Giovanni Cardone Giugno 2025
Fino al 2 Novembre 2025 si potrà ammirare a Palazzo delle Paure a Lecco la mostra Antonio Ligabue e l’arte degli Outsider a cura di Simona Bartolena. L’esposizione prodotta e realizzata da ViDi cultural e Ponte43, in collaborazione con il Comune di Lecco e il Sistema Museale Urbano Lecchese. Il Progetto espositivo propone 14 opere di Antonio Ligabue e una quarantina di dipinti e disegni realizzati da maestri quali Filippo de Pisis, Carlo Zinelli, Gino Sandri, Edoardo Fraquelli, Pietro Ghizzardi, Mario Puccini, Rino Ferrari, artisti che hanno conosciuto il manicomio o le cui ricerche hanno seguito percorsi anomali, fuori dagli schemi. Un racconto sul complesso rapporto tra arte e follia; uno sguardo approfondito sulle vicende personali e sulla produzione di autori che hanno scritto pagine importanti della storia dell’arte italiana del Novecento, la cui formazione sviluppatasi nell’alveo di studi tradizionali, si è indirizzata verso esiti altri, dopo aver vissuto una esperienza manicomiale che li ha segnati profondamente e sulla ricerca di autori che proprio in un ospedale psichiatrico hanno scoperto il potere dell’arte e il proprio talento. Alcuni di loro sono entrati in strutture psichiatriche quando già pittori affermati, altri si sono scoperti artisti proprio nelle stanze di una casa di cura. Tutti si sono distinti per la loro diversità, il loro pensiero libero, il loro essere degli outsider, poetici portatori di punti di vista differenti. Otto vite. Otto storie personali. Otto linguaggi artistici fuori dal comune, capaci di raccontare il complesso rapporto tra arte e “follia”, un intreccio difficile da districare che lascerà al visitatore importanti motivi di riflessione. Una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Antonio Ligabue apro il mio saggio dicendo : Il percorso ruota attorno alla figura di Ligabue che nell’atto di creare arte è un percorso che è conosciuto e interessa solo l'essere umano e gli permette di osservare e ricreare il mondo che percepisce tanto all’esterno quanto dentro di sé. L'arte è un veicolo per l'espressione di emozioni intense, ricordi profondi, un modo per riflettere su paura, dolore, memoria in un luogo sicuro, un mezzo catartico di salvezza interiore e un viaggio nelle profondità dell'animo umano. Paul Cèzanne  credeva fortemente nella dimensione salvifica della sua arte, tanto da aver detto “Non essere un critico d’arte, ma dipingi, lì si trova la vera salvezza”. Il pittore francese post-impressionista era convinto della correlazione tra arte e individuo e ne provò il potere in prima persona. Non fu il solo. Paul Gauguin   ha descritto l'importanza e il potenziale della creazione e della visualizzazione di opere d'arte come veicolo di guarigione, mentre la pittura di Edvard Munch impregnata dei suoi drammi esistenziali e di sofferenza, è stata l'espressione più radicale del suo tumulto interiore: le sue opere d'arte in qualche modo lo hanno aiutato a spiegare a se stesso la vita e il suo significato. L'arte è un processo terapeutico attraverso cui un individuo esplora le proprie emozioni, si riconcilia con i propri conflitti emotivi, forma la propria consapevolezza. L'arte ha anche permesso che la malattia mentale venisse considerata parte della condizione umana e non una circostanza aliena, lontana dalla sfera quotidiana e ordinaria. Antonio Ligabue , pittore e scultore italiano, è stato uno dei più grandi artisti del Novecento e tutta la sua vita è stata caratterizzata da gravi disagi psico-fisici, a partire dal rachitismo, crisi nervose con picchi di stato maniaco-depressivo, malesseri continui e intensi che riuscì a mitigare con il suo mestiere di artista. L'espressione artistica riuscì a donargli sollievo dalle sue inquietudini, dalle ossessioni e dalla solitudine. Gli animali Ligabue li osservava e li studiava nelle campagne, nei boschi, nelle paludi: predatori, prede, vittime e carnefici sono tutti soggetti delle sue opere. Imparò a fidarsi di loro e a rispettarli, perché da loro non veniva giudicato, offeso, rigettato o internato, come spesso accadeva con gli altri esseri umani. Il suo girovagare, le sue escursioni, lo studio nomade nutrivano l'ardore che riversava nelle sue tele: Ligabue dipingeva con frenesia, con disordine, e mai in silenzio. Con la tela e con se stesso intratteneva un rapporto impetuoso: si rimproverava, si elogiava, spesso a ogni pennellata abbaiava o miagolava se il soggetto della sua opera erano un cane o un gatto. Era talmente immerso nel suo lavoro da ricreare e imitare i versi, le pose, le posture degli animali e bestie selvatiche ritratte, immaginandone le azioni e i comportamenti. Per questo veniva giudicato, schernito, accusato di essere abitato dal demonio, posseduto, bollato come un uomo strano, “Toni al mat”, che entrava e usciva dai manicomi e ululava alla luna. Quella possessione creativa coincideva alla perfezione con il pensiero di Schopenhauer , secondo cui questa è privilegio esclusivo del genio, “colui che fa penetrare un raggio di luce nell'oscurità dell’esistenza”. L’arte come terapia, la pittura e la scultura come antidoti all’ossessione e al disagio. Tela, pennello e colori come strumenti per l’affermazione di un uomo perseguitato dal destino e irrimediabilmente solo. Antonio Ligabue è stato considerato l’apripista italiano della pittura naïf, la corrente che raggruppava gli autodidatti dell’arte. Ma la definizione può apparire riduttiva, visto che il genio di “Toni el matt” così lo chiamavano nella Bassa Reggiana, dove Ligabue visse gran parte della sua vita adulta non era facilmente inquadrabile. Proprio per questo ebbero scarsa fortuna i molti pittori che, dopo la sua morte, cercarono d’imitarlo, ma che erano privi di quell’autentica follia, libera da vincoli e non piegata al lucro, che animava soltanto lui, il “matto del Po”. Ripercorrere la sua biografia è la sola strada che consenta di comprendere davvero l’arte disperata e senza compromessi di cui Ligabue fu artefice. A partire da un’infanzia e un’adolescenza contraddistinte da abbandoni e privazioni che lo segnarono in profondità, nel corpo e nella mente. Antonio Ligabue nacque a Zurigo il 18 dicembre 1899, figlio di Maria Elisabetta Costa, originaria del Bellunese, e di padre ignoto. Venne registrato all’anagrafe con il cognome della madre, salvo poi acquisire quello del padre adottivo, Bonfiglio Laccabue, nato a Gualtieri (Reggio Emilia), quando due anni più tardi costui sposò Maria Elisabetta e lo riconobbe. In età adulta, Antonio avrebbe però mutato il cognome in Ligabue, come a segnare una distanza da quel padre acquisito che riteneva responsabile della morte della madre, deceduta nel 1913 per intossicazione alimentare insieme a tre dei suoi fratelli. Con la famiglia naturale, il piccolo Antonio non visse mai. Già a un anno d’età venne affidato a Johannes Valentin Göbel ed Elise Hanselmann, una coppia di svizzeri tedeschi non più giovani e senza figli, con cui il bimbo instaurò un rapporto profondo (in particolare con la donna) benché conflittuale. Le ristrettezze economiche della famiglia affidataria, costretta a spostarsi continuamente da un luogo all’altro in cerca di lavoro, e la conseguente impossibilità di garantire al bambino un’adeguata alimentazione aggravarono le malattie da cui era affetto e che lo rendevano d’infelice aspetto: gozzo e rachitismo. Ciò ne compromise lo sviluppo psicofisico e contribuì al suo isolamento, alla costruzione di un muro interiore che lo separava e difendeva da una realtà esterna vissuta come ostile.  Una barriera che solo l’arte, anni dopo, seppe in parte infrangere. La difficoltà di apprendimento e i comportamenti scontrosi e bizzarri di Antonio indussero la famiglia a iscriverlo in istituti per ragazzi minorati, dove si cercava di avviare i giovani all’apprendimento di un mestiere. Ligabue ne cambiò tre in pochi anni e dall’ultimo, nel 1925, fu espulso per cattiva condotta. Due anni dopo, in conseguenza di una violenta crisi nervosa, arrivò il primo ricovero in una struttura per malati psichici. Dimesso, Antonio tornò dalla famiglia adottiva, ma solo per brevi periodi, alternati a lunghi vagabondaggi, duranti i quali si manteneva offrendosi come lavorante nelle fattorie. Nel 1919, a seguito di una denuncia della madre affidataria, fu espulso dalla Svizzera e accompagnato a Gualtieri, la città natale del padre adottivo Bonfiglio. Qui l’isolamento del giovane divenne ancora più drammatico, anche perché parlava solo il tedesco. La sua esistenza riprese errabonda sulle rive del Po, dove Ligabue si offriva a giornata come bracciante o manovale ospitato nelle fattorie o trovando riparo in capanne lungo il fiume. Più spesso sopravviveva grazie