Giovanni Cardone Aprile 2024
Fino 21 Luglio 2024 si potrà ammirare a Palazzo Strozzi Firenze la mostra dedicata ad Anselm Kiefer. Angeli caduti a cura di Arturo Galansino. L’esposizione è promossa e organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi, in collaborazione con il Comune di Firenze, Regione Toscana, Camera di Commercio di Firenze. Fondazione CR Firenze, Comitato dei Partner di Palazzo Strozzi. Main Partner: Intesa Sanpaolo. Con il contributo di Città Metropolitana di Firenze. Con il supporto di Gagosian. Si ringrazia Maria Manetti Shrem e Fondazione Hillary Merkus Recordati. Una nuova grande mostra ideata e realizzata insieme a uno dei più importanti artisti tra XX e XXI secolo: un percorso fra lavori storici e nuove produzioni, inclusa una nuova grande opera creata in dialogo con il cortile rinascimentale. Una grande mostra concepita appositamente dall’artista che attraverso venticinque opere storiche  di recente produzione tra cui un lavoro immersivo composto da sessanta tele di dimensioni ci vuole raccontare come egli concepisce l’arte che nelle sue opere abbraccia pittura, scultura, installazione e fotografia. L’espressione “angeli caduti” indica gli angeli cacciati dal Paradiso a seguito della loro ribellione contro Dio. Quest’immagine simbolica, rappresentazione dell’intera umanità, diventa punto di partenza della mostra a Palazzo Strozzi: un viaggio attraverso allegorie, figure e forme che riflettono sull’identità, la poesia, le vicende storiche, i diversi pensieri filosofici. Utilizzando pittura, scultura, installazione e fotografia, l’arte di Kiefer propone un percorso di introspezione sull’essere umano, esplorando le connessioni tra passato, presente e futuro. Con l’uso audace di diversi materiali e tecniche, Kiefer crea lavori celebri per una forte presenza fisica e tattile, stabilendo una connessione immediata e autentica con lo spettatore. Profondamente interessato al loro valore alchemico, Kiefer trasforma materie grezze come piombo, cera, semi, terra, fiori, sabbia e cenere in opere imponenti e suggestive, fatte di dense stratificazioni. Utilizzando l’elettrolisi o il fuoco, ad esempio, i materiali sono sottoposti a reali trasformazioni fisiche. I diversi strati visivi, le sedimentazioni, offrono una lettura multipla, rivelando sempre nuovi dettagli e significati all’osservatore. Ogni produzione artistica di Kiefer esprime il rifiuto del limite, non solo nella monumentalità o nella materialità ma soprattutto nell’infinita ricchezza di risorse con le quali sonda le profondità della memoria e del passato. L’artista ha esordito nella scena tedesca alla fine degli anni Sessanta con opere che, tra le prime, hanno segnato una riflessione sulla storia della Seconda guerra mondiale e sull’eredità emotiva e culturale della Germania. Da qui è iniziato un percorso artistico in cui si uniscono mito, religione, misticismo, poesia, filosofia. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura Anselm Kiefer apro il mio saggio dicendo : E la seconda volta che vedo le opere di Kiefer e pensavo ad Emanuele Severino il quale evidenzia bene nel suo percorso la fine del mondo o meglio la fine dell’uomo : Ponendosi in contrapposizione al punto di vista tecnicistico, che tende a negare la possibilità che la filosofia si occupi della tecnica, la riflessione di Emanuele Severino intende sottolineare l'esistenza di una stretta connessione fra le due forme di sapere. La tecnica infatti è tanto più potente proprio quanto più ascolta la voce della filosofia del nostro tempo, che ha dimostrato l'impossibilità dell'esistenza di un ordinamento assoluto, assolutamente vero, lasciando così allo sviluppo tecnologico un universo in cui non esistono limiti inoltre passabili e inviolabili. Se la progressiva simbiosi fra pensiero filosofico e operatività tecnica determina così il balzo in avanti inarrestabile di quest'ultima, Emanuele Severino ha però posto l'accento sul problema cruciale della destinazione della società tecnologica, soprattutto in relazione all'uomo. La tecnica, infatti, costituisce lo strumento utilizzato dalle grandi forze che guidano la nostra civiltà per realizzare e affermare la propria concezione di uomo. In questo conflitto è però inevitabile che i confliggenti tendano sempre più ad aumentare la potenza dello strumento e a non intralciare il suo funzionamento. Quando questo accade allora lo scopo di questa forza diventa ciò che dapprima era il mezzo di cui essa intendeva servirsi. In questo modo l'uomo, che era lo scopo del marxismo, del cristianesimo, dell'illuminismo o della democrazia, per fare alcuni esempi, diventa ora mezzo, e in quanto tale muore. In questo senso Emanuele Severino parla di "morte dell'uomo", affermando però al contempo la coincidenza dell' "essenza della tecnica" con "l'umanità della tecnica". Se infatti si assume la definizione di uomo soggiacente alle diverse concezioni, come centro cosciente capace di organizzare i mezzi in vista della produzione di scopi, questa concezione di umanità trova il suo inveramento proprio nella tecnica, nella forza cioè oggi dominante per organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, o meglio ancora scopo essa stessa di questo meccanismo. In questo modo la tecnica oggi diviene quello che Dio era ieri, e cioè la potenza suprema alleandosi alla quale l'uomo si salva. È possibile, secondo Emanuele Severino, indicare un'ulteriore definizione di uomo alternativa sia a quella  delle ideologie che a quella della tecnica: una definizione che si ponga al di sopra della volontà di potenza che tecnica e Dio hanno in comune. E quello che fa Kiefer con le sue opere e con il suo linguaggio ovvero : la fine di cui ci occupiamo è la fine di un mondo, più o meno definibile, che ha ruotato intorno all’industrializzazione e ai suoi prodotti e che oggi possiamo chiamare Occidente. Questo mondo è oggi caratterizzato da cambiamenti sempre più rapidi e imprevedibili, messi in moto da azioni umane, che si manifestano nella forma di alterazioni del clima, perdita della biodiversità, degradazione del suolo, esaurimento delle risorse terrestri. In una parola questa situazione è stata definita Antropocene, un termine coniato negli anni ’80 da Eugene Stoermer , ma reso celebre solo nel 2002 da Paul Crutzen . Egli propose di introdurre l’Antropocene quale nuova era geologica che metterebbe fine all’Olocene, sulla base della definizione formulata e pubblicata per la prima volta insieme a Stoermer nel 2000 secondo la quale a partire dalla Rivoluzione industriale di fine XVIII secolo l’attività umana iniziò a modificare il funzionamento del Sistema Terra a causa delle emissioni di anidiride carbonica provocate dall’utilizzo di combustibili fossili. La nozione di Antropocene cerca di dare un nome a questi ultimi secoli di dominio dell’anthropos sulla natura, ma ha suscitato numerose critiche come vedremo più avanti. La stessa presunta data di inizio di questa nuova era geologica è questione di dibattito; è stato proposto di anticiparla all’epoca della comparsa dell’agricoltura nella Mezzaluna fertile intorno a 11 000 anni fa, o di posticiparla agli anni seguenti la fine della Seconda Guerra Mondiale, periodo definito Grande Accelerazione per via dell’intensificazione di alcuni processi caratteristici della modernità quali l’industrializzazione e l’urbanizzazione. La constatazione principale dei fondatori del concetto Antropocene riguarda la portata dell’azione umana la quale si è rivelata in grado di influenzare la composizione e le funzioni della sistema Terra: l’impresa umana moderna lascerà la sua traccia nelle rocce. A causa del grande impatto antropico sul funzionamento dell’ecosistema, assistiamo oggi alla presenza di numerosi processi i cui effetti potrebbero essere potenzialmente molto negativi per la vita della specie umana così come la conosciamo oggi. Questi processi, che comprendono il riscaldamento globale, l’acidificazione degli oceani, la desertificazione del suolo, la perdita della biodiversità ecc. potrebbero condurre verso una catastrofe climatica, mettendo l’umanità di fronte alla possibilità della sua fine. Tuttavia, ai fini del nostro discorso, verrà preso in considerazione il mondo occidentale, in quanto mondo culturale che, essendo portatore di quei modi di stare al mondo che rischiano di causare il collasso, risulta particolarmente soggetto alla possibilità di finire. La nostra intenzione è analizzare le modalità e le forme secondo cui tale finire è pensato, immaginato e rappresentato. Si tratta dunque della fine di una collettività, a causa dell’impossibilità di continuare ad abitare il mondo secondo la propria cultura e i modi finora utilizzati. Il più influente contributo per un discorso sulla fine del mondo, nell’accezione che interessa a noi ossia inteso come mondo culturale, è senza dubbio quello di Ernesto De Martino. Nel 1964, durante una delle poche presentazioni orali del suo progetto sull’analisi delle apocalissi culturali, pubblicato poi nell’opera postuma La fine del mondo, De Martino pone una questione accolta come provocatoria; dato che il convegno si svolgeva su