Giovanni Cardone Giugno 2022
Fino al 4 Settembre 2022 possiamo ammirare a Palazzo Reale di Milano la mostra antologica di Ruggero Savinio. Opere 1959-2022 a cura di Luca Pietro Nicoletti promossa e prodotta dal Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale e Silvana Editoriale , l’esposizione è stata allestita nelle stanze dei Principi di Palazzo Reale. Ruggero Savinio torna così a Milano con un’esposizione antologica che presenta al pubblico alcune opere in parte inedite, o che non si vedevano da molto tempo, provenienti da collezioni pubbliche e private, ma anche dai depositi del Museo del Novecento, e che ripercorrono per intero la sua vicenda artistica e biografica. Si parte proprio dagli anni di formazione avvenuti fra Roma, Parigi e soprattutto Milano, che è teatro di una delle sue stagioni più intense e tormentate, quando l’artista era in cerca di un luogo dove radicarsi e trovare una sua propria identità umana ed artistica. La storia raccontata in questa mostra - affidata a un gruppo di studiosi molto più giovani di lui, quasi un tramando fra generazioni - non è quella del figlio di Alberto Savinio e del nipote di Giorgio de Chirico, numi tutelari mai rinnegati ma tutto sommato lontani, eco sullo sfondo di questa esposizione: è, invece, il racconto autonomo di un uomo che ha fatto della pittura, come scrisse lui stesso nel 2008, la «melodia interna» della sua vita.
Dei tre de Chirico, infatti, Ruggero è sicuramente quello più “pittore”, che pur amando la letteratura e portandone le care e grandi ombre nel proprio immaginario visivo, ha capito che la via, per lui nato negli anni Trenta del Novecento, era di recuperare quel valore retinico della pittura che si disfa sulla tela, che è tutta colore e materia, attraverso cui raggiungere le vette di un’immaginazione arcadica, di panica adesione alla natura; salire il picco del sublime nel silenzio maestoso delle rovine antiche, e calarsi infine nella quiete domestica di anni maturi, finalmente sereni. Savinio punta, come ha scritto nel 2019 ne Il senso della pittura, un “assoluto” pittorico scevro da possibili altre implicazioni, capace di guardare ai maestri del passato con la freschezza di una scoperta declinata al presente. Non un’arte che descrive, la sua, ma «una sorta di abbandono alla vitalità della pittura». Per questo motivo si è scelto di presentare Savinio come se i suoi quadri fossero nati per le dieci sale dell’appartamento neoclassico, fra modanature, specchiere e velluti, per ricordare come la sua ricerca abbia fatto continuamente i conti con il Museo ideale della pittura e con le grandi quadrerie antiche. La scoperta di quei maestri, e in particolare quelli del secondo Ottocento, era avvenuta nelle grandi collezioni europee, ma anche grazie alle opere visibili nelle raccolte pubbliche milanesi, dove nacque quell’amore sensuale per il colore che si posa sulla tela con un fremito di piacere. È un Novecento “altro”, quello a cui appartiene, in cui soffia un vento nordico placato dalle luci del Mediterraneo, fedele alle proprie ragioni interne e indifferente alle mode più chiassose e mondane dell’arte del secondo Novecento. Ai ritmi del consumo dell’arte contemporanea, infatti, Savinio ha opposto una composta e imperturbabile visione del mondo, che abbraccia il crepuscolo dei poeti. Sotto l’epidermide sensibile di una pittura fatta di piccoli tocchi, che l’artista stesso nel 1996 ha definito una «peripezia luminosa», e che conduce in luoghi ameni e idilliaci, c’è infatti un velo di malinconia e di inquietudine: nostalgia, forse, di una perduta “età dell’oro”. «All’età di concludere» ha scritto Savinio di sé nel 2019, «sono ancora annesso alla categoria dei figli. Questa condizione, oltre all’ovvia conseguenza d’incenerire una lunga stagione di lavoro, possiede quella positiva di darmi una persistente immarcescibile giovinezza». In una mia ricerca storiografica e scientifica sui tre De Chirico ovvero : Giorgio, Andrea ( Alberto Savinio) ed infine ho evidenziato la figura di Ruggero Savinio, apro il mio saggio dicendo : La riflessione di Nancy Huston sulla scrittura di Savinio se essa ha avuto origine durante il primo soggiorno in Francia, si è poi costituita nell’alternanza di francese e italiano. A questa esperienza dell’entre-deux la critica si è sempre interessata in relazione a tre momenti precisi dell’attività letteraria di Savinio: Les Chants de la mi-mort del 1914 e Hermaphrodito del 1916 che contraddistinguono gli esordi letterari; l’Introduction à une vie de Mercure del 1929 e alcune traduzioni del 1938. Considerando questo panorama frammentario, che isola gli scritti francesi dalla produzione italiana, ci è parso necessario estendere il lavoro di analisi, al fine di comprendere l’esistenza di una continuità tra il debutto degli anni ’10 e gli esiti letterari della produzione successiva. Prendendo le mosse dai suoi testi e dalle bozze conservate nell’Archivio dell’autore, quel che è immediatamente apparso come oggetto di indagine è l’alternanza dell’uso della lingua francese e italiana anche all’interno di quella produzione considerata prettamente italiana.