all’aiuto dell’Ospizio di mendicità Carri. Soltanto il disegno, e in seguito la pittura e la scultura, sembravano offrire sollievo alle sue ansie, dando corpo ai fantasmi che non riusciva a far emergere a parole, penalizzato da un vocabolario limitato, un misto quasi incomprensibile di italiano, tedesco e qualche parola di dialetto. Le prime prove furono caratterizzate da un’assoluta istintività: quadri a tinte sbiadite e contorni sfumati, ma che già recavano in embrione il segno di un talento autentico e originalissimo, oltre alla predilezione per le tematiche naturali. Campi, boschi, scene di vita contadina sarebbero stati i soggetti preferiti della sua intera vita artistica. Disegnava soprattutto animali, selvatici o domestici, gli unici esseri con i quali Ligabue sentiva di avere una relazione stretta. “Io so come sono fatti anche dentro” spiegava. Erano i soli in grado di accettare la sua diversità di uomo e di artista. Negli anni Venti, l’incontro con il pittore e scultore Renato Marino Mazzacurati, che seppe scorgere il genio in quel giovane nomade e scorbutico che viveva ai confini della società, gli aprì nuove frontiere. Mazzacurati lo introdusse alla tecnica della pittura a olio e, contemporaneamente, corresse la patina di dilettantismo delle prime opere. Più consapevole della propria arte, Ligabue vi si concesse anima e corpo, pur continuando a vivere la sua vita nomade nelle campagne intorno al Po. Non aveva bisogno di modelli: dipingeva attingendo alla sua straordinaria fantasia e alla memoria visiva. Una memoria che tutto registrava, dai libri ai film, e tutto era in grado di riprodurre, filtrato attraverso una sensibilità speciale, per fissarlo in scene potenti ed evocative. Erano opere realizzate di getto, senza disegni preparatori: Ligabue partiva da un particolare ma sembrava già avere in mente tutto il dipinto. Spesso incominciava dalla testa del soggetto principale, poi procedeva a tratteggiarne il corpo, quindi toccava agli altri elementi e infine al paesaggio sullo sfondo, evitando ritocchi e ripensamenti. Tra gli anni Venti e Trenta, Ligabue diede vita a una produzione forsennata: dipingeva per sopravvivere, in cambio di vitto e alloggio, senza mai datare i dipinti, pratica che avrebbe reso arduo ogni tentativo di catalogazione coerente della sua opera. Ma se l’arte gli offriva i suoi soli momenti di serenità, non poteva bastare a placare le angosce che, nel 1937, lo portarono di nuovo in manicomio, dopo aver compiuto alcuni atti di grave autolesionismo. A farlo uscire dall’istituto psichiatrico fu un altro artista, lo scultore Andrea Mozzali, che lo ospitò nella sua casa di Guastalla. Ligabue riprese a battere il Po e le sue terre, aggirandosi per le campagne, ripetendo ossessivamente “Dam un bès!” (dammi un bacio): un disperato tentativo di carpire un gesto d’amore che gli era stato sempre negato. Durante la Seconda guerra mondiale fu impiegato come interprete delle truppe tedesche, anche se sul finire del conflitto proprio l’aggressione con una bottiglia a un soldato del Reich gli valse un nuovo ricovero, stavolta per tre anni. Tornato libero, alla fine degli anni Quaranta sviluppò una pittura più matura, dai tratti decisamente espressionisti. Gli animali, dapprima statici, presero improvvisamente vita per farsi dinamici: galli sgargianti, leoni mostruosi, aquile e serpenti venivano ritratti in crude scene di lotta, con le fauci spalancate, quando avevano già ghermito la preda. Il cromatismo si fece acceso, la pennellata convulsa e spessa. L’artista chiamava a raccolta il suo bestiario esotico, trasferendolo in riva al Po, per mettere in scena il conflitto e la violenza che avevano segnato la sua vita. Un destino mai scelto ma sempre subìto, che faceva di lui un ostaggio, più che un protagonista, della sua stessa esistenza. In questo periodo cominciarono a comparire i primi autoritratti (ne avrebbe dipinti oltre trecento): l’inizio di un convulso tentativo di dare forma al proprio “io” inespresso. Di tali prove non si sarebbe mai detto completamente soddisfatto, tanto da arrivare al gesto estremo di martoriarsi il volto solo per renderlo simile al dipinto. Poco prima degli anni Cinquanta la critica cominciò a interessarsi al “matto del Po”, il pittore autodidatta. Oltre che l’artista, era il personaggio a catturare l’attenzione di giornalisti e mercanti d’arte. La