questioni relative al mondo di domani, egli si fermò a riflettere anzitutto se quel mondo avrebbe avuto un domani, un futuro. Problema più che legittimo ed essenziale, per noi adesso, ma allora appariva alquanto inappropriato e apocalittico. Inoltre De Martino rende subito chiaro in che modo secondo lui il mondo, tale come lo si conosce, può finire; ciò che potrebbe venire meno è la possibilità della cultura, dunque la possibilità per un gruppo umano di ordinare il mondo e abitarlo, a causa della perdita di senso dei valori intersoggettivi sui quali lo stare al mondo proprio di una cultura si fonda; la possibilità che questa perduri dipende esclusivamente dalle scelte umane. De Martino distingue due sensi secondo i quali è possibile concepire la fine di un mondo culturale ordinato: «come tema culturale storicamente determinato, e come rischio antropologico permanente» . Nel primo senso la fine del mondo rientra nell’immaginario mitico di una comunità e si declina sulla base della visione del tempo e della storia propria di tale comunità. Nel secondo senso, la fine corrisponde al rischio, sempre presente, di «non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria secondo valori». Ora, la cultura, al fine di preservare se stessa, deve porsi come antidoto a tale rischio. Nelle parole di De Martino: « come il rischio radicale contro cui appunto la cultura si costituisce nella più specifica qualità di esorcismo solenne da rinnovare incessantemente». Nel nostro caso, la fine che prenderemo in considerazione maggiormente è intesa nel senso di rischio antropologico. La cultura occidentale contemporanea sembra aver dimenticato o tralasciato il suo ruolo fondamentale di esorcismo che scongiuri il rischio del crollo dell’ordine mondano. Tale cultura infatti, a partire dalla modernità ha intrapreso un percorso che rischia di condurla verso la propria fine, la quale rischia di essere definitiva, esperita come fine del vissuto e impossibilità di risanare il mondo. Prima di agire l’uomo antico avrebbe fatto sempre un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortale. Egli avrebbe cercato nel passato un modello in cui immergersi come in una campana di palombaro, per affrontare così, in pari tempo protetto e trasfigurato, il problema del presente. La sua vita ritrovava in tal modo la propria espressione e il proprio senso. La mitologia del suo popolo non era soltanto per lui convincente, aveva cioè un senso, ma era anche chiarificatrice, vale a dire dava senso. La mitologia è uno degli strumenti utilizzati dalle culture per svolgere la loro funzione protettrice nei confronti del rischio di apocalisse culturale. Per De Martino, il mito rappresenta una tecnica per uscire dalla storia, dal momento presente e dai problemi che esso comporta. «Il senso del mito è nella sicurezza che derivava dal suo tecnicismo, e così pure il senso delle cose che dal mito procede. Stare nella storia come se non ci si stesse» . Il mito svolge un ruolo di paragone, di esempio per l’azione e inoltre dona un orizzonte agli eventi e alla storia, portando l’attenzione e la riflessione sulle origini e sul senso del mondo. Nell’Occidente contemporaneo i miti sembrano essere stati dimenticati o aver perso la loro forza, a eccezione del mito del progresso quale strumento che giustifica il meccanismo capitalista senza però fornire un orizzonte di senso. L’assenza di miti impedisce per esempio la rigenerazione dell’ordine mondano esistente e la sua purificazione. La società occidentale non conosce più gli strumenti per uscire dalla storia e dal mondo dunque vi rimane intrappolata; nel momento della crisi quindi non sarà possibile alcuna operabilità mondana. Il progetto della collassologia, come vedremo, è in parte sulla stessa linea d’onda di quello di De Martino; porsi il problema della fine del mondo, il nostro, ha lo scopo di renderci consapevoli della possibilità che un giorno il mondo potrebbe subire delle trasformazioni considerevoli e i nostri schemi culturali potrebbero non essere più adeguati per orientarsi nel paesaggio circostante. Il vantaggio di prepararsi, innanzi tutto nel pensiero, a tale eventualità, sia singolarmente sia collettivamente risulta dal fatto che «coloro che si stanno preparando non troveranno la prova facile, ma hanno meno probabilità di essere schiacciati dalla crisi rispetto a coloro che rifiutano di pensarci». A causa dei cambiamenti climatici, in un prossimo futuro, un numero sempre crescente di persone sarà costretto a migrare abbandonando il proprio luogo di origine (Brown 2008). In uno scenario del genere possiamo immaginare che uno dei rischi principali per il singolo e per le comunità sia quello di non poter contare più sul proprio modello culturale perché la sua tenuta potrebbe non essere più assicurata. A questo seguirebbe dunque un senso di smarrimento, quando non addirittura una crisi della presenza come teorizzata già allora da De Martino che, se estesa alla collettività, assumerebbe la forma di apocalisse culturale. Sullo sfondo dei mutamenti climatici il tema della fine del mondo assume un nuovo aspetto, diventando sempre più reale, più empirico. Il rischio di una catastrofe generato dal cambiamento ambientale è il simbolo di un mondo che si confronta con il pericolo di perdersi, di finire senza la possibilità di rigenerarsi. De Martino all’epoca degli studi sulle apocalissi culturali raccolse numerosi documenti provenienti dalla letteratura e dalle arti figurative sul tema apocalittico; in questi campi si registrava infatti la fragilità della società moderna, in primo luogo nella forma del rischio di una guerra nucleare che apriva allora prospettive catastrofiche per il mondo occidentale che talvolta De Martino chiama “euroamericano”. Se nella storia dell’Occidente il tema della fine ha trovato posto in narrazioni mitiche, basti pensare al filone escatologico all’interno della tradizione ebraicocristiana, nella contemporaneità la fine non è più motivo di riflessione collettiva e tema di prospettive di salvezza. Da qui l’importanza di ritornare a pensare alla fine, soprattutto all’interno di una cultura quale quella occidentale che vive nel rischio concreto di apocalisse culturale che può sfociare in un bruto finire senza capacità di reintegrazione, data l’impossibilità della cultura di porsi come antidoto e di svolgere una funzione protettrice. Sulla base del latino collapsus, nel 2015 Pablo Servigne e Raphael Stevens introducono il termine collapsologie nel loro libro Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes per indicare una nuova ed essenziale branca di studi, interdisciplinare e non sistematica, per pensare il futuro prossimo del nostro mondo. La presa di coscienza dei dati circa la situazione climatica, caratterizzata da rapidi mutamenti, può provocare reazioni diverse a seconda del soggetto; reazioni che, quando si manifestano sottoforma di trauma (recentemente è stato introdotto il termine “climate despair”), devono essere lavorate, rielaborate. Alla luce dei dati, il futuro prossimo sulla terra, per noi occidentali, appare confuso e tale confusione rischia di generare ansia da fine del mondo catastrofica o apocalittica. La collassologia intende intervenire per pensare ed immaginare fin da subito in quale modo i mutamenti climatici e tutti i rischi ad essi correlati potrebbero condizionare e modificare il futuro che abbiamo sostanzialmente sempre immaginato uguale al nostro presente. I cambiamenti climatici, di origine antropica, hanno messo in moto delle reazioni e dei processi irreversibili i cui effetti, una volta superato il punto di non ritorno, risultano imprevedibili. Dato che tali processi interessano molteplici aspetti della vita, gli autori succitati hanno ipotizzato uno scenario di possibili numerosi effondrements, ossia collassi declinabili in ambito economico, politico, ecologico, alimentare ecc.. Il viaggio interdisciplinare di Servigne e Stevens prende avvio da un’analisi della civiltà occidentale contemporanea definita innanzi tutto come industriale. Per spiegarne la storia utilizzano la metafora di un’automobile che ha iniziato la sua corsa all’inizio dell’era industriale, mantenendo una velocità limitata fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando, all’improvviso ha iniziato ad accelerare (periodo che è stato appunto definito Grande accelerazione). Avendo proseguito la sua corsa ad alta velocità, attualmente la lancetta sul tachimetro della velocità sta vacillando e non sappiamo se si ristabilizzerà, se scenderà o se continuerà ad aumentare. Sappiamo però che la corsa dell’automobile incontrerà dei limiti, alcuni insormontabili, e dei confini che se attraversati la faranno uscire di strada, senza possibilità di rimettersi in carreggiata e continuare la sua corsa come prima. I limiti insuperabili per l’automobile, dunque per la nostra civiltà, sono rappresentati dall’esaurimento delle risorse non rinnovabili quali energie fossili e minerarie e dalla scarsità di risorse quali acqua, legname, cibo che, seppur rinnovabili, seguono dei ritmi che rischiano di essere compromessi dal nostro consumo predatorio.