Ci è sembrato quindi necessario, al di là degli studi già compiuti, cercare di ricostruire il rapporto tra queste due lingue nel loro sviluppo diacronico. Ho analizzato i lavori di Savinio e dall’analisi delle opere del primo periodo che hanno allo stesso tempo aperto la strada allo studio della traduzione tardiva degli anni ’40 .Sempre all’interno di una lettura diacronica, abbiamo fatto riferimento ai saggi di Giuditta Isotti Rosowsky e di Thomas Bernet, sull’Introduction à une vie de Mercure, due testi che, assieme alle bozze ritrovate negli Archivi, hanno costituito il punto di partenza per lo studio della genesi del progetto per Vita di Mercurio. La mia ricerca è stata completata dall’analisi del rapporto di Savinio con l’autotraduzione che, grazie all’interessamento di Henri Parisot, a partire dal 1938 definisce e struttura il progetto di edizione in Francia della sua attività di scrittore. Questo corpus eterogeneo ci ha permesso di constatare la presenza costante del francese nella sua opera e il modo in cui questa lingua interagisce nella sua scrittura. L’esperienza bilingue di Savinio non è un caso isolato all’interno della generazione di scrittori nati tra Ottocento e Novecento che vivono nella suggestione della cultura francese: da Filippo Tommaso Marinetti a Giuseppe Ungaretti, bilingui di nascita; da Gabriele D’Annunzio, a Ardengo Soffici e Giovanni Papini. Per non parlare, infine, del fratello di Savinio, Giorgio de Chirico, che utilizza anche la lingua francese per esprimere il suo «Io» artistico. La formazione cosmopolita avvenuta tra più capitali europee che contraddistingue il percorso biografico dei due fratelli de Chirico ha permesso loro di acquisire una conoscenza privilegiata di più lingue che ha avuto come esito una scrittura sospesa tra francese e italiano. La formazione comune e il differente rapporto con la scrittura fanno dei Dioscuri un caso particolare di bilinguismo letterario, che richiede un approfondimento circa il valore che assume la lingua francese nel decidere gli esiti della loro scrittura. Nel caso di de Chirico si è reso necessario, innanzitutto, vagliare all’interno della sua produzione decisamente frammentaria, a causa dei molti inediti, il corpus poetico da prendere in esame. L’accesso alla sua opera, reso possibile dalle raccolte di editi ed inediti, ha permesso di approfondire lo studio sul rapporto dell’artista con le due lingue nella loro evoluzione diacronica, così come finora è emerso dagli studi di Jean-Charles Vegliante (Poèmes/Poesie) e di Maurizio Fagiolo dell’Arco (Il Meccanismo del pensiero). A seguito di un’attenta lettura della produzione lirica, tre aspetti particolari della sua scrittura si sono imposti alla nostra attenzione. La ricorrenza di alcuni termini tra le poesie francesi degli anni ’10 e le poesie italiane di Ferrara. La riscrittura di alcuni componimenti lirici francesi ed italiani che, come segnala Vegliante preludono al romanzo francese Hebdomeros. La constatazione, infine, che la maggior parte delle sue poesie degli anni ’70 nasce da una precedente scrittura in francese. Il mio studio preliminare sul bilinguismo dei due fratelli de Chirico ci ha quindi rivelato la comune volontà di mettersi alla prova nella scrittura tra le lingue. Una volta individuate le direttrici principali che determinano il loro bilinguismo, ci siamo posti il problema del loro rapporto con queste due lingue. Se ad ogni lingua è attribuito un particolare valore all’interno di un testo, se ogni lingua assume un determinato ruolo nel discorso poetico, è difficile separare la questione linguistica dalla riflessione sul ruolo assegnato ad una data lingua quando si decide di diventare scrittore.
