Giovanni Cardone Gennaio 2025
Fino al 23 Marzo 2025 si potrà ammirare alla Fabbrica del Vapore Milano la mostra dedicata al Futurismo e Graffitismo - Visions in motion – Graffiti and echoes of Futurism a cura di Carlo McCormick, in collaborazione con Edoardo Falcioni e Maria Gregotti, con i testi critici di Elena Pontiggia e Angela Madesani. L’esposizione mai realizzata in Italia, è prodotta da Navigare srl, in coproduzione con Fabbrica del Vapore e con il Comune di Milano. Il progetto, che presenta 150 opere di 39 artisti (16 futuristi e 23 writer) evidenzia una apparentemente insospettabile continuità tra l’arte del Futurismo italiano, nato agli inizi del 1900 e quella del Graffitismo americano, risalente agli anni ’70. Una continuità che i curatori della mostra rintracciano non solo nella comune ossessione delle due correnti artistiche per il movimento, ma anche nella sfida di entrambe lanciata alle rigide definizioni e ai tradizionali spazi dell’arte. In particolare, il dinamismo inteso dai futuristi trovava alta espressione con Boccioni, che immortalava la metamorfosi del corpo in movimento mentre, tra i graffitisti, Basquiat esplorava la metamorfosi culturale e sociale e la forza del cambiamento di un mondo in continua trasformazione rappresentato nella sua
tag SAMO. In entrambi i movimenti, inoltre, anche il colore riveste un ruolo fondamentale, assurgendo a strumento di rottura e trasformazione. Da un lato, le cromie vibranti in sintonia con le sensazioni futuriste della velocità e, dall’altro, le tonalità accese dei graffitisti rappresentativi di una lotta vitale nel grigiore della giungla metropolitana e di una protesta sociale e politica.
Una mia ricerca storiografica e scientifica sulla nascita del Graffitismo e del futurismo apro il dicendo : Essendo uno studioso del Futurismo ho scritto con Rosario Pinto il saggio Astrattismo e Futurismo Idee per un rinnovamento della ricerca artistica all’esordio del ‘900. In questo mio scritto ho cercato di tratteggiare il Futurismo : Posso affermare che gli artisti della prima generazione futuristi firono: Umberto Boccioni, in primis, e poi Carlo Carrà, Luigi Russolo, Antonio Sant’Elia, Giacomo Balla e Gino Severini si pongono come obiettivo di risvegliare l’arte figurativa poiché non è più immaginabile che continui a dar voce a tematiche lontane dalla realtà, spesso vincolate a soggetti religiosi e mitologici. E per farlo, guardano al Divisionismo, tanto che nel “Manifesto” della fondazione artistica del Futurismo del 1910 si dichiara l’ammirazione per i pittori di questa corrente che hanno messo a punto una elaborata tecnica mutuata dal Post-Impressionismo e dal Puntinismo. I futuristi si approprieranno quindi della loro pennellata, pur non nascondendo la loro attrazione per le forme sintetiche, la scomposizione dei piani e la distruzione della prospettiva del Cubismo (di cui però rinnegano la staticità), e senza dimenticare che dal Neoimpressionismo prendono in prestito la luminosità cromatica e dai Nabis il simbolismo dei temi. È partendo da questi presupposti tecnici che il Futurismo, si pone come chiave di rottura verso gli schemi del passato, assurgendo anche a precursore di idee ed esperienze del Dadaismo, delle avanguardie russe e delle neo avanguardie del secondo Novecento. Diventa così l’interprete di una vera “rivoluzione” artistica che vede quale ideale un’opera d’arte “totale” che supera i confini troppo angusti del quadro e della scultura per coinvolgere tutti i sensi, facendo di massimo contrasto cromatico, simultaneità (per determinare l’effetto dinamico) e compenetrazione (per liberare l’oggetto dai suoi confini), i suoi tratti salienti. La fine dell'Ottocento fu un periodo di grande prosperità e generale soddisfazione, come ricorda la stessa definizione di “Belle époche”. In realtà, vuoto e senso di ambiguità pervadono gli anni di transizione dalla vecchia borghesia ottocentesca all'affermazione, sulla scena politica e sociale, delle masse popolari. Quest'epoca si caratterizza per una crisi di valori che coinvolge tutti gli ambiti del sapere: dalle scienze esatte a quelle umane, dall'arte alla filosofia, emergono nuove teorie che superano la visione ingenua dello scientismo positivista. Viene criticata la nozione dogmatica di scienza, propria appunto del positivismo, posta al centro del dibattito scientifico; la definizione del concetto di materia viene messa in discussione, diventando meno assoluta, meno dogmatica e meno statica. Edmund Husserl, nella seconda fase del suo pensiero, parla di una crisi d'identità delle scienze, che non riguarda le scienze in quanto tali, i loro fondamenti epistemologici e le scoperte scientifiche, ma il significato che esse hanno per l'esistenza umana: è una crisi di valori etici e morali, una crisi di senso, il sapere non porta più alcuna ispirazione etica . La cultura europea, all'inizio del Novecento, è quindi pervasa da un profondo senso di crisi, in cui cadono tutte le certezze circa la possibilità di cogliere la realtà attraverso una conoscenza piena e immediata dei suoi molteplici aspetti. Lo sviluppo industriale, legato al progresso tecnologico e alle invenzioni delle macchine, già dalla fine del Settecento comporta un cambiamento radicale del modo di vivere, che tuttavia si traduce in un senso di alienazione e distacco dell'uomo dalla propria natura. Il tema dell'alienazione, già al centro del pensiero di Marx, esprime bene l'unità culturale e spirituale dell'Ottocento, caratterizzata da una tendenza rivoluzionaria di fondo. Come ricorda De Micheli, non bisogna mai dimenticare lo spirito rivoluzionario che pervade tutto l'Ottocento, perché la frattura che avviene nell'arte con le avanguardie artistiche europee non si spiega solo sul piano estetico, facendo riferimento semplicemente ai mutamenti del gusto, ma va invece analizzata prendendo in considerazione le ragioni storiche che hanno portato verso la crisi dell'unità di fondo della cultura borghese. Secondo De Micheli essa non è altro che la vocazione rivoluzionaria della borghesia intellettuale, fondata sugli ideali di libertà, uguaglianza e progresso, che viene messa in crisi dalle forze reazionarie. Il rapporto tra arte e società, arte e politica rimane sempre alla base delle nuove poetiche; attraverso l'arte si possono cogliere aspetti e sfumature della realtà che le sole conoscenze intellettuali e razionali non riuscirebbero a mettere in luce.
Il periodo che va dalla fine del XX secolo alla prima guerra mondiale è caratterizzato da una rapida evoluzione del sistema industriale. Il rilancio della produzione, favorito anche da una politica di protezionismo doganale e da una progressiva indipendenza tra Stato ed economia finanziaria, fu reso possibile dalla trasformazione radicale del modello economico, che vedeva sempre più pressante l'esigenza di allargamento dei mercati. In questi anni avvengono le grandi rivoluzioni epistemologiche della contemporaneità quali la relatività, la psicanalisi, la teoria dell'atomo. Tra i tratti distintivi del pensiero filosofico dell'epoca vi furono il vitalismo, inteso come attenzione ai valori istintivi, lo spiritualismo, contrapposizione di una dimensione mentale a una materiale e accentuazione del ruolo della coscienza nella percezione del mondo esterno, e il relativismo, in cui si afferma il carattere prospettico della nostra esperienza del mondo. Le ricerche delle avanguardie storiche rappresentarono l'espressione del clima politico, culturale e sociale del tempo. La nascita delle avanguardie scaturì dalla crisi che investì tutti i valori della società civile europea agli inizi del XXI secolo: fu la sensibilità degli artisti a permettere di percepire i primi crolli nelle certezze che per anni avevano rappresentato dei capisaldi nella vita dei singoli individui. Ora grazie all'arte questa stessa crisi si trasforma in una ribellione, in un rifiuto sempre più fermo di ogni tradizione culturale antichi dogmi e antiche credenze vengono posti in discussione. Tutto il secolo fu caratterizzato da una continua sperimentazione artistica movimenti e stili si succedettero nel tempo con differenti modalità e forme espressive, rimanendo però accomunati da una forte volontà di rottura con il passato, sorta di fil rouge per l'evoluzione culturale dell'epoca. Nel Novecento l'arte scompone, decostruisce, altera la realtà, ricercandone allo stesso tempo una raffigurazione fedele, che rappresenti la premessa per quella che dovrebbe essere l'azione politica. I prodotti culturali devono essere interpretati: nelle opere ottocentesche è ancora presente un soggetto riconoscibile, le forme sono armoniose, i soggetti gradevoli alla vista. Nel corso del Novecento invece le regole del gusto e i canoni estetici convenzionali mutano radicalmente, i linguaggi delle opere si fanno sconcertanti. Guerre, rivoluzioni, scoperte scientifiche e tecnologiche divennero fattori in grado di sovvertire tradizioni che a lungo avevano provveduto a fornire un'identità stabile all'umanità. I vari cambiamenti si rifletterono nell'arte, nell'ambito della quale iniziò l'esplorazione della realtà attraverso la dissoluzione della figura, la creazione di forme e segni che non avevano più alcun rapporto con il mondo che le circondava. L'arte divenne un fenomeno di massa iniziò a essere considerata come un valore prezioso da tutelare, si aprirono musei e raccolte, le opere uscirono dalle collezioni private e dalle chiese, per essere mostrate a un pubblico sempre più ricettivo, coinvolto e interessato. Dal punto di vista storico, il fenomeno dell'avanguardia ha attraversato tre fasi principali in ambito artistico prime avanguardie o avanguardie storiche, sviluppatesi nella prima metà del Novecento e caratterizzate da movimenti culturali e manifesti artistici, con ampi riferimenti anche all'attivismo politico; seconde avanguardie o neoavanguardie, sviluppatesi negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, caratterizzate dal dibattito critico e dal confronto con la crescente società di massa; le terze avanguardie, sorte alla fine del XXI secolo e tuttora non completamente definite, caratterizzate dallo scontro con il postmoderno e dalla ripresa dei linguaggi del passato. La differenza sostanziale tra i diversi stadi di sviluppo è legata ai differenti scopi che si prefiggevano gli artisti e i letterati: nella prima fase l'accento è da porre soprattutto sulla rivolta contro la tradizione, mentre nella seconda fase si mira piuttosto a effettuare una sintesi delle esperienze precedenti, ampliandone le caratteristiche con nuove idee, sviluppando tecniche più avanzate e adottando tecnologie innovative. Si punta più a rivoluzionare il presente che a distruggere il passato, cercando di avviare una fase costruttiva; vi è una spinta al continuo rinnovamento, alla ricerca della novità come superamento delle tendenze precedenti, ora però anche in funzione delle dinamiche sempre più accelerate del mercato artistico e del sistema della moda. Spesso quando si parla di avanguardia si tende automaticamente ad associare il termine al solo periodo delle avanguardie storiche di inizio Novecento: su di esse ci si soffermerà poi in particolare, descrivendone brevemente i caratteri principali che le hanno caratterizzate. Come si vedrà, i movimenti e le correnti che seguiranno le avanguardie storiche si riallacceranno ad esse per molti aspetti, poiché queste rappresentarono il primo vero momento in cui il fenomeno assunse una dimensione e una portata internazionale. Per alcuni studiosi l'inizio dell'arte d'avanguardia si fa risalire addirittura agli impressionisti, che con le novità tematiche della pittura segnarono un punto di svolta rispetto alle pratiche artistiche dell'epoca. Dall'esperienza degli impressionisti nacque un nuovo modo di dipingere, un gusto estetico che si fondava sulle divisioni tonali, sulle giustapposizioni di macchie di colori complementari, sull'analisi della luce e sugli effetti che essa aveva sulla visione e sulla retina; con essi nacque però anche un nuovo modo di considerare l'artista moderno, che dipingeva scene di vita borghese en plein air, cogliendo la realtà come appariva nell'attimo. Egli non voleva fissare sulla tela l'oggetto, ma la sensazione immediata che si aveva di esso, così come accadeva nella percezione visiva del quotidiano.