I confini o le soglie che la civiltà rischia di oltrepassare sono rischiosi perché meno evidenti, dunque si corre il pericolo di superarli senza accorgersene; questi sono per esempio il clima, gli ecosistemi, i cicli del sistema Terra ecc., fattori che mantengono in equilibrio e permettono il funzionamento della civiltà termo-industriale, una civiltà sostenuta infatti dall’energia, quale fonte di movimento; e senza movimento questa società non potrebbe esistere. Attualmente l’automobile prosegue a velocità sostenuta ed è sul punto di uscire di strada, ma il volante è bloccato, la direzione non può essere cambiata; il viaggio è comunque confortevole, ma il prezzo da pagare per poter stare seduti tranquilli nell’abitacolo senza curarsi del paesaggio che scorre fuori dal finestrino non viene messo in conto. Intraprendere un discorso sulla fine in anticipo serve innanzi tutto per permetterci di reagire attivamente e non subire gli eventuali collassi che potrebbero condurre verso la fine dell’Occidente così come lo conosciamo. Non si tratta di essere pessimisti e attendere il peggio restando inattivi. Pensare la fine, immaginarla, deve servire soprattutto a progettare un nuovo inizio, ad essere pronti per il dopo. Non significa però nemmeno focalizzarsi solo sul futuro e abbandonare il momento presente, bensì decidere, sulla base della fine, quale nuovo senso dare all’oggi, agli eventi della vita che pur continua. Immaginare in anticipo l’eventuale fine o apocalisse culturale del nostro mondo è per noi un’esigenza urgente; anche se non possiamo prevedere in modo certo quale forma potrà assumere tale fine, ciò che importa è prendere in considerazione tale possibilità prima che essa si verifichi, poiché nel momento critico di crisi della presenza collettiva, molto raramente si riuscirà a inventare un’alternativa efficace al mondo che sta crollando. È particolarmente urgente perché giorno dopo giorno viene in mostra sempre più palesemente la fragilità del nostro mondo e la sua tossicità nei confonti degli umani che lo abitano. Ci riferiamo innanzi tutto ai dati circa il mutamento climatico, la cui causa è antropica, ma non dell’anthropos in generale, bensì di quel prodotto antropico che è la modernità occidentale, termoindustriale, capitalista, colonialista... Dunque uno dei tanti modi di vivere e costruire un mondo, il quale si sta rivelando fallimentare, sotto tanti aspetti, e autodistruttivo. Non sarebbe certo il primo mondo a finire, ma la sua fine rischia di essere esperita come fine definitiva del mondo. Ciò che è fondamentale sottolineare e comprendere è che il mondo che finisce è solo il nostro, e che tale fine non coinciderebbe con la fine di ogni mondo o della storia o del tempo. A lungo abbiamo escluso dal nostro pensiero la presenza di altri mondi credendo che il nostro fosse l’unico possibile ed esistente. Così facendo l’orizzonte del reale si è appiattito sull’orizzonte dei confini del nostro mondo. In questa prospettiva dunque la fine del nostro mondo sarebbe vissuta come il venir meno della possibilità di ogni mondanità e dunque lo sarebbe. L’intenzione è quindi intraprendere una metamorfosi verso un differente modo di fare mondo, prima che il cielo ci cada sulla testa (Kopenawa 2018) e nessuno più sia in grado di alzarlo di nuovo. Proprio il fatto di non poter sapere di preciso quando si verificheranno tali collassi ci dovrebbe spingere a reagire da subito, vivendo il presente in modo consapevole e preparandosi ad un futuro in cui abbiamo la possibilità di portare il meglio del nostro mondo, se solo ci prepariamo fin d’ora. L’immaginario dell’occidente contemporaneo è pieno di narrazioni sulla fine del mondo, per lo più di tipo apocalittico e catastrofico e quindi come in un circolo vizioso il nostro pensiero non riesce a immaginare una fine che non sia catastrofica, perché per troppo tempo non l’ha pensata. Ma quanto questo immaginario è condizionato dal mito del progresso su cui è fondata la nostra civiltà? Tale mito non prevede una fine, la crescita deve procedere ad infinitum. Quando non si riesce a trovare o a mettere in pratica un’alternativa a questo mondo, costruito su un unico mito che esclude ogni contraddizione, si abbandona la speranza e si attende la fine, considerata quale unica soluzione per ottenere un cambiamento, e immaginata però nella forma della catastrofe o dell’apocalisse. È arrivato il momento di impegnarsi ad immaginare una fine diversa, che sia un momento di passaggio e non un punto di arrivo o una brusca interruzione del nostro mondo. Prima che questa avvenga, nelle forme più varie che potrebbe assumere (potrebbe anche non accadere), occorre costruire narrazioni diverse da quelle catastrofiche, che la anticipino e ci rendano preparati ad accoglierla. Il mio discorso prende in considerazione seriamente la possibilità della fine della civiltà capitalista termoindustriale, con la consapevolezza che questa potrebbe assumere molteplici forme, anche imprevedibili. Qualunque sia la modalità di tale fine o effondrement, e ne discuteremo più avanti, riteniamo che tale fine debba essere considerata come un’opportunità, una possibilità di cambiamento radicale, che altrimenti, forse, sarebbe impossibile da attuare. In un certo senso per poter sopravvivere come specie e per non provocare l’estinzione di altre specie e della biodiversità in generale, dobbiamo abbandonare questo mondo, farlo finire. Prima ancora di impegnarsi nel progettare la vita del après-effrondement, occorre conoscere le cause che hanno portato a questa situazione, non tanto per cercare di frenare il collasso, ma innanzitutto per superare la paura e il trauma e ritornare a vivere. La notizia della fine del nostro mondo può esserci arrivata attraverso varie vie, poiché molti sono i segni, sparsi dappertutto, che da tempo ci mostrano le fragilità e i rischi del nostro modo di stare al mondo, se solo ci fossimo fermati un momento ad ascoltarli... Potrebbe per esempio esserci giunta nella forma della imminente catastrofe climatica. Dappertutto si parla di crisi climatica o crisi ecologica, ma raramente quei dati freddi sull’acidificazione degli oceani, sull’effetto serra o il riscaldamente globale sono in grado di giungere veramente all’uomo della strada, ai non addetti ai lavori. L’Occidente contemporaneo è costruito su certe basi e presupposti che ne determinano la tenuta e l’eventuale collasso. Prima ancora di definirlo come civiltà termoindustriale e capitalista occorre portare alla luce l’ontologia stessa alla base di tale mondo. In questo ci viene in aiuto il lavoro di Philippe Descola; egli infatti ha cercato di identificare e schematizzare in quattro classi le organizzazioni ontologiche (modi di organizzazione degli esseri, dell’essere) alla base delle culture da lui studiate. Il mondo occidentale, l’unico che pone una differenza tra natura e cultura, viene classificato all’interno del naturalismo. Attraverso un lungo percorso iniziato in Grecia si è venuta formando l’idea di Natura, fino ad assumere le caratteristiche attribuitele dalla modernità. I primi passi verso tale concezione della natura vengono mossi dai filosofi greci e in particolare da Aristotele; egli infatti opera un’oggettivazione dei fenomeni e degli esseri che esistono per natura (physis), intendendo con questa quel «principio che produce lo sviluppo di un essere che contiene esso stesso l'origine del suo movimento e della sua immobilità, principio che lo porta a realizzarsi in un certo modo». Avendo oggettivato gli esseri naturali, questi possono essere studiati e compresi in quanto seguono delle regole precise e che si ripetono, proprio come la polis è sottoposta al nomos. Con l’avvento del cristianesimo si compie un ulteriore passaggio in quanto l’essere umano viene escluso dalla Natura e rispetto ad essa si considera superiore; egli dipende infatti dalla grazia divina ed è trascendente al mondo naturale. Tuttavia l’idea di Natura acquista un senso nuovo all’epoca della rivoluzione scientifica del XVII secolo che rende la natura un puro procedimento meccanico costruito su delle leggi fisse e perciò una volta conosciute queste, comprensibile in ogni sua parte. Per far questo non c'era bisogno di invalidare le teorie scientifiche concorrenti, ma di eliminare il finalismo aristotelico e della scolastica medievale, relegarlo al dominio della teologia e mettere l'accento, come fece Cartesio, sulla sola causa efficiente; certo, questa è ancora rapportata a Dio, ma un Dio puramente motore, contemporaneamente fonte originale di un movimento conosciuto in termini geometrici e garante della sua conservazione costante. L’intervento divino diviene più astratto, investe meno nel funzionamento degli ingranaggi della macchina del mondo, confinato ai misteri della fede o alla spiegazione del principio di inerzia . La Natura diventa quindi una zona di dominio dell’essere umano, da manipolare e sfruttare poiché nulla ha in comune con l’umano. Inoltre, come conseguenza della separazione tra essere umano e Natura, gli occidentali pongono una separazione tra umani e non-umani. Là dove potrebbe esserci una continuità essi vedono – hanno imparato a vedere – una rottura. Questo allontanameto dagli esseri non-umani determina un particolare rapporto di dominazione dei primi nei confronti dei secondi; ritenuti inferiori in quanto appartenenti al mondo naturale, dunque manchevoli di ogni capacità tipicamente umana, i