviluppa negli spazi di Palazzo Strozzi tra le sale del Piano Nobile e il cortile rinascimentale, in un viaggio attraverso la variegata pratica artistica di Kapoor, che mette in discussione le nozioni di forma e informe, finzione e realtà. Al centro del cortile si erge Void Pavillion VII (Il padiglione del vuoto VII, 2023), nuova opera di Anish Kapoor specificatamente ideata per il cortile di Palazzo Strozzi e realizzata grazie al sostegno della Fondazione Hillary Merkus Recordati. Il grande padiglione si pone allo stesso tempo come punto di partenza e di approdo nel dialogo tra l’arte di Kapoor e Palazzo Strozzi. Entrando in questo spazio, i visitatori si trovano di fronte a tre ampie forme rettangolari vuote in cui lo sguardo è invitato a immergersi, in un’esperienza meditativa su spazio, prospettiva e tempo, che sconvolge la razionale struttura geometrica e l’emblematica armonia dell’edificio rinascimentale. Al Piano Nobile la mostra inizia con l’iconica opera Svayambhu (2007), termine sanscrito che definisce ciò che si genera autonomamente, corrispettivo delle immagini acheropìte cristiane non dipinte da mano umana. Il lavoro propone una riflessione dialettica tra vuoto e materia: un monumentale blocco di cera rossa si muove lentamente tra due sale di Palazzo Strozzi, plasmando la sua materia informe nel rapporto con l'architettura che attraversa. Quest’opera si pone in dialogo con Endless Column (Colonna infinita, 1992), che fa esplicito riferimento alla celebre omonima scultura di Constantin Brâncu?i. La colonna in pigmento rosso di Kapoor sembra oltrepassare i limiti del pavimento e del soffitto della sala, creando una sensazione di fisicità architettonica eterea, metafora del legame tra terra e cosmo. Su una diversa scala, ma con lo stesso effetto spaziale e architettonico, si pone To Reflect an Intimate Part of the Red (Per riflettere una parte intima del rosso, 1981), opera fondamentale nella carriera di Kapoor nella sua affermazione sulla scena internazionale come una delle più originali voci nell'arte contemporanea: un suggestivo insieme di forme in pigmento giallo e rosso che emergono dal pavimento, fragili, quasi ultraterrene ma potentemente presenti. In Non-Object Black (Non-oggetto nero, 2015) – caratterizzato dall’uso del Vantablack, materiale altamente innovativo capace di assorbire più del 99,9% della luce visibile – Kapoor mette in discussione l'idea stessa di oggetto fisico e tangibile, presentandoci forme che si dissolvono al passaggio dello sguardo. In questi lavori rivoluzionari e di forte impatto, Kapoor ci spinge a interrogarci sulla nozione stessa dell’essere, proponendo una riflessione non solo sull’oggettualità ma sull'immaterialità che permea il nostro mondo. Questa forte esperienza del non-oggetto continua in Gathering Clouds (Nuvole che si addensano, 2014), forme concave monocrome che assorbono lo spazio circostante in una oscurità meditativa. L’arte di Kapoor offre infatti un nuovo modo di vedere e pensare a come viviamo la "realtà", grazie al suo uso unico di forma e saturazione, in opere permeate da una profonda connotazione psicologica. La carne, la materia organica, il corpo e il sangue sono temi ricorrenti e fondamentali nella ricerca di Kapoor. Un’intera sala della mostra è dedicata a opere in cui l’artista si confronta con ciò che appare come un'intimità sventrata e devastata in una dimensione entropica e abietta del corpo. La grande scultura in acciaio e resina A Blackish Fluid Excavation (Scavo con fluido nerastro, 2018) evoca un incavo uterino contorto che attraversa lo spazio e i sensi dello spettatore. Nelle opere esposte a parete Kapoor unisce invece la pittura e il silicone dando origine a forme fluide che ci appaiono come masse viscerali, che sembrano pulsare di vita propria. Le strutture si contorcono, si espandono e si contraggono, proponendo un senso di movimento e di trasformazione continua, ma anche una forte sensualità tattile che emerge dall’interazione tra le sensazioni di morbidezza e solidità, organicità e linearità. Evocano queste suggestioni gli stessi titoli delle opere: First Milk (Primo latte, 2015), Tongue Memory (Ricordo della lingua, 2016), Today You Will Be in Paradise (Oggi sarai in paradiso, 2016), Three Days of Mourning (Tre giorni di lutto, 2016). La tradizionale nozione di confini e la dicotomia tra soggetto e oggetto sono temi centrali invece in opere specchianti come Vertigo (Vertigine, 2006), Mirror (Specchio, 2018) e Newborn (Neonato, 2019), ispirato ancora una volta alle sperimentazioni formali di Brâncu?i. Attraverso le riflessioni di queste opere, ciò che si specchia entra in una dimensione illusoria che sembra smentire le leggi della fisica. Queste grandi sculture, infatti, riflettono e deformano lo spazio circostante e lo ingrandiscono, riducono e moltiplicano, creando una sensazione di irrealtà e destabilizzazione e attirando lo spettatore nello spazio indefinito che emanano. Conclusione del percorso espositivo al Piano Nobile è la sala dedicata all’opera Angel (Angelo, 1990), grandi pietre di ardesia ricoperte da strati di pigmento blu intenso. Questi pesanti massi appaiono in contraddizione con il loro aspetto incorporeo: sembrano infatti solidificare l’aria e suggerire la trasformazione di lastre di ardesia in pezzi di cielo, trasfigurando così l’idea di purezza in un elemento fisico. Kapoor altera la forte materialità dell’opera ed evoca così un senso di mistero che risponde all’ambizione di matrice esoterica di raggiungimento della fusione degli opposti.
 