La poetica degli impressionisti non provocò una vera e propria frattura delle esperienze precedenti, ma portò alle estreme conseguenze il naturalismo e il realismo dei pittori della generazione precedente. La cesura che condurrà alle avanguardie vere e proprie sarà attuata prima da Van Gogh, per quanto riguarda il versante espressionista, e poi da Cézanne, la cui opera sarà paragonata a un'analisi fenomenologica del mondo esteriore, così come esso si rende percepibile e visibile nella natura stessa delle cose. Altri studiosi come Brandi considerano invece già il Romanticismo la prima avanguardia, perché di questa ne riprende tre caratteri essenziali: la volontà di segnare una frattura con l'arte precedente, la necessità da parte dell'artista di sentirsi parte di un gruppo costituito e il bisogno di orientare la propria azione verso un programma teorico preciso. Il Romanticismo effettivamente determinò una rottura con il passato e fissò indelebilmente nel tempo tutto quanto lo precedette; con esso si elaborò un concetto di avanguardia come progresso e processo dialettico della realtà umana. Dal punto di vista storico le avanguardie sono maggiormente legate all'arte e alle espressioni artistiche tipiche dell'Ottocento, rappresentandone contemporaneamente una continuità ideale e un'aperta contrapposizione all'eredità simbolista. Esse hanno come fattore comune una volontà di rifiuto e aperto contrasto verso le concezioni artistiche, scientifiche, filosofiche e socio-economiche vigenti. Il loro spazio temporale di sviluppo coincide con gli anni a cavallo della prima guerra mondiale, ovvero indicativamente tra il 1905, anno in cui nasce l'Espressionismo, e il 1924, anno in cui si afferma il Surrealismo. In un cinquantennio che viene sconvolto da due conflitti mondiali e che vede la modifica sostanziale del proprio tessuto produttivo e sociale, passando dalla rivoluzione industriale al post-fordismo e dalla società di classi a quella dei consumi e mediatica, le avanguardie rappresentano inevitabilmente un punto di rottura. Si differenziarono dai movimenti tardo ottocenteschi che si limitavano a essere delle aggregazioni di artisti con intenti e gusti complementari; elaborarono poetiche e manifesti, ponendosi in posizione di rottura e anticipando tendenze in ambiti differenti. Si estesero in diversi settori e si servirono di tecniche figurative non più tradizionali, affiancando alla pittura nuovi linguaggi e mezzi innovativi (fotografia, cinema, ecc.) e sperimentando in territori fin ad allora poco battuti dagli artisti propaganda e impegno politico, teatro come forma di espressione, stampa come mezzo di comunicazione e divulgazione di massa. Consapevole del cambiamento, l'artista si sente spinto verso l'innovazione continua; rifiuta le leggi della prospettiva tradizionale, abolisce la pittura narrativa e descrittiva, preferisce il brutto e l'incompiuto, fa uso di materiali e strumenti estranei alla tradizione estetica. L'arte nuova cerca la propria ispirazione nel presente immediato o nel passato remoto vissuto dai popoli arcaici: così facendo possono dirsi definitivamente conclusi quattro secoli di tradizione pittorica occidentale e di abitudini visive di carattere referenziale e realista. Posso dire che i primi cinquant’anni del XX secolo si potrebbe prendere spunto da una frase lapidaria ma pregna di significato di Robert Hughes a proposito del Futurismo, il primo grande movimento italiano d’avanguardia, che nel nostro Paese inaugurò l’avvento del Ventesimo secolo. Scrive Hughes, con la sua acuta penna: “Probabilmente i futuristi non avrebbero amato tanto il futuro se non fossero venuti da un paese tecnologicamente arretrato come l’Italia”, e, si potrebbe completare la frase, da un paese che da soli trent’anni aveva raggiunto una stabilità nazionale e indipendente (1870), dunque da un Paese che aveva intrapreso la propria gara con la modernità quasi a ridosso del secolo XX. Con una parte del proprio territorio, quella situata a sud di Roma, in uno stato d’endemica arretratezza, governato dalle più inique leggi del latifondo, e una parte invece, quella a Nord, più vitale e intraprendente, pronta alla riconversione della propria economia rurale in un sistema produttivo industriale, l’Italia post-unitaria manifesta anche attraverso l’arte e l’impegno degli artisti, la sua forte volontà di cambiamento. Ma se ciò avverrà primariamente con il Futurismo, a partire dunque dal 1909, segnali largamente positivi si avvertirono già sul finire del secolo precedente. Per comprendere il significato della poetica futurista, degli strumenti e delle azioni che i suoi protagonisti misero in campo nel loro riuscitissimo tentativo di svecchiamento dell’arte italiana, è necessario dunque fare qualche passo all’indietro nel tempo per spiegare i forti legami che unirono i futuristi alla tradizione artistica italiana della fine Ottocento e, in senso più ampio, alle novità che anche nel nostro Paese arrivarono dalle imprese più significative della pittura europea francese impressionismo, pointillisme, simbolismo e tedesca Jugendtil e Sezession in particolare. Infatti, fu proprio nel corso del secolo diciannovesimo, oggi ricordato dalla critica come il secolo della luce degli impressionisti, ma si dovrebbe aggiungere, cosa assai più importante per l’evoluzione dell’arte italiana, anche secolo del romanticismo e del simbolismo che in Italia si crearono le condizioni per l’avvento della rivoluzione futurista. Il futurismo nacque in continuità e non in rottura con l’arte del passato, del movimento divisionista in particolare, un movimento pittorico che cronologicamente di poco lo precedette e che, a sua volta, fu pacifica continuazione delle esperienze della Scapigliatura lombarda, di autori come Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni e delle forse più note ricerche dei pittori Macchiaioli toscani, capeggiati da Giovanni Fattori e dalle idee di Diego Martelli, che faceva la spola tra Francia e Italia, assolvendo al grato compito di mettere in contatto gli artisti italiani con le più avanzate ricerche sulla percezione luministica francese. Due esperienze, quella della scapigliatura e dei macchiaioli, che videro la luce nel pieno del XIX secolo, maturate indicativamente nell’arco cronologico compreso tra il 1855 e il 1870, entrambe fuoriuscite dal grembo del romanticismo e che per prime avviarono nel campo della pittura italiana la ricerca “del vero”, aprendo lo spazio del quadro alla rappresentazione di una nuova concezione del paesaggio, inteso nella sua “naturalezza” luministica ed atmosferica, ma anche sensibili a soggetti più impegnativi dal punto di vista del loro contenuto di reportage sociale. E sarà proprio l’attitudine all’indagine socio-umanitaria, in linea con le teorie anarchico-socialiste diffuse in Italia da molta letteratura politica alla fine del XIX secolo, frammiste alla rilettura delle idee di Ruskin, proposte dal mentore del Divisionismo, il pittore Vittore Grubicy de Dragon, mercante e teorico del movimento, a diventare uno degli aspetti più fortemente distintivi del divisionismo italiano, in questo assai diverso rispetto al neoimpressionismo francese, che per sua stessa natura sembra essere stato un movimento più predisposto all’indagine analitica, “scientifica“ della visione che a questioni di natura interpretativa in chiave esistenziale della realtà.
Ed anche quando l’uso della tecnica “divisa”, per filamenti sottili e ravvicinati di colore puro, di primari e complementari, tecnica ampiamente sperimentata dai pittori italiani, da Pellizza a Morbelli, da Previati a Segantini, farà sembrare più vicina l’Italia alla Francia, sarà solo un fraintendimento o un vizio di lettura critica di due fenomeni radicalmente differenti. Infatti, la ricerca del pointillisme francese fu espressione di quella natura meditativa e razionale di concepire l’arte come esercizio continuo sulle potenzialità stesse del fare pittura, dunque di riflessione per così dire “interna” alla pittura stessa, sugli strumenti che le erano propri come colore, spazio, luce, materia, atmosfera, percezione. Per il divisionismo italiano, diversamente, si deve parlare di una ricerca artistica intesa anche e soprattutto come mezzo d’indagine sulla natura stessa delle cose, aperta alla rappresentazione sociale della realtà, capace di raccontare la storia del disagio quotidiano delle classi meno abbienti, dalla giovane classe operaia a quella dei lavoratori della terra, che divennero soggetti tra i più rappresentati nella pittura italiana di fine Ottocento. Una pittura in grado anche di partecipare al sentimento cosmico della Natura, che, soprattutto nell’opera di Giovanni Segantini, si materializza nelle sembianze più umili della vita quotidiana, affermando così il potere evocativo e simbolico delle “cose semplici”, fonte di verità e di bellezza. Lo spirito nuovo del futurismo italiano nascerà direttamente dalle ceneri ancora accese dell’esperienza divisionista. È dato innegabile, infatti, che le figure di maggior spicco del gruppo storico del Futurismo, da Boccioni a Carrà, da Balla a Severini, da Russolo a Sironi, proprio nei fondamenti scientifici della sperimentazione divisionista, nel suo linguaggio aperto alla più completa rivoluzione della tecnica, nella nuova sensibilità per la storia, trovassero la base teorica di quello spirito di modernità, che fu la fonte viva della prima avanguardia italiana del ’900. Il passaggio di testimone tra divisionismo e futurismo avvenne in una data, il 1909, in cui la parabola del divisionismo italiano era entrata già da tempo in fase calante, ma i nomi di pittori come Pellizza, Morbelli, e Segantini, con alcuni dei loro capolavori, fiumana, il natale dei rimasti, la raccolta del fieno, non possono essere tralasciati quando si parli della forza rinnovatrice della pittura futurista.Il forte legame con il passato si avverte con evidenza nelle opere dipinte dai giovani Boccioni, Carrà e Severini all’esordio della loro carriera artistica, all’incirca tra il 1903 e il 1908. È, su tutti, buon esempio di questo legame il bellissimo quadro dipinto in Russia da Boccioni nel 1906, intitolato ritratto di Sophie Popoff. Un quadro che rappresenta il passaggio tra la tradizione e il nuovo, nuovo che prende avvio dagli strumenti propri dei pittori divisionisti, in particolare l’uso della pittura “divisa” e, più in generale, dalla comune propensione per la ricerca luministica, vista come possibile fonte dinamica della rappresentazione. Un quadro assai significativo anche perché racconta dell’anima cosmopolita dei giovani artisti italiani dell’epoca, che maturarono i propri convincimenti teorici attraverso i lunghi e continui viaggi all’estero e i preziosi contatti internazionali. La storia del ritratto di Sophie Popoff inizia nel 1906, quando Boccioni si reca a Parigi. Il 17 aprile scrive alla madre: “Sono in una città addirittura straordinaria. Qualche cosa di mostruoso, di strano, di meraviglioso”. Ricorda le migliaia di carrozze e le centinaia di omnibus, tramvai a cavalli, elettrici a vapore, i grandi sotterranei illuminati a luce elettrica della metropolitana, i caffè brulicanti, le insegne e la gente che corre che ride, donne tutte dipinte con colori vivissimi. “Vorrei portar via un quadro di tale spettacolo” è la conclusione della sua lettera, nella quale già si avverte l’ansia di modernità del Boccioni futurista. Ma la sua pittura non è ancora al passo con le sue idee e le sue sensazioni. Più propenso ad una ricerca di solide volumetrie, rese secondo la tecnica divisionista, ma con nella memoria ancora viva l’influenza dell’opera di Gaetano Previati, tra tutti i pittori divisionisti italiani quello decisamente più simbolista, Boccioni a Parigi è fortemente attratto dalle poetiche impressioniste e post-impressioniste, con i cui principi teorici si confronterà apertamente per lungo tempo, almeno fino alla redazione del manifesto tecnico della pittura futurista del 1910. Ed è in questo clima di grande fermento e di grande curiosità che a Parigi conosce e frequenta Augusta Petrovna Popoff, una colta signora russa, sposata Berdnicoff. Invitato dai Berdnicoff, Boccioni intraprende un lungo viaggio in Russia. Lascia Parigi alla fine dell’estate del 1906 e visita le città di Mosca e San Pietroburgo. Al suo rientro passerà anche da Varsavia. Soggiorna a Tzaritzin (poi Stalingrado?) in casa Popoff, come si apprende da una fotografia che lo ritrae insieme ai suoi ospiti sulla veranda della casa. Sulla fotografia si legge la scritta “Russia-Tzaritzin Casa Popoff 1906”. Proprio a Tzaritzin dunque egli dipinge la grande tela con il ritratto della signora Popoff, raffigurata intenta a cucire, seduta davanti ad una finestra. La luce filtra attraverso i vetri e si riverbera sulle mani della donna, illuminando il suo operoso lavoro. L’uso della tecnica divisa, congiunto alla ricerca luministica, fanno di questo quadro un dipinto “di passaggio”, di grande interesse per la storia personale di Boccioni, nel quale si può cogliere la complessità straordinaria della sua formazione che si misura con quanto di meglio è in Europa, nell’ambito della pittura. La sua preparazione artistica è uno straordinario miscuglio di simbolismo, espressionismo e divisionismo, e gli accenti più forti anche in quest’opera sembrano ancora derivargli da un lato dalle cupe atmosfere delle composizioni di Munch, conosciute attraverso Previati, e dall’altro dalle teorie sulle forze dinamiche dell’azione e della visione, che aveva visto praticare a Parigi da Seurat, ma di cui sicuramente Carrà per primo gli aveva parlato. Il primo contatto tra artisti italiani e ambiente russo dell’epoca contemporanea avviene dunque, quasi silenziosamente, attraverso il pennello del più geniale pittore italiano del Futurismo, con alcuni anni d’anticipo rispetto al viaggio di Filippo Tommaso Marinetti. Se è vero che il tratto distintivo del divisionismo rispetto alle coeve poetiche europee, francesi in particolare, va ricercato in una concezione della pittura marcatamente socio umanitaria e spiritualistica, fu altrettanto vero il fatto che il futurismo, erede naturale delle “nuove idee” di questo movimento, seppe portare a legittima conclusione il processo di cambiamento avviato in seno al divisionismo, con un intervento radicale e definitivo per quanto riguarda sia la questione fondamentale della rappresentazione del mondo attraverso il medium della pittura “divisa”, sia quella altrettanto importante che atteneva al ruolo dell’artista nella società italiana del primo ’900, sia, infine, a quella relativa al senso e alla funzione stessa dell’arte in una società passatista e conservatrice come quella in cui maturò ed esplose, come uno dei primi fenomeni di massa, l’avanguardia futurista. Il futurismo fu l’invenzione di Filippo Tommaso Marinetti , che raccolse e valorizzò istanze di rinnovamento già in atto nel gruppo dei giovani artisti italiani, milanesi, romani e fiorentini in particolare. Poeta e letterato geniale nato ad Alessandria d’Egitto nel 1876, vissuto a lungo tra Parigi e Milano, città dove non a caso erano sorte le prime industrie e dove il progresso era apparso come un risultato facile e raggiungibile, Marinetti visse e disseminò il “credo” futurista in tutta Europa, condividendo con moltissimi artisti, assetati di novità e di voglia di cambiamento, le idee rivoluzionarie contenute nei vari manifesti teorici, sottoscritti a partire dal 1910 dai protagonisti principali del movimento, del gruppo così detto storico, quello della “prima ora”, Boccioni, Russolo, Carrà, Severini, Balla e, successivamente, anche da Antonio Sant’Elia, Fortunato Depero, Enrico Prampolini, Ardengo Soffici e molti altri ancora come i giovanissimi Tullio Crali, Renato Bertelli e Ernesto Thayath, che al futurismo aderiranno nella stagione estrema degli anni Trenta. Dotato di rara intelligenza, sposata ad una spericolata e indomita voglia di vivere e ad un egocentrismo difficile da imitare, Marinetti fu senz’ombra di dubbio l’artefice di uno dei più interessanti casi di partecipazione di massa ad un progetto culturale, il futurismo appunto, generato dalla sua mente febbricitante in una serata parigina, il 20 febbraio del 1909, e promulgato come un editto dalle pagine del quotidiano francese “Le Figaro”. A lui accorsero da subito tutti i pittori italiani della più giovane generazione, se si esclude il caso di Balla, che all’epoca della sua adesione al futurismo aveva quasi quarant’anni ed era già stato maestro di Boccioni e Severini quella che aveva pur genericamente imboccato la strada della sperimentazione divisionista e che proprio nella poetica sovversiva del futurismo trovò libero campo d’azione per la propria voglia, anche utopistica, di cambiamento dell’arte e della società tutta. A lui accorse anche gran parte dell’opinione pubblica italiana, che lui stesso seppe coinvolgere grazie ad un’attività indefessa di “marketing culturale”, che trovò risposta alternativamente nel disprezzo dei passatisti e nell’orgoglio di chi nel futurismo vide il riscatto dell’arte italiana sulla egemonia francese del secolo appena passato. Marinetti, per sua stessa affermazione l’uomo più moderno d’Italia, era nato da una cultura che faceva nello stesso tempo capo al dandismo decadente del poeta Gabriele D’Annunzio e all’amore adorante per la tecnologia, vera medicina del mondo. Marinetti, soprannominatosi “caffeina d’Europa”, intraprese un’attività di pubbliche relazioni con i gruppi dell’avanguardia internazionale interessati alle teorie del futurismo. Oltre a Parigi, dove partecipò a confronti incandescenti con letterati e poeti, Marinetti, si recò in Russia, dove soggiornò dal 26 gennaio al 15 febbraio del 1914, invitato da Genrich Tasteven, delegato russo della Società delle grandi conferenze di Parigi, per stringere rapporti amichevoli e fare del proselitismo a favore delle teorie futuriste italiane. In Russia, cosa ben nota, il futurismo aveva avuto già da alcuni anni una buona e del tutto autonoma affermazione grazie all’opera di alcuni gruppi attivi nelle grandi città, capeggiati da artisti come Sersevenic Mosca, Severjanin, Ignat’ev Pietroburgo. L’arrivo di Marinetti, fu per alcuni entusiasmante, per altri, come per il giovane Larionov, fu degno di un “tiro di uova marce”. I cubo-futuristi Majakovskij, Burljuk e Kamenskij molto diplomaticamente scelsero di rimanere lontani da Mosca, impegnati in una tournée già intrapresa. A Pietroburgo, pur in serate conviviali, non mancarono, e furono anzi molto vivaci, gli scontri sul valore della poesia futurista italiana declamata da Marinetti, considerata dai russi assai poco convincente rispetto alla loro più avanzata sperimentazione in campo poetico e letterario. Questo viaggio favorì ciò nonostante la nascita di nuove relazioni internazionali e di nuovi rapporti tra gli artisti. Primo importante risultato del viaggio in Russia di Marinetti, fu infatti la partecipazione di Archipenko, Kulbin, Exter e Rozanova all’Esposizione Libera Futurista Internazionale organizzata nell’aprile maggio del 1914 a Roma, nella Galleria futurista di Giuseppe Sprovieri. Con i russi esponevano, tra gli altri, Fortunato Depero, lo stesso Marinetti, Giorgio Morandi pittore che partecipò per un tempo brevissimo al futurismo, Enrico Prampolini, Mario Sironi. Questo primo incontro aprì la strada a nuovi importanti rapporti e scambi tra i futuristi italiani e l’avanguardia russa ed in particolare tra Alexandra Exter ed Ardengo Soffici, la cui opera rappresenterà l’esempio più interessante di contiguità culturale tra i due futurismi. Altrettanto importanti per l’affermazione delle idee futuriste furono i contatti avuti da Marinetti con la più vicina Svizzera, forieri d’importanti novità per le teorie del costituendo gruppo Dada, che nel 1916 accolse e rielaborò molti spunti della poetica futurista italiana, dalla poesia sintetica al verso libero, dalla sintassi all’uso “politico” della polemica. Il grande nemico di Marinetti, come di tutti i pittori aderenti al futurismo, fu il passato, la storia, la memoria. Sotto la scure dei molti manifesti teorici caddero via via veri e propri oggetti “di culto” della tradizione passata. Condannò l’arte del Rinascimento tanto quanto il tango, la musica di Wagner e gli spaghetti così come la Venezia romantica e nostalgica e l’amore per il chiaro di luna. Il nome dato al movimento fu anch’esso una sua invenzione: un nome che felicemente si adattava ad indicare, pur genericamente ma per questo ancora più efficacemente, quella fede assoluta per le nuove tecnologie, per la macchina in particolare, che in tutta la concezione estetica futurista risulterà come il vero motore del cambiamento, la leva per l’avvento della rivoluzione sociale e culturale nell’intera Europa cosa che di fatto avvenne, ma non nel senso sperato dai futuristi. I pittori futuristi della prima ora, quelli firmatari del Manifesto del 1910 e del successivo manifesto tecnico, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Balla furono animati, in violenta polemica con il passatismo culturale borghese, da una concezione vitalistica, che faceva capo alla filosofia di Bergson ma anche a quella di Nietzsche, in un’alternanza di slanci vitali verso il futuro e di frenate nell’eroismo ancora romantico del superuomo, che alla fine decretò la morte (solo apparente) dell’ideale classico, delle accademie, delle scuole di nudo e di quant’altro aveva prodotto la misura di Apollo nel corso dei secoli precedenti. Si rinnovarono i temi e i soggetti dei quadri, che diventarono il teatro ideale per la rappresentazione dei nuovi miti contemporanei: la città industriale innanzitutto, con la sua folla brulicante, i cantieri rumoreggianti e i tram in continuo movimento, con i suoni, le luci, i rumori e la velocità, che bene rappresentava il ritmo frenetico della vita moderna, della città che sale, dello sferragliare dei tram lungo i binari incandescenti, delle luci di strada e del movimento del chiaro di luna, del ticchettio dei ballerini e persino il profumo degli stati d’animo, che tanto audacemente essi vollero raffigurare. Per dipingere questi nuovi temi, i futuristi presero in prestito dal divisionismo la tecnica della scomposizione del colore, tecnica che aveva il vantaggio di cogliere, grazie alla velocità dei tocchi, il senso dinamico della vita in movimento, la frenesia e il sovrapporsi delle forme e delle luci nella nuova percezione e visione del mondo moderno. L’uso della tecnica divisionista, definita “complementarismo congenito” per la presenza appunto dei colori complementari, fu per tutti i pittori futuristi un valore espressivo irrinunciabile, che permetteva di innalzare “alle più radiose visioni di luce”, anche le più cupe ombre del quadro. E il pubblico?