non-umani possono essere sottomessi dall’essere culturale che è l’uomo. Tale concezione non prevede alcun sentimento di solidarietà o rispetto nei confronti degli esseri “naturali” ed ha portato alle conseguenze sempre più visibili che caratterizzano l’Antropocene. All’interno del paradigma del naturalismo, la perdita di biodiversità, per esempio nella forma dell’estinzione di alcune specie animali o di specie vegetali, in un primo momento viene accolta come la scomparsa di entità molto più simili ad oggetti che a noi umani. Difficilmente riusciamo a porci nella prospettiva di altre specie animali, a meno che non siano i nostri animali domestici, addomesticati appunto per sembrare sempre più simili a noi. Ancora meno ci è possibile immedesimarci nelle piante, nonostante abbiamo appreso che anch’esse sono intelligenti, sempre come noi. Eppure una specie che si ritrova a rischio di estinzione sta affrontando un collasso della propria comunità; quali sono le reazioni ai pericoli degli appartenenti a tale specie? Quali le strategie messe in atto per sopravvivere? In che modo collaborano tra di loro? Tutte queste sono domande che dovremmo porci nel momento in cui il collasso della nostra comunità sembra ogni giorno più concreto. La concezione della Natura come elemento da sfruttare ha permesso lo sviluppo dell’apparato capitalista fondato sulla disponibilità di risorse illimitate, o per lo meno ritenute tali, quali mezzi per garantire alla macchina di procedere nella sua produzione ad un ritmo sempre più accelerato. Tuttavia il progresso alla base del capitalismo è letale per il capitalismo stesso; la crescita infinita indispensabile per la sopravvivenza del capitalismo è garantita dalla disponibilità di materie prime gratuite fornite dall’ecostistema terrestre quali il petrolio, l’acqua, il legname ecc. Queste risorse fanno parte di quelli che vengono definiti servizi ecosistemici. Il problema sorge nel momento in cui le risorse vengono prelevate o esaurite troppo in fretta senza lasciare il tempo all’ecosistema di rigenerarsi, superando così la biocapacità (quantità di prodotti e servizi che un ecosistema è in grado di produrre in un dato periodo) e causando danni all’ecosistema stesso. L’accelerazione che caratterizza il consumo di materie prime e altre risorse almeno dal periodo definito appunto Grande Accelerazione, ha coinvolto quasi ogni aspetto della vita all’interno della civiltà occidentale: in quanto accelerazione tecnica ha permesso di effettuare spostamenti sempre più rapidi provocando un restringimento dello spazio, a livello sociale ha determinato un’accelerazione nel cambiamento delle abitudini con una conseguenze accelerazione del ritmo della vita il cui risultato è l’assenza di punti di riferimento stabili, la precarietà, la depressione. Il punto rilevante di questa struttura che ha assunto il mondo occidentale sta nel fatto che l’accelerazione di tutti questi processi non ha avuto come scopo il miglioramento della vita delle persone, bensì il semplice mantenimento dello status quo che, all’interno della logica capitalista, sarebbe impossibile rallentando la produzione . Dove sta il limite per un sistema che si basa sull’assenza di limiti? Si tratta di quelle frontiere o confini che si rischia di superare senza accorgersene, ma che servono a mantenere in equilibrio la biosfera e la stessa civiltà occidentale; il clima, le risorse non rinnovabili, l’acqua non possono essere trattati come beni di consumo perché rappresentano le condizioni di possibilità del nostro mondo. Un’analisi dell’Occidente moderno e contemporaneo è presente nelle opere di Bruno Latour, antropologo, sociologo e filosofo o come meglio preferisce definirsi: sociologo, antropologo...«delle scienze e delle tecniche», per tentare di ricomporre nella definizione della propria posizione la separazione tra natura e cultura. Separazione sulla quale l’Occidente si fonda e nella quale crede, senza riuscire però a starci fino in fondo, vista la grande proliferazione di ibridi che sempre più vengono prodotti: embrioni congelati, fiumi inquinati e altre entità che non si riesce a classificare né nell’ambito naturale né in quello culturale. L’andamento della modernità occidentale è descritto da Latour come il movimento dal locale al globale, verso una mondializzazione quale nuovo orizzonte della cultura. L’occidente contemporaneo, come abbiamo visto, è l’esito di più di duemila anni di storia, in cui si sono succeduti eventi, popoli, idee, conflitti, che hanno plasmato il mondo occidentale così come lo viviamo oggi. Tra le radici più salde e durature vi sono quelle affondate dalla tradizione ebraico-cristiana. Nessun discorso sulla fine, considerata nel suo senso di «tema culturale storicamente determinato», elaborato da una prospettiva occidentale, potrebbe prescindere dalla concezione ebraicocristiana della fine. Inoltre, nel momento in cui interrogarsi sulla fine del nostro mondo appare sempre più urgente, data la gravità dei dati sul mutamento climatico e gli scenari che questi lasciano presagire, l’escatologia, quale discorso sulle cose ultime (dal greco ?σχατος “ultimo”), torna ad acquisire un ruolo centrale. Possiamo individuare un ritorno sulla scena dell’escatologia già nel XX secolo, in pensatori come Karl Barth e Rudolf Bultmann. Il nuovo significato assunto dall’escatologia non riguarda tanto la speranza di salvezza dopo la fine dei tempi, quanto piuttosto la rilevanza che l’imminente fine della storia assume nella vita quotidiana delle persone, in particolare nell’attribuzione di un senso al proprio presente. L’escatologia ebraico-cristiana si è sviluppata per lo più attraverso la forma dell’apocalisse, intesa quale genere letterario caratterizzato da una visione che mostra ad un uomo scelto (spesso un profeta) delle cose nascoste, segrete. Il termine apocalisse sta infatti ad indicare una rivelazione, uno svelamento di una verità prima nascosta. Il termine apocalisse compare per la prima volta nel Nuovo Testamento nel libro dell’evangelista Giovanni intitolato appunto Apocalisse sulla base della prima frase del libro. Lo scopo dello scritto di Giovanni è promettere la venuta del Regno di Dio alle sette Chiese dell’Asia minore che all’epoca subivano le persecuzioni da parte dell’Impero romano. Giovanni racconta la sua visione dell’avvento dell’anticristo e della sua sconfitta cui segue il giorno del giudizio e l’instaurarsi della Gerusalemme celeste. L’Apocalisse di Giovanni è il principale testo apocalittico della tradizione cristiana, ma non è l’unico della Bibbia. Il genere dell’apocalittica era presente già nell’ebraismo; all’interno del canone biblico (ebraico) il testo più importante con contenuti apocalittici è il Libro di Daniele, nel quale sono narrate alcune sue profezie; una di queste in particolare racconta una visione riguardo la risurrezione e la fine dei tempi. Tuttavia occorre precisare che le apocalissi della tradizione ebraico-cristiana non costituivano soltanto visioni escatologiche sulla fine dei tempi e la vita nel regno celeste; i temi delle rivelazioni erano molto vasti e comprendevano la risurrezione, il giudizio finale, il paradiso, la lotta contro il male... Nella cultura secolare però il termine “apocalittico” ha finito per indicare quasi esclusivamente le visioni sulla fine del mondo e dei tempi. La tradizione teologica ebraico-cristiana è la base su cui si è costruita successivamente la filosofia della storia occidentale, la cui matrice teologica è sempre presente, anche se in modo carsico. Una prima grande formulazione di teologia della storia è dovuta ad Agostino; appropriandosi dell’escatologia cristiana egli formula una storia nei termini di storia della salvezza che fa da cornice alla storia profana: «il divenire storico acquista senso solo all’interno di una storia escatologica della fede, una storia segreta entro quella secolare, sotterranea ed invisibile per chi non crede» . Questa storia della salvezza è regolata dalla Provvidenza, segno di Dio sempre presente nella storia. Inoltre Agostino rifiuta la visione ciclica del tempo propria del paganesimo e introduce una suddivisione della storia in sei epoche (come i giorni della creazione). La ciclicità risulta per lui incompatibile con gli eventi della nascita e morte di Cristo, i quali segnano una cesura nella storia. La prima epoca comprende il periodo da Adamo al Diluvio, «la seconda da Noè ad Abramo, la terza da Abramo a Davide, la quarta da Davide fino alla cattività babilonese, la quinta da quest’ultima fino alla nascita di Cristo. La sesta ed ultima epoca si estende infine dalla prima venuta di Cristo fino al suo ritorno alla fine del mondo». La visione agostiniana della storia perdura fino all’Illuminismo ed influenza particolarmente la formazione della filosofia moderna della storia. Infatti, questa si caratterizza come la secolarizzazione della tradizione teologica, in cui all’idea di Provvidenza viene sostituita l’idea di progresso. Viveiros de Castro e Danowski -2017 hanno proposto una riflessione sulle paure della fine, raccogliendo alcune varianti del tema della fine del mondo tra gli occidentali e presso altre culture quali quelle amerindie. Tale approccio antropologico è da noi condiviso, perciò riportiamo qui alcune teorie escatologiche che gli autori ci suggeriscono. Per esempio, numerose formulazioni sulla fine in ambito amerindio si fondano sulla profezia della caduta del cielo.
