Giovanni Cardone Marzo 2025
Fino al 22 Giugno 2025 si potrà ammirare a Palazzo Reale Milano una retrospettiva dedicata a Leonor Fini – Io Sono Leonor Fini a cura di Tere Arcq e Carlos Martín. L’esposizione è promossa dal Comune di Milano - Cultura, gode del patrocinio del Ministero della Cultura ed è prodotta da Palazzo Reale e MondoMostre, con il supporto dell’Estate di Leonor Fini. Possiamo dire che Leonor Fini era celebra per l’eclettismo e il genio di un’artista poliedrica in un percorso intellettuale che intreccia Italia e Francia, ricostruendo le tappe principali della sua carriera artistica e le influenze che hanno plasmato la sua visione. In mostra oltre 100 opere tra dipinti, disegni, fotografie, costumi e video, scandite in un percorso di nove sezioni tematiche, e restituisce un ritratto completo dell’artista, testimoniando la versatilità della sua produzione, estranea a ogni classificazione rigida. Spaziando dalla pittura alla moda, dalla letteratura al teatro (in una delle sezioni sono esposti bozzetti, figurini ed un costume disegnato da Leonor Fini provenienti dall’archivio Storico Artistico del Teatro alla Scala), la mostra svela l’immaginario di Leonor Fini, a partire dagli incontri e dalle impressioni, a volte sconvolgenti, della prima giovinezza, attraverso gli anni della formazione tra Trieste, Milano e Parigi, dove Fini stringe relazioni durature con intellettuali e artisti che le indicano la via della pittura. Il percorso espositivo procede per temi ricorrenti nell’opera dell’artista, come il macabro e il minaccioso, il rapporto con la sessualità e la famiglia, la rappresentazione del corpo, e ancora l’interesse per gli aspetti rituali e i fenomeni di metamorfosi. Oltre alla pittura, Leonor Fini ha attraversato media e linguaggi differenti giocando con la sua immagine in un esercizio bizzarro e concettuale attorno al tema dell’identità. L’esperienza di visita proposta dalla mostra gioca sin dal titolo con il tema dell’identificazione con la figura dirompente e poliedrica dell’artista: al termine del percorso espositivo il pubblico, accolto dal dipinto Autoritratto con il cappello rosso, è invitato a “diventare” Leonor Fini, in un ambiente che gioca con specchi, fotografie e scritte che ne evocano il carattere rivoluzionario e libero e coinvolgono i visitatori in un atto di esplorazione e riflessione sulla molteplicità dell’io. Il dipinto rappresenta un saluto simbolico dell’artista al pubblico, chiamato a scattarsi una foto e a condividerla suoi propri profili social (utilizzando l’hashtag #iosonoleonorfini), per reinterpretare il messaggio visionario di Leonor Fini, capace di parlare alle nuove generazioni ispirando e stimolando riflessioni profondamente contemporanee. I mondi di Leonor Fini si collocano tra il reale e l'immaginario, in un delicato equilibrio dove simbolismo e visione si intrecciano. Le sue figure femminili, forze primordiali e indomabili, popolano tele dense di mistero, insieme a sfingi, donne-gatto e uomini ambigui. Le sue opere offrono un viaggio nell'inconscio, in cui l’essenza dell’essere prende forma, andando oltre ogni apparenza superficiale. Il lavoro di Fini, ricco di stratificazioni culturali e influenze letterarie, riflette il dialogo con i maestri del passato, come dimostra l’uso di tecniche pittoriche tradizionali per trasmettere messaggi di grande innovazione. Le sue esplorazioni psicoanalitiche, ispirate dalle letture di Freud, si manifestano nelle raffigurazioni del sogno e dell'inconscio. È visibile l’influenza dei grandi maestri del passato, come Piero della Francesca, Michelangelo e i pittori manieristi; da loro Fini assorbì le lezioni sul colore e sulla figura umana, utilizzandole per veicolare messaggi rivoluzionari. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Leonor Fini apro il mio saggio dicendo : Indagare le origini di Leonor Fini per comprendere in che modo abbia avuto inizio l’articolato cammino da lei percorso prima di arrivare a quella che è stata identificata come creatio costumistica, risulta fondamentale per dare un avvio a questo studio. Difatti, che l’inclinazione teatrale che condurrà inesorabilmente alla pratica costumistica si sia sviluppata a seguito di particolari circostanze e ambienti in cui Leonor Fini gravitò fin dalla tenera età nella città di Trieste, è abbastanza palese anche solo da una primaria lettura delle sue note biografiche. Più nello specifico però, ci si porrà il quesito delle modalità per le quali Trieste e conseguentemente il suo milieu culturale, abbiano influito nella nascita di quest’inclinazione artistica. Per capirlo sarà necessario elaborare inizialmente un breve quadro storico della città giuliana, il cui aspetto culturale nel corso dei secoli è stato più assimilabile a quello di una grande capitale europea come Vienna piuttosto che a quello di una città italiana. Successivamente si analizzerà l'infanzia di Leonor Fini, e più specificatamente quanto e in che modo contribuirono nello sviluppo non solo della sua poetica artistica ma anche della sua filosofia di vita, i testi contenuti nella biblioteca dello zio Ernesto Braun. Si arriverà poi a trattare del “cenacolo culturale triestino” di cui Leonor Fini adolescente faceva parte e all'interno del quale si trovano personaggi come Italo Svevo e Bobi Bazlen. Un discorso a parte merita il rapporto con un personaggio di quello stesso circolo, vale a dire la pittrice Felicita Frai: con essa la Fini intrattenne un rapporto di profonda amicizia testimoniato dalla lunga corrispondenza, inedita e qui riportata per la prima volta, nella quale l'artista parlò dei suoi i registi preferiti, dei film che vedeva, degli spettacoli teatrali che ammirava a Parigi. Non mancano poi riferimenti ai lavori che allora stava eseguendo e soprattutto critiche nei confronti di editori, critici d'arte e pittori. Il capitolo si concluderà con una sorta di riepilogo di tutti gli elementi triestini presenti nella poetica finiana, per la cui elaborazione verrà in aiuto il celebre testo di Henri Bergson Memoria e materia. Come è stato spesso evidenziato nei testi sull'opera di Leonor Fini, la sua cultura e il suo essere cosmopolita sono in gran parte merito dell'ambiente politico culturale che si respirava nella città in cui l'artista trascorse la sua giovinezza e nella quale ebbe modo di avvicinarsi all'arte: Trieste, centro che dal 1382 fino al 1919 fu sotto il controllo dell'impero austriaco mantenendo comunque sempre una certa autonomia. Fu una città che si distinse nel corso dei decenni per il suo ambiente politico culturale di stampo mitteleuropeo. Le origini del cosmopolitismo triestino risalgono al 1719, quando l'imperatore Carlo VI, a causa della posizione strategica di cui la città godeva, vi istituì il porto franco, permettendo così la formazione di un centro tollerante, rifugio sicuro per perseguitati religiosi e politici: nel corso del XVIII secolo, Trieste diventò quindi un centro in cui conversero indistintamente ebrei, greci, serbi, armeni e protestanti e nel giro di pochi decenni il porto franco attirò l'attenzione di mercanti e trafficanti olandesi, inglesi, francesi e italiani. Dopo l'istituzione del porto franco, Trieste, nel corso del tempo, accolse anche illustri visitatori, tra cui Casanova, Nelson, Napoleone, Stendhal e Verdi. Trieste si sviluppò come una città laica e borghese, priva di nobiltà storica tra il XVIII, il XIX e gli inizi del XX secolo era presente una koinè linguistica culturale i cui componenti conservarono la propria individualità, un fenomeno questo che non trovava riscontri in nessuna città italiana del tempo. Questa koinè linguistica è facilmente dimostrabile attraverso i censimenti condotti sotto la dominazione asburgica: nell'anno 1900 infatti erano presenti a Trieste 8800 tedeschi, 116.825 italiani, 24. 