Nel caso dei nostri autori questa problematica prende forma a Parigi e si sviluppa e si risolve in Italia. La scrittura, di conseguenza, non può essere separata dal suo contesto, dal momento che la questione si pone all’interno di un determinato milieu storico e culturale. La scelta di una lingua è allora una scelta esclusivamente di poetica o è determinata da ragioni storico-culturali o politiche? Porre una tale domanda ci porta ad interrogarci sull’importanza di Parigi nella formazione artistica dei due fratelli de Chirico. La capitale francese costituiva allora la fucina delle avanguardie ed incarnava il simbolo della modernità. È nel chiaroscuro di questo brusco contrasto tra le tenebre del passato e la luce della modernità che gli «Italiani di Parigi» vivono il loro periodo di formazione nella capitale francese, nonché il loro esilio volontario e temporaneo. La ville lumière diffonde così la sua luce in tutta Europa, costringendo gli artisti a confrontarvisi. Lo scoppio del primo conflitto mondiale segna la fine di questa atmosfera particolare ed obbliga a scegliere da che parte stare. La giovane nazione italiana è pronta a rinnegare una Francia che, nell’immaginario collettivo, rappresenta la nazione da uguagliare e alla quale provare il proprio valore. L’immagine di Parigi si trasforma così, a poco a poco, fino a rappresentare «l’envers unique de l’italianité» . Essere bilingue francese e italiano, in quella particolare contingenza storica, rende quindi ancor più necessaria una scelta. La lingua si carica allora di un survalore: ancora prima di essere una scelta di poetica, simbolizza la rivendicazione identitaria. I fratelli de Chirico, bilingui e deracinés, si ritrovano coinvolti in queste dinamiche sovra-individuali che culminano nella loro partecipazione a «La Vraie Italie». Questa rivista, fondata nel 1918, incarna difatti il sentimento di frustrazione nato in Italia nell’immediato dopoguerra. Scritta in francese, ma destinata ad un pubblico internazionale, si propone come la vetrina della giovane Italia moderna ed ambiziosa. Comprendere il ruolo dei de Chirico all’interno della rivista ci consentirà di verificare la connessione tra il bilinguismo letterario e poetico e il bilinguismo inteso come strumento di affermazione identitaria. Gli studi dedicati a «La Vraie Italie» sono piuttosto esigui; un’indagine più approfondita è stata rivolta al suo ideatore, Giovanni Papini. Culture et identité di Maria Pia De Paulis-Dalambert, così come ad alcuni collaboratori per Savinio, in particolare, ricordiamo lo studio di Paola Italia in Il pellegrino appassionato. Nel corso del nostro lavoro ci siamo posti la questione di quel che rappresenta l’esperienza del bilinguismo nell’opera di Andrea e Giorgio de Chirico: dalle origini di una scrittura nata tra due lingue, fino agli effetti che questa ha avuto nella loro intera opera, passando attraverso lo studio dell’importanza e del ruolo dato ad ogni lingua. La relazione tra francese e italiano, che non si limita a esprimere solo istanze espressivo formali, ma si carica di valenze esistenziali, ci ha portato a scegliere un doppio registro di lettura ed interpretazione della problematica del bilinguismo, completando l’approccio testuale con quello ermeneutico. Con questa profonda analisi dei due fratelli De Chirico posso dire con certezza che Ruggero Savinio lungo il suo percorso artistico riesce ha rappresentare in pieno sia la figura che le avanguardie storiche. Le sue riflessioni, le sue analisi danno un andamento più ampio, portando alla luce quel nesso tra vita e pittura più volte evocato da Savinio. Soprattutto, però, Ruggero ha insistito sul suo bisogno di semplificare, di liberare sé e l’opera da ogni intenzione didattica. L’opera, dunque, vale perché si incardina in una vita e, insieme, in una tradizione che la legittima.
Pertanto non ha bisogno di trovare fuori di sé la sua ragion d’essere. Colpisce di Ruggero la profonda radicalità delle sue riflessioni, espresse con il garbo che gli è consueto. Nei diversi colloqui, che hanno avuto luogo nel suo studio romano, Ruggero ricorda alcuni artisti che hanno influenzato la sua ricerca: Bacon, Balthus, Giacometti. E poi il rilievo essenziale assunto da Munch, Rembrandt, Von Marées, che continua ad ossessionarlo, l’ultimo Tiziano, «che lascia le sue impronte sulla tela», a testimoniare il legame tra opera e fallimento: dove l’incompiutezza, però, emancipa l’opera dalla accademia, dalla pedissequa ricaduta nell’algida disciplina del canone.