Secondo quanto scrivono gli stessi futuristi nei cataloghi delle prime esposizioni (1912) “il pubblico deve convincersi che per comprendere delle sensazioni estetiche alle quali non è abituato, deve dimenticare completamente la propria cultura intellettuale, non per impadronirsi dell’opera d’arte, ma per abbandonarsi ad essa”: una dichiarazione d’intenti davvero all’avanguardia, che quel tempo produsse un radicale cambiamento nel concetto apparentemente immutabile del “vedere l’arte”. Agli spettatori si presenta infatti la possibilità di fare grazie all’arte un’esperienza del tutto nuova, che li pone, come scrisse Boccioni, al centro del quadro, ovvero al centro di una rappresentazione nella quale, grazie alla simultaneità spazio-temporale, è possibile cogliere la sintesi di ciò che si ricorda e di ciò che si vede, vivere lo stato d’animo psicologico, che si coglie nel continuo di scene esterne ed emozioni interne, ed infine percepire la nuova realtà del tempo moderno, che si mostra non più come un insieme ordinato e sequenziale di oggetti, ma piuttosto come un assemblaggio frammentario di forme, di luci e di colori, governato dal dinamismo delle linee-forza, moltiplicatrici straordinarie delle ombre e delle luci, dei pieni e dei vuoti, delle pause e dei rumori, che caratterizzano appunto la visione futurista del mondo. Boccioni, il più grande interprete del futurismo, arruolatosi nel 1915, morì tragicamente cadendo da cavallo il 16 agosto del 1916. Con la sua morte sembrò che il futurismo fosse giunto alla stazione finale. Diversamente, oggi sappiamo che già nel corso della prima stagione futurista, quella che va dal 1909 alla metà del 1916, si preparò un’agguerrita successione, a conferma del grido di Marinetti “I vivi, i vivi soltanto sono sacri. Il Futurismo malgrado l’immensa spaventosa scomparsa del povero Boccioni e di tanti altri è più vivo che mai!” Poco più di sei anni separavano il tragico 16 agosto del 1916, segnato dal lutto della morte accidentale di Boccioni, dalla redazione del Manifesto dei pittori futuristi (11 febbraio 1910) e dal più corposo la pittura futurista, manifesto tecnico 11 aprile 1910, scritti che contribuirono a dare una organica definizione a quel getto continuo di pensieri idee proponimenti, abbozzi di teoria che era stato felicemente cantato da Marinetti nella notte dell’11 febbraio 1909 e poi surriscaldato fino ad alte temperature nelle discussioni degli attori principali di questo primo atto della storia del futurismo, di Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini in particolare. In quei sei anni molti però erano stati i cambiamenti, le virate e perfino le abiure di artisti, che associati al movimento avevano poi intrapreso strade diverse. Pensiamo per esempio a Romolo Romani e Aroldo Bonzagni, futuristi della prima ora, tra i firmatari del manifesto dell’11 febbraio del ’10, subito scomparsi dalla vita attiva del movimento, o alla brevissima parentesi futurista dell’allora poco più che ventenne Giorgio Morandi, del cui sperimentare conosciamo oggi solo pochissime e rare testimonianze, o, pensiamo ancora alle “parole in libertà” pubblicate nel 1914 su Lacerba con lo pseudonimo Massimo Campigli dal berlinese Max Hielenfeld, che nel 1915 veniva incluso da Papini e Soffici tra i seguaci del futurismo, ma che, dopo il lungo periodo di guerra e la prigionia, nel 1919, alla ripresa del suo lavoro di pittore già rivolge altrove la sua ricerca. Ricordiamo anche il caso di Carrà, Sironi, Soffici, tutti e tre già sul finire del secondo decennio impegnati in ricerche di segno opposto, nell’ambito del ritorno all’ordine che condizionerà la vita artistica italiana ed europea degli anni Venti e Trenta. Ma il futurismo faticherà a morire e molte stagioni ancora ricche d’invenzioni seguirono la morte di Boccioni. Diversamente da altre avanguardie europee, esso aveva infatti prodotto degli antidoti potenti per contrastare la propria fine e questi antidoti innanzi tutto furono il vitalismo febbrile e incessante di Marinetti e poi, ma non in secondo ordine, l’impegno teorico contenuto nelle dichiarazioni di poetica dei vari manifesti e in particolare in quello della ricostruzione futurista dell’universo, scritto nel 1915 da Giacomo Balla e Fortunato Depero con la supervisione di Marinetti. Il manifesto della ricostruzione conteneva la prima teorizzazione in epoca contemporanea del binomio arte-vita, un binomio che se aveva avuto illustri precedenti soprattutto nella cultura mitteleuropea dell’opera d’arte totale che appariva del tutto nuovo nella cultura italiana d’avanguardia del tempo. “Noi futuristi Balla e Depero” – si legge nel manifesto – “vogliamo realizzare questa fusione totale (di arte e vita) per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente”. Il manifesto fu in sostanza espressione di un’utopistica volontà di far agire massicciamente la nuova estetica futurista dentro la vita quotidiana, traducendo gli ideali dell’avanguardia in tutte le discipline. Noi futuristi Balla e Depero vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo poi li combineremo insieme secondo i capricci della nostra ispirazione”. Il parolibero Marinetti disse con entusiasmo: “L’arte, prima di noi, fu ricordo, rievocazione angosciosa di un Oggetto perduto (felicità, amore, paesaggio) perciò nostalgia, statica, dolore, lontananza. Col Futurismo invece, l’arte diventa arte – azione, cioè volontà, ottimismo, aggressione, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale nell’arte, splendore geometrico delle forze, proiezione in avanti. Dunque l’arte diventa presenza, nuovo oggetto, nuova realtà creata cogli elementi astratti dell’universo. Le mani dell’artista passatista soffrivano per l’Oggetto perduto; le nostre mani spasimavano per un nuovo Oggetto da creare”... “Le invenzioni contenute in questo manifesto sono creazioni assolute, integralmente generate dal Futurismo italiano. Nessun artista di Francia, di Russia, d’Inghilterra o di Germania intuì prima di noi qualche cosa di simile o di analogo. Soltanto il genio italiano, cioè il genio più costruttore e più architetto, poteva intuire il complesso plastico astratto. Con questo, il Futurismo ha determinato il suo stile, che dominerà inevitabilmente su molti secoli di sensibilità”. Nel 1917 Balla sperimenta una serie di scomposizioni della natura in chiave puramente teosofica ‘Trasformazioni Forme e Spirito’. Furono fondamentali le parole del generale Carlo Ballatore, presidente del Gruppo Teosofico “Roma”, illustrano bene in che termini il pensiero teosofico abbia offerto agli artisti la possibilità di esplorare nuovi territori. Oggi, del resto, l’influenza delle correnti esoteriche sulle avanguardie storiche è una realtà ampiamente riconosciuta e si sa che alla Teosofia hanno attinto, in vario modo, tutti i principali esponenti europei dell’astrattismo da Kupka a Kandinsky, da Mondrian a Malevi?. Lo stesso è avvenuto in Italia dove, com’è noto, i manifesti dei futuristi contengono numerosi riferimenti a fenomeni occulti e medianici. Riguardo in particolare alla Teosofia basterà ricordare qui due artisti, Giacomo Balla e Arnaldo Ginna, non a caso considerati dalla critica i principali pionieri dell’arte astratta in Italia. I legami dei due artisti con i circoli teosofici sono certi. Nel caso di Giacomo Balla infatti è la figlia del pittore, Elica, a ricordare nel suo libro di memorie intitolato Con Balla che il padre a Roma: “frequenta le riunioni di una società di teosofici presieduta dal Generale Ballatore”. Per quanto riguarda invece il conte Arnaldo Ginanni Corradini in arte Ginna – è l’artista stesso a dichiarare le proprie letture: “Ci rifornivamo di libri spiritualisti e occultisti, mio fratello ed io, presso gli editori Durville e Chacornac. Leggevamo l’occultista Élifas Lévi, Papus, teosofi come la Blavatsky e Steiner, la Besant, segretaria della Società Teosofica, Leadbeater, Edouard Schuré. Seguivamo le conferenze della Società Teosofica, a Bologna e Firenze. Quando Steiner fondò la Società Antroposofica restrinsi la mia attenzione a Steiner. C’erano anche le discussioni con Evola” . E come nota Mario Verdone, i primi saggi che affrontano il problema dell’astratto in pittura, riservando grande attenzione anche alla musica, sono il volumetto Arte dell’avvenire, scritto da Ginna col fratello Bruno Corra (prima edizione del 1910 e seconda del 1911) e Lo spirituale nell’arte di Kandinsky (completato nel 1910, stampato alla fine del 1911 e pubblicato nel 1912). Due testi concepiti e usciti contemporaneamente, le cui analogie dipendono solo dal fatto che gli autori si sono nutriti degli stessi libri di impronta teosofica. Presso gli Eredi Ginanni si conserva ancora una copia del libro di J. Krishnamurti, dal titolo ‘Ai piedi del Maestro’ (Genova 1911), con dedica all’artista del prof. Ottone Penzig, allora segretario generale della Società Teosofica Italiana. Come si è visto, infatti, Ginna ricorda di aver seguito le conferenze della Società Teosofica a Bologna e a Firenze, tuttavia è molto probabile che anche a Roma l’artista sia entrato presto in contatto con i locali circoli teosofici e anzi non è da escludere che sia stato proprio il pittore ravennate, la cui presenza nella capitale è documentata fin dal 1911, a indirizzare Balla verso la Teosofia. Comunque sia Ginna e per un certo periodo anche Balla è interessato a rendere visivamente la realtà psichica. A questo scopo elabora un metodo che definisce “subcoscienza cosciente”, ossia uno stato di coscienza superiore nel quale l’artista entra volontariamente. Le opere di Ginna nascono quindi dall’esperienza cosciente dell’extra sensibile, un modo di cogliere, oltre l’esteriorità, le forme interiori, proprio come insegnavano le correnti dell’occultismo. E’ per questo che Ginna non esiterà ad affermare: “L’astrattismo è espressione di forze occulte”. Nel 1912 e il mondo intero, seppur scioccato dalla tragedia del Titanic, puntava gli occhi, i sogni e i desideri sulle nuove gigantesche macchine che permettevano di raggiungere l’altro capo del Pianeta in tempi ragionevoli. I continenti diversi dal “Vecchio” non erano più materia per esploratori, i fratelli Wright avevano sfidato e vinto le leggi della gravità e il ‘VOLO’ non era più legato al mito di un Icaro troppo audace, ma era finalmente realtà attuale e tangibile. Il Futurismo, corrente d’avanguardia dell’inizio del secolo XX, celebrava il volo come espressione massima di libertà di movimento e dinamismo, inneggiando alla velocità e all’innovazione in ogni campo, dalla letteratura alla poesia, alla pittura, alla scultura, alla musica fino alle arti più “giovani”, come la fotografia il cinema. Prese il nome di Aeropittura la declinazione pittorica di cui si fecero portavoce Giacomo Balla, Tullio Crali, Sante Monachesi, Fortunato Depero, Gerardo Dottori e Fedele Azari, creatore dell’opera Prospettiva di Volo, presentata alla Biennale di Venezia del 1926. Tanta modernità non poteva che coinvolgere anche le donne, grandi artiste testimoni di cambiamento, come Benedetta Cappa, Marisa Mori e Olga Biglieri. Quest’ultima fu tra le prime aviatrici italiane ad aver conseguito un brevetto da pilota a soli sedici anni. Da un punto di vista estetico, l’Aeropittura futurista portava in scena velocità e dinamismo, superando la scomposizione cubista con l’uso della prospettiva e della molteplicità dei piani. Mentre nel 1918, alla galleria di Anton Giulio Bragaglia, espone, tra le altre opere dedicate all’intervento in guerra, il Complesso plastico pubblicato nel manifesto del 1915 accanto a sedici dipinti dedicati alle ‘forze di paesaggio’ unite a diverse sensazioni. Accanto a queste ricerche, lo studio della natura trionfa nei motivi delle Stagioni: dalla fluidità, morbidezza o espansione della primavera, alle punte d’estate al drammatico dissolvimento autunnale; sono lavori sperimentali volti a quella particolare ricerca astratta del tutto europea ma al tempo stesso lontana e nuova rispetto alle contemporanee ricerche astratte dei pittori in voga in questi anni sicuramente conosciuti da Balla come Kandinskij e Arp, Léger e Larionov, Mondrian e Gon?arova. Periodo, dunque, questo di Balla del tutto internazionale che viene a chiudersi col viaggio a Parigi nel 1925 per la “Exposition des Arts Decoratifs et Industriels Modernes”, particolarmente importante perché segna l’inizio dello stile Art Déco. Il Manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo, l’11 marzo del 1915. Insieme a Fortunato Depero, Balla firma il manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo che rappresenta una delle tappe più significative nell’evoluzione dell’estetica futurista. Con questo manifesto trova una completa maturazione la volontà del Futurismo di ridefinire ogni campo artistico secondo le sue teorie e di rifondare le forme stesse del mondo esterno fino a coinvolgere anche gli oggetti e gli ambienti della vita quotidiana. Questo principio artistico non costituisce una novità storica, infatti è già principio fondamentale della poetica dello Jugendstil, ma mentre in quel caso si fa riferimento a un’idea d’arte come valore assoluto, ora le finalità sono del tutto diverse: per il Futurismo l’arte non è più fine a se stessa e non ha come obiettivo la pura esperienza estetica ma diviene uno strumento per affermare una diversa concezione della vita e un suo rinnovamento, nel quale predomina un intento di trasformazione culturale verso l’idea che il Futurismo ha della modernità. La più importante innovazione proclamata dal manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo è la proposta di estendere l’estetica futurista a tutti gli aspetti della vita quotidiana. I campi della ricerca sembrano illimitati: arredo, oggettistica, scenografia, moda, editoria, grafica pubblicitaria: nulla sembra essere estraneo alla sensibilità dei due artisti. I futuristi imposero il loro segno distintivo fin dalle prime celebri ‘serate’, durante le quali gli artisti-autori-declamatori indossavano abiti da loro stessi disegnati e maschere che suggerivano la robotizzazione e meccanizzazione dell’uomo. Una delle strade maestre percorse dall’avanguardia è stata il perseguimento di una sintesi delle arti che, conducendo a un progressivo assottigliamento