679 sloveni, 451 serbo croati e 175 classificati come “altri”. Questa confluenza di popolazioni dalle lingue differenti genera, il 26 dicembre del 1900, la creazione da parte degli sloveni, del loro manifesto stilato in ben tre lingue: sloveno, italiano e tedesco. La nascita e la crescita di Trieste vanno considerate quindi, non solamente in termini economici, ma soprattutto in considerazione di un notevole sviluppo dal punto di vista culturale inquadrabile nel «secolo dei lumi». Tornando indietro nel tempo infatti, fin dall'epoca di Giuseppe II (1765-1790) si assistette all'attuazione di una politica che mirò a conferire una struttura più unitaria ai territori austriaci, adottando come arma la forza unificatrice della lingua tedesca; tuttavia i vari tentativi non alterarono la fisionomia cittadina, anche se è necessario osservare che da questo momento in poi si delineò una presenza più vivace della cultura tedesca nella vita pubblica di Trieste. Nel XIX secolo si manifesta un interesse notevole da parte degli sloveni nei confronti della città; questi accorrevano verso il centro e le periferie, amalgamandosi perfettamente col tessuto cittadino; gli slavi portarono a Trieste i loro costumi tradizionali e spesso costruirono le loro case in stile orientale. Dall'altro lato vi era la presenza tedesca, la quale al suo interno poteva contare numerosi credo religiosi: giunsero protestanti, cattolici ed ebrei e si adeguarono alla prevalente italianità del luogo. Infatti, specialmente dopo le brevi occupazioni francesi, a Trieste si rinforzò il sentimento filoitaliano, e, come è stato osservato da Angelo Ara e Claudio Magris, la multinazionalità della città va forse ricondotta all'incontro tra culture diverse in un ambiente che però restò essenzialmente italiano, tant'è che, secondo il censimento sopracitato, gli italiani erano in realtà di un numero ben maggiore rispetto alle altre etnie. Si può affermare che Trieste assunse l'aspetto di un centro che funzionò come una sorta di mezzo di congiunzione tra la cultura mitteleuropea di stampo prevalentemente tedesco e la penisola italiana. In ambito culturale questi fatti, insieme al contesto geograficamente più ampio e di conseguenza più ricco di stimoli in cui Trieste era inserita, si tradussero in un'apertura senza eguali verso quella che è la letteratura, la musica e la filosofia dell'Europa centrale. Per capire la vivacità culturale che caratterizzò questa città basta citare ad esempio la fondazione nel 1829 della Società filarmonico-drammatica e nel 1840 quella della Società triestina di belle arti. Ai primi del '900, quest'ambiente estremamente vivace riuscì a trovare la sua icona culturale in Giuseppe Verdi, morto nel gennaio del 1901. Per il compositore, la città di Trieste penserà dopo appena 3 mesi dalla morte, ad un monumento da dedicargli (e che verrà poi inaugurato nel 1906), al quale seguiranno poi l'intitolazione di una piazza e di un teatro. Trieste si delineò come una città estremamente dinamica e brillò per la sua effervescenza culturale, orgogliosa dei suoi teatri che accolsero le opere e i concerti dei più grandi maestri dell'epoca. I triestini dei primi anni del Novecento poterono applaudire Toscanini, Mahler, Mascagni, Enrico Caruso, Sarah Bernhardt, Eleonora Duse, ed inoltre vennero realizzati molti cinema, caffè concerto e gli spettacoli proposti trattarono molto spesso tematiche a sfondo erotico. Niente da invidiare all'interesse dei triestini per il teatro ebbe quello per il cinema: il cinematografo sorse per la prima volta a Parigi il 2 dicembre del 1895 e dopo soli sette mesi approdò a Trieste, riscuotendo un successo senza eguali in nessun'altra città italiana. Nel 1905 il cinematografo ambulante divenne stabile; nel giro di pochi anni Trieste potè contare un numero a dir poco considerevole di sale cinematografiche, tanto che già nel 1909 la città ne possedeva ben 21. Le cronache del tempo identificano i frequentatori dei cinema come una fetta della popolazione triestina elitaria; la classe medio alta di Trieste quindi, vedeva il cinema non come un divertimento di stampo popolare (status con il quale questo veniva sovente considerato in molte altre città), ma bensì signorile. Da questo si può facilmente comprendere quanto i Triestini del primo Novecento avessero una mentalità decisamente più aperta con delle visioni di maggiore respiro rispetto agli abitanti delle altre città italiane; la popolazione di Trieste fu una popolazione che poteva vantare una forma mentis libera da qualunquismi e preconcetti dettati da un'idea di stampo “comunitario”; la paura del giudizio collettivista nazional popolare non fu propria degli abitanti di Trieste, caratteristica questa che a quel tempo si poteva trovare negli abitanti dei ceti medio alti dei grandi centri, come ad esempio Parigi. L'origine di questa concezione totalmente libera la si deve ricercare ovviamente nel cosmopolitismo e nella multiculturalità che Trieste visse in quegli anni. E questa multiculturalità generò, in ambito letterario, una produzione plurilinguista che poté contare al suo interno scrittori in lingua italiana, come nel caso di Umberto Saba e Italo Svevo, come anche tedesca e slovena. Si delineò in questi anni la nascita di un folto gruppo di intellettuali triestini che si impose ponendo una frattura rispetto al passato. La letteratura ora non sarà più, allo stesso modo della già citata architettura, legata agli stilemi dettati dai modelli risorgimentali o romantici; è infatti una letteratura moderna quella che si delineò, formata e nutrita dalle menti di giovani intellettuali che, in tutta questa moltitudine di popoli, di lingue e di culture, cercarono una propria identità la quale nella società intellettuale triestina appare sì arricchita dal cosmopolitismo ma allo stesso tempo spogliata e privata delle sue radici che sono, in realtà, inesistenti. E difatti questo gruppo di giovani intellettuali, formato da personaggi come Scipio Slataper e lo stesso Umberto Saba, raccontarono a Firenze, città che li accolse per motivi di studio, proprio il loro concetto di triestinità grazie al quale nacque il mito letterario di Trieste. Questo mito è nutrito dalla accezioni di “artificiale”, come fu ad esempio la Pietroburgo di Dostoevskij, “borghese” come la Lubecca di Mann e soprattutto “complessa” come fu Dublino per Joyce. Nella rivista “La Voce” convogliarono tutti questi intellettuali; in queste pagine prese piede il sogno intellettualistico e per niente utopico di una Trieste che non voleva rinunciare al suo ruolo di “città di frontiera”, ma che allo stesso tempo desiderava trovare le sue radici nell'italianità. Tra il 1904 e il 1920 (anni intervallati però da una breve permanenza a Roma e un'altra, dal '15 al '19 a Zurigo) soggiornò nel capoluogo friulano proprio James Joyce, il quale insegnò lingua inglese presso la scuola Berlitz, tenne numerose conferenze presso l'Università Popolare e dal 1907 collaborò al quotidiano “Il Piccolo della sera”. Di Trieste Joyce amò per l'appunto la dimensione cosmopolita e lo spirito intraprendente, ma soprattutto venne conquistato dal volto di un contesto simil città rifugio, il quale talvolta gli ricordò proprio la sua “complessa” Dublino; un ambiente quindi che diede allo scrittore gli stimoli giusti per scrivere e difatti fu proprio durante questi anni triestini che Joyce elaborò capolavori quali Gente di Dublino, Ritratto dell'artista in giovane uomo e alcuni capitoli di Ulisse. Anche il fondatore del movimento futurista, Filippo Tommaso Marinetti, a Trieste fu di casa: la visitò per la prima volta nel marzo del 1908 per poi tornarvi nel dicembre dello stesso anno. Durante quest'ultima occasione, Marinetti recitò alcuni suoi versi presso l'Università Popolare e parlò dell'opera di Gabriele D'Annunzio successivamente egli considerò la città come uno dei perni del movimento futurista, alla pari di Milano e Parigi. In maniera anticipata rispetto al resto d' Italia, nella città friulana si diffusero gli scritti di Freud, Lewis Carrol, Rimbaud, i cui testi furono oggetto di consultazione da parte