Ciò che accomuna questi pittori diceva Savinio se pur lontani nel tempo è la consapevolezza della fatica che la figura sopporta per pervenire all’immagine, il distacco doloroso dal «sostrato magmatico, oscuro del linguaggio, la lenta emersione dall’oscurità di cui, tuttavia, continua a serbare traccia». Di Bacon, ad esempio, Ruggero sottolinea con grande finezza l’oscillazione tra «definitezza e evanescenza». La figura, cioè, è insidiata dalla possibilità del proprio disfacimento. I quadri di Ruggero emozionano profondamente. Chi li guardi con attenzione non può che rimanere colpito dai colori e, in particolare, dalla luce che li intride. Luce che si posa su cose e persone, memore, però, nello stesso tempo, dello sfondo opaco, dell’ombra da cui proviene. Dal «fondo mitico», dall’effrazione inferta, inevitabilmente, all’unità originaria indifferenziata prende, infatti, corpo il «percorso della figura». Percorso tortuoso e accidentato, dove convivono, in una polarità che si sottrae a ogni conciliazione dialettica, il desiderio di individuarsi e la fatica che l’adempimento di questo desiderio porta con sé: come se l’approdo all’identità, la conquista di una definitezza senza scarti e sbavature rappresentassero più una costrizione che una conquista. Savinio sottolinea che quel fondo mitico è lo spazio della pittura, il luogo dei possibili che rivendicano il proprio diritto ad esistere. Occorre, allora, «cercare la luce nel fondo dell’ombra, il colore nel nero e nel buio». Presenza oscura da cui l’opera prende corpo, «caligine che ammanta le figure», pronta a richiamarle quando il loro tempo si sia consumato. Le figure ritratte da Ruggero abitano questa terra di mezzo strette tra l’utopica promessa di redenzione e la nostalgia di un passato mitico che sempre affiora alla ricerca di nuove possibilità di realizzazione. Sono figure esitanti che si affacciano enigmaticamente su una soglia. Non sappiamo se l’abbiano superata o siano in procinto di farlo. Ruggero le coglie nell’istante che precede il loro sfarinamento. Il lavoro del pittore, allora, è l’esito dell’«ansia di catturare gli oggetti che sostano nella luce il tempo di un lampo». La pittura può, forse, riscattare le cose dalla loro caducità, dal pericolo che corrono, come scrive Rilke, di svanire e dal dolore immedicabile della fine. Pertanto, come Savinio scrive, «l’ombra deve essere mantenuta proprio perché le cose, portate dall’ombra, possano brillare nella luce». Per quanto riguarda l’ombra: dal punto di vista plastico ho sempre considero l’ombra il sostegno dell’immagine. L’ombra, insieme con la luce, contiene l’immagine, ma mentre la luce tende a disperderla in un’infinità, l’ombra le dà un peso che chiamerei corporeo. Si potrebbe dire che l’ombra è il corpo dell’immagine, con il senso connesso di fisicità e naturalezza. Guardando alla storia della pittura, mi sembra che l’ombra sia sempre stata associata alla luce, anzi, che l’ombra contenga in sé la luce: la figura emerge dall’ombra come da un grembo oscuro. A questo punto si può considerare l’ombra come questo grembo, oscuro, indistinto, che contiene, genera e sostiene la figura, e che la figura non deve abbandonare a costo di perdersi in una luminosa infinitezza. Per metafora, potremmo chiamare ombra anche lo spessore fisico, oscuro e magmatico, vicino a quello che i greci chiamavano chora, e i pittori chiamano materia. La materia, l’ombra, la chora è anche, dunque, la forza generativa.
Possiamo identificare questa forza con il mito, secondo un’intuizione di Gianni Carchia (Il mito in pittura), di là dal significato di racconto associato al mito. Come aneddoto probativo potrei ricordare che Renoir, un pittore che sembra tutto colore e luce, unisce sempre un po’ di nero ai suoi colori. L’associazione con l’ombra la Modernità sembra averla dimenticata: ha voluto passare subito, di là da questa lenta emersione, a una luminosa assolutezza. A questo punto non posso tacere tutti gli altri sensi connessi all’ombra, per esempio: il lato oscuro dell’anima è anche una fase necessaria per raggiungere la luce, oppure secondo Jung, l’individuazione. Dice Ruggero Savinio che chiunque si accinga a un’opera di pittura con la necessaria serietà sia dominato da un’idea di perfezione. La perfezione, però, è un traguardo tendenziale, utopistico come, del resto, ogni altra attività umana e costruzione sociale. Quello che conta è questa aspirazione, col connesso sentimento di fallimento. Per inciso, in una pittura anche di quelle più cariche di maestria mi interessano proprio i fallimenti, che mostrano il rovello per avvicinarsi a una sperata perfezione.