 
 
 
 
Anish Kapoor
Anish Kapoor è uno dei più influenti artisti del nostro tempo. Nato a Mumbai, in India, nel 1954, Anish Kapoor ha vissuto e lavorato a Londra a partire dalla metà degli anni Settanta studiando presso l'Hornsey College of Art e il Chelsea College of Art. Attualmente vive e lavora tra Londra e Venezia. Le sue opere sono esposte nelle più importanti collezioni permanenti e nei musei di tutto il mondo, dal Museum of Modern Art di New York alla Tate di Londra, alla Fondazione Prada di Milano, ai Musei Guggenheim di Venezia, Bilbao e Abu Dhabi. Recenti mostre personali si sono tenute presso: Galleria dell’Accademia e Palazzo Manfrin, Venezia (2022); Modern Art Oxford (2021); Houghton Hall, Norfolk (2020); Pinakothek der Moderne, Monaco (2020); Central Academy of Fine Arts Museum and Imperial Ancestral Temple, Pechino (2019); Fundación Proa, Buenos Aires (2019); Serralves, Museu de Arte Contemporânea, Porto (2018); Museo Universitario Arte Contemporáneo (MUAC), Città del Messico (2016); Reggia di Versailles, Francia (2015); Jewish Museum and Tolerance Center, Mosca (2015); Walter Gropius Bau, Berlino (2013); Sakip Sabanci Muzesi, Istanbul (2013); Museum of Contemporary Art, Sydney (2012). Anish Kapoor ha rappresentato la Gran Bretagna alla 44. Biennale di Venezia nel 1990, dove ha ricevuto il Premio Duemila. Nel 1991 ha vinto il Premio Turner e in seguito ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali. Noto anche per le sue opere architettoniche, tra i progetti pubblici che ha realizzato ricordiamo: Cloud Gate (2004), Millennium Park, Chicago, USA; Leviathan (2011) esposto a Monumenta 2011, Parigi; Orbit (2012), Queen Elizabeth Olympic Park, Londra; Ark Nova, sala da concerto gonfiabile creata per il Lucerne Festival in Giappone (2013); Descension (2014) installata al Brooklyn Bridge Park, New York, USA (2017); le fermate della metropolitana di Napoli (Traiano e Università-Monte S. Angelo) in completamento nel 2024. Il Catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal curato da Arturo Galansino edito da Marsilio editore.
 
Palazzo Strozzi Firenze
Anish Kapoor. Untrue Unreal
dal 7 Ottobre 2023 al 4 Febbraio 2024
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00