All’interno di una prospettiva di periodici cicli di distruzione e rigenerazione del mondo e dell’umanità, si ipotizza che l’invecchiamento del mondo e il peso crescente dei morti nel cielo possano provocare la caduta degli strati celesti; in questa teoria, propria della cosmologica yanomami, gli strati celesti caduti divengono i nuovi strati terrestri e le anime celesti dei morti costituiscono la nuova umanità terrestre. Altre cosmologie amerindie prevedono una distruzione del mondo causata da un diluvio o da una conflagrazione, sempre in una successione ciclica di Terre e umanità che vengono distrutte e si rigenerano. È interessante notare come i temi del diluvio e della conflagrazione siano presenti anche nel panorama escatologico propriamente occidentale, il primo nella tradizione biblica, il secondo nella filosofia antica, per esempio nella concezione della fisica propria dello stoicismo; questo ipotizza infatti che la vita del mondo segua dei cicli di distruzione e formazione. Quando un ciclo si chiude e gli astri tornano alla posizione originaria, avviene una conflagrazione (ekpyrosis) che tutto distrugge; a questa segue una rigenerazione dello stesso mondo, l’ordine cosmico si rigenera identico a quello precedente. Presso alcuni popoli mesoamericani i mondi e le umanità si succedono secondo una sequenza di ere o soli e con l’intervento delle divinità che plasmano gli umani a partire da elementi quali argilla, legno, mais. Un aspetto significativo che gli autori rilevano presso le escatologie indigene è «l’impensabilità di un mondo senza persone» infatti, ogni rigenerazione del mondo comporta sempre la rigenerazione di un’umanità, sempre diversa dalla precedente. Inoltre tali cosmologie includono anche i Bianchi e la loro cultura, considerati come i discendenti di un popolo che agli inizi dei tempi fu escluso dal centro del mondo a causa del suo carattere aggressivo, ma che successivamente, apparentemente senza motivo, vi ha fatto ritorno. La presenza dei Bianchi nella mitologia indigena assume probabilmente la forma di un problema, sin dall’arrivo degli europei nelle Americhe; questa perplessità metafisica è sicuramente oggi accresciuta, considerando che i Bianchi sono i portatori della catastrofe climatica, prospettiva che sembra sempre più vicina alle distruzioni periodiche pensate dalla cosmologia indigena. La rappresentazione prevalente della fine all’interno dell’Occidente capitalista si rifà ad un immaginario apocalittico. In quanto fondata su una concezione del tempo lineare, la cultura occidentale considera la fine come il punto di arrivo di una successione di eventi; dopo la fine, dunque, il nulla. Il tempo stesso finisce. Fine del mondo e fine del tempo coincidono. Come agire sapendo di avvicinarsi ad un evento così radicale? L’eredità cristiana propone un’ancora di salvezza; il tempo che giunge ad una fine è quello terrestre, lasciando spazio ad un non-tempo celeste, quello eterno del paradiso. È dunque possibile la vita fuori dal tempo. Eppure la fine in questo paradigma è sempre un momento di rottura irrimediabile, il mondo non può riprendere, la vita sulla terra giunge a una conclusione. Ci sembra che una concezione del genere non possa venire in aiuto nel momento in cui dobbiamo pensare la possibile fine della nostra civiltà, ma soprattutto nel momento in cui tale fine appare sempre più vicina e probabile, dato il numero e la gravità dei possibili effondrements. Confrontarsi con un pensiero come quello della fine del mondo quando ci sentiamo già vicini ad essa non è cosa che possa essere affrontata in tutta serenità; a nostro avviso però l’angoscia, la perdita di speranza e di senso suscitate da un tale pensiero sono dovute alla particolare concezione che noi abbiamo del tempo e dunque della fine, che, come dicevamo, rientra in una visione temporale lineare. In questa prospettiva la fine viene percepita come un muro cui andiamo incontro sempre più rapidamente, senza possibilità di frenare in tempo. Cosa accadrebbe se recuperassimo invece una visione ciclica del tempo? La fine sarebbe in questo caso un momento di passaggio, un punto sulla ruota del tempo cui ne seguirebbe subito un altro. All’interno della cultura occidentale abbiamo individuato delle eccezioni alla visione temporale dominante basata sulla linearità. Una di queste eccezioni è l’artista contemporaneo Anselm Kiefer. Egli infatti recupera una concezione antica del tempo e dunque della fine. Il suo lavoro può essere utile per preparare l’immaginario per i tempi imminenti, sperimentando inizialmente attraverso l’immaginazione artistica un diverso rapporto con il tempo. le immagini-mito di Kiefer si propongono in tutta la loro portata come emblemi simbolici di una narrazione nuova e insieme antica. Esse rispondono alla necessità di venire incontro alla passività insita in ogni soggetto, a quella culla dell’essere narrati che pervade come una necessità imprescindibile tutta la vita umana Nelle sue opere Kiefer pratica una mitopoiesi, in cui immagini della tradizione, occidentale prima di tutto, acquistano nuovi significati. La storia, come argilla, può essere riplasmata e mostrare delle forme alternative. Kiefer si muove in un eterno presente estraneo al tempo lineare, come se stesse seguendo il monito del nano dello Zarathustra: ‘Tutto ciò che è diritto mente’, mormorò il nano in tono di spregio. ‘Ogni verità è curva, il tempo stesso è un circolo’ . Anselm Kiefer venne al mondo tra le macerie della guerra, l’8 marzo del 1945, a Donaueschingen, in Germania. Quelle macerie che egli ha definito come il suo parcoghiochi, diverranno un elemento centrale della sua produzione artistica. Nel 1965 si iscrive all’Università di Friburgo per studiare giurisprudenza ma abbandona questa via l’anno successivo intraprendendo gli studi all’accademia d’arte, prima a Friburgo e poi a Karlsruhe. Successivamente studia a Dusseldorf dove diventa allievo di Joseph Beuys. La sua carriera artistica inizia con un difficile compito: come fare i conti con l’eredità culturale tedesca sulla quale gravano gli orrori del nazismo? Il fatto di essere nato alla fine della guerra gli permette di confrontarvisi dalla prospettiva distaccata dell’estraneo; attraverso una maggiore oggettività è in grado di negoziare con i fantasmi del passato, producendo nuove memorie. Il passato può essere rielaborato e deve esserlo per poter comprendere il presente. Questa prospettiva si riflette nel suo lavoro artistico: l’artista infatti non crea mai ex nihilo bensì plasma una materia già presente trasformandola in qualcosa di nuovo, mai definitivo né stabile bensì destinato a mutare continuamente. Che cosa fanno i quadri rinchiusi lì dentro per tutto quel tempo, fino a quando rispuntano tra i miei pensieri facendomi un cenno, suggerendomi un’idea che potrebbe riportarli in vita, offrendogli un posto nell’opera a cui sto lavorando? Li riesumo, e capisco subito le possibilità che racchiudono. Ma cos’è successo mentre erano relegati lì? Nulla? No di certo, perché hanno saputo raccogliere le forze per attirare l’attenzione su di sé. Dopo aver liberato la tela dall’oscurità, la ridipingo e in questo modo si compie una transizione verso un altro stato. Spesso molto diverso da quello iniziale.  Uno dei primi lavori di Kiefer, una performance dal titolo Besetzungen (Occupazioni), risalente alla fine degli anni ’60, propone una riflessione sul nazismo. Egli si fa ritrarre in una serie di fotografie poi raccolte in un libro con il titolo Heroische Sinnbilder, Simboli eroici, mentre riproduce il saluto nazista in alcuni luoghi significativi attraverso l’Europa o in paesaggi suggestivi. Queste fotografie raccolsero numerose critiche negative, soprattutto da parte degli artisti e intellettuali che avevano vissuto gli anni della guerra e che rimproveravano a Kiefer di riaprire una ferita non ancora rimarginata. Durante gli anni ’50 infatti, la maggior parte degli artisti tedeschi aveva messo da parte la storia recente per dedicarsi alle avanguardie d’oltreoceano oppure ad altre correnti artistiche. L’intento di Kiefer era attuare un distaccamento ironico che allo stesso tempo rappresentasse un forte impegno politico. L’artista riproduce tale gesto cercando di calarsi nell’abito del nazista, non per identificarvisi, bensì per osservare la potenza del gesto, della postura, con l’unico scopo di comprendere la follia che vi sta dietro. Per comprendere meglio il lavoro dell’artista e andare ad ammirare da vicino le sue ed occorre studiare i materiali che Kiefer utilizzata, dai quali emergono con chiarezza i temi ricorrente e centrali di ogni sua opera: il tempo che scorre e la trasformazione di ogni cosa. Egli predilige materiali quali sabbia, argilla, cenere, paglia, piombo, vetro, fiori, semi; persino la pittura è usata come un materiale, per esempio ottenendo uno spesso strato di colore sulla tela che può poi essere scolpito o scrostato via. La tavolezza è il luogo della poiesis, dove «gli elementi pervengono alla loro ‘giusta’ combustione; bruciando, essi si