Le sue figure sembrano sfaldarsi come se volessero tornare a confondersi con lo sfondo da cui provengono, come se cioè l’unica identità possibile risiedesse paradossalmente nel desiderio di disfarsene. Da qui la porosità dei loro confini e le lievi vibrazioni che le percorrono. Lo sfaldarsi delle figure è effettivamente connesso alla volontà di non chiuderle entro confini precisi: i precisi contorni il disegno degli artisti rinascimentali. Dici bene: la figura è porosa e vibratile, pronta a disfarsi e rientrare nel grande spazio avvolgente. D’altra parte, la storia della pittura offre tali momenti: pensa al contorno di Leonardo, lo sfumato, il disfarsi delle cose che Leonardo chiamava disfazione. Infine scrivi che la pittura è «far fronte alla minaccia del vuoto fra lo sfondo infinito da cui irrompono gli eventi e la loro chiusa definizione formale». Vortici, buchi, crepe, allora «accennano a una possibile fuga e vanificano quel chiuso rigore». L’opera raggiunge il suo equilibrio sospesa tra la «luminosa compiutezza e l’assoluta mancanza di confini». I tuoi quadri mirabilmente testimoniano questo equilibrio. Le mancanze formali vortici, crepe, ecc. testimoniano infatti di questo dissidio – dissidio amoroso potrei chiamarlo fra la perfezione e una infinita mancanza di confini. Questo dissidio mi sembra di coglierlo in tutta la storia della pittura, dalle caverne fino a noi. E negli antichi tempi, lo vedo espresso nella pittura greca, in quel che ne resta attraverso le copie romane. Ricordo un bravo pittore greco moderno, che parlava di “impressionismo greco” a proposito di quella pittura.
La mostra è divisa in cinque sezioni :
La Prima Sezione . Autoritratti
La prima sezione della mostra presenta una selezione di autoritratti, iniziando da un piccolo dipinto degli anni Settanta che lo ritrae insieme alla madre, e che segue uno schema compositivo tipico della tradizione del doppio ritratto di età moderna e contemporanea. È con gli anni Novanta, però, che questo tema compare con maggiore costanza, con immagini tratte in buona parte da fotografie che lo ritraggono, presentando l’artista in diversi contesti naturali e paesaggistici, più come figura romantica e viaggiatrice che nelle vesti di pittore nello studio, iconografia che comparirà soltanto in anni recenti. Proprio uno di questi, Istmo del 1998, era stato scelto come immagine di riferimento della mostra antologica di Ruggero Savinio al Castello Sforzesco di Milano dello stesso anno.
La Seconda Sezione .Apparizioni e ombre
La stagione d’esordio di Ruggero Savinio è caratterizzata dal suo trasferimento da Roma a Milano, oltre un periodo a Parigi, dove porrà le basi di una ricerca autonoma da retaggi e memorie familiari. Sono gli anni di frequentazione della Galleria delle Ore di Giovanni Fumagalli - dove sta muovendo i primi passi una generazione di artisti esordienti - e di alcuni maestri più anziani come Franco Francese. Del giovane Savinio, verso la fine degli anni Sessanta, si accorge anche l’ingegnere Antonio Boschi, che acquista un importante nucleo di suoi dipinti, approdati nelle raccolte del Museo del Novecento di Milano con l’intera collezione Boschi-Di Stefano e qui finalmente di nuovo visibili al pubblico. Sono anche gli anni delle grandi mostre e delle passeggiate nei musei, dove fa i conti con una lezione della pittura italiana e internazionale che porterà con sé per tutta la vita. Sotto il profilo stilistico, Savinio affronta in questa stagione i temi di nuova figurazione comuni a molti artisti della sua generazione attivi nel capoluogo lombardo e si pone gli stessi problemi pittorici: collocare la figura umana, anatomicamente semplificata fino a sembrare un’ombra o un’apparizione, all’interno di un contesto narrativo dai profili incerti ed evocativi. «La forma delle cose», aveva scritto l’artista nel 1965, «nasce dalla nostra nostalgia». Le figure, singole o in gruppi, sono forme che affiorano dal fondo, si elevano come totem spettrali in virtù di una pittura sottile e diluita, nella quale gioca un ruolo cruciale il disegno dal tratto lanoso e ritornante, che Savinio conserverà per tutta la vita. Verso la fine degli anni Sessanta, inoltre, fa la sua comparsa il tema della figura in un interno, le cui coordinate spaziali sono semplificate al punto di diventare delle quinte ortogonali, o dei sipari che offrono all’artista l’occasione di intense e luminose campiture di colore acceso e vibrante. Qui si consumano relazioni inquiete tra figure dai tratti scavati e allucinati, come nel grande disegno Doppio ritratto, già esposto a Palazzo Reale di Milano nel 1974 nella grande mostra La ricerca dell’identità curata da Gianfranco Bruno.