prima mostra personale fu allestita nel 1955 a Gonzaga, e l’anno successivo Ligabue partecipò al “Premio Suzzara”. Nel 1957, il “Resto del Carlino”, quotidiano di Bologna, inviò a Gualtieri, per intervistarlo, un celebre giornalista, Severo Boschi, insieme al fotoreporter Aldo Ferrari. Ne nacque un servizio che diede al pittore ulteriore visibilità. Così, nel 1961, venne allestita la sua prima mostra personale alla galleria La Barcaccia di Roma. I tempi delle ristrettezze economiche erano  finalmente alle spalle e Ligabue, artista ormai riconosciuto dalla critica ufficiale, poté dedicarsi ad alcune sue passioni, tra cui la motocicletta. Le due ruote, però, lo tradirono: Antonio subì un incidente, e l’anno dopo una paresi ne rallentò ulteriormente l’attività. Menomato nel fisico e nella mente, dopo aver chiesto di essere battezzato e cresimato, morì il 27 maggio 1965 e fu sepolto nel cimitero di Gualtieri, dove sulla lapide venne posta una maschera funebre in bronzo realizzata da Mozzali. Poco dopo la morte, gli fu dedicata una retrospettiva nell’ambito della IX Quadriennale di Roma: il “matto del Po” era diventato un genio dell’arte. L’esposizione si snoda attraverso i due poli principali lungo i quali si è sviluppato il suo percorso artistico: gli animali, selvaggi e domestici, e i ritratti di sé, senza dimenticare altri soggetti come le scene di vita agreste o i paesaggi padani, nei quali irrompono, come un flusso di coscienza, le raffigurazioni dei castelli, delle chiese, delle guglie e delle case con le bandiere al vento sui tetti ripidi della natia Svizzera, dov’era nato e dove aveva vissuto fino all’espulsione nel 1919 la memoria della patria perduta. Ligabue rappresenta sia animali domestici, colti in un’atmosfera rurale, sia gli animali selvatici - tigri, leoni, leopardi, gorilla, volpi, aquile - di cui conosceva molto bene l’anatomia, spesso raffigurati nel momento in cui stanno per piombare sulla preda, con un’esasperazione di carattere espressionista, sia nella forma sia nel colore, e con un’attenzione quasi spasmodica per la reiterazione di elementi decorativi. Gli autoritratti costituiscono un filone di altissima e amarissima poesia nell’arte di Ligabue. In essi, il pittore si colloca in primo piano, quasi a occupare tutto lo spazio della scena, sullo sfondo di un paesaggio che pare quasi sempre, salvo rare eccezioni, un dettaglio del tutto ininfluente. I suoi ritratti di sé compendiano una perenne e costante condizione umana di angoscia, di desolazione e di smarrimento, un lento cammino verso l’esito finale; il suo volto esprime dolore, fatica, sgomento, male di vivere; ogni relazione con il mondo pare essere stata per sempre recisa, quasi che l’artista potesse ormai solo raccontare, per un’ultima volta, la tragedia di un volto e di uno sguardo, che non si cura di vedere le cose intorno a sé, ma che chiede, almeno per una volta, di essere guardato. La rassegna esposta alla Reggia di Monza riserva particolare attenzione alla sua produzione plastica, con un nucleo di oltre venti sculture in bronzo, soprattutto di animali. L’esposizione costituisce un ulteriore capitolo per riportare il lavoro di Ligabue a una corretta valutazione critica e storica: un’occasione per riaffermare, al di là delle fuorvianti definizioni di naïf o di artista segnato dalla follia, il fascino di questo “espressionista tragico” di valore europeo, che fonde esasperazione visionaria e gusto decorativo. La mostra si apre con una installazione di Giovanni Sesia, artista contemporaneo, che ha lavorato sul tema degli internati in manicomio, impiegando nei suoi lavori le foto dei loro volti, prese dagli archivi delle principali strutture italiane di inizio Novecento e facendone una tematica cardine della propria ricerca. Tra questi, spicca il livornese Mario Puccini(1869-1920), vero e proprio caso nella pittura toscana tra i due secoli. Isolato, affetto da difficili patologie comportamentali, autonomo nella ricerca pittorica, fu definito dal critico Emilio Cecchi, suo estimatore, “un Van Gogh involontario”. Considerato folle, nel 1894 viene rinchiuso nell’Ospedale psichiatrico San Nicolò di Siena, struttura da cui uscì quattro anni dopo. Puccini riprese a dipingere come un uomo nuovo,come se gli anni di reclusione lo avessero convinto della propria vocazione all’arte. Una volta fuori dalle mura dell’Ospedale, egli