liberano dalla fissità che li separava l’un l’altro, ‘muoiono’ all’esistenza che li costringeva a non essere null’altro che sé» . Molti dei quadri di Kiefer appaiono scuri, eppure all’inizio del processo la tela è bianca e i colori sono ben presenti. Durante il processo di produzione dell’opera, che mai giunge ad un risultato definitivo, l’artista ricopre la tela, strato dopo strato, come se volesse farla invecchiare prima del tempo, imprimendo sui vari strati la traccia del tempo trascorso. Come un alchimista che accelera i processi naturali, così l’artista mostra sulla tela il tempo che corrode la materia. Un materiale molto caro a Kiefer è il piombo; questo è infatti il primo elemento nel processo alchemico per ottenere l’oro. In quanto collocato sul gradino più basso del percorso verso l’oro, il piombo rappresenta la pesantezza e l’attaccamento alla terra, ma allo stesso tempo esso contiene in sé l’argento, che gli conferisce un principio di leggerezza e di avvicinamento all’oro. I suoi dipinti mostrano lo scorrere del tempo, la trasformazione degli elementi che subiscono processi chimici. Presso lo studio di Barjac, Kiefer ha esposto numerosi dipinti all’aria aperta, lasciando agli agenti atmosferici il compito di completare l’opera, trasformandola. Così spiega uno dei suoi metodi di produzione:  ricopro il quadro di pittura nera, lo stendo a terra e lo bagno con dell’acqua grigia e sporca, lo restituisco alla natura, lo espongo all’aria e alle intemperie. Insomma, maltratto il quadro abbandonandolo al nulla, lo faccio precipitare deliberatamente e con crudeltà verso l’Orcus della “desolazione e del vuoto”. È lasciato a se stesso, abbandonato dagli spiriti buoni, come il profeta che non riusciva più a distinguere la parola divina in mezzo al furore del mondo . Durante una mostra alla Fondazione Vedova ai Magazzini del Sale di Venezia, Kiefer ha esposto delle fotografie incollandole su pannelli di piombo e le ha sottoposte all’elettrolisi (operazione che utilizza l’energia elettrica per sviluppare reazioni chimiche); in questo modo le opere si sono trasformate nel corso della mostra, mettendo in scena quello che può essere paragonato ad un procedimento alchemico di accelerazione dei processi naturali. Kiefer è famoso per aver lavorato in grandi studi, da lui definiti come laboratori. Dal 1992 ha lavorato nel paesaggio bucolico di Barjac, nel sud-est della Francia, in un immenso spazio in cui ha costruito edifici, torri, scavato tunnel, cripte. Successivamente nel 2009 si è trasferito poco fuori Parigi in un enorme container all’interno del quale ha riunito tutti i suoi lavori e materiali, alcuni risalenti agli anni ’70. Nessun opera o parte di essa è mai stata abbandonata da Kiefer, poichè tutto è destinato a trasformarsi, e il mutamento è continuo, ogni oggetto potrebbe portare ad una nuova idea. Egli si sposta in bicicletta all’interno di uno spazio che dice essere come il suo cervello; gli oggetti corrispondono a sinapsi e talvolta trova nuovi collegamenti tra loro. Le rovine che in questo caso appaiono fonte di fascino sono quelle prodotte dalla civiltà occidentale; il crollo della torre di cui parla Kiefer non avviene casualmente, ma secondo la modalità di crollo che il mondo che l’ha prodotta prevede. Inizialmente esitante, sembra voler resistere in piedi a tutti i costi, poi all’improvviso crolla. Così come la costruzione avviene secondo i modi immaginati dal mondo di riferimento, anche il collasso dipende ed è influenzato dall’immagine che è stata pensata di esso. Non è un caso a nostro parere che Kiefer utilizzi come metafora un elemento tanto paradigmatico dell’Occidente moderno quale l’aeroplano. Le rovine non sono per Kiefer il segno di una catastrofe bensì rappresentano il momento in cui le cose possono rinascere a nuova vita, dismettere la propria forma per assumerne un’altra. Come la notte che ogni giorno si trasforma in un’aurora. Aurora rappresenta il momento in cui la natura si trasforma, in un passaggio graduale in cui la notte muore come oscurità e rinasce come luce. Tra il 2010 e il 2011 Kiefer è titolare della cattedra di creazione artistica al Collège de France; le lezioni da lui tenute vengono raccolte nel testo L’arte sopravvivrà alle sue rovine , citazione che egli sceglie come titolo senza riuscire a recuperarne la fonte, ma che ben si adatta alla sua concezione di arte. Tale citazione infatti esprime la potenza delle immagini in grado di durare nel tempo e di riaffiorare anche dopo l’eventuale distruzione o crollo del contesto che le ha prodotte. Una concezione che sembra richiamare quella di Aby Warburg per il suo concetto di Nachleben ossia di sopravvivenza delle immagini; studiando il Rinascimento fiorentino Warburg nota la ricomparsa di figure e forme (definite pathosformel, ossia formule di pathos, di gestualità espressive di pathos) proprie della classicità greca. Le immagini oltrepassano il tempo come durata ed esistono in un presente fuori dal tempo. Kiefer sembra trasportare questa idea ad ogni sua opera che, anche se abbandonata, non è mai veramente cancellata, può sempre essere recuperata, acquisendo nuovi significati per l’artista, instaurando una nuova dialettica con il presente. La sopravvivenza delle immagini non deve essere intesa come un processo statico: le forme che ritornano o vengono recuperate sono plastiche e in continuo divenire. Il superamento del tempo come durata è ciò che Nietzsche scoprì attraverso il pensiero dell’eterno ritorno71; nell’attimo convivono passato e futuro, come due sentieri che passano sotto la stessa porta carraia, ma sono entrambi infiniti, quindi l’attimo presente appartiene al tempo cairologico piuttosto che a quello cronologico. Tutte queste concezioni vanno infatti nella direzione di un superamento del tempo cronologicamente inteso, come successione di momenti ed eventi, ed aprono perciò la possibilità di recuperare immagini e forme apparentemente passate, ma potenzialmente sempre presenti, in grado dunque di dare forma e senso a nuovi immaginari e nuove narrazioni. Il confronto con la tradizione occidentale è costante nel lavoro di Kiefer. La presa di coscienza delle radici della propria cultura porta anche a cogliere con maggiore lucidità i fallimenti e le crisi del mondo occidentale. Egli sembra dialogare, attraverso le sue opere, con i libri e i loro autori, dai poeti tedeschi a lui contemporanei ai testi della tradizione cabbalistica. Un tema ricorrente, implicito, nelle opere dell’artista è la ricerca di un senso da parte dell’umanità, indipendentemente da qualsiasi fede o religione. Il riferimento alla tradizione biblica è invece esplicito nell’opera intitolata I sette palazzi celesti  esposta dal 2004 presso Pirelli HangarBicocca come installazione permanente. Le costruzioni sono ispirate al trattato Sefer Hekhalot o “Libro dei Palazzi” presente nel Sefer Zohar, il più importante testo cabbalistico della tradizione ebraica. Nel trattato vengono descritti numerosi palazzi posti in successione che devono essere attraversati per compiere l’ascesa verso Dio. Si tratta dunque di un percorso iniziatico di elevazione. Questa opera vuole simboleggiare l’aspirazione prometeica dell’umanità moderna che tenta di elevarsi, quasi a volersi sostituire al divino, ma lo fa su basi non solide e sembra dunque prossima al crollo. La modernità è qui rappresentata nel materiale di costruzione di queste che assomigliano più che altro a rovine. Tuttavia, un eventuale crollo delle torri, simbolo del crollo della civiltà che le ha prodotte, non comporterebbe una fine definitiva. Nella concezione di Kiefer, le rovine sono destinate a trasformarsi in altro, in un ciclo continuo. Ogni innovazione è una ricombinazione di vecchie tecniche; ogni trasformazione implica un nuovo presente intriso di passato. Inoltre, le torri sono la raffigurazione del rapporto tra cielo e terra; secondo l’artista i due mondi sono complementari; in particolare, grazie ai meteoriti la terra ha raggiunto la sua completezza, integrando gli elementi di cui era priva. In senso figurato, le torri sono fatte di polvere di stelle. Ciascuna torre ha un nome e un significato particolare: Sefiroth, la più bassa, sulla cui cima sono posti sette libri in piombo richiama la tradizione ebraica della cabbala. Il nome si riferisce alle emanazioni del divino espresse da dieci termini rappresentati con delle luci a neon. Melancholia, ispirata all’alchimia, è caratterizzata dal celebre “poliedro di Dürer” (figura presente nell’incisione di Albrecht Dürer del 1514 che porta il titolo Melancolia I) di cui Kiefer realizza una copia tridimensionale e la appoggia sulla cima della torre. La torre Ararat è un riferimento al monte su cui si dice si sia arenata l’arca di Noè. Sulla cima è presente proprio un modello stilizzato in piombo dell’arca. La quarta torre dal nome Linee di campo magnetico è la più alta . Due torri poste molto vicine risultano complementari e portano i nomi JH e WH che presi in sequenza formano il nome di Jahweh. Ai piedi delle due torri vi sono dei