La Terza Sezione .Un’Arcadia luminosa
Nel corso degli anni Settanta è il tema del paesaggio a fare da motore trainante della maturazione stilistica di Savinio, che scopre la sua dimensione visiva con una pittura di tocco, fatta da brevi e ripetute pennellate di colore intenso e pastoso: è così che raggiunge quell’atmosfera rarefatta e sognanteche sarà tipica del suo stile, debitore della lezione dell’Ottocento, dal Piccio ai Simbolisti francesi, ma anche di cromie intrise di una luce intensa e brillante tutta mediterranea. Il paesaggio, che ha gli andamenti collinari e scoscesi dell’Italia Centrale, si dilata come un respiro lento e profondo, quasi il susseguirsi di avvallamenti che conduce rapidamente verso l’orizzonte si stesse trasformando in un corpo umano. Dal ciclo Distanza dal paesaggio – protagonista di una piccola e cruciale monografia All’insegna del pesce d’oro nel 1972 - a I fiori e le montagne, si riconosce un medesimo schema compositivo, che si allarga a partire da una struttura piramidale rovesciata, al centro, che accompagna lo sguardo in lontananza. Ed è proprio all’intersezione di due ripe scoscese che Savinio collocherà, come un’apparizione, una presenza figurativa, che si tratti di una figura femminile o, in seguito, di una composizione di fiori montani raccolti in un vaso. È qui, infatti, che andranno a collocarsi alcuni temi nodali della sua pittura, a partire da L’età dell’oro - titolo dato anche a un suo primo libro di scritti edito da Vanni Scheiwiller nel 1981 – fino ai Giochi d’acqua: figure appartate, spesso di schiena, si fondono al paesaggio, cedendo ai flutti marini come un abbraccio mitologico, o procedono verso il fondo, partecipando di una dimensione idilliaca e incontaminata. La Musa del 1984, invece, scende da quelle stesse montagne che chiudono la vallata di molti altri dipinti, procedendo verso l’osservatore per condurlo verso una nuova mitologia. L’immersione panica dell’uomo nella pace di un ambiente naturale incontaminato resterà molto presente nella sensibilità di Savinio, affiorando con nuovo slancio nella stagione successiva, nelle passeggiate romane fra giardini di alti pini marittimi e slarghi di riposo come il parco, anzi il giardino, di Villa Borghese.
La Quarta Sezione . Malinconia delle rovine
Gli anni Ottanta segnano per Savinio il rientro definitivo a Roma, città familiare che era sempre rimasta di sottofondo nella memoria dei suoi quadri precedenti, ma che ora riemerge con una nuova intensità non solo come paesaggio familiare ma anche come soggetto centrale della pittura. Solo ora, avvicinandosi ai cinquant’anni, fanno la loro comparsa le rovine di Roma, che si ergono come strutture massicce e compatte, pur nella loro soave decadenza, dentro paesaggi dalla luminosità intensa, ma più cupa e solenne rispetto ai dipinti diafani e visionari della stagione precedente. La sua attenzione è attratta in particolare dai grandi complessi monumentali, specie quelli che emergono da un manto erboso su cui possano adagiarsi figure pensose, rivisitazioni della Malinconia classica, o coppie distese nel prato e intente in una muta conversazione. A volte pare di riconoscere alcuni dei luoghi più noti della Roma archeologica, ma lo spirito di una città risolta per grandi blocchi scheggiati, con ombre piene e compatte e luci meridiane, caratterizza anche i rari scorci della città barocca, come una Piazza del Popolo deserta, vegliata da una ninfa nuda accoccolata in primo piano, ma anche assolate vedute della Sicilia. L’artista aveva cominciato da tempo a lavorare su preparazioni di fondo nere o brune, ricorrendo talvolta al velluto nero come supporto al posto della tela di lino, applicando una pittura a corpo quasi strofinata sulla superficie in modo da far emergere il contrasto tra fondo e colori. I profili dei monti e delle radure boschive, ma spesso anche le stesse figure, sono tornite grazie a improvvisi ritorni di luce che, come una scarica di energia, le staccano con forte rilievo dal fondo, e indicano da parte di Savinio una vigile attenzione verso i fenomeni del cosiddetto “ritorno” alla pittura che attraversano gli anni Ottanta.