di Leonor Fini presso la ricca biblioteca dello zio, e che, manco a dirlo, saranno poi successivamente apprezzati e letti dai più importanti artisti surrealisti. Numerosi furono anche i pittori ornatisti e ritrattisti, e gli artisti o gli intellettuali provenienti dall'esterno, come ad esempio il pittore Giuseppe Tomitz di Gorizia e il musicista napoletano Ricci. Inoltre nei primi anni del Novecento Trieste poté vantare la presenza di un'importante Galleria d'Arte nella quale erano conservate le opere dei migliori artisti contemporanei, ed inoltre operarono in città artisti come Argio Orell, lo scultore Ruggero Rovan, il pittore impressionista Tullio Silvestri e Arturo Nathan, amico di Giorgio de Chirico. Si diffuse anche un grande interesse per l'architettura, e ne è un esempio la creazione del Teatro Grande da parte del veneziano Selva con facciata progettata dall'architetto Pertsch sul modello della Scala di Milano. Proprio nei primi anni del Novecento la città di Trieste vide una trasformazione del suo volto architettonico che venne caratterizzato durante l'ingresso al nuovo secolo, da uno stampo prettamente Liberty. Andò via quindi tutto quel che fu proprio dell'architettura di stampo accademico, quale la neoclassica e la romantica, e si fecero spazio il Floreale italiano, il Protorazionalismo Viennese e gli stilemi tipici della Secessione Viennese. E in effetti nelle opere della Fini degli anni Sessanta, come Heliodora o Vesper Express, si respira proprio l'aria delle linee Art Nouveau e si fanno spazio i motivi delicatamente floreali, tutte caratteristiche queste che furono tipiche dell'architettura triestina d'inizio secolo. In questi anni la città friulana diventò una delle capitali della moda e i suoi abitanti furono i portatori di uno stile elegante e all'avanguardia come solo accadeva nelle grandi capitali europee tipo Vienna e Parigi. Le donne triestine dell'inizio del XX secolo si distinsero per essere sofisticate, colte, belle e si caratterizzarono per la loro estrema libertà sessuale. Il clima politico fu di stampo liberale, con idee di tolleranza verso le più svariate idee e stili, e conseguentemente si delineò una società liberista particolarmente evoluta, una società di cui la Leonor Fini pittrice, ma soprattutto la Leonor Fini donna, non poteva non fare parte. La Trieste conosciuta da Leonor Fini è quella del primo Novecento, quella, come osserva Peter Webb, in cui le strade pullulavano di venditori di spezie colorate, di tappeti e di altri beni del Levante; quella in cui i cafè orientali importavano direttamente i loro grani dall'Arabia e i bordelli conservavano lo splendore bizantino. Tutto questo confluire di popoli portò però anche molta agitazione: il primo quindicennio del XX secolo fu di fatto un periodo particolarmente tumultuoso, specialmente per quel che concerne la vita sociale. Difatti, come osservato da alcuni storici, Trieste visse in quegli anni una vita sociale mossa e travagliata. Queste tensioni di stampo prettamente sociale, determinate dal degrado della qualità della vita nei rioni popolari, vanno sommate a quelle di origine etnica. Il tutto iniziò a degenerare però poco prima della Prima Guerra Mondiale: vi fu infatti un ampio dilagarsi di idee di tipo irredentista tra la classe borghese della città, e soprattutto tra gli ebrei, che trovarono però l'opposizione del ceppo slavo e di quello tedesco, i quali non aspirarono ad un'unificazione all'Italia, ma premettero per lasciare la città tra i possedimenti austro ungarici. Il gruppo slavo era diventato particolarmente numeroso e potente, e conseguentemente negli anni di poco precedenti alla prima Guerra Mondiale, ebbe inizio una situazione opposta a quella che era stata la pacifica convivenza tra i vari gruppi etnici. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il Trattato di Rapallo sancì nel novembre del 1920 il passaggio definitivo di Trieste all'Italia. Gli strati medio alti della popolazione triestina fino a quel momento, erano formati soprattutto da ungheresi e tedeschi. Con l'annessione del territorio del Venezia Giulia all'Italia si verificò un esodo da parte dei cittadini di queste etnie Trieste perse molti componenti di quello che era il ceto medio alto e questo causò un impoverimento sotto il profilo sociale, culturale ed economico della città. Il cosmopolitismo, la vivacità culturale, la connotazione mitteleuropea che aveva contrassegnato Trieste nei primi anni del Novecento lentamente se ne stavano andando insieme ai suoi cittadini multietnici. La città cosmopolita descritta da Italo Svevo nella Coscienza di Zeno iniziò lentamente a non esistere più, e come fece ben notare uno scrittore triestino dell'epoca, tutto quel movimento, quell'orgia di colori, quel miscuglio di odori, quella confusione di lingue e dialetti nella quale però ognuno riusciva a capirsi, se n'era andata per sempre. Leonor Fini nel 1920 aveva 12 anni e dopo qualche anno anche lei abbandonerà per sempre la sua Trieste, ma l'immagine e gli stimoli che questa città le aveva dato quando era bambina la accompagneranno per sempre durante tutto l'arco della sua vita. Leonor Fini abbandonò Trieste poco più che ventenne, dopo avervi trascorso gli anni cruciali per la formazione di ogni essere umano, ossia quelli dell'infanzia e dell'adolescenza. Per formazione si intende non solamente quella puramente artistica, contrassegnata nel caso della Fini dalla vicinanza ad artisti come Nathan, Sbisà e Funi, ma soprattutto si vuole identificare in essa quel mezzo che permette lo sviluppo di un certo tipo di forma mentis, se vogliamo molto poco italiana, grazie alla quale l'artista seppe farsi strada nel corso del suo percorso artistico ma anche di vita personale. Come si è già avuto modo di sottolineare, il clima triestino dei primi due decenni del Novecento fece sì che le radici della Fini crescessero all'interno di un territorio culturalmente fertile, aperto e cosmopolita come nessun'altra zona d'Italia avrebbe potuto offrire. Le radici dell'artista continuarono fino alla sua morte ad essere nutrite dal vivace ambiente della città giuliana, ma in tutto questo pullulare di mitteleuropeismo è necessario tuttavia mettere in evidenza come alcuni stimoli e taluni interessi -come ad esempio quello per il teatro- non nacquero solo grazie al macromondo triestino che la circondò, ma anche al micromondo domestico dove la Fini ebbe modo di crescere. Difatti il clima culturale cittadino estremamente vivace in cui germogliò l'estrosa personalità di Leonor Fini, si respirava in realtà anche all'interno della sua stessa casa, situata in via Torre Vecchia 26. Malvina Braun, fuggita dall'Argentina insieme alla figlia in fasce, si rifugiò nella sua grande dimora natia realizzata in stile veneziano. Ad accoglierla vi furono i suoi genitori e suo fratello Ernesto. Leonor Fini trascorse i suoi anni triestini qui, in compagnia di sua madre, dei nonni, dello zio e di due governanti. Sebbene tutti i componenti della famiglia di Malvina potessero vantare un livello culturale piuttosto elevato, l'unico vero intellettuale era il fratello Ernesto Braun. Giurista di chiara fama a Trieste, Braun rappresentò la perfetta incarnazione dell'intellettuale raffinato, amante della musica da camera, dell'arte e del teatro. Egli dovette con tutta probabilità sentirsi in dovere di agire con un approccio protettivo nei confronti della nipote, forse perché essendo priva del padre reputò giusto che nella sua vita presenziasse comunque una figura maschile. Nonostante ciò però, il rapporto tra la Fini e lo zio Ernesto fu sempre governato da sentimenti estremamente contrastanti tra loro: se da una parte infatti lo ammirava per l'amore che egli nutriva nei confronti della cultura, dall'altra lo reputava un uomo piuttosto noioso. Inoltre tutta la famiglia di Malvina Braun desiderò far seguire alla Fini le orme dello zio giurista: difatti, una volta terminate le scuole superiori, la esortarono con