meteoriti in piombo che si ipotizza possano simboleggiare i cocci dei vasi citati nello Zohar (testo principale della cabbala), quali rappresentazione del mondo del male (in quanto scarto) poi rigenerati da Dio che vi infuse nuova vita. La settima torre porta il nome di Torre dei Quadri Cadenti poiché su di essa sono state incastrate delle cornici di legno e piombo senza alcuna immagine all’interno, bensì solo lastre di vetro infranto. Occorre evidenziare come l’installazione di Kiefer rappresenta una contraddizione, in grado però di rendere esplicito il contrasto suggerito dall’opera stessa: l’aspetto fragile, rovinoso delle torri risulta in contrasto con la struttura all’interno della quale sono situate, la quale sembra essere votata a “testimoniare l’eternità trionfale del Moderno” . In particolare l’installazione I sette palazzi celesti sorge nell’edificio chiamato “Navate”, costruito tra il 1963 e il 1965 dalla sezione Elettromeccanica e Locomotive dell’allora azienda Breda Costruzioni Ferroviarie. Nell’immaginario di Anselm Kiefer ogni catastrofe è anche una rigenerazione proprio perché concepisce il tempo come un circolo in cui non vi è un principio né una fine definitiva. In questa nuova istallazione sé. In questa istallazione Kifer Engelssturz (Caduta dell’angelo, 2022-2023), si pone in dialogo con la severa architettura rinascimentale attraverso una potente materialità e le dimensioni di oltre sette metri di altezza. Questo grande dipinto ha per soggetto il celebre brano dell’Apocalisse che descrive il combattimento tra l’arcangelo Michele e gli angeli ribelli, metafora della lotta tra Bene e Male. Concepita appositamente dall’artista per instaurare un dialogo con il cortile di Palazzo Strozzi e la sua austera architettura rinascimentale, attraverso una potente matericità, le monumentali dimensioni di oltre sette metri e il fondo oro che richiama i polittici gotici. Il dipinto di Kiefer si inserisce nel contesto storico-artistico del luogo, enfatizzando la fusione fra tradizione e contemporaneità. La presenza imponente nel cortile di Palazzo Strozzi crea un’esperienza unica, suscitando riflessioni sulla caducità e la trasformazione, concetti intrinseci alla rappresentazione della “caduta dell’angelo”. L’artista ha tracciato il titolo in alto a sinistra, e il nome Michele nell’alfabeto ebraico ( ????? ( a destra. Gli angeli ribelli sono cacciati dal Paradiso dall’arcangelo che con la destra impugna la spada, indossa un elmo piumato e con l’indice sinistro addita il cielo manifestando simbolicamente la volontà divina, e, contemporaneamente, rivelando il proprio nome. L’arcangelo si staglia, traslucido nella parte inferiore, sul fondo dorato, simbolo, come nei dipinti trecenteschi, del mondo metafisico. Degli angeli caduti sono visibili solo volti e vesti che precipitano nella parte scura, dove acquisiscono tridimensionalità. Inglobati nel caotico impasto di materiali si distinguono indumenti moderni, come resti sopravvissuti a una catastrofe. L’opera diventa una riflessione sulla lotta tra Bene e Male, nonché un invito a riconsiderare il rapporto tra cielo e terra, tra dimensione spirituale e materiale. L’espressione “angeli caduti” assume una portata più ampia, estendendosi a identificare tutti gli uomini e soprattutto l’artista. Il collegamento tra le due sfere, enfatizzato sia dal dipinto che dallo spazio in cui è inserito, costituisce una sfida all’ignoto: l’arte diventa così il mezzo attraverso il quale l’essere umano tenta di affrontare il trascendente, cercando di ridurlo a una dimensione razionale. Per questa tela Kiefer si è ispirato al San Michele Arcangelo di Luca Giordano eseguito dal pittore napoletano tra il 1692 e il 1702 e conservato oggi nel Museo di Cadice, il cui soggetto è basato sull’Apocalisse (12, 7-9). Nel percorso al Piano Nobile il tema degli “angeli caduti” si ritrova nella prima sala con il monumentale dipinto Luzifer (Lucifero, 2012-2023). Kiefer rappresenta l'angelo ribelle che precipita nell'abisso, reinterpretato attraverso materiali che si riferiscono alla storia contemporanea e recente. Un’acuminata e minacciosa ala di aereo in piombo sporge da una massa di materia, creando un diretto riferimento al tema della guerra, ricorrente nell'opera di Kiefer. Se l'ala di aereo potrebbe simboleggiare la distruzione che la guerra infligge, la massa di materiale sembra evocare il caos e la devastazione che lascia dietro di sé. La figura caduta diviene invece un’immagine della caduta dell'umanità, lanciando un monito toccante sulla guerra e sulla violenza. Nella sala successiva con Für Antonin Artaud: Helagabale (Per Antonin Artaud: Eliogabalo, 2023), Kiefer fa riferimento a Héliogabale ou l'anarchiste couronné (Eliogabalo, o l'anarchico incoronato, 1934), libro dell'artista, attore e drammaturgo francese Antonin Artaud sull’imperatore romano Marco Aurelio Antonino, detto Eliogabalo, figura a cui Kiefer aveva dedicato lavori già negli anni Settanta. Giovane imperatore del III secolo d.C., Eliogabalo cercò di imporre il culto di Baal, il dio del sole, come religione di Stato, ma fu assassinato per sopprimere la sua rivoluzione, diventando così emblema della fragilità del potere. SOL INVICTUS Heliogabal (Sole invitto Eliogabalo, 2023) è il titolo della seconda grande tela della sala caratterizzata da un luminoso fondo oro e da giganteschi girasoli, in cui Kiefer fa anche riferimento alle feste pagane che celebravano la vittoria della luce sulle tenebre. In questi dipinti emergono simboli costantemente presenti nel vocabolario visivo kieferiano: girasoli e serpenti. Il serpente assume nel lavoro di Kiefer molteplici significati, divenendo anche allegoria di rigenerazione, grazie alla caratteristica dell’animale di mutare la pelle, alludendo così alla figura dell’artista e alla sua capacità di rinnovarsi. Il girasole, è pianta legata al sole ma anche alla terra: tra l’altro Kiefer ha da sempre dimostrato venerazione per Van Gogh, al quale, già adolescente, ha dedicato opere figurative e un testo. Kiefer stesso afferma che «la pittura è filosofia», e una sezione dell’esposizione è incentrata su questa disciplina, che da sempre permea il suo lavoro, con tre grandi opere inedite presentate per la prima volta a Palazzo Strozzi. La Scuola di Atene (2022) riconduce a Raffaello e all’affresco della Stanza della Segnatura (1509-1511 circa) con il consesso di filosofi ambientato in un edificio classico. Vor Sokrates (Prima di Socrate, 2022) crea una sorta di albero genealogico dei filosofi presocratici, tra cui Archimede, Anassimandro, Anassimene, Parmenide. Nell’opera Ave Maria (2022) sono rappresentati invece filosofi sia precedenti che antecedenti Socrate, da Eraclito ed Epicuro a Platone e Aristotele. Se i filosofi presocratici si concentravano principalmente sulle spiegazioni naturali e cosmologiche del mondo, spesso ricorrendo a elementi come l'acqua, l'aria e il fuoco, dopo Socrate la filosofia sposta la sua attenzione sull’umanità e sulla conoscenza, in un’indagine sugli aspetti etici, politici ed epistemologici. Il tema della filosofia si ripresenta in mostra anche nella grande xilografia Hortus Philosophorum (Il giardino dei filosofi, 1997-2011). L’opera raffigura un campo di girasoli il cui formato verticale allude all’unione tra terra e cielo; uno dei fiori cresce prendendo nutrimento dall’ombelico di un uomo nudo disteso a terra, che rappresenta l’artista stesso, oltre che rimandare a una delle figure di riferimento di Kiefer: il filosofo, medico, occultista e alchimista inglese Robert Fludd (1574-1637), secondo il quale ogni pianta ha un equivalente stellare nel firmamento. La posizione del corpo, che sembra senza vita o nella posizione dello shavasana nella pratica yoga, sottolinea il legame tra il mondo terreno e quello celeste alludendo a un percorso iniziatico che consente di superare la paura della finitezza umana. Le sale centrali del percorso espositivo accolgono una serie di vetrine, una tipologia di opere che l’artista utilizza dalla fine degli anni Ottanta creando microcosmi in cui Kiefer inserisce materiali e oggetti collegati a scritte di suo pugno. Le vetrine creano un ambiente protetto e controllato in cui i materiali contenuti possono esistere nel loro spazio. Allo stesso tempo, rafforzano i temi dell'alienazione e dell'isolamento presenti nell'opera di Kiefer. Lo spettatore è costretto a confrontarsi con l'opera da una distanza, incoraggiato a riflettere sui diversi mondi e simbolismi che convergono nell'immaginario kieferiano. En Sof (L’Infinito, 2016) è dedicata al pensiero cabbalistico e alla mistica ebraica, Das Balder-Lied (La canzone di Balder, 2018) si ispira alla letteratura scandinava, Danae richiama la mitologia classica. Tra i materiali utilizzati spicca il piombo, materiale d’elezione di Kiefer, alla base di infinite sperimentazioni, apprezzato sia per la malleabilità e duttilità, sia per l’associazione a temi alchemici grazie alla sua natura metamorfica. Il cristallo delle vetrine funge invece da membrana che, come spiega