La Quinta Sezione. Interni familiari
Gli anni Novanta costituiscono un punto cruciale nella vita di Ruggero Savinio, con evidenti ricadute nei temi della sua pittura. Il formarsi attorno a lui di un nucleo familiare, l’incontro con Annelisa Alleva e la nascita dei figli Andrea e Gemma, sono eventi tanto importanti da irrompere clamorosamente nelle tele di questo decennio. Momenti di quiete e di feriale intimità si dipanano quindi nei luoghi amati della sua geografia familiare, fra cui naturalmente Roma, ma soprattutto Capalbio e Cetona, luoghi di vacanza frequentati intensamente a partire da allora. Savinio ha ripensato, per costruire la propria grammatica di una pittura di interni, alla lezione tanto amata di Bonnard: nuove quinte rivisitano un tema ormai antico per i pittori della sua generazione, come quello del rapporto interno-esterno. Ma altri referenti, e nuove passeggiate museali - tema per esempio del poemetto La Galleria d’Arte Moderna del 2003 –intervengono a suggerire soluzioni spaziali e luministiche, come i controluce del Balla prefuturista. Eppure, a fare da motivo conduttore di molte tele sono due teste in gesso tratte dalla scultura classica, appollaiate sopra una porta a Capalbio, adagiate sul pavimento a Cetona: sono l’unica autentica citazione dall’arte classica presenti nella sua pittura, e al contempo sembrano anche, implicitamente, l’unico recupero di un motivo già caro alla pittura di Alberto Savinio, seppur riportato qui in uno spazio e con un temperamento ben diverso. Ruggero Savinio non inventa nulla di quello che dipinge, né deve immaginarsi luoghi arcadici dove fuggire e cercare ristoro: racconta, trasfigurandoli, i luoghi familiari, come farà anche nei racconti di carattere autobiografico, sempre sospesi fra realtà e sogno. In concomitanza alla realizzazione di questi quadri, infatti, Savinio comincia a sistematizzare il proprio pensiero intorno alla pittura, radunando scritti sparsi e scrivendone di nuovi, oggetto di libri come Percorsi della figura (1992, ampliato nel 2004), Paesaggio con figura (1996) e Il senso della pittura (2019) vera e propria memoria autobiografica del proprio museo immaginario. Ma è l’irrompere della dimensione domestica ad avviare un percorso di ricapitolazione autobiografica, che comincia con Ombra portata(1992) e si sviluppa nei decenni successivi in Tra casa e bottega (2003), Passaggio della colomba (2008) e Il cortile del Tasso (2017), sempre mescolando sguardo sul presente e memoria retrospettiva. Non di rado, poi, scrittura e disegno si integrano armonicamente, come ne Il cuore luminoso delle cose (2001) e Cartavoce. Testi e disegni (2011). Non sono venuti meno, allo stesso tempo, i temi di idillio marino o campestre: nuove figure, giovani e floride, si integrano con l’atmosfera, come frammenti di antichi affreschi strappati. È però una conduzione più fluida e scorrevole nel trattamento delle forme e nella stesura del colore a fare da marca di riconoscimento della stagione matura, ribadendo come l’esperienza della pittura sia un momento di intenso piacere estetico.
Biografia di Ruggero Savinio
E’ nato a Torino, il 22 dicembre 1934, da Andrea de Chirico e Maria Morino; vive e lavora a Roma. Per tradizione familiare, si avvicina prestissimo al mondo dell'arte: il padre, con lo pseudonimo di Alberto Savinio, è stato uno dei maggiori artisti e scrittori del Novecento; la madre, attrice drammatica, recitò nell'ultima tournèe di Eleonora Duse, in America; lo zio, Giorgio de Chirico, è il pittore italiano del secolo più noto del mondo. A quindici anni Ruggero comincia a frequentare lo studio dello zio, da cui riceve importanti insegnamenti di tecnica pittorica. Nonostante la vicinanza di due personalità così forti, Ruggero Savinio trova ben presto una propria strada. Frequenta, a Roma, la Facoltà di Lettere, tenendo con due amici pittori la sua prima mostra di dipinti, nel 1956, presentata da Giuseppe Ungaretti. Nel 1958 soggiorna a Parigi con una borsa di studio assegnatagli da Lionello Venturi. Tornato in Italia nel 1961, l'anno successivo tiene, a Milano, presso la Galleria delle Ore, la sua prima mostra personale. Nel 1965 partecipa alla mostra Alternative Attuali 2, curata da Enrico Crispolti, che l'artista considera come la sua prima vera sortita pubblica. Sempre nel 1965 è di nuovo a Parigi, dove, nel 1967, presso la Galerie Jacob, tiene una mostra di disegni presentata dal poeta Dominique Fourcade e dal critico Guy Weelen. Nel 1968 si stabilisce a Milano. Fra il 1974 e il 1976 esegue la serie di opere dal titolo Giochi d'acqua. Nel 1977 dà vita al ciclo di dipinti L'età dell'oro, caratterizzato da una nuova esplosione cromatica, con forti richiami alla cultura romantica. Nei primi anni Ottanta nascono le opere dal titolo La sera a Santa Lucia con chiari riferimenti ai rilievi greci e romani. Tra il 1983 e il 1986 viene fortemente attratto da antichi maestri, quali Velasquez, Sebastiano del Piombo e Saraceni. Ispirandosi alle loro opere esegue dipinti quali Johannes, La morte di Adone, San Rocco. Nel 1984 torna a vivere a Roma. Suggestionato dai paesaggi archeologici, dà vita a un gruppo di opere che prende il titolo Rovine. Sono dipinti generalmente di grande formato. Tra il 1986 e il 1988 dipinge i cicli delle Muse e delle Fortune. Parallelamente sviluppa il tema che è, forse, a lui più caro: le Conversazioni.
Al momento delle sacre Conversazioni rinascimentali, l'artista colloca le figure in uno spazio silenzioso, enigmatico. Dal matrimonio con Annelise Alleva, nascono, nel 1990 Andrea, e nel 1992 Gemma. Prende così vita un nuovo ciclo di dipinti familiari, quadri come Viaggio di nozze, La bella stagione, Autoritratto con Andrea. Ha tenuto numerose mostre in Italia e all'estero. Nel 1986 gli viene conferito il premio Guggenheim per un artista italiano; nello stesso anno espone con una sala personale alla Art International Exposition di Chicago. Nel 1990 e nel 1991 tiene esposizioni personali presso la Galleria Philippe Daverio di New York. Nel 1995 e nel 1998 viene invitato con una sala personale alla Biennale internazionale d'Arte di Venezia. Nel 1996 viene insignito del titolo di Accademico di San Luca. Dal 1997 insegna presso la International School of Art di Montecastello di Vibio. Nel 1989 è allestita una sua mostra retrospettiva all'ex convento di San Francesco, a Sciacca; un'altra nel 1992 a Palazzo Sarcinelli, a Conegliano e, nel 1997, a Villa Foscarini Rossi, a Stra. Nel febbraio 1999 si è aperta a Milano, nella Sala Viscontea del Castello Sforzesco, una sua grande antologica. Nell'estate 2000 è ospite della Ballinglen Foundation, Ballycastle, Country Mayo, in Irlanda. Nel 1997 è uscita, presso Marsilio, una sua ampia monografia, con testi di Massimo Cacciari, Guido Giuffrè e dell'artista. Ruggero Savinio è anche scrittore. Nel 1981 ha pubblicato presso l'editore Scheiwiller il racconto L'età dell'oro; nel 1992 Percorsi della figura (La Cometa), e, nello stesso anno, Ombra portata (Anabasi). Nel 1996 Paesaggio con figura (Le lettere). Suoi scritti sono apparsi su riviste come Carte segrete, La Tartaruga, Paragone, Linea d'ombra, Nuovi argomenti, Pagine, L'Almanacco dell'Altana, Anima. Di prossima pubblicazione un suo testo nella Antologia del racconto italiano del Novecento, nei "Meridiani" di Mondatori.
Palazzo Reale di Milano
Ruggero Savinio. Opere 1959-2022
dal 26 Maggio 2022 al 4 Settembre 2022
Dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.30
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 22.30
Chiuso il Lunedì
Le Foto dell’Allestimento della mostra Sardegna Isola Megalitica credit © Francesco Carlini