scarsi risultati ad iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza. Alla luce di queste vicende, potrebbe sembrare paradossale pensare ad Ernesto Braun come colui grazie al quale Leonor Fini diventò l'artista poliedrica che oggi noi conosciamo. In realtà, fu proprio lui ad infondere in lei la passione per l'arte, per il teatro e per il cinema ma non solo: Braun le diede altresì gli strumenti che le permisero di diventare intellettuale e colta, artista a trecentosessanta gradi, donna indipendente e dalla mente libera da preconcetti e pregiudizi. Se con Nathan, Sbisà e Funi ebbe la sua formazione artistica, con Ernesto Braun ebbe quella più propriamente “spirituale”. Fu lui insomma, a compiere in lei quel processo di iniziazione intellettuale all'interno del "battistero" domestico di via Torre Vecchia appartenente alla "diocesi" mitteleuropea di Trieste. Nella casa in stile veneziano dove la Fini trascorse gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, Ernesto Braun si creò infatti un suo piccolo angolo di paradiso: una biblioteca nella quale soddisfare la sua sete di sapere. Ivi egli amò passare i suoi momenti liberi, alternando al passatempo della lettura quello dell'organizzazione di piccoli concerti di musica classica, svolti sempre entro le mura domestiche. Si può quindi immaginare tout court quanto uno scenario di questo tipo può assumere, se visto con gli occhi di una bambina, una connotazione normale poiché vissuto fin dalla tenera età; ma se osservato con gli occhi dello spettatore ignorante -e per ignorante si intende colui che purtroppo non ha avuto modo di crescere a contatto con intellettuali raffinati come Braun- si carica di una valenza mitica e unica. Gli strumenti che il colto Braun fornì a sua nipote e grazie ai quali questa diventò Leonor Fini, l'artista poliedrica ed elevata culturalmente, furono quindi i libri: quelli da lui posseduti all'interno della sua biblioteca personale -per la quale si potrebbe azzardare la definizione di "biblioteca d'artista" o "biblioteca d'autore" se si considera non solo la quantità ma soprattutto la qualità dei testi presenti, la maggior parte dei quali erano a quel tempo ancora poco diffusi in Italia. Il motivo risiede nel fatto che si trattava di letture piuttosto impegnate, per la cui comprensione era necessaria non tanto una preparazione culturale, quanto una forma mentis di ampio respiro con una connotazione essenzialmente mitteleuropea. Per capirci, quelli della biblioteca di Ernesto Braun erano testi che in quegli anni si leggevano in città come Vienna e Monaco e non a Roma, dove invece si sarebbero diffusi molti anni dopo; erano gli scritti di Proust -che non dimentichiamo aveva vissuto a Trieste per parecchi anni-, di Nietszche, di Schopenhauer, di Lewis Carrol, di Freud, Hölderlin, Eichendorff, Edgar Allan Poe, Baudelaire. Inoltre Braun, essendo un grande appassionato d'arte, possedette anche numerosi libri sui manieristi, i preraffaelliti, Bocklin, Munch, Friederich, Klimt e in generale sull'arte simbolista. Con tutta probabilità, Braun poté soddisfare la sua passione bibliofila grazie alla presenza a Trieste di una storica libreria: la Schimpff. Situata nella centralissima Piazza della Borsa al numero dodici, la libreria aveva aperto i battenti nel lontano 1849 e nel corso del tempo accolse, oltre ad illustri frequentatori, anche commessi altrettanto celebri. Il nome più autorevole tra coloro che furono assunti nella libreria in qualità di commessi fu quello dell'allora ventenne Ulrich Hoepli, divenuto poi l'illustre editore conosciuto in tutto il mondo. La libreria Schimpff costituì un luogo di primaria importanza per lo sviluppo della cultura triestina: nel suo retrobottega, dotato di un grande tavolo adibito alla consultazione dei volumi, si respirarono i primi aliti dell'irredentismo triestino. Tra gli abituali frequentatori della libreria Schimpff si possono menzionare James Joyce, Italo Svevo, Scipio Slataper, Attilio Hortis e anche Massimiliano D'Asburgo. La libreria Schimpff vantava una fornitissima sezione di libri d'arte e inoltre venivano trattati i testi degli autori stranieri allora più innovativi oltretutto al suo interno aveva costantemente luogo una fervida attività intellettuale durante la quale artisti, scrittori e in generale uomini di cultura sfogliavano i testi presenti, scambiandosi anche idee ed opinioni a riguardo. In un ambiente come quello della Schimpff, non è difficile immaginare Ernesto Braun varcare la soglia di quel Palazzo Romano ospitante la libreria, magari in compagnia della sua giovane nipote Leonor, che già allora dovette vantare un animo curioso e una mente brillante. A partire però dal 1919, è molto probabile che Braun aggiunse alla sua già cospicua raccolta di libri provenienti dalla Schimpff, dei testi acquistati in un'altra raffinata libreria triestina che vide la nascita proprio in quegli anni. Stiamo parlando della libreria appartenuta allo scrittore Umberto Saba, il quale come sappiamo dalle note biografiche su Leonor Fini, era conosciuto da Braun e inoltre la figlia Linuccia fu amica dell'artista tanto da eseguirne un ritratto nel 1928. Ci sono rimasti dei veri e propri cataloghi, redatti da Saba stesso, nei quali vi sono menzionati tutti i testi che il poeta vendette all'interno della sua libreria. Ai fini della nostra ricerca è risultato fruttuoso confrontare questi titoli con quelli effettivamente letti da Leonor Fini, anche se tuttavia l'unico catalogo utile a questo proposito è il più antico, ossia quello del 1923. Difatti i libri che costituirono un ruolo di primaria importanza nello sviluppo della personalità artistica di Leonor Fini furono quelli entrati a far parte della biblioteca di Braun in un arco temporale circoscritto al periodo della sua primissima formazione personale e culturale. Questo lasso di tempo terminò nel 1923 poiché durante quest'anno si registra il primo viaggio parigino di Leonor Fini Dunque ponendoci il 1923 come data limite e considerando dunque il solo catalogo di Saba redatto in quell'anno, scopriamo che tra i testi venduti nella libreria del poeta solamente quello di Edgar Allan Poe può aver avuto una qualche ripercussione nella cultura e nella poetica finiana. Alla luce di questi dati e di queste considerazioni, si può affermare che, con tutta probabilità, i testi che influirono su Leonor Fini dovettero provenire quasi interamente dalla Libreria Schimpff: Nietzsche, Shopenhauer, Carrol -e in generale tutti gli autori, eccetto Poe, a cui la giovane Leonor si appassionò fin da bambina- come anche i testi d'arte, non compaiono nei cataloghi della Libreria Antica e Moderna di Umberto Saba. L'unione fra una giovanissima Leonor Fini e i libri dello zio portò ad un duplice risultato durante il suo lungo cammino artistico: da una parte, infatti, fece nascere in lei un interesse profondo verso il libro inteso come oggetto materiale, tanto che a partire dagli anni Quaranta l'artista si distinse anche come illustratrice di libri prestigiosi e appartenenti a edizioni ricercate; dall'altra parte, i testi letti con grande passione nella biblioteca di Braun, ebbero un peso notevole nello sviluppo della poetica finiana intesa in puro senso spirituale e teorico della sua arte. Riguardo il primo risultato generato dalla feconda unione fra l'artista e i libri, esso fu essenzialmente di stampo pratico: già nel 1936 in occasione della Mostra surrealista di oggetti tenutasi presso la Galerie Charles Ratton di Parigi, Leonor Fini espose, accanto ad artisti come Dalì, Giacometti e Duchamp, un falso objet-trouvé, consistente in una copertina, realizzata con conchiglie e materiale marino, di un libro tedesco dedicato a Cristoforo Colombo. Il tutto culminò con l'attività di illustratrice di libri, già precedentemente anticipata, con la quale Leonor Fini diede libero sfogo alla sua creatività cosparsa in questo caso, come osserva anche Federica Moscolin nel suo saggio dedicato