l’artista, «è in qualche modo una pelle semipermeabile che collega l’arte con il mondo esterno in una relazione dialettica». In Locus solus (Il luogo solitario, 2019-2023), Kiefer fa riferimento all’omonimo testo del 1914, caposaldo della cultura surrealista, in cui l’autore francese Raymond Roussel descrive opere e congegni irrealizzabili, destinati a rimanere solo immaginati, nel locus dell’impossibile. Come in questa opera, tema fondamentale dell’esposizione è il rapporto di Kiefer con la letteratura e il suo confronto con opere letterarie e voci di ogni tempo. In dialogo con Locus solus, il dipinto Cynara fa riferimento alla mitologia classica e alla ninfa trasformata in carciofo da Zeus, mentre A phantom city, phaked of philim pholk (Una città fantasma, falsata dalla folla dei film) e archaic zelotypia and the odium teleologicum (zelotipia arcaica e lo odium teleologicum) sono collegati al romanzo di James Joyce Finnegans Wake. Queste due opere riflettono l’intricato intreccio di riferimenti presenti nel romanzo, trasformando il complesso tessuto di parole in un’arte visiva che cattura l’essenza onirica della narrazione. La mostra prosegue con l’installazione immersiva Verstrahlte Bilder (Dipinti irradiati, 1983-2023) composta da una suggestiva selezione di sessanta dipinti che riempiono completamente le pareti e il soffitto di una delle più grandi sale di Palazzo Strozzi. Creata appositamente per la mostra e dotata anche di grandi superfici specchianti poste al centro dello spazio, l’installazione invita il visitatore a immergersi nell’arte stratificata e totalizzante di Kiefer. L'uso dei cosiddetti “dipinti irradiati”, scarificati e scoloriti da radiazioni, aggiunge una dimensione evocativa e malinconica all'installazione, invitando a una riflessione sulla fragilità della vita e sul potere dell'arte. Olio su tela, gommalacca e tessuto sono solo alcuni dei materiali utilizzati per creare un'esplorazione inquietante sui temi della distruzione e del decadimento, insiti nella condizione umana stessa. Secondo l’artista, «la distruzione è un mezzo per fare arte. Io metto i miei dipinti all’aperto, li metto in una vasca di elettrolisi. La scorsa settimana ho esposto una serie di dipinti che per anni sono stati sottoposti a una sorta di “radiazione nucleare” all’interno di container. Ora soffrono di malattie da radiazione e sono diventati temporaneamente meravigliosi». Altro grande tema della mostra è la mitologia, personale e collettiva, che Kiefer esplora anche reinterpretando suoi lavori precedenti: non come semplici riproduzioni, ma rielaborazioni di materiali, temi e composizioni. In Der Rhein (Il Reno, 1982-2013), Kiefer rimanda alla sua infanzia e al rapporto con il corso d’acqua che è simbolo dell’intera Germania. In Dem unbekannten Maler (Al pittore ignoto, 2013) Kiefer si identifica con la figura del “pittore sconosciuto” cui viene dedicato un memoriale, onorando anche la memoria degli artisti che hanno subito la repressione e la censura o che sono stati dimenticati dalla storia. Il riferimento alla mitologia classica è evidente invece in opere come Daphne (Dafne, 2008-2011) e Nemesis (2017). La celebre ninfa insidiata da Apollo e la dea del castigo e della vendetta sono rappresentate come abiti di gusto ottocentesco, in resina e gesso. La loro identità è suggerita e rivelata attraverso gli attributi che sono al posto delle teste, rispettivamente un ramo e un masso. Nell’opera Ave Maria turris eburnea (Ave Maria, torre d’avorio, 2017) Kiefer si rifà invece all’immaginario cattolico. Nelle sue opere Kiefer fa un richiamo alla precarietà della vita umana e la transitorietà del tempo, ma anche a dimostrazione dell’importanza della poesia, della scrittura e della parola nella pratica artistica kieferiana, la mostra si chiude con i celebri versi del 1930 del poeta Salvatore Quasimodo, tracciati da Kiefer stesso su una parete della sala: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera». Accompagna la mostra  Anselm Kiefer. Angeli caduti, edito da Marsilio Arte  è frutto della stretta collaborazione tra il maestro stesso, il suo Studio, il grafico Peter Willberg, che vanta una lunga collaborazione con Kiefer, la casa editrice e Palazzo Strozzi. Il volume, curato da Arturo Galansino con Ludovica Sebregondi, si apre con la Conversazione tra Anselm Kiefer e Arturo Galansino registrata nell’ottobre 2023 a Croissy, nello studio dell’artista. Il testo è accompagnato dalle immagini di un servizio fotografico realizzato in quell’occasione e da un raro scatto di Kiefer a Palazzo Strozzi intorno al 1969-1970, durante una gita scolastica. Segue il contributo del teologo, filosofo e sociologo Klaus Dermutz, dedicato a Creazione e caduta, con una riflessione sul tema degli “angeli caduti” nelle opere della mostra, alla luce delle implicazioni filosofiche, letterarie, con particolare attenzione alla cultura tedesca.
Biografia di Anselm Kiefer
Nato  a Donaueschingen, in Germania, Anselm Kiefer è uno degli artisti più importanti e versatili di oggi. La sua pratica artistica abbraccia medium diversi, tra cui pittura, scultura, fotografia, xilografia, libri d'artista, installazioni e architettura. Kiefer ha studiato legge e lingue romanze prima di dedicarsi agli studi d'arte presso le accademie di Friburgo e Karlsruhe. Da giovane artista è entrato in contatto con Joseph Beuys e ha partecipato alla sua azione Save the Woods nel 1971. Con le sue prime opere ha affrontato la storia del Terzo Reich e si è confrontato con l'identità post-bellica della Germania come mezzo per rompere il silenzio sul passato recente.
Attraverso la parodia del saluto nazista o la citazione visiva e la decostruzione dell’architettura nazionalsocialista e dei miti germanici, Kiefer ha esplorato la propria identità e la propria cultura. Dal 1971 fino al trasferimento in Francia nel 1992, Kiefer ha lavorato nell’Odenwald, in Germania. In questo periodo ha iniziato a inserire nel suo lavoro materiali e tecniche divenuti emblematici, come piombo, paglia, piante, tessuti e xilografie, insieme a temi come L’anello del Nibelungo di Wagner, la poesia di Paul Celan e Ingeborg Bachmann, oltre a riferimenti biblici e al misticismo ebraico. L’artista ha ottenuto vasta attenzione internazionale da quando, insieme a Georg Baselitz, ha rappresentato la Germania Ovest alla 39. Biennale di Venezia nel 1980. La metà degli anni ’90 segna un cambiamento nel suo lavoro: lunghi viaggi in India, Asia, America e Nord Africa hanno ispirato un interesse per lo scambio di pensiero tra mondo orientale e occidentale, e strutture che ricordano l’architettura mesopotamica, entrano nel suo operare. Sono evidenti accenni ai paesaggi del sud della Francia, con rappresentazioni di costellazioni o l'inclusione di piante e semi di girasole. Kiefer, appassionato lettore, arricchisce le sue opere con riferimenti letterari e poetici stratificati. Queste associazioni non sono necessariamente fisse né letterali, ma si sovrappongono in un tessuto interconnesso di significati e l’interesse per i libri, sia come testo che come oggetto, si riverbera nel suo lavoro. Fin dall’inizio della carriera i libri d'artista hanno costituito una parte significativa della sua produzione. Oltre a realizzare dipinti, sculture, libri e fotografie, Anselm Kiefer è intervenuto in vari luoghi. Dopo aver trasformato una vecchia fabbrica di mattoni a Höpfingen, in Germania, in uno studio, ha creato installazioni e sculture che sono diventate parte del luogo stesso. Alcuni anni dopo il suo trasferimento a Barjac, in Francia, Kiefer ha nuovamente trasformato la proprietà intorno al suo studio scavando per creare una rete di tunnel sotterranei e cripte collegati a installazioni. Lo studio fa ora parte della Eschaton-Anselm Kiefer Foundation, ed è aperto al pubblico regolarmente. L'istituzione della fondazione nel 2022 è coincisa con il ritorno di Kiefer a Venezia dove, in parallelo alla Biennale, ha inserito nel Palazzo Ducale una serie di dipinti ispirati agli scritti del filosofo italiano Andrea Emo. Anselm Kiefer attualmente lavora e vive vicino a Parigi. Le opere di Kiefer sono presenti in importanti musei di tutto il mondo, tra cui il MoMA e il Metropolitan Museum di New York, l’Albright-Knox Art Gallery di Buffalo, l’Art Institute di Chicago, il Philadelphia Museum of Art, il San Francisco Museum of Modern Art, l’Albertina di Vienna, la Nationalgalerie im Hamburger Bahnhof di Berlino, la Pinakothek der Moderne di Monaco di Baviera, il Sezon Museum of Art di Tokyo, il Louisiana Museum of Art, in Danimarca, il Rijksmuseum di Amsterdam, il Centre Pompidou di Parigi, il Guggenheim Museum di Bilbao, il Tel Aviv Museum of Art. Opere realizzate su commissione sono inoltre installate in modo permanente al Louvre e al Panthéon di Parigi.

Palazzo Strozzi Firenze
Anselm Kiefer. Angeli caduti
dal 22 Marzo 2024 al 21 Luglio 2024
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 23.00
 
Foto Allestimento della mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti Foto © Okno Studio