dei confini di competenza fra pittura, scultura, architettura, musica, teatro, danza, letteratura, almeno nel senso della ricerca di un principio compositivo e strutturale (anzi costruttivo) comune, ha anche tentato di ricucire lo strappo ottocentesco fra arte e vita, infrangendo le tradizionali barriere tra spazio virtuale dell’opera d’arte e spazio reale dell’uomo, tra sfera estetica e sfera fenomenologica. La ricerca di questa sintesi, in pittura, si è così frequentemente espressa attraverso l’uso di una figura retorica quale la sinestesia, come restituzione di una globalità di percezioni sensoriali diverse e simultanee, percezioni tuttavia sempre coordinate dalla facoltà superiore della visione, intesa come facoltà conoscitiva in grado di compiere un’operazione di sintesi e di ricognizione appercettiva. Viene così ribadito il primato dell’occhio, della vista e della visione, che può anche giungere a ribaltarsi da frastuono percettivo in silenzio meditativo, in visione interiore e ciò sembra costituirsi come tendenza estrema e radicale dell’astrazione in manifestazione del sublime. Tale primato del resto pervade la teoria dell’arte e l’estetica tra la scorcio del secolo XIX e l’inizio del XX, con l’affermazione del pensiero purovisibilista di Konrad Fiedler e della contrapposizione tra valori tattili e valori ottici da parte di Alois Riegl. Proprio secondo Fiedler la visione “è una facoltà conoscitiva e creatrice di forme (visive), operante nell’attività artistica in modo assolutamente indipendente sia dall’intelletto, creatore di forme concettuali, sia dal sentimento e dalla sensazione; indipendente quindi anche dalle concezioni filosofiche, scientifiche, religiose”. L’astrazione, come processo mentale caratterizzante il XX secolo in tutte le sue manifestazioni, dall’arte e dalla filosofia alle scienze, incarna questa possibilità di ricondurre il reale a una visione sintetica e globale, a una struttura combinatoria di elementi costanti che danno luogo a un modello rappresentativo di tutti gli accidenti possibili, espressione di un neoplatonico mondo delle idee e paradigma ordinatore delle apparenze: è la ricerca dell’assoluto nell’epoca della relatività. Il concetto di astrazione (da abstrahere, cioè staccare, separare, rimuovere) implica l’operazione di individuare ed estrarre alcuni elementi, ma anche il necessario “distacco” del soggetto nei confronti dell’oggetto (natura). Solo tale distacco può dar luogo a una sintesi della visione dopo l’analisi della percezione, coincidendo in parte questo processo con il polo cui Wilhelm Worringer, nella sua teoria estetica, ha opposto quello dell’empatia. Proprio per Worringer (che ha in mente l’arte ornamentale) l’astrazione si costituisce come tendenza sovrastorica riscontrabile in diverse epoche; e nell’arte moderna tale processo, in misura maggiore o minore, è frequentemente verificabile in nuce anche nelle poetiche naturalistiche, almeno a partire dall’impressionismo, mentre è alla base di quelle tendenze che, scomponendo le strutture narrative e le catene sintagmatiche, isolano o decontestualizzano singoli oggetti, figure e immagini, quali la pittura metafisica o il surrealismo, oltre che, naturalmente, dell’astrattismo vero e proprio. L’impulso all’astrazione sembra scaturire dalla necessità di approdare a una struttura assoluta e regolatrice del reale, a un modello rappresentativo e non imitativo, dove “l’elemento primario non è il modello naturale, bensì la legge che da esso si astrae”. “Se una cosa è invisibile significa, comunemente parlando, che non la si può vedere; non così in occultismo dove una cosa è invisibile non in modo assoluto, ma soltanto relativo alle capacità ordinarie dei nostri sensi. Potremo quindi avere, e si hanno, i pittori dell’invisibile che ci forniscono preziosi modelli del mondo astrale, come abbiamo opere d’arte create per intuito coll’ausilio dell’invisibile”. Le parole del generale Carlo Ballatore , presidente del Gruppo Teosofico “Roma”, illustrano bene in che termini il pensiero teosofico abbia offerto agli artisti la possibilità di esplorare nuovi territori. Oggi, del resto, l’influenza delle correnti esoteriche sulle avanguardie storiche è una realtà ampiamente riconosciuta e si sa che alla Teosofia hanno attinto, in vario modo, tutti i principali esponenti europei dell’astrattismo da Kupka a Kandinsky, da Mondrian a Malevi?. Lo stesso è avvenuto in Italia dove, com’è noto, i manifesti dei futuristi contengono numerosi riferimenti a fenomeni occulti e medianici. Riguardo in particolare alla Teosofia basterà ricordare qui due artisti, Giacomo Balla e Arnaldo Ginna, non a caso considerati dalla critica i principali pionieri dell’arte astratta in Italia. I legami dei due artisti con i circoli teosofici sono certi. Nel caso di Giacomo Balla infatti è la figlia del pittore, Elica, a ricordare nel suo libro di memorie intitolato Con Balla che il padre a Roma: “frequenta le riunioni di una società di teosofici presieduta dal Generale Ballatore”. Per quanto riguarda invece il conte Arnaldo Ginanni Corradini – in arte Ginna è l’artista stesso a dichiarare le proprie letture: “Ci rifornivamo di libri spiritualisti e occultisti, mio fratello ed io, presso gli editori Durville e Chacornac. Leggevamo l’occultista Élifas Lévi, Papus, teosofi come la Blavatsky e Steiner, la Besant, segretaria della Società Teosofica, Leadbeater, Edouard Schuré. Seguivamo le conferenze della Società Teosofica, a Bologna e Firenze. Quando Steiner fondò la Società Antroposofica restrinsi la mia attenzione a Steiner. C’erano anche le discussioni con Evola” . E come nota Mario Verdone, i primi saggi che affrontano il problema dell’astratto in pittura, riservando grande attenzione anche alla musica, sono il volumetto Arte dell’avvenire, scritto da Ginna col fratello Bruno Corra la prima edizione del 1910 e seconda del 1911 e Lo spirituale nell’arte di Kandinsky completato nel 1910, stampato alla fine del 1911 e pubblicato nel 1912. Due testi concepiti e usciti contemporaneamente, le cui analogie dipendono solo dal fatto che gli autori si sono nutriti degli stessi libri di impronta teosofica. Presso gli Eredi Ginanni si conserva ancora una copia del libro di J. Krishnamurti, dal titolo Ai piedi del Maestro (Genova 1911), con dedica all’artista del prof. Ottone Penzig, allora segretario generale della Società Teosofica Italiana. Come si è visto, infatti, Ginna ricorda di aver seguito le conferenze della Società Teosofica a Bologna e a Firenze, tuttavia è molto probabile che anche a Roma l’artista sia entrato presto in contatto con i locali circoli teosofici e anzi non è da escludere che sia stato proprio il pittore ravennate, la cui presenza nella capitale è documentata fin dal 1911, a indirizzare Balla verso la Teosofia. Comunque sia Ginna e per un certo periodo anche Balla è interessato a rendere visivamente la realtà psichica. A questo scopo elabora un metodo che definisce “subcoscienza cosciente”, ossia uno stato di coscienza superiore nel quale l’artista entra volontariamente. Le opere di Ginna nascono quindi dall’esperienza cosciente dell’extra sensibile, un modo di cogliere, oltre l’esteriorità, le forme interiori, proprio come insegnavano le correnti dell’occultismo. E’ per questo che Ginna non esiterà ad affermare: “L’astrattismo è espressione di forze occulte”. Le ricerche sulle interferenze sensoriali raccordate dalla facoltà della visione ed espresse attraverso la pittura astratta raccolgono sicuramente l’eredità della cultura tardoromantica e simbolista, che proprio nel progetto di una ‘sintesi delle arti’ (di pittura, musica, letteratura, poesia, teatro, danza) inseguono una visione globale del mondo: così il dramma wagneriano si pone come opera d’arte totale (ma già la nascita del poema sinfonico si incammina lungo il percorso esplorativo del potere della musica di evocare immagini, giungendo fino a Debussy) e la poesia di Mallarmé si fa ricerca del valore musicale, e in generale sonoro, della parola. Frequente proprio nella poesia diviene l’uso di sinestesie e onomatopee, ma è soprattutto il binomio pittura/musica a costituire un nodo importante della cultura simbolista, inteso non solo come esplorazione di analogie tra effetti psicologici di colore e suono, ma anche come ricerca da parte dei pittori di un linguaggio, come quello musicale, scevro da implicazioni referenziali e sostenuto da una grammatica e da una sintassi cui la pittura aspira: in breve linee, colori, forme come melodia, armonia, contrappunto. Tutte queste suggestioni sono emblematicamente riassunte all’inizio di questo secolo dalle opere ormai quasi interamente astratte del pittore lituano Mikalojus Konstantinas Ciurlonis, ma sono le stesse che filtrano, in clima di piena avanguardia, in artisti quali Kandinsky, Klee, Frantisek Kupka o Francis Picabia. Proprio per Kandinsky, “Quando non si vede l’oggetto bensì se ne ode solo il nome nella mente dell’ascoltatore si forma la rappresentazione astratta, l’oggetto smaterializzato, il quale produce immediatamente una vibrazione nel cuore”, e ancora si legge: “L’oggetto può formare soltanto un suono casuale; perciò può essere sostituito da un altro senza che si abbia una modificazione ‘essenziale’ del suono fondamentale”. L’interferenza fra le arti dà luogo a interessanti sperimentazioni quali il teatro astratto senza attori, la pittura diviene pittura di suoni e la musica diviene musica di colori, attraverso l’ausilio di speciali macchine che a determinati suoni reagiscono proiettando determinati colori. La volontà di rappresentare una simultaneità di percezioni sensoriali conduce ben presto nelle arti visive all’interferenza di valori tattili, attraverso l’utilizzazione di materiali extrapittorici che segnano la nascita del collage cubista e futurista, dell’assemblage e l’avvio di ricerche polimateriche (da Prampolini ai costruttivisti russi quali Tatlin) e, in seguito, di valori acustici, come le più tarde sculture sonore di Jean Tinguely; e anche in campo musicale si cercano stimoli al di là del codice tradizionale con l’introduzione del rumore (da Luigi Russolo, a Erik Satie o Edgar Varèse) o, in anni successivi, del silenzio e di elementi o eventi casuali forniti anche dagli spettatori come nelle ricerche di John Cage, in cui l’atto musicale si fa azione teatrale, gesto, performance. Proprio nell’ambito della poetica futurista del rumore, dalle onomatopee e dalle ‘parole in libertà’ di Marinetti agli ‘intonarumori’ di Russolo e al suo manifesto del 1913, L’Arte dei rumori, tema sviluppato nelle tavole parolibere di Francesco Cangiullo e di Carlo Carrà, in cui la valenza sonora della parola è anche sottolineata sul piano visivo mediante la particolare veste tipografica, si riscontrano interessanti ricerche in direzione sinestetica. In un manifesto del 1913 significativamente intitolato. La pittura dei suoni, rumori e odori, Carrà afferma: “Il silenzio è statico, qualsiasi succedersi di suoni, rumori, odori stampa nella mente un arabesco di forme e di colori”; e l’autore prosegue auspicando la realizzazione di “insiemi plastici astratti, cioè rispondenti non alle visioni ma alle sensazioni nate dai suoni, dai rumori, dagli odori, e da tutte le forze sconosciute che ci avvolgono”, sostenendo che “vi sono suoni, rumori e odori concavi e convessi, triangolari, ellissoidali, oblunghi, conici, sferici, spiralici ecc.” e ancora “gialli, rossi, verdi, turchini, azzurri e violetti”. Tali suggestioni penetrano successivamente e in maniera più compiuta nel manifesto del 1915 firmato da Balla e Fortunato Depero, Ricostruzione futurista dell’universo: “La valutazione lirica dell’universo, mediante le Parole in libertà di Marinetti, e l’Arte dei Rumori di Russolo, si fondono con dinamismo plastico per dare l’espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della vibrazione universale. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto”, combinando il “rumorismo plastico simultaneo coll’espressione plastica”. Se questo manifesto sancisce la ricerca già avviata da Balla in direzione astratta, va rilevato che l’artista aveva precedentemente introdotto il tema del rumore in alcune opere del 1913-14, dove compaiono due linee spezzate (a zig-zag) combinate insieme a formare in genere successioni di rombi e a volte svastiche e sovrapposte a una ‘linea di velocità’ (come la definisce lo stesso Balla) curva. Infine possiamo dire che il Futurismo, in fondo, al di là di molti atteggiamenti muscolari e talvolta spocchiosi, fu un movimento profondamente tributario della temperie ‘simbolistica’ e proteso, quindi verso una esaltazione della velocità e del superomismo per nascondere una fragilità di fondo e quel sentimento di débacle e di sconfitta che le atmosfere postsecessionistiche e decadenti variamente impersonavano e che si specchiavano nelle voci di autori come Oscar Wilde, Adgar Allan Poe, Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, mentre ad altre figure toccava il compito di mettere in rilievo l’ansia critica della coscienza, ancora una volta individuale, sperduta in un colpevole isolamento sociale, ma tutt’altro che adagiata sul soffio delle sue mestizie. E tali figure sono quelle di Joyce, di Kafka, di Musil, di Pirandello, tutte personalità tutt’altro che suscettibili di essere intruppate nell’universo futurista. Si ripropone la domanda: fu avanguardia il Futurismo? Ci sentiremmo autorizzati a dire di no, riconsiderando non certo negativamente la generosità che ispirò l’azione delle singole personalità che animarono il movimento, ma tendendo a distinguere tra l’azione del Futurismo, appunto, come ‘movimento’ e l’azione individuale dei suoi singoli componenti, azione che, soprattutto quando seppe intelligentemente ibridarsi con il portato di altri orientamenti produttivi sul piano degli intendimenti, non meno che su quello dei linguaggi espressivi produsse interventi creativi decisamente convincenti. Immaginare, infine, di poter andare alla ricerca di episodi apparentemente ‘minori’ e certamente ancora dispersi nella pulviscolarità di testimonianze parcellizzate e malintesamente ‘marginali’ tutto ciò può costituire occasione ed opportunità di imbattersi in testimonianze non incongrue di sensibilità