all'attività della Fini come illustratrice di libri, di echi fortemente erotici non presenti, o per lo meno presenti sì, ma non in maniera così esplicita, nelle sue pitture. Il nodo che lega i libri letti nella biblioteca di Braun e l'attività come illustratrice è ben evidenziato nelle undici litografie realizzate nel 1952 per un'edizione di soli settantacinque esemplari dei Contes mysteriéux et fantastiques di Edgar Allan Poe  autore come abbiamo visto presente nel catalogo del 1923 della Libreria di Umberto Saba. Un rapporto quello con Poe che nacque proprio nella biblioteca di Braun quindi, e che continuò anche oltre gli anni triestini: nel 1966 infatti la Fini illustrò i sei volumi di Œuvres imaginatives et poétiques complètes (Vialetay, Paris 1966) nella traduzione di Baudelaire e nel 1986 corredò con trenta serigrafie un'altra edizione delle Œuvres complètes (André Sauret, Monaco, 1986). Un altro autore col quale la Fini si rapportò precocemente nella biblioteca di Braun grazie ai libri da lui acquistati nella Libreria Schimpff e le cui opere furono poi oggetto di illustrazione da parte dell'artista, fu Charles Baudelaire. In realtà il rapporto col poeta francese fu molto profondo, dal momento che la Fini si sentì sempre molto vicina al simbolismo e al mistero della poesia di Baudelaire tanto da dichiarare in un'intervista del 1968 che: «Nella mia pittura vi è un'atmosfera baudelairiana e dipingo con colori che si potrebbero definire baudelairiani». Del poeta francese, Leonor Fini illustrò con ventiquattro litografie Les fleurs du mal (Le circle du livre précieux, Paris 1964) e con dodici La Fanfarlo (Editions la Diane française, Nizza 1969) mentre nel 1986 realizzò dieci serigrafie a colori per il secondo volume delle Oeuvres complètes. Veniamo ora al secondo risultato generatosi dall'unione fra la Fini e i libri di Ernesto Braun: l’inserimento in un contesto spiritual-teorico inteso come ingrediente dell'anima dell'artista -o dovremmo forse dire del genio-. Il risultato insomma, che nacque in maniera spontanea sfogliando i libri di Braun dai quali la memoria della giovanissima Fini assorbì più di quanto lei stessa potesse pensare durante il momento stesso della lettura. E' il prodotto che si ottiene mediante la memoria dell'artista stessa, quella i cui cassetti possono contenere in realtà più di quanto si sia potuto mai immaginare. E in ognuno di questi cassetti si scopre essere celata -neanche troppo segretamente- la concezione dell'artista di Nietzsche e- in parte- di Schopenhauer, la poetica di Lewis Carrol (la cui influenza in realtà è comune a tutti i surrealisti), l'introspezione psicologica di Proust, anche se in realtà quest'ultimo aspetto può essere banalmente spiegato con la triestinità dell'artista poiché questa caratteristica è comune a molti pittori d'ambito giuliano di quel tempo. A parlare è il filosofo Nietzsche, i cui testi come abbiamo visto furono consultati da una giovanissima Leonor Fini all'interno della biblioteca di Braun. Il concetto nietzscheschiano, enunciato in questo frammento postumo della Volontà di potenza, sintetizza le peculiarità che un artista per essere tale deve possedere. Del resto la Fini fu sempre piuttosto restia a rivelare la sua età: fu una sorta di creatura animalesca senza tempo, una donna, come disse l'amica e pittrice Felicita Frai durante un'intervista, «Che non ha abdicato davanti agli anni» Per il filosofo tedesco l'ebbrezza -di qualunque tipo essa sia, sia pure quella del corpo, basti che essa sia fisiologica- rappresenta una condicio sine qua non per l'esistenza dell'arte stessa. L'ebbrezza in primis deve contribuire ad accrescere l'eccitabilità. E del resto la più antica forma di ebbrezza, il cui essenziale è il senso di pienezza e l'accrescimento di forza, è proprio l'eccitazione sessuale. Ed è proprio su questi principi nietzschiani che si basa la concezione di artista di Leonor Fini: il suo è un accrescimento di forza continuo che possiamo trovare soprattutto nelle opere in cui rappresentò uomini dormienti sorvegliati da misteriose - e talvolta mostruose- figure femminili il cui ruolo assunto è quello di vere e proprie guardiane. Opportuni, in questo caso, sono i riferimenti a due opere realizzate sul finire degli anni Quaranta come Stryges Amaouri (1947) e Divinité Chtonienne (1947). L'accrescimento generato dall'ebbrezza enunciato da Nietzsche, in Leonor Fini si manifesta infatti proprio nella rappresentazione della figura femminile forte e possente, spesso cosparsa da una notevole carica erotica. Mai vi fu ebbrezza più forte nell'animo di quest'artista se non quella provata nel momento in cui il travestimento si rendeva protagonista della sua vita, in cui la magia del costume le permetteva di accedere a un divenire solitamente inaccessibile proprio a causa della sovranità della realtà più che della verità. O forse e poniamo qui un'altra questione-sarebbe meglio parlare di una metamorfosi grazie alla quale la Fini riusciva a sentirsi come la principale protagonista di un festival dell'Io come l'ha definito Ernestina Pellegrini in un suo saggio durante il quale il sipario non doveva essere mai calato? Al di là delle ragioni che possono spiegare il perché di questo stato d'animo, è importante sottolineare in questa sede come l'ebbrezza del divenire e dell'apparenza di cui parla Nietzsche, siano una costante chez Fini e come la metamorfosi rientri in un sentire cosmico, concetto questo espresso anche nella dedica a Resa von Schirnhofer in Così parlò Zarathustra. Nella dedica vi si avvertono contemporaneamente i concetti di permanenza e mutamento, che coincidono con l'idea di soggetto che rimane lo stesso solo a condizione di mutare incessantemente, rinnovandosi ad ogni istante. E in Leonor Fini il mutamento è sicuramente di casa, come anche il rinnovo costante che si va a situare in quella che è la poliedricità della sua arte. Nel sopracitato aforisma 54 di Nietzsche contenuto nella Gaia Scienza, il filosofo tedesco incita a dare sfogo agli istinti (tra tutti questi sognatori anch'io, “colui che conosce”, danzo la mia danza) ed inoltre sottolinea come l'apparenza -e volendo tradurre questo in termini chez Fini la si dovrebbe intendere come interesse per la mondanità e per il costume- non implichi l'assenza di sostanza. Questo aforisma, riflesso nella poetica finiana, assume una maggiore importanza se si tiene conto del fatto che nel catalogo della mostra triestina del 2009 si cita proprio questo testo di Nietszche tra quelli certamente consultati dall'artista nella biblioteca dello zio66. Probabilmente la Fini rimase molto colpita dalla Gaia Scienza, e in particolar modo dal sopracitato aforisma 54 come anche da quello sull'uomo folle (aforisma 125). In quest'ultimo Nietzsche dimostra come la maschera della follia riesca in realtà a stabilire un rapporto con l'Io profondo contenente fantasmi e paure, e che per questo motivo essa non sia altro che volontà di verità. Dunque la maschera per questo preciso motivo, diventa un territorio veritiero, riuscendo a porre la differenza tra chi appare e chi si nasconde. L'apparizione della maschera altro non è che un dissimulare. Leonor Fini con le sue maschere e i suoi travestimenti mira in effetti a dissimulare uno status in cui a regnare sono i fantasmi del passato; l'artista nel suo Livre scrisse infatti che: «Travestirsi è un atto di creatività. “E' una rappresentazione di sé e dei fantasmi che si portano in sé». E difatti durante tutta la sua carriera l'artista dimostrò, e senza alcuna vergogna, di aver sempre costantemente bisogno di una maschera e di un travestimento; del resto anche Nietzsche stesso affermò che: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l'immagine e l'allegoria perfino dell'odio.  Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni apparenza! Certo non una maschera morta che si possa affiggere e poi anche togliere a un X ignoto! Apparenza è per me quanto agisce e vive, che nel suo autoscherno arriva a farmi sentire che qui sono apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più, che tra tutti questi sognatori anch'io, “colui che conosce”, danzo la mia danza, che colui che conosce è un mezzo per tirare per le lunghe la danza terrena e, in quanto tale, fa parte di coloro che sovraintendono alla danza dell'esistenza  ». Nel sopracitato aforisma 54 di Nietzsche contenuto nella Gaia Scienza, il filosofo tedesco incita a dare sfogo agli istinti (tra tutti questi sognatori anch'io, “colui che conosce”, danzo la mia danza) ed inoltre sottolinea come l'apparenza -e volendo tradurre questo in termini chez Fini la si dovrebbe intendere come interesse per la mondanità e per il costume- non implichi l'assenza di sostanza. Questo aforisma, riflesso nella poetica finiana, assume una maggiore importanza se si tiene conto del fatto che nel catalogo della mostra triestina del 2009 si cita proprio questo testo di Nietszche tra quelli certamente consultati dall'artista nella biblioteca dello zio. Probabilmente la Fini rimase molto colpita dalla Gaia Scienza, e in particolar modo dal sopracitato aforisma 54 come anche da quello sull'uomo folle (aforisma 125). In quest'ultimo Nietzsche dimostra come la maschera della follia riesca in realtà a stabilire un rapporto con l'Io profondo contenente fantasmi e paure, e che per questo motivo essa non sia altro che volontà di verità. Dunque la maschera per questo preciso motivo, diventa un territorio veritiero, riuscendo a porre la differenza tra chi appare e chi si nasconde. L'apparizione della maschera altro non è che un dissimulare. Leonor Fini con le sue maschere e i suoi travestimenti mira in effetti a dissimulare uno status in cui a regnare sono i fantasmi del passato; l'artista nel suo Livre scrisse infatti che: «Travestirsi è un atto di creatività.  E' una rappresentazione di sé e dei fantasmi che si portano in sé». Emerge in Nietzsche una concezione secondo la quale per sopravvivere, per far fronte nel senso darwinistico del termine alla lotta per la “sopravvivenza” stessa, la maschera e il travestimento siano necessari. Del resto anche in Leonor Fini si manifestò fin dalla tenera età l'esigenza di sopravvivenza dai fantasmi del passato, bisogno questo dettato dai tentativi di rapimento da parte del padre ai quali la bambina riuscì a scampare proprio grazie al travestimento. E del resto, anche per il filosofo Eraclito che Nietzsche spesso ha considerato come uno spirito a lui affine, è necessario stare sempre in guardia, non fermarsi all'apparenza delle cose, proprio perché la natura ama nascondersi. Il pensiero di Schopenhauer invece combacia -e non escludiamo che sia solamente per un caso fortuito- con la Fini allorché egli attribuisce all'artista -definito sempre dal filosofo “genio” - un temperamento irruente. Nel terzo libro de Il Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer svelò proprio l'aspetto caratteriale del genio, dando però delle adeguate spiegazioni riguardo la sua natura irruente. Secondo Schopenhauer, l'intelletto e i sensi sono elementi preponderanti negli artisti ed è proprio a loro che si deve la manifestazione di un comportamento che può essere giudicato irragionevole. Rispetto alla ragione, i sensi e l'intelletto infatti danno vita a delle impressioni più immediate, e tali sono anche gli effetti degli affetti che tempestano il corpo del genio; tutta questa immediatezza produce anche una manifestazione altrettanto repentina della volontà, in cui comunque passioni e desideri si esprimono in maniera genuina. Per questi motivi gli artisti -o per dirla alla maniera di Schopenhauer i “geni” - sono contraddistinti da una personalità irruente e di certo non semplice e lineare. Definita da Paul Éluard una «fanciulla inopportuna», alla Fini non di rado sono stati attribuiti gli appellativi “irruente” “scorbutica” “difficile”. Ad esempio, il suo collaboratore Hector Bianciotti ha raccontato nel suo romanzo autobiografico un episodio avvenuto quando egli lavorava con la Fini: l'artista argentina, furibonda per una foto apparsa in una rivista, dopo aver convocato a casa sua la giornalista responsabile dell'articolo, la schiaffeggiò, strappando in mille pezzi l'immagine recriminata. Infine, un breve accenno a Lewis Carrol: è risaputo difatti che l'autore di Alice nel paese delle meraviglie sia stato per tutti gli artisti surrealisti o comunque per buona parte di coloro i quali abbiano gravitato nell'orbita di questo movimento, una grande fonte d'ispirazione. Si pensi ad esempio a Max Ernst con opere come Alice in 1941 (1941), Pour les amis d'Alice (1957) o Alice envoi des messages aux poissons (1964) o anche allo stesso Breton che insieme a Paul Eluard incluse nel Dictionnaire abrégée du Surréalisme del 1938 il poema di Carrol The Hunting of the Snark. E' indubbio che anche nell'arte di Leonor Fini l'influsso di Carrol e della sua Alice in Wonderland come anche Through the looking glass sia notevole. La biblioteca di Ernesto Braun può dunque essere definita a tutti gli effetti una biblioteca d'artista poiché soddisfa in toto le richieste dei tre criteri precedentemente enunciati. Il problema che rendeva spinosa la definizione come tale, era rappresentato soprattutto dal fatto che la biblioteca di Braun non appartenne direttamente a Leonor Fini ma bensì a suo zio. Questa problematica è stata ovviata per mezzo dell'esistenza della proprietà spirituale: l'arte della Fini e la sua poetica, come si è analizzato all'inizio del paragrafo, sono infatti strettamente connesse con gran parte dei testi che Braun deteneva all'interno della sua biblioteca e questo l'ha resa una proprietaria spirituale dei libri. E dal momento che Leonor Fini può essere considerata un'artista a trecentosessanta gradi, la biblioteca di cui lei è stata proprietaria spirituale è, a sua volta, una biblioteca d'artista. All'interno di quella che è la vicenda critica su Leonor Fini, questo aspetto e di riflesso l'identificazione di Ernesto Braun come pigmalione per l'artista è stato pressoché ignorato o comunque affrontato in un modus alquanto superficiale, mentre in realtà non è azzardato affermare che tutte le peculiarità della sua vicenda artistica, come abbiamo avuto modo di dimostrare in questo paragrafo, ebbero origine proprio in quella biblioteca, che ormai potremmo chiamare d'artista, oltre che nel culturalmente fertile territorio triestino. Al panorama storico culturale triestino, del quale si è ampiamente discusso nel paragrafo precedente, è necessario affiancare una specifica analisi incentrata sulla disamina del contesto intellettuale presente a Trieste negli anni in cui la Fini vi visse, ossia fino al 1932, anno questo in cui l'artista si trasferì definitivamente in Francia. Come si è avuto modo di constatare, la Trieste di quegli anni si distinse per un'endemica impronta vivamente colta, ricca di stimoli generati dalla presenza di un raffinato intellettualismo d'eccezione. Quel che ci si propone in tale ambito, è di collocare la figura della Fini -allora giovanissima- all'interno del cenacolo intellettuale triestino, nonché di esaminare i singoli rapporti che coltivò con taluni dei suoi componenti. Un punto necessario da marcare, onde evitare errate interpretazioni riguardanti la specifica connotazione di tale cenacolo intellettuale, è che esso non si contraddistinse per delle presenze dall'animo militante, ed inoltre assenti furono anche aspiranti predicatori miranti all'aggregazione di più adepti e alla creazione di una schiera di proseliti. L'esigenza che questo gruppo triestino avvertì fu quella di attuare uno scambio, generare un confronto sul piano intellettivo basato essenzialmente sullo stimolo culturale. Tale bisogno, atto a soddisfare una fame culturale pressoché straordinaria, permise la creazione di un raccordo tra poeti, scrittori, intellettuali, artisti e raffinati filantropi che diedero vita all’ intellettualità triestina. Tra di loro, la