si interesserà in via esclusiva ai suoi dipinti, caratterizzati da una certa ripetitività nei temi(le marine e le ambientazioni di Livorno) ma animata da una cifra stilistica personale, unica, potentemente emozionale, in cui il colore è il vero protagonista. Anche quella di Gino Sandri (1892-1959), finissimo intellettuale, scrittore straordinario e disegnatore e pittore dalla mano felicissima, è un’esistenza segnata dalla permanenza in manicomio. Promettente artista, molto apprezzato come illustratore, nel 1924 Sandri viene inquisito e rinchiuso in una casa di cura a Roma con l’accusa di essere un soggetto pericoloso, a seguito di non precisati crimini di “natura politica”. Rilasciato e rientrato a Milano nel febbraio del 1926, riprende la propria attività artistica, ma dopo pochi mesi è di nuovo internato in una clinica a Turro e poi ad Affori, per poi passare, dopo la morte della madre, due anni nell’ospedale psichiatrico di Mombello a Limbiate (MB). Una volta dimesso, si trasferisce a Ceriano Laghetto, ma il suo equilibrio psichico è ormai compromesso e sovente egli rientra in manicomio. Completamente solo, lascia alle tante pagine scritte e ai fogli su cui traccia i volti di chi lo circonda la propria testimonianza di vita.  I suoi disegni degli ospiti del manicomio – molti dei quali si possono ammirare a Palazzo delle Paure - tratteggiano, con il segno sicuro di un artista completo e talentuoso, i caratteri di un’umanità varia, ai margini della società, ma sempre poetica. Di altissima qualità dal punto di vista stilistico, le grafiche di Sandri hanno la capacità di emozionare, narrando persone reali, descritte in tutta la loro complessità. I ritratti degli internati nel manicomio di Mombello furono anche il soggetto privilegiato di Rino Ferrari, entrato in clinica psichiatrica a seguito dell’esperienza traumatica vissuta durante il massacro di Cefalonia. Incoraggiato dal medico, Ferrari inizia a disegnare. L’artista passava ore con i moribondi, cercando di cogliere, come nelle opere della serie Agonia, il momento di passaggio tra la vita e la morte. Anche Carlo Zinelli (1916-1974), uno degli autori più noti del panorama della creatività nata tra le mura di un manicomio, trova nell’arte uno straordinario strumento di comunicazione. Grazie alla vicinanza e al conforto dello psichiatra Vittorino Andreoli, Zinelli produrrà opere dalla cifra stilistica inconfondibile, riconosciute oggi come una delle espressioni più interessanti dell’Art Brut. I suoi lavori raccontano una cultura figurativa destabilizzante, con riferimenti inconsapevoli all’iconografia egizia, ai manufatti aborigeni, alle maschere e agli idoli di alcune popolazioni africane e accenti primitivisti. La rassegna si completa con due affondi su Pietro Ghizzardi (1906-1986) ed Edoardo Fraquelli (1933-1995).  Il primo, figlio della grande pianura attraversata dal Po, è spesso accostato ad Antonio Ligabue. Ma la sua pittura non racconta la vita nei campi, i paesaggi della Bassa, le ambientazioni esotiche popolate da belve feroci, quanto ritrae le belle donne del paese con uno stile che rivela inaspettati accenti primitivisti e con una tavolozza dalle infinite gamme dei grigi. Il secondo, nato a Tremezzo sul lago di Como, muove i suoi primi passi nell’ambito dell’Informale, con accenni più vicini al naturalismo morlottiano. Fragilissimo psichicamente, Fraquelli entra in manicomio e abbandona per qualche tempo l’arte.Sarà l’incontro due giovani collezionisti che si innamorano della sua pittura e lo sostengono a spingerlo a riprendere a dipingere. Le sue opere si caratterizzano per una sapienza compositiva e un equilibrio sempre controllatissimi. Fraquelli passa da creazioni cromaticamente vibranti e dal segno carico di tensione a lavori in cui l’ordine e il silenzio sembrano avere la meglio. La sua ora è una pittura di luce, di gialli vibranti e onirici rosa, l’esito quasi inevitabile di una liberazione interiore, di una nuova consapevolezza e di una profonda speranza. Accompagna la mostra un catalogo realizzato da Ponte43 per le edizioni ViDi cultural.
 
Palazzo delle Paure – Lecco
Antonio Ligabue e l’arte degli Outsider
dal 13 Giugno 2025 al 2 Novembre 2025
Martedì dalle ore 10.00  alle ore 14.00
dal  Mercoledì alla Domenica dalle ore 10.00  alle ore 18.00
Lunedì Chiuso
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