futuriste che furono espressione non soltanto di un programma di ‘movimento’, ma effetto, piuttosto, di una pervasività culturale e sociale che il Futurismo stesso seppe ispirare, anche indipendentemente e ‘contro’ l’azione che veniva dispiegando la temperie sarfattiana di ‘Novecento’. Ecco, allora, che, forse, proprio artisti dell’ultima ‘nidiata’ futurista, artisti nati più o meno negli anni in cui Marinetti dettava il suo ‘Manifesto’ del 1909, sono quelli che più decisamente e suggeriamo più convincentemente, interpretano l’istanza della ‘velocità’, ad esempio, come una opportunità proiettiva e non come una ‘condizione’, dichiarandosi disponibili ad una sfida esistenziale e non ad una parata di trionfo, andando ad introdurre, in tal modo, una istanza di vibratilità morale all’interno di un disegno culturale, che, quando fu concepito dalla mente di Marinetti, si proponeva come un additamento di trionfo e non come un’indicazione di un percorso. I veri futuristi furono sconfitti, giacché il crollo del regime fascista alla fine del secondo conflitto mondiale non rese giustizia dei loro sforzi di ricerca e determinò per molti di loro (al di là del fatto che non tutti avessero aderito al Fascismo) una sorta di epurazione culturale che ha pesato a lungo sulle storie individuali e sul profilo di giudizio di una generazione intera, indipendentemente dal fatto che una buona parte della sperimentazione sviluppata da quei giovani che negli anni Trenta avevano poco più di vent’anni meritasse d’essere considerata per lo spessore di contributi contenutistici marcatamente alieni dalle logiche di regime e, spesso, addirittura critici. Ma certamente questa Avanguardia ha dato un suo contributo notevole alla storia dell’arte italiana del Novecento. Posso dire che i graffiti contemporanei sono un grande paradosso. Come superficie per l’esecuzione di queste espressioni artistiche viene utilizzato un supporto resistente e duraturo, eppure il graffito contemporaneo è effimero, transitorio, poichè a causa della sua accessibilità o della sua illegalità, può scomparire anche dopo un breve lasso di tempo, cancellato o coperto. Inoltre i graffiti sono eredi di una grande tradizione di decorazione parietale, ma sono spesso soggetto di fraintendimenti: arte pubblica per alcuni, mero vandalismo per altri; un sentimento idiosincratico verso i graffiti accomuna i cittadini e inizialmente anche il mondo dell’arte. Ma tutto ciò ai creatori di queste opere non importa. La loro produzione è un punto di rottura nell’ordine urbano, sociale e artistico. Gli stessi writer (ossia coloro che verrebbero apostrofati, dai non addetti ai lavori, come “graffitisti” o “graffitari”), inizialmente, non la considerano arte, ma una disciplina, che possiede una storia, prevede uno studio e delle regole e pretende passione e costanza. Il risultato è un’espressione comunicativa realizzata all’aperto, sui muri, attraverso segni grafici ed componenti figurative. Questi elementi estetici, evolvendosi, traducono la manifestazione comunicativa in una forma artistica. Il Graffiti Writing, ossia la pratica di dipingere sui muri, solitamente con la bomboletta spray o con dei pennarelli, è un’espressione artistico-culturale democratica e proletaria, contestata e allo stesso tempo lodata. Per tutte queste caratteristiche, si può definire un’arte dinamica e viva. Questo concetto è già caro anche al filosofo John Dewey il quale, nel suo saggio del 1934 L’Arte come esperienza, afferma che l’arte non deve essere segregata in un mondo appartato, fuori dalle condizioni di esperienza umane, entro le quali invece questa è nata, poichè l’opera d’arte è il modo in cui il prodotto opera con e nell’esperienza. Il Graffiti Writing è un fenomeno che nasce spontaneo, in strada. Si tratta di un processo messo in atto da gruppi di ragazzini, una guerrilla urbana evoluta poi in tendenza artistica. Una linea sottile divide il Graffiti Writing tra fenomeno di strada e processo artistico e non sono mai mancate le disquisizioni su quale fosse il suo ambito di appartenenza. La città di New York è la culla di questo fenomeno. In questa città il Graffiti Writing è cresciuto, è maturato e si è arricchito. Achille Bonito Oliva precisa l’importanza di New York come incubatrice del movimento. In una città caratterizzata dal melting-pot di razze, culture e tradizioni, il Graffiti Writing si appropria inconsciamente delle varie correnti artistiche, creando così qualcosa di pre-esistente, ma completamente nuovo nel contesto, rivoluzionato. Dall’Europa verrà assorbito l’Informale, Dubuffet sopra tutti, dal Messico si imparerà la cultura e la tecnica murale e sarà forte l’influenza degli espressionisti astratti americani. In questo crogiolo di stili si sviluppa un movimento nuovo, dirompente, con una sua propria cultura, per poi diventare, in pochi anni, un fenomeno globale. The Faith of Graffiti è il titolo di un libro pubblicato nel 1974, che raccoglie una serie di saggi scritti da Norman Mailer, scrittore beat, uniti a fotografie di Jon Naar. Si tratta del primo volume mai dedicato alla scena del Graffiti Writing ed è tuttora considerato un elemento di studio essenziale per un’iniziazione a questa cultura. Il nome è eloquente, poichè racchiudere il fenomeno del Graffiti Writing sotto il termine di corrente, movimento o espressione artistica sarebbe riduttivo; per i writer il graffito è una vera e propria fede. Con The Faith of Graffiti si legittima per la prima volta l’azione di questi giovani, viene riconosciuto l’impatto delle loro opere sul piano artistico e sociale e viene previsto il suo carattere di fenomeno globale. Il Graffiti Writing si sviluppa negli Stati Uniti sul finire degli anni Sessanta. Fino ad allora ci si limitava a scritte a sfondo politico – ad esempio contro la guerra in Vietnam – o comunque inerenti ad un ambito socio-antropologico. Per la prima volta, verso la fine degli anni Sessanta e ancor più durante i Settanta, vi è una rottura: non si pensa più solo al contenuto, al messaggio da veicolare, ma ci si interessa principalmente alla forma. In questi anni, il graffito si tramuta in una valvola di sfogo per i giovani abitanti dei ghetti delle grandi megalopoli, un mezzo attraverso il quale rivendicare la loro libertà d’espressione. Il sociologo francese Jean Baudrillard , in un suo breve saggio riguardante i graffiti, paragona la città, con i suoi muri, i suoi angoli, i suoi mezzi pubblici, ad un corpo. Sul corpo si possono fare i tatuaggi e nelle società primitive i tatuaggi hanno una grande importanza rituale e simbolica; senza tatuaggi, così come senza una maschera, un corpo si mostra così com’è: nudo e inespressivo. I graffiti sono per i muri quello che i tatuaggi sono per il corpo. Tatuando i muri, i writer li liberano dalla loro architettura e li ritrasformano in una sostanza socialmente vitale, nel corpo vibrante di una città, di come era, prima di essere stigmatizzata dalle sue funzioni e istituzioni.Il Graffiti Writing è un fenomeno estremamente legato al territorio, innanzitutto perchè i writer considerano i muri e i treni le loro tele e le strade sono le loro gallerie. Inoltre, questo fenomeno nasce, come già asserito in precedenza, dalla strada, dal basso. Nel corso degli anni i graffiti si sono insediati nel territorio, dialogando con esso e caratterizzandone la struttura (spesso sono presenti nelle zone industriali o periferiche). Questa forma espressiva può essere quindi compresa nel genius loci di una città. Le teorie sul luogo di nascita di questi graffiti contemporanei sono diverse: alcuni ritengono che il fenomeno sia nato sulla West Coast, più precisamente a Los Angeles, da alcune gang, le quali iniziarono a marcare il loro territorio scrivendo a chiare lettere il nome della gang sui muri all’ingresso di ogni quartiere. “Per distinguersi e salvaguardare la propria identità, le gang svilupparono stili calligrafici diversi. Il primo stile a essere rielaborato fu quello legato all’alfabeto gotico, scelta dettata soprattutto dalla forte influenza messicana. Le scritte avevano un valore puramente intimidatorio”. Altre teorie fanno nascere il Graffiti Writing in Canada attraverso i monikers15, altre ancora, secondo la teoria più accettata e consolidata, nella East Coast, in particolar modo a Philadelphia. Cornbread è un nome ricorrente sui muri di Philadephia ed è considerato uno dei primi, se non il primo, writer conosciuto I graffiti si spostano quindi dai muri ai mezzi pubblici e il supporto diventa dinamico. I mezzi di trasporto pubblico saranno i supporti dominanti durante il periodo newyorchese. Cornbread e il suo partner Cool Earl sono i capostipiti di questo fenomeno e vengono considerati appartenenti alla prima generazione di writer, insieme ad altri giovani di New York come Tracy 168 o Julio 204. Questi writer utilizzano un lettering semplice e lineare, non sono interessati all’estetica: il loro obiettivo è quello di marcare il territorio. Il termine stesso writer infatti, significa “scrittore” ed è ciò che questi ragazzi intendono fare: scrivere il loro nome, sempre e ovunque. Nei primi anni Settanta i graffiti iniziano a invadere anche la città di New York. Si dà il via alla seconda generazione di writer. Questa seconda generazione viene descritta da Stewart così: Inizialmente si tratta di tag, ossia di firme, realizzate inizialmente con dei markers, dei pennarelli indelebili a punta molto larga, ripetute ossessivamente dai giovani per far conoscere il proprio nome. I writer non utilizzano il nome vero di battesimo, ma scelgono uno pseudonimo, un nome d’arte, il quale spesso viene associato ad un numero, solitamente romano, che corrisponde al numero della street, ossia della via, di appartenenza. In Graffiti kings si spiega che i nomi diventati molto popolari vengono anche venduti per cinque dollari, a patto che il nome sia seguito dal numero di discendenza. I ragazzi bianchi utilizzano solitamente il loro nome o soprannome, quelli afroamericani scelgono spesso nomi derivati dallo slang di strada, come Super Kool, Stay high, Topcat, o nomi africani. I ragazzi portoricani invece adottano nomi iper-americani, come Cola, Snake. Per un giovane writer il nome è tutto. Bisogna onorare il proprio nome e rispettare quello degli altri: “il nome personifica la tua esistenza e mancargli di rispetto è come un’aggressione alla tua integrità fisica. Scrivere sopra a un altro writer, specialmente sopra a uno sconosciuto può portare tutta una serie di conseguenze.” È essenziale acquisire uno stile unico, innovativo e soprattutto riconoscibile, poichè la tag rappresenta la propria personalità e dalla firma dipende il rispetto del gruppo e la stima degli altri writer. I ragazzi che iniziano a “taggare”, o a “colpire” (hit) 20 la città, sono tutti adoloscenti, spesso di origini afro-americane o latino-americane e i motivi per cui iniziano a compiere queste azioni non hanno a che vedere con motivazioni artistiche o politiche. Taki 183, uno dei pionieri del tagging insieme a Julio 204, sulle motivazioni che lo hanno spinto a prendere il marker in mano e a iniziare a marchiare la città con il suo nome. Proprio grazie a Taki 183, nel 1971 si inizia a parlare del fenomeno di “imbrattamento” che si sta diffondendo in maniera esponenziale nella città di New York. Il 21 luglio 1971 il “New York Times” pubblica un articolo su Taki 183 dal titolo: “Taki 183 Spawns Pen Pals”, letteralmente: “Taki 183 genera amici di penna”, nel quale si parla di Taki, di come abbia iniziato e del perché e vengono citati anche altri nomi di bomber operativi all’epoca, tra i quali Joe 136, Barbara 62, Eel 159, Yank 135 e Leo 136. Nonostante sia Taki 183 a raggiungere la notorietà, il primo vero bomber della scena newyorchese può essere considerato a pieno titolo Julio 204. Egli non gode della stessa fama di Taki 183, poiché non esce mai dal suo quartiere, è un bomber territoriale, ma è il primo ad aggiungere il numero della street, Taki 183 ritiene inoltre che Julio 204 abbia iniziato a colpire i muri già dal 1967. I primi luoghi colpiti dai writer della prima generazione sono Washington Heights (già dal 1969) a Manhattan, il Bronx e Brooklyn. Questi writer iniziano all’incirca a sedici anni e rimangono attivi fino alla fine dell’adolescenza. Quando chiedono a Taki 183 del motivo del suo abbandono della scena già attorno al 1973, egli risponde serafico solamente che “when you’re nineteen, you don’t do what you were doing at sixteen” Sebbene i primi supporti bombardati siano muri di scuole e parchi, molto presto si passa a quelli in movimento come autobus e camion, fino a colpire i vagoni della subway, prima internamente poi esternamente. Con centinaia di treni a disposizione e migliaia di persone che utilizzano la metropolitana ogni giorno, quest’ultima sembra il mezzo migliore per diffondere il proprio nome e poter essere notati. Da questo momento si crea un legame inossidabile tra il writer e la subway. Le stazioni della metropolitana diventano luoghi d’incontro e di scambi di idee. Dipingere i vagoni di un treno diventa una vera e propria sfida. Come ricorda Prigoff: “A New York, i writer hanno una sorta di attaccamento mistico verso i treni i treni sono l’arena dove ciascuno può sfidare se stesso”. Nonostante il Subway Writing (ossia il Graffiti Writing praticato nelle linee metropolitane) diventi il fenomeno principale in questi anni (fenomeno nato nel 1968 e finito nel 1989, quando la Metropolitan Transit Authority lo reprime definitivamente) non si cessa comunque di scrivere anche sui muri. Nel 1971, le maggior parti delle stazioni di Manhattan, del Bronx e di Brooklyn sono sature di graffiti. Tutti i muri delle stazioni sono taggati e alcune stazioni diventano veri e propri ritrovi per i giovani writer. Questi punti d’incontro prendono il nome di Writers Corners e tra i più popolari si possono ricordare la stazione della 149th street e Astor Place, stazione dell’East Village, uno dei quartieri più attivi e prolifici per la cultura underground degli anni Ottanta. All’inizio degli anni Settanta viene introdotto anche lo strumento che ha rivoluzionato il modo di fare tagging: si inizia ad utilizzare la bomboletta spray – possibilmente rubata– al posto dei più comuni markers. Nasce così l’Aerosol Era. Come già asserito, le tag del primo periodo sono delle semplici firme, senza decori o ornamenti, l’estetica non è una priorità. L’unico obiettivo è quello di espandere il proprio nome scrivendolo in più luoghi possibili. Il risultato è quindi un gesto rapido, sincopato. Come afferma Taki 183: “All you needed was something small, something someone would see out of the corner of their eye as they passed it.” Ben presto però, la situazione inizia ad evolvere. Il giovane writer è ambizioso, vuole farsi conoscere e pretende che la gente parli di lui, quindi, per ottenere notorietà e rispetto, il suo nome deve spiccare e prevalere sugli altri. Inizia così una vera e propria ricerca artistica sul lettering. Junior 161 è uno dei primi writer a sperimentare una scrittura in larga scala. I commenti, non sempre positivi, non tardano a venire, in primo luogo dal suo partner professionale Cay 161. Il fenomeno del Graffiti Writing produce un’influenza sempre maggiore verso i giovani e unendosi ad altre espressioni artistiche come la musica (rap), la danza (breakdance), a un certo tipo di abbigliamento e ad un codice di comportamento sociale e linguistico, formano una vera e propria sotto-cultura. Nasce così l’Hip Hop e con esso fioriscono anche i primi gruppi di aggregazione. Le crews sono delle “bande” che nascono spontaneamente, ciascuna con regole interne, composte da almeno due persone, solitamente con una persona a capo del gruppo, scelta in base meritocratica. Per un writer la crew è considerata quasi una famiglia. La crew dipinge insieme, tant’è che non i writer non firmano più con il proprio nome, ma utilizzano il nome del proprio collettivo. Al suo interno si scambiano idee e si migliorano le capacità tecniche. Nessuno insegna ai giovani writer l’arte dei graffiti. Un aspirante writer deve mostrare il proprio potenziale, la passione e la tenacia per poter fare ingresso in una crew, così poi da poter imparare le varie tecniche osservando i writer più esperti. La prima crew a formarsi è quella degli Ex Vandals e molte altre ne seguono. Tra le più rappresentative degli anni Settanta si contemplano: The Wanted club e Wild Style, fondate entrambe da Tracy 168, Rock Steady crew, istituita qualche anno dopo, nel 1977, famosa non solo come Writing crew, ma anche come crew di breakdance e musica rap e infine The Fabolous Five, i cui membri sono tra i primi a battersi per il riconoscimento dei graffiti come forma d’arte. Uno degli artisti più importanti del graffitismo è certamente Jean-Michel Basquiat che nacque a New York, precisamente nel quartiere di Brooklyn, il 22 dicembre 1960, in una famiglia di provenienza mista. Il padre Gérard infatti era nato ad
Haiti e la madre Matilde era di origini portoricane. Basquiat aveva due sorelle più piccole (Lisane e Jeanine), e un fratello più grande (Max) che tuttavia morì poco prima che lui nascesse. Fu proprio la madre, appassionata di arte, a far sì che Basquiat potesse familiarizzare con i capolavori più famosi portandolo sin da bambino a visitare i più importanti musei newyorchesi. Basquiat fu molto precoce dell’imparare a leggere e scrivere e iniziò a disegnare altrettanto presto, ispirato in particolare dai
cartoni animati che guardava in televisione. Venne così iscritto ad una scuola primaria orientata allo studio delle arti. L’adolescenza di Basquiat fu piuttosto tormentata, infatti i genitori divorziarono ed egli venne affidato al padre insieme alle sorelle. La madre invece entrava ed usciva da istituti psichiatrici, e Basquiat non riusciva a
gestire le emozioni che comportava vivere una situazione così complicata. A quindici anni decise di scappare di casa dopo che il padre lo sorprese a fumare, si mise a dormire su una panchina e venne arrestato per vagabondaggio. Basquiat era un ragazzo molto dotato ed intelligente, ma non riusciva a seguire le lezioni scolastiche, così venne iscritto alla “City-as-school”, una scuola con metodi di insegnamento alternativi e maggiormente adatti a studenti come lui. Qui incontrò e strinse amicizia con
Al Diaz un graffitista grazie al quale Basquiat iniziò a prendere consapevolezza delle proprie capacità artistiche come writer. Basquiat e Diaz passarono molto tempo insieme, disegnando e facendo largo uso di
stupefacenti, e diedero vita ad un sodalizio artistico sotto lo pseudonimo
“SAMO”. Il nome derivava da una frase detta dai due amici mentre fumavano marijuana insieme, constatando che stavano fumando “the SAMe Old shit” (“la solita merda”). SAMO non era solo una firma ma una vera
filosofia concettuale. Il nome comparve per la prima volta nel 1977 in una novella scritta da Basquiat, il cui protagonista era un giovane che si imbatte in un santone che gli propone
diverse religioni a cui aderire. L’unica che lo convince davvero è la religione SAMO, che si basa sul principio per cui “facciamo sulla terra tutto quello che ci pare, poi confidiamo nella grazia di Dio con la scusa che non lo sapevamo”, in aperta opposizione, dunque, ai dettami del cattolicesimo. A seguito della pubblicazione della novella venne fatta seguire una vera campagna pubblicitaria illustrata dal duo e da altri compagni di scuola. Nel maggio 1978, il nome Samo cominciò a comparire sempre più diffusamente sui muri dei quartieri di
Soho e
Tribeca come “tag”, la tipica scritta che i writers usano per firmare i propri graffiti, accompagnata dal
simbolo del copyright. I graffiti di
SAMO© diventarono sempre più popolari ed apprezzati presso il pubblico. Anche numerose riviste e quotidiani iniziarono ad interessarsi al fenomeno e chiesero al misterioso autore di uscire dall’anonimato e rivelarsi. Nel 1978 sia Basquiat che Diaz vennero espulsi dalla City-as-School dopo essersi resi protagonisti di alcune bravate, e a seguito dell’episodio il padre di Basquiat lo cacciò di casa. Entrambi cominciarono allora a frequentare la cerchia degli studenti della
School of Visual Arts, pur non potendo assistere alle lezioni o poter iscriversi. Tra gli studenti in questione c’èra anche Keith Haring, che si rivelò essere fan di SAMO© e iniziò a diventare amico di Basquiat dopo aver scoperto che era proprio lui a celarsi dietro la tag. Il sodalizio di Basquiat e Diaz terminò nel 1980 per diverbi tra i due writer, causati da divergenze artistiche e caratteriali. Dopo lo scioglimento del duo, Basquiat per un breve periodo continuò ad utilizzare la tag, modificandola in
“SAMO© IS DEAD”, ovvero “SAMO© è morto”. A questo anno risale anche la partecipazione di Basquiat al lungometraggio
Downtown 81, nella parte di sé stesso. Il film venne tuttavia pubblicato solo 20 anni dopo, nel 2000. Qualche anno prima, proprio dopo aver lasciato la City-as-School, Basquiat cercò di guadagnare qualcosa vendendo cartoline da lui illustrate in giro per New York. Un giorno entrò in un ristorante di Soho in cerca di acquirenti e vi scorse il suo idolo Andy Warhol, massimo esponente della
Pop Art. Gli si avvicinò per presentarsi e così avvio anche con lui un
sodalizio umano ed artistico durato qualche anno e fatto di alti e bassi. Nel frattempo, Basquiat frequentava assiduamente il
Club 57 e il
Mudd club, due locali di New York in cui si ritrovavano diversi artisti contemporanei e in generale personalità culturali dinamiche, sia del mondo dell’arte come della musica e del cinema. Aveva stretto diverse amicizie ed era molto desiderato per il suo fascino e la sua personalità oltre le righe (tra le frequentazioni più chiacchierate vi fu quella con la cantante
Madonna, all’epoca all’inizio della sua carriera). Nel 1981 Basquiat vendette il suo primo quadro,
Cadillac moon, all’amica musicista
Debbie Harry, cantante del gruppo musicale
Blondie. I due si erano conosciuti sul set di
Downtown 81 e Basquiat partecipò anche al videoclip di
Rapture, uno dei maggiori successi dei Blondie. Nello stesso anno conobbe la gallerista
Annina Nosei, che lo supportò molto nella sua carriera e ospitò Basquiat nel seminterrato della sua galleria d’arte. Sempre grazie a Nosei, Basquiat allestì la sua
prima mostra personale a
Modena nel 1981, alla
Galleria Mazzoli, ma ricevette un’accoglienza a dir poco tiepida (la mostra seguì di un anno il suo esordio assoluto, alla collettiva
The Times Square Show a New York). Molto meglio andò invece la retrospettiva personale di New York nel 1982, che fu il coronamento di un successo in rapida ascesa. Tra il 1984 e il 1985 Basquiat continuò a produrre e ad esporre le sue opere in una serie di mostre tra l’Europa e New York, e gli venne persino dedicata una copertina sul celebre magazine
New York Times. Basquiat in poco tempo divenne tra gli autori più ricercati dagli
yuppies, imprenditori che fecero fortuna con affari commerciali di vario genere e che si rivelarono ottimi acquirenti per i galleristi, i quali li indirizzavano verso investimenti nell’arte. I prezzi delle sue opere salirono vertiginosamente. La
tossicodipendenza di Basquiat, tuttavia, iniziò a prendere il sopravvento nella sua vita, insieme ad alcuni disturbi comportamentali piuttosto seri, ad esempio esplodeva spesso in attacchi paranoici verso le persone intorno a lui. La situazione precipitò ulteriormente a seguito della scomparsa di Andy Warhol, e Basquiat trovò nell’abuso di eroina un modo per cercare di superare la perdita del suo punto di riferimento. Tentò di disintossicarsi nel 1987, ma purtroppo il tentativo non venne portato a termine, poiché venne trovato privo di sensi nel suo loft il 12 agosto del 1988 a seguito di un’overdose. La corsa in ospedale si rivelò inutile e Basquiat fu dichiarato morto. Basquiat è un artista
pienamente immerso nella sua epoca, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Sono questi anni frenetici, innovativi, colorati, in cui si diffondono su larga scala il
linguaggio pubblicitario commerciale, il
cosmopolitismo, le
innovazioni tecnologiche, i
media, il
consumismo, tutti spunti che saranno ben presenti nei suoi graffiti. Basquiat inoltre vive a New York, una città dinamica dove l’arte travalica le stanze dei musei e scende letteralmente in strada: l’artista infatti si avvicina alla
Street art ammirando i
murales di altri writer per le strade della “Grande mela”. I graffiti firmati con il nome SAMO, datati tra il 1977 e il 1980, sono piuttosto concettuali, presentano frasi a volte più corte e di effetto, altre più lunghe, ma tutte presentano degli “statement” che invitano lo spettatore a riflettere su alcune dinamiche ed ipocrisie della quotidianità. Alcuni esempi: “SAMO© come la fine della religione che ti lava il cervello, della politica inconcludente e della falsa filosofia”, “SAMO© come clausola liberatoria“, ”SAMO© salva gli idioti“, ”SAMO© come la fine del punk in vinile“, ”SAMO© come alternativa al fare arte con la setta radical-chic finanziata dai dollari di papà“, ”SAMO© come espressione dell’amore spirituale“, ”SAMO© per la cosiddetta avanguardia". Lo
stile grafico, quando si tratta solo di scritte, è
semplice e minimale, alternando scritte nere su sfondo bianco e scritte bianche su sfondo nero tramite l’uso di bombolette di vernice spray spruzzate direttamente sul muro. A volte compaiono anche alcuni simboli, come una corona stilizzata, e pittogrammi di vario tipo. Inoltre, sia nelle opere firmate SAMO© ma soprattutto nelle successive opere del solo Basquiat, compaiono spesso delle
figure antropomorfe colorate molto elaborate nella composizione, attraverso l’uso di forme a volte rotonde e curve, a volte spezzate e rigide. L’interesse di Basquiat per la raffigurazione della figura umana e in particolare della struttura corporea risale ad un episodio di quando aveva otto anni. Fu infatti
investito da un’automobile mentre giocava in strada e subì
l’asportazione della milza, rimase poi ricoverato a lungo in ospedale e la madre, per intrattenerlo, gli portò una copia del manuale di anatomia
Gray’s anatomy, che affascinò il piccolo. Si potrebbe accostare questa particolare resa della forma umana alla corrente dell’Espressionismo, infatti gli esseri antropomorfi di Basquiat sono gialli, neri, rossi, verdi e i tratti somatici sono ridotti a segni grafici poco realistici, simili a degli schizzi che si fanno di getto con carta e penna. Eppure, risultano decisamente molto espressivi: alcuni sembrano gridare, altri sembrano shignazzare, altri sembrano muoversi goffamente nello spazio, spesso riempito da lettere, segni grafici e sfondi colorati vivacemente. Si veda come riferimento
Dustheads (1982). I colori, puri e squillanti, vengono utilizzati dall’artista in maniera molto istintiva e di getto,
strizzando i tubetti di vernice direttamente sul supporto. Lo stesso modo di dipingere di Basquiat non suggerisce
nulla di razionale, ma piuttosto sembra essere
un’azione viscerale dettata da un’urgenza interiore. Si narra, tra l’altro, che Basquiat non dipingesse con costanza, ma che alternasse periodi di stallo a periodi di grande produttività che lo coglieva nei momenti più disparati, anche in piena notte, come se fosse in trance. Confrontando le opere di Basquiat è possibile notare alcuni elementi ricorrenti utilizzati dall’artista come
messaggio di denuncia. Sono presenti alcuni poliziotti, simbolo di un uso eccessivo del rigore e della disciplina, si veda ad esempio
La Hara e
Irony of the Negro Policemen (1981), soprattutto la seconda opera. Basquiat vuole sottolineare in quest’opera l’ironia di un uomo di colore diventato poliziotto, che passa così da una situazione storica di sottomissione a causa della propria etnia ad una di comando e potere, trovandosi a sovrastare su altre persone deboli. Il tema delle
ingiustizie nei confronti degli afroamericani è suggerito anche dalla presenza di tratti fisionomici che ricordano le maschere africane, un modo per l’artista di denunciare la condizione di schiavitù subita da questo popolo nel corso della storia. Infine, troviamo presente in diverse opere la passione di Basquiat per la
musica jazz, che apprezzava sin da ragazzo, soprattutto in
Bird on money (1981). Quest’opera in particolare è un diretto omaggio al sassofonista
Charlie Parker: “bird” era infatti il suo soprannome. Un tassello fondamentale nella produzione di Basquiat è sicuramente il rapporto con Andy Warhol, forse uno dei pochi punti fermi della vita di Basquiat. Oltre alla grandissima ammirazione che il giovane writer aveva per la sua arte, la loro amicizia fu molto profonda sia a livello umano che a livello artistico. Collaborarono insieme su diversi progetti, ad esempio la serie
Collaborations del 1986, e allestirono insieme una mostra, sulla cui locandina compaiono entrambi nelle vesti di due avversari in un incontro di boxe. Un altro dei più importanti esponenti del graffitismo americano, riuscendo a portare, insieme a Keith Haring, questo movimento dalle strade metropolitane alle gallerie d’arte. Ognuno,writer o medico che sia, cantante o avvocato, fotografo o architetto, deve iniziare dalle basi, deve imparare e deve far esperienza prima di poter giungere al traguardo finale, ovvero quello di essere riconosciuto come effettivo facente parte della categoria per cui tanto ha lavorato. Tutti coloro che criticano le “tags”, le firme e gli scarabocchi sui muri della propria città definendole “non-artistiche” e vandaliche, ma che poi apprezzano le opere di Keith Haring solo perché all’interno di una galleria, dunque, dovrebbero riflettere su questa storia. Non bisogna rimanere ancorati alle ormai antiquate idee secondo cui costoro siano semplici vandali, bisognerebbe cominciare a capire che molti di loro hanno un messaggio, hanno qualcosa da dire e hanno trovato nelle pareti l’unico mezzo per trasmetterlo. Posso dire che Keith Haring faceva parte della fascia di giovani istruiti, appartenenti a famiglie benestanti, i quali si avvicinavano alla Graffiti Art grazie ai proprio studi. Da un piccolo paesino della Pennsylvania, decise di trasferirsi a New York, dove l’incontro con bande anonime di graffitisti di strada, fa sì che comprenda ogni aspetto di questa forma d’arte. Il graffitismo praticato su muri e vagoni, può essere considerato secondo rispetto ad uno di tutt’altra natura, presente ormai da decenni e decisamente più raffinato: il cartellonismo pubblicitario, che è come una seconda e artificiale pelle sui muri di tutta la città. Nel 1980 si accorge dei fogli neri opachi che coprono le pubblicità a cui è scaduta la tassa di affissione nei corridoi delle stazioni della metropolitana . Sono una specie di lavagna che gli permette di comunicare con un pubblico ampio, popolare, che quasi di sicuro non mette mai piede né in una galleria d’arte né in un museo. Per cinque anni produce centinaia di questi graffiti, denominati subway drawings, facendosi multare ripetutamente e persino arrestare per atti di vandalismo. La gente però inizia ad accorgersi di lui, e la sua arte semplice e simbolica diventa una compagnia familiare per i pendolari che vanno in ufficio, tanto che qualcuno inizia a strappare i disegni per portarseli a casa; molti di questi lavori saccheggiati, furono rivenduti a diversi musei. L’artista viaggiò nelle diverse capitali del mondo, spesso con mezzi di fortuna come il semplice autostop, e in ognuna di questa città lasciò il riconoscibile disegno dell’omino stilizzato e colorato, il suo segno caratteristico più noto. Dopo essere divenuto famoso grazie ai murales, espose i suoi lavori fra Club di vario genere e vernissage più o meno improvvisati. Le novità da lui proposte, risultano esplosive e non mancano di attirare l’attenzione degli intenditori più smaliziati: trasmette ed inventa un nuovo linguaggio urbano. All’inizio degli anni ’80, Haring si ripropone di ripassare i fumetti con l’aiuto di uno scanner, ma per rendere le immagini più scarne, li trasforma in tracciati schematici e volutamente poveri . Le caratteristiche di tutte le sue opere, dalle prime produzioni fino alle ultime, rispecchiano perfettamente lo stile della Graffiti Art: le immagini vengono sempre riportate su superfici bidimensionali, per questo vengono trattate in modo semplice e ridotto, con contorni schematici e generalizzati. Nei primi tempi, l’artista riporta anche il riquadro, che nei fumetti serviva a separare una scena da un’altra a scopo narrativo; ne ritroviamo un esempio in alcune opere senza titolo del 1984 . Ben presto, si rese conto che utilizzare un riquadro risultava limitante, così se ne liberò definitivamente, per fare in modo che il flusso degli intrecci grafici sulle sue opere, si prolungasse il più possibile. Nel 1983, Haring in una celebre serie di interventi, tracciò dei profili incredibilmente puri ed incisivi, privi di ripensamenti su un fondo nero: sono presenti solo due colori, ovvero il nero dello sfondo ed il bianco utilizzato per creare la traccia. Per alcune opere, come si è già detto, si ispirò a dei fumetti: un soggetto comune a Roy Lichtenstein che tra l’altro era amico dell’artista, è Topolino , che può essere considerato come l’eroe principale dell’epica fumettistica. Ma sono presenti anche dei pagliacci e Pierrot: il suo intento resta comunque quello di far perdere consistenza alle icone, per svuotarle dall’interno. Nelle opere, compaiono semplicemente dei profili di corpi interi; al loro interno, sono presenti dei segni grafici, e spesso questi corpi si intrecciano tra di loro: l’arto di una figura entra nella fessura di un’altra. Possono variare i colori, sia dello sfondo che del contorno delle opere, ma alcune caratteristiche non cambiano mai: tutte le linee sono spesse e i fondi sono piatti, sempre privi di sfumature. I segni grafici che riempiono la superficie, sono spesso dei bastoncini o dei puntini: è grazie alla loro presenza, che le opere perdono ogni iconismo, divenendo un qualcosa di completamente astratto. La ripetizione di questi segni diventa quasi ossessiva, ma mai monotona. La sua è un’arte di segni, simboli, icone, che per la loro stessa natura veicolano un messaggio chiaro, semplice, immediatamente accessibile ed universale, in un certo senso. L’elemento che più viene ridotto nei lavori di Haring però, è il colore: anche sotto quest’aspetto, va contro ad uno dei principi sacri dell’arte, ovvero il fatto che i colori andassero stesi con delle sfumature. I colori chiave si riducono ad un massimo di tre per dipinto e spesso sono il nero, il rosso ed il bianco. L’artista non si limitò alla bidimensionalità, come invece facevano altri graffitari: si divertiva a dipingere vestiti ed oggetti. Tra gli abiti, ricordiamo quelli indossati dall’amica e cantante Madonna nel video Into the groove, nel 1985. Crea grandi sculture di bambini in metallo o dell’uomo mezzo cane e mezzo uomo ma oltre a queste, Haring disegnò su macchine, biciclette, statue e vasi. Si dedicò anche alla body art, lui stesso si fotografò nudo e ricoperto di vernice bianca. Con quest’ultima, è possibile fare un confronto con la cultura primitiva: anche nell’antichità si usava dipingere il corpo, in particolare quello dello sciamano chiamato ad officiare qualche rito; in generale, la Graffiti Art rimanda ai dipinti rupestri della preistoria. In un evento, l’artista armato di spray, si avventò sugli spettatori e cominciò a firmarli dal vivo, lasciando sul corpo di ognuno una traccia di sé; firmò persino una carrozzina con dentro un neonato, che stava passando in quel preciso istante. Col passare degli anni, gli interventi si fecero sempre più estesi e monumentali, come se fosse impegnato in una corsa con la quale doveva bruciare un carburante interiore: dalle pareti delle metropolitane, a facciate intere di palazzi. Divenuto famoso a metà degli anni ’80, Keith Haring venne chiamato un po’ ovunque, a confezionare murales, vetrine, apparati decorativi. Dalle vetrate della National Gallery of Victoria di Melbourne in Australia distrutte per protesta, perché i suoi disegni appaiono come un insulto alla pittura aborigena al muro di Berlino dai tessuti per una collezione dello stilista Stephen Sprouse all’etichetta d’artista per i vini Château Mouton Rothschild inserendosi in una lista che comprende nomi del calibro di Picasso, Dalì, Cocteau, Mirò, Chagall e Kandinsky da un muro nell’ospedale per bambini del principato di Monaco. Gli varrà un’onorificenza ufficiale raramente concessa a chi non è monegasco da parte della principessa Carolina. Nella lista è incluso un dirigibile che vola sopra Parigi, un casinò in Belgio accanto alle decorazioni originali di Réné Magritte, una giostra per un parco di divertimenti a tema in Germania, un invito a forma di disco inciso a 45 giri per una festa di compleanno della principessa Gloria von Thurn und Taxis. Tra gli interventi più importanti, ricordiamo quello del 1983 a Milano per Fiorucci; la maggior parte dei lavori realizzati in quell’occasione, in un giorno e una notte in un happening non stop, nel 1998 verranno messi all’asta dalla galleria d’arte parigina Binoche; riempì di graffiti i muri, i mobili e perfino i soffitti con colori fosforescenti. Altra svolta epocale della sua carriera è l’incontro personale con Andy Warhol, a cui fu legato da amicizia sincera e profonda; possiamo dire che sotto certi aspetti, l’allievo supererà colui che egli considerava il suo maestro. A differenza di Warhol, sarà un omosessuale pubblicamente dichiarato e nel momento in cui si scoprirà sieropositivo diventerà un attivista che lotta in prima linea insieme ad Act Up. Nel 1988, gli venne diagnosticata l’AIDS; le ripercussioni della diagnosi, furono evidenti sia nella sua vita che nella sua arte. L’annuncio della malattia, fatto tramite un’intervista a “Rolling Stone”, crea un generale shock e non fa che incrementare la sua fama. Nelle opere, cominciano a comparire numerosi riferimenti sessuali; i segni rappresentati, diventano messaggi in cui si intuisce la tragedia. Affronterà e rappresenterà a modo suo, i temi di attualità della sua epoca: dalla minaccia dell’annientamento nucleare all’oscenità dell’apartheid in Sud Africa fino all’orrore dell’Aids simbolizzato come un serpente in una delle sue opere , e il bisogno che le persone hanno di avere uno scambio emotivo in un mondo che iniziava a conoscere le rivoluzioni della tecnologia. Anche la sua sessualità, inquieta e senza sosta, lascerà tracce inequivocabili nel suo linguaggio visuale, ma è rarissimo vederle nelle grandi mostre retrospettive che gli si dedicano. La sua produzione omoerotica, che rasenta la pornografia elevata ad arte, è quella che indubbiamente rappresenta la più grande e censurata pietra dello scandalo nel percorso artistico di Haring. Una rarissima testimonianza al riguardo sono i murales, tuttora visitabili, che dipinse nei bagni del Gay Lesbian Community Service Center nel Greenwich Village, a poca distanza da dove si trova un suo innocente murale dipinto sulla parete di una piscina pubblica all’aperto. In queste opere compaiono molte scritte, recanti il messaggio che l’artista vuole trasmettere, mentre la qualità delle opere non cambia: il tipo di disegno, le linee, i segni ed i colori restano invariati. Prima della sua morte, fonda la Keith Haring Foundation, che si propone tutt’oggi di continuare le lotte che l’artista stesso aveva cominciato. L’ultima grande opera di Keith Haring, fu dipinta in Italia, precisamente sulla parete esterna del convento di Sant’Antonio a Pisa: credeva che l’arte fosse capace di trasformare il mondo, poiché le attribuiva un’influenza positiva sugli uomini. Forse non è a caso che il suo ultimo capolavoro pubblico lo intitolò Tuttomondo ,ed è un coloratissimo murale di centottanta metri quadri, in cui riproduce tutti i simboli che lo hanno reso celebre. Le caratteristiche principali di questa tecnica sono: la rapidità di realizzazione dell’opera una volta preparata la maschera e la possibilità di riprodurla, ipoteticamente, all’infinito. Questo ha consentito a Banksy di dipingere, negli anni, in luoghi molto sorvegliati e difficili da raggiungere: giunge sul luogo prescelto, sempre molto simbolico e mai a caso, applica la maschera sulla parete, dipinge e scappa, senza che nessuno abbia nemmeno il tempo di accorgersene. Durante un’intervista Banksy affermò: “È questa la chiave dei graffiti: l’ubicazione” . Come dargli torto? Per essere veramente efficace , la street art di Banksy deve essere collocata nel contesto giusto. L’arte di strada deve comunicare con il luogo nel quale viene creata, deve interagire con l’ambiente circostante; solo cosi il pubblico riuscirà a non vederla più come un semplice “disegno” esteticamente bello ma come qualcosa di più. Quando dunque le sue opere vengono rimosse dal loro luogo originale per poi essere vendute ed affisse ad una parete di qualche ricco salotto, perdono tutto il loro valore, perdono la loro anima. È cosi che con il tempo l’artista di Bristol decise di non firmare più le proprie opere; cosi facendo avrebbe, in primis, evitato un possibile arresto e soprattutto avrebbe evitato che le sue opere, rivolte a tutti, libere e gratuite venissero rimosse da qualche “businessman”: in assenza della sua firma infatti sarebbe stato difficile autenticare le opere; l’unico modo per farlo era, ed è tutt’ora, quello di rivolgersi all’agenzia Pest Control letteralmente “servizio di disinfestazione” che certifica le stampe e i dipinti autentici di Banksy. L’unico problema è che non vengono autentificati i pezzi di strada perché “i proprietari delle case tendono ad incazzarsi parecchio quando gli sparisce una porta perché c’era dipinto uno stencil”. Ogni pezzo di Banksy ha una fattore molto forte di critica verso un problema della società. Ogni sua opera apre un dibattito che potrebbe durare ore, questiona su argomenti fondamentali per il nostro tempo, mette in discussione ogni cosa. In base alle interviste effettuate risulta molto spesso che Banksy venga visto come una vox populi, come un Robin Hood contemporaneo. Non si sa chi sia; un uomo che ha mandato avanti la forza del suo messaggio a discapito della fama della sua persona. Un uomo che la gente apprezza per la sua presunta sincerità. Dico presunta perché nessuno sa in realtà quali siano i suoi scopi, cosa lo spinga a perseguirli e chi ci sia dietro alla maschera. C’è chi pensa che sia solamente un prodotto commerciale, che non sia più solo una persona ma che sia un’azienda. C’è chi dice che sia ricchissimo e che quindi non sia più coerente con quello che predica. Dicono che tutto ciò che ha fatto l’abbia fatto solo per la fama. Tutto ciò è possibile, anzi probabile; nessuno mette in dubbio che ormai non sia più solo uno: sarebbe impossibile aver creato questo impero da solo. Ma anche i cartoni animati e i supereroi sono finti; dietro si nasconde sempre qualche ricca e avida casa di produzione e nonostante questo continuano a farci sognare. Quindi perché dovremmo smettere di farlo? Dipingere Graffiti è il modo più onesto in cui puoi essere un artista. Non servono soldi per farlo, non è necessaria una formazione per comprenderli e non c'è alcuna tassa di ammissione. Due artisti le cui più celebri opere mai realizzate sono loro stessi: “Nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti” diceva Warhol e Banksy risponde: “Ognuno nella vita avrà 15 minuti di anonimato”. Figure geniali, capaci di creare un cocktail potente di celebrità, satira e voyerismo e che hanno saputo trasformare la loro arte in un evento straordinario. Si affronteranno, inoltre, i grandi temi comuni a entrambi gli artisti: la musica e il cinema, che costituiranno un faccia a faccia unico. Infine il percorso della mostra si conclude con che nei primi anni Ottanta con JonOne, uno dei primi e principali esponenti della graffiti art, che ha il grande merito di aver portato i graffiti da Harlem (NY) a Parigi e dalla strada alla tela. Passando per JonOne si arriva dunque alla scena europea, dove Blek le Rat e poco dopo Jef Aérosol hanno cambiato il volto delle città francesi con i loro innovativi
stencil. Considerato padre della Stencil Art, Blek le Rat con il suo famoso "ratto", simbolo della ribellione e della pervasività dell'arte urbana, ha influenzato generazioni di artisti fra cui Banksy. Il celebre artista britannico con le sue opere provocatorie e socialmente consapevoli, ha portato la stencil art dall'Europa all'attenzione globale. Le sue creazioni sono diventate iconiche, definendo la Street Art come una potente forma di espressione politica e sociale. Se si parla di arte e attivismo è impossibile non menzionare Shepard Fairey, aka Obey, le sue opere - fra cui il suo celebre ritratto di Barack Obama “Hope” e le sue campagne a favore dei diritti e della salvaguardia dell'ambiente hanno un forte impatto sulla cultura popolare e sulla politica. Il percorso espositivo continua con la “European Wave” portando all’attenzione del pubblico artisti contemporanei come D*Face, Invader, Alexandre Farto aka Vhils e The London Police. Questi artisti hanno portato la Street Art a nuove vette con stili distintivi e tecniche innovative. Ad essi si aggiungono poi i PichiAvo che combinano l’estetica classica con il linguaggio delle
tag per dare vita a opere che fondono passato e presente in un dialogo visivo affascinante. Si possono inoltre ammirare pezzi unici e limited edition di Mr Brainwash e Pure Evil, artisti che portano un tocco pop alla Street Art, con opere che richiamano il lavoro di Warhol e aggiungono un commento contemporaneo sulla cultura delle celebrità e sulla società. Infine, la mostra dedica una sezione agli artisti italiani che hanno lasciato il segno sulla scena internazionale. Da Sten Lex con la tecnica dello stencil poster a Microbo e Bo130, Hogre, Orticanoodles e Biancoshock con le sue installazioni provocatorie, l'Italia ha dato un contributo significativo alla crescita e all'evoluzione della Street Art. Ma certamente questa Avanguardia ha dato un suo contributo notevole alla storia dell’arte italiana del Novecento. In mostra, si segnala, inoltre, la presenza dell’opera inedita di John “Crash” Matos,
Visions in motion, realizzata appositamente per l’esposizione di Milano, e le opere di due artiste donne, la futurista Adriana Bisi Fabbri e la writer Lady Pink, capaci di distinguersi in un campo, a inizio ‘900 come alla fine del secolo, dominato dalla presenza maschile. Chiude il percorso espositivo la piccola sezione documentale,
Ephemeras, con documenti relativi al Futurismo e al Graffitismo e ai loro protagonisti.
La mostra è suddivisa in cinque sezioni :
La velocità come espressione dinamica
La velocità rappresenta una forza trascinante che cattura l'essenza del nostro tempo, un'energia che si sprigiona in ogni istante e che ha sedotto tanto i Futuristi italiani quanto i Graffitisti americani. Nei primi, come Balla e Depero, la velocità era il simbolo dell
’era moderna, espressa attraverso linee dinamiche e colori sgargianti che sembravano voler trasportare lo spettatore direttamente nel cuore di una città in frenetico movimento. La pittura non è più statica: si lancia in avanti, supera i confini del quadro, facendo del dinamismo un
’idea centrale. Nel contesto del Graffitismo, artisti come CRASH e DAZE reinventano la velocità come atto di creazione istantanea. L'uso della bomboletta spray, con il suo getto rapido e irriverente, trasforma la velocità in un gesto ribelle e diretto, segnando il passaggio della città come uno sguardo fugace. L'arte, qui, è un grido immediato, che si sviluppa in un ritmo frenetico, una scia di colore che si oppone all'immobilità. La velocità diventa allora espressione di un'identità che si afferma rapidamente, senza compromessi, come una fiammata che segna il paesaggio urbano e cattura l'attenzione di chi osserva.
Figure umane: metamorfosi
In questa sezione, si esplora la trasformazione della figura umana in entrambi i movimenti, come un viaggio attraverso l
’essenza e la forma. Basquiat e Haring, da una parte, e Sironi e Dudreville, dall
’altra, interpretano l
’umanità come un continuo divenire. Basquiat frammenta e ricostruisce volti e corpi, trasformandoli in simboli enigmatici che raccontano di una società divisa e in perenne ricerca di significato. La sua arte è una radiografia emotiva che penetra sotto la superficie, esponendo le ferite e le contraddizioni dell
’essere umano. Similmente, Sironi e Dudreville ripensano la figura umana, ma attraverso una lente differente: mentre Dudreville attinge a un
’iconografia quasi mistica, Sironi si sofferma sulla forza e la resistenza dell
’individuo. Haring, con le sue forme semplificate, riduce la figura umana a un simbolo universale, quasi primordiale, che invita a una riflessione sull
’interconnessione e sulla comunicazione. In questo dialogo, le figure si trasformano, attraversano le barriere del visibile e diventano archetipi, raccontando storie senza tempo di evoluzione e trasformazione.
Colore
Esplosione di colori: energia e movimento
Il colore è qui concepito come forza vitale, una fonte inesauribile di energia che permea ogni angolo delle opere di artisti come Kenny Scharf e dei Futuristi in generale. In Scharf, il colore si manifesta in esplosioni violente, in onde di tonalità psichedeliche che disorientano e affascinano. È una danza cromatica che celebra il caos e l
’eccesso, ma che al contempo si ispira agli accostamenti audaci di un Depero o di un Balla, dove il colore era già pensato come un'esperienza sensoriale totale. Per i Futuristi, il colore era simbolo di vita e di movimento, un mezzo per rappresentare la velocità e la potenza della modernità. Negli esponenti del Graffitismo, il colore prende una direzione diversa, ma altrettanto impetuosa: diventa una forma di espressione libera, quasi senza controllo, che trasporta lo spettatore in una dimensione onirica e al limite della percezione. Attraverso l
’uso del colore, entrambi i movimenti riescono a evocare non solo l
’aspetto visibile, ma anche quello emotivo e spirituale dell
’esperienza umana.
Forme spaziali: tra astrazione e visioni
L'astrazione, nelle mani di Futura 2000 (solo il suo nome d’arte rappresenta una dimostrazione tangibile dell’ispirazione nei confronti della filosofia futurista) e dei Futuristi come Balla e Dottori, diventa uno strumento per esplorare le profondità dello spazio e delle dimensioni. Futura 2000 è maestro nel trasformare la forma geometrica in un viaggio visuale; i suoi cerchi, perfetti e ipnotici, richiamano la precisione assoluta e l'equilibrio, come un linguaggio universale che racconta di atomi e galassie. La sua arte è, dunque, un
’ode all
’invisibile, un modo di rappresentare ciò che non è tangibile, ma che risuona nell
’immaginario collettivo. Allo stesso modo, Balla e Dottori spingono la rappresentazione dello spazio in avanti, cercando di catturare l
’energia invisibile che si muove sotto la superficie. La loro astrazione non è mai fredda, ma sempre pregna di dinamismo e intensità emotiva. In questo contesto, la forma geometrica si fa portatrice di una visione più ampia, una meditazione sul cosmo, sull'infinito, su ciò che esiste oltre il visibile. Entrambi i movimenti convergono verso un
’idea di spazio che non è solo fisico, ma anche mentale e simbolico.
La Città
La metropoli pulsante: vita e creatività contemporanea
La città non è solo un luogo, ma un'entità vivente, un organismo che respira e pulsa di vita e creatività. Per i Futuristi, la metropoli era il simbolo del nuovo mondo, un concentrato di energia e possibilità, un teatro di innovazione e cambiamento continuo. Questa stessa visione si ritrova nel Graffitismo, dove la città diventa la tela su cui scrivere la propria storia, un luogo che accoglie e amplifica l'espressione personale. In questo senso, la città rappresenta una sorta di palcoscenico per entrambi i movimenti. Ogni angolo, ogni muro, ogni treno è un
’opportunità per incidere un segno, per lasciare un
’impronta. La metropoli diventa dunque spazio di libertà e sperimentazione, un crocevia dove l
’arte si incontra con la vita, e dove ogni superficie si trasforma in un manifesto di espressione creativa. La città è il battito di un cuore collettivo, un luogo dove le individualità si fondono e si confondono, dando vita a un inno di contemporaneità.
Il ritmo urbano: la musica e il battito della città
La musica, come l
’arte, è un riflesso della città e del suo ritmo incessante. I Futuristi trovavano ispirazione nei suoni meccanici e industriali, mentre i graffitisti si sono lasciati trasportare dai ritmi urbani dell
’hip-hop, del funk, di tutti quei generi che nascono nelle strade e ne riflettono la realtà. Questa connessione tra musica e arte crea un legame profondo, una sorta di danza che accompagna la vita cittadina. Il Graffitismo, alimentato dal ritmo e dalla cultura del beat, rappresenta l
’anima della città, il suo battito vitale. È un richiamo che risuona in ogni angolo, trasformando la città stessa in un
’immensa cassa di risonanza. Il ritmo è anche un atto di resistenza, un modo di affermare la propria identità in un mondo che sembra voler omologare tutto. Attraverso il suono e il movimento, entrambi i movimenti traducono l
’energia della città in arte, facendo del ritmo urbano un elemento fondamentale della loro estetica.
La Ribellione
Parola e immagine: inedite evocazioni visive
In entrambe le avanguardie, parola e immagine si fondono per creare un linguaggio unico, dove il significato si costruisce attraverso il dialogo tra i due elementi. Nel Graffitismo, il tag è un simbolo di presenza, una firma che dichiara l
’esistenza dell
’artista e lo lega al territorio urbano. È un segno di identità, ma anche di rivendicazione di uno spazio proprio, che non può essere ignorato. I Futuristi, invece, utilizzano la parola come strumento sonoro, un elemento che non si limita al significato ma evoca anche sensazioni, immagini, suoni. Attraverso l'uso dell
’onomatopea e di parole che si scompongono e si ricompongono, i Futuristi danno vita a un linguaggio visivo e uditivo che sfida le convenzioni della letteratura tradizionale. Entrambi i movimenti vedono nella parola non solo un mezzo di comunicazione, ma un modo per creare immagini mentali, per evocare mondi nuovi e inesplorati.
La guerra ideale: dall’Afrofuturismo agli omaggi a Wild Style
La guerra, per i Futuristi, è stata concepita come un atto di rigenerazione, una forza che distrugge per creare. In Rammellzee e nelle correnti del cosiddetto Afro-futurismo, la guerra diventa un mito, una lotta contro l
’oppressione e un viaggio verso un futuro alternativo. L
’arte, qui, si fa campo di battaglia, luogo di resistenza e di sogni di liberazione. In questo senso, il Graffitismo rende omaggio a Wild Style, un movimento che ha saputo trasformare la cultura della strada in un
’epica moderna. Questa guerra ideale è un confronto tra mondi, una sfida che non si limita al piano fisico ma investe anche il piano simbolico.
È un inno all'indipendenza e all'autodeterminazione, un modo di raccontare storie di resistenza e di trionfo. I due movimenti condividono una visione della guerra come forza di cambiamento, un principio che distrugge il vecchio per lasciare spazio al nuovo, in una continua lotta per la libertà.
Eco
Omaggi al passato & influenze cubiste
Nel dialogo tra Futurismo e Graffitismo, Haze e Carlos “Mare139” Rodriguez rendono omaggio al passato, reinterpretando l’estetica futurista in chiave urbana contemporanea. Haze presenta una grande tela ispirata alla città, in cui segni, cartelloni ed elementi iconici evocano le metropoli futuriste, accanto a due opere che esplorano i suoi motivi distintivi, fondendo così dinamismo e architettura urbana. Carlos “Mare139” Rodriguez, invece, scompone il movimento della danza hip hop in figure stilizzate e richiami futuristi, catturando il ritmo e l’energia del movimento in una sintesi visiva estremamente inedita. A completare questa risonanza storica è l'influenza cubista. Artisti come Futura 2000, Kenny Scharf e Ronnie Cutrone, già esposti nella storica mostra
Homage to Picasso alla Tony Shafrazi Gallery di New York nel 1984, traggono ispirazione da Picasso per ridefinire lo spazio attraverso prospettive frammentate; ogni elemento si ricompone in un’unità dinamica, dove tempo e spazio si fondono in un’unica esperienza. Questo dialogo tra epoche e stili consente a Futurismo e Graffitismo di trovare un terreno comune: le influenze cubiste e gli omaggi al passato diventano punto di partenza per un’arte che trascende il tempo e lo spazio, in un continuo gioco di riflessi e risonanze.
Fabbrica del Vapore Milano
Visions in motion – Graffiti and echoes of Futurism
dal 30 Novembre 2024 al 23 Marzo 2025
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 9.30 alle ore 19.30
Sabato e Domenica dalle ore 9.30 alle ore 20.30
Foto Allestimento Visions in motion – Graffiti and echoes of Futurism, Installation view dal 30 Novembre 2024 al 23 Marzo Fabbrica del Vapore Milano