marcia che venne inserita inconsapevolmente fu quella del do ut des, al cui accusativo corrispose la cultura più all'avanguardia. Le ricerche svolte hanno dimostrato che i teatri di questi scambi intellettuali furono il caffè Garibaldi nonché l'interno di qualche salotto borghese triestino. Riguardo il caffè Garibaldi, negli anni successivi alla prima Guerra Mondiale, esso era luogo di frequentazione da parte di una generazione d’élite composta da Giani Stuparich, Umberto Saba, Italo Svevo, Scipio Slataper, Roberto "Bobi" Bazlen. Non si trova traccia del nome di Leonor Fini fra i frequentatori di questo caffè e questo è abbastanza logico dal momento che, a quel tempo, l'artista era poco più di una bambina. Al contrario, è plausibile invece che il caffè Garibaldi fosse frequentato saltuariamente dallo zio della Fini, Ernesto Braun, il quale com'è noto coltivò numerose amicizie di stampo intellettuale. Oltre ai nomi sopracitati, e per alcuni dei quali si apriranno successivamente delle argomentazioni incentrate sugli specifici rapporti con la Fini, è fondamentale sottolineare la presenza al caffè Garibaldi del pittore Vito Timmel. Triestino e originalissimo interprete della pittura del tempo, studiò a Vienna, città nella quale assimilò il decorativismo tipico klimtiano accostandosi anche al violento espressionismo di Oskar Kokoschka del quale fu compagno presso l'Accademia delle Belle Arti. Tuttavia, quel che interessa in seno al nostro dibattito, è l’esecuzione di due lavori per mano di Timmel: la serie dei diciassette pannelli dipinti a tempera su cartone per il fregio del Cinema Ideal (detto anche cinema Italia) di Trieste nel 1916 e, soprattutto, la decorazione del Teatro di Panzano a Monfalcone (Gorizia) del 1920-1921. Per quanto riguarda il primo, esso consta appunto di 17 pannelli decorativi che in origine costituirono un unico fregio continuo. I soggetti raffigurati sono personaggi tratti dalla letteratura teatrale e romanzesca e tra questi vi sono Arlecchino, Salomè, Elettra e altri, tutti caratterizzati da molteplici richiami klimtiani e hodleriani. Nella decorazione del Teatro di Panzano a Monfalcone invece, il Ciclo delle maschere rappresenta tutti i generi teatrali: dallo Scherzo, alla Tragedia, fino ad arrivare alla Commedia e al Dramma, tutte caratterizzate da una resa espressiva grottesca. Trenta personaggi poi vanno a formare il ciclo della Storia del teatro: ancora una volta compaiono Salomè e Arlecchino, ma stavolta ad essere presenti sono anche Forchis e la Giulietta shakespeariana, nonché Colombina e il fantasma di Canterville di Oscar Wilde. Quella di Timmel costituisce un'antologia figurativa teatrale che dovette senza dubbio colpire l'immaginario finiano che a quei tempi era acerbo solo dal punto di vista pratico e non ideale. Se per il Ciclo delle maschere possiamo imputare come radice figurativa la comune ascendenza triestina, non possono non essere riscontrate affinità riguardo la capacità di entrambi di saper cogliere con pochi tratti le peculiarità più significative dei costumi dei personaggi. Di eredità timmeliana potrebbe essere infatti l'elemento figurativo delle righe utilizzato dal pittore goriziano in numerose opere della sua produzione. Tra queste, si possono citare gli abiti di Salammbo e Salomè nel ciclo del teatro di Panzano ed Elena e Bovary per quello del Cinema Italia. Inoltre le righe appaiono anche nei personaggi rappresentati in alcune tele di Vito Timmel e tra queste si possono enumerare Amazzone (1915) e Donna con cane (1915). Il motivo delle righe è presente, nell'arte finiana, in più di un'occasione: dal Ritratto di Gogo Schiaparelli (1936) fino a La chambre noire (1938) nel quale la figura femminile in primo piano, probabilmente rappresentante la pittrice Leonora Carrington, appare come se si fosse appena spogliata di una mantella a righe ora posata sul pavimento; lo stesso motivo a righe è poi ripreso nelle calze indossate dalla delicata figura femminile sullo sfondo, la quale osserva la scena, caratterizzata da un tocco teatralizzante manifestatosi specialmente nella tenda che, aperta, permette la visione del tutto. Le righe inoltre sono un motivo decorativo costantemente presente nelle mise finiane e ne sono una prova gli scatti di Veno Pilon del 1936: un’incantevole e seducente Leonor Fini sfoggia qui tutta una serie di capi d’abbigliamento nei quali le righe risultano essere il motivo dominante. In particolare, l’abito che indossa in uno di questi scatti  sembra essere lo stesso con il quale vestì Gogò Schiaparelli (1936), la cui gonna sembra essere un omaggio ai modaioli personaggi delle tele di Timmel. La suggestione per le righe non terminò con gli anni Trenta, ma si protrasse fino agli anni Cinquanta, dal momento che in uno scatto del 1952 rappresentante l’artista mentre dipinge nel suo studio di rue Payenne, ella venne immortalata con la spalla, scoperta, che emerge da una sensuale maglia leggera a righe. Alla maniera finiana, anche Timmel ad un primo sguardo sembrerebbe simpatizzare per elementi pittorici correlati al concetto di tzanatos. In realtà però, se in Leonor Fini quest’aspetto assume delle connotazioni filosofiche e alchemiche di grande complessità intellettuale legate a una raffinata cultura, in Timmel esso si limita alla forma e non  indaga ulteriori implicazioni recondite che invece interessano non poco la nostra artista. Difatti in opere come La beauté (1974) ma anche nel paravento de Les quatre saisons (1973) la Fini mette in atto una scoperta del concetto di tzanatos legato alla visione della morte come origine di vita, la stessa declinazione, del resto, della celebre tela Le bout du monde  Timmel, di cultura indubbiamente meno ricercata della Fini, nei costumi di Forchis e Simone nel ciclo del teatro di Panzano, mira solamente al riconoscimento visivo del personaggio rappresentato. Gli interessa dunque rappresentare nel senso più puro del termine e non dare avvio a interpretazioni iconologiche. Nessuno studio, prima di adesso, aveva considerato Vito Timmel come una possibile fonte iconografica per Leonor Fini; certo è che l’artista dovette senza dubbio rimanere affascinata dai personaggi teatrali realizzati dal pittore goriziano e soprattutto dai costumi che essi indossano, tanto che nella sua memoria per decenni ne permarrà impresso l’elemento distintivo della sua pittura e sarà propensa a indossare lei stessa capi richiamanti il modus dei personaggi timmeliani. Vivaio dunque della fervida vita culturale triestina fu il caffè Garibaldi; tuttavia esso non fu il solo edificante luogo nel quale questo vivace e stimolante gruppo fu solito incontrarsi. Difatti scenari altrettanto importanti per lo sviluppo dell’élite culturale triestina e anche del mito della stessa città, furono due salotti appartenenti a famiglie di stampo borghese. Gillo Dorfles, ultimo testimone oculare vivente degli anni Venti della città giuliana nonché del cenacolo intellettuale sul quale si sta incentrando la questione, oltre a individuare come focolai culturali Villa Veneziani, ossia la dimora di Italo Svevo, e il salotto di Elsa Oblath Dobra, ai quali si può attribuire la funzione di nuclei dai quali si mosse il milieu culturale triestino, ci riporta anche un minuzioso quadro degli eventi e dei personaggi che li vissero nonché dei passatempi che imperversarono fra i componenti di tale intellighentia. Quanto al primo, all’interno di esso vi si respirava l’aria tipica delle ville appartenenti a esponenti delle famiglie più ricche di una città cosmopolita e non di un piccolo centro di provincia. Villa Veneziani, appartenente alla famiglia della moglie Lidia, era una tappa fissa domenicale per questo variegato gruppo composto da spiriti affiatati intellettualmente facenti parte per lo più di quel ceppo borghese cittadino d’origine ebraica. Da grande amante del violino e della musica classica quale era, Ettore Schimtz allestì nel salotto della casa coniugale un quartetto d’archi ai fini di dilettare se stesso e i suoi ospiti e, come ricorda Dorfles, «Nella villa di Svevo si parlava, si ballava, c’era un grammofono». Le ricerche hanno evidenziato di come Svevo, sia al caffè Garibaldi sia a Villa Veneziani, fosse considerato come colui grazie al quale questo eterogeneo gruppo, in virtù di un senso di calore comune che solo lui riusciva a creare, si fuse in maniera composita ma contemporaneamente in un modo tale da riuscire a vantare al suo interno una grande varietà di spiriti che solo una città come Trieste poteva accogliere simultaneamente.
Italo Svevo, anfitrione dunque di questa variegata compagnia formata da «gran chiacchieroni» e «incorreggibili perdigiorno» coltivava allora, non troppo in silenzio, la sua aspirazione di diventare narratore e, di lì a poco, La coscienza di Zeno venne dato alle stampe non incontrando comunque i favori del pubblico né tanto meno dei critici. Leonor Fini insieme a sua madre Malvina Braun e a suo zio Ernesto, erano appunto degli habitué del contesto borghese intellettuale di matrice ebraica che si riuniva la domenica presso Villa Veneziani l’assidua presenza a casa Svevo condusse l’allora giovanissima pittrice a dipingere uno dei più intensi ritratti raffiguranti Svevo. L’opera, che costituisce uno degli esiti più alti della produzione giovanile finiana, è il Ritratto di Italo Svevo che, assegnato erroneamente da Peter Webb (2007) al 1929, venne in realtà iniziato nel maggio del 1928, quindi qualche mese prima della morte dello scrittore, notizia questa che del resto sovveniamo da una lettera inviata a Emilio Dolfi da Giorgio Carmelich. Esposto alla II Esposizione del Sindacato Fascista Regionale di Belle Arti e del Circolo Artistico di Trieste tenutasi fra l’ottobre e il dicembre del 1928, e, immediatamente al principio dell’anno successivo presso la Galleria Barbaroux di Milano, il dipinto con l’effige dell’ormai celebre narratore triestino da poco deceduto non dovette passare inosservato, tanto che Silvio Benco scrisse che: «La pittrice ha una valentìa tecnica ben superiore alla sua età e al suo noviziato nell'arte». Le lodi tessute da Benco valsero alla Fini l’ottenimento di pregevoli giudizi da parte del critico più intransigente del tempo, Raffaello Giolli, il quale su “Emporium” non si limitò a spendere onorevoli parole per la ventenne pittrice, ma utilizzò proprio l’immagine del ritratto sveviano per corredare la sua rubrica Cronache milanesi. Il ritratto di Svevo insomma, costituì un’opera cardine per la carriera di Leonor Fini poiché agì come un passe-partout verso i circuiti artistici ufficiali quali la II Mostra del Novecento Italiano (1929) e la Biennale di Venezia (1930). Il Ritratto di Italo Svevo mostra una precisione nella resa dei dettagli assimilabile a quella che fu propria della pittura d’area fiamminga: i baffi dello scrittore, realizzati con minuzia e perizia, vengono definiti uno ad uno; essi sono grigi, a tratti completamente bianchi, e nella parte centrale la Fini mise in atto delle trasparenze coloristiche tali da lasciar intravedere la pelle al di sotto di essi. Molto precisa anche la definizione delle ciglia, dei capelli e delle sopracciglia. Questa vena estremamente realistica che fu tipica della pittura fiamminga non si esprime solamente nel trattamento del pelo, ma anche nella resa della pelle. Quella di Italo Svevo è ormai una pelle che cede ai segni del tempo: sulla fronte vi sono due solchi, di cui uno abbastanza profondo; tra il naso e il lato della bocca si dipana una marcata ruga d'espressione. Ma il tempo che passa e la vecchiaia che avanza impellente trovano il loro maggiore testimone nella guancia sinistra, nella quale la pelle risulta non essere più elastica e per questo cade e scende quasi fino al colletto della camicia. Il dipinto manifesta inoltre, coerentemente con quella che fu la produzione pittorica d’ambito triestino del tempo come anche la letteratura e la cultura sviluppatasi nello stesso bacino territoriale grazie alla penetrazione delle teorie freudiane, uno spiccato interesse per la resa introspettiva e psicologica. Si avanza a questo punto, una mera ipotesi interpretativa che consente un riallacciamento dell’elemento sveviano alla poetica finiana: effettuando difatti un confronto fra le tematiche letterarie di cui lo scrittore triestino si rese testimone e quelle invece finiane, vi è una peculiarità comune a entrambi. Infatti, la maniacale ossessione per i segni del tempo che mostra la Fini in questo dipinto e che, con l’attivazione di una visione diacronica possiamo reputare responsabile di un suo timore personale che si trascinò fino alla sua morte dunque per tutto il corso della sua esistenza, oltre che essere riconducibile alla resa pittorica estremamente realistica, potrebbe essere anche sintomatica della stessa ossessione sveviana per la vecchiaia, manifestatasi soprattutto nel romanzo Senilità. La fabbrica di vernici Veneziani nella quale lo scrittore lavorò è rappresentata sullo sfondo del ritratto: lo Svevo di Fini sembra essere immagine riflessa dell’inetto impiegato Emilio Brentani, il protagonista appunto di Senilità, personaggio per la cui caratterizzazione Svevo si basò proprio sulla sua personalità per via della frustrazione che lo accompagnò per parecchio tempo non riuscendo egli ad affermarsi come scrittore. Questa insoddisfazione generata dall’essere Ettore Schimtz e non poter essere –almeno non ancora- Italo Svevo-, venne dunque espressa nella tela della Fini proprio nella rappresentazione della fabbrica Veneziani sullo sfondo. In Senilità invece, l’inettitudine di cui è affetto Emilio Brentani è basata sulla vecchiaia spirituale che lo caratterizza e dalla quale non riesce mai a distaccarsi. Un’ossessione dunque per l’anzianità, che si afferma in maniera tormentata e maniacale in entrambi, ha comunque una diversa sfaccettatura che, come vedremo appare diversificata solo superficialmente: allorché in Svevo, la paura è quella di una vecchiaia d’animo a causa della quale gli eventi della vita di ognuno sono condannati a essere visti come un inesorabile panta rei per mezzo di uno sguardo del tutto passivo, in Leonor Fini è la vecchiaia fisica, alla quale comunemente vengono associati quegli stessi segni del tempo che caratterizzano il volto del Ritratto di Italo Svevo, a intimorirla. Si è parlato però di un’ossessione per la vecchiaia diversa soltanto apparentemente: infatti la costante ansia finiana volta a un continuo superarsi, l’ossessività con la quale l’artista cercò incessantemente e senza soste la sperimentazione poliedrica entro tutti i campi artistici, è sintomatica del terrore di sviluppare un’inettitudine assimilabile a quella della quale fu vittima Emilio Brentani, atteggiamento questo che lo condannò a una “senilità” dove anche i solchi del tempo sembrano essere innocui. L’accreditamento di tale luogo quale centro di raccordo per buona parte dell’intellighentia triestina non costituisce un fatto ex-novo, giacché diversi intellettuali triestini lo definirono come tale: da Giani Stuparich (1948) fino a Giulia de Savorgnani (1998), autrice di un interessante testo su Roberto Bazlen fra i personaggi che si incontravano dalla Dobra, vengono citati anche anche Nello Stock e suo fratello Alberto, Carlo Tolazzi e la moglie Gerti Frankl, Linuccia Saba figlia del celebre poeta Umberto, Giani Stuparich e la moglie Elodie, sorella questa dell’animatrice del salotto. Pur avendo più o meno tutti avuto una qualche rilevanza per lo sviluppo della poetica finiana, colui che torreggiò in questo senso fu indubbiamente Roberto Bazlen. Principale fautore del successo editoriale di Italo Svevo, com’è noto fu lui a presentare a Eugenio Montale le opere dello scrittore che erano state pressoché ignorate dalla collettività e dai critici dell’epoca; tra queste possiamo includere Una vita, la stessa Senilità e il celebre La coscienza di Zeno. Dal canto suo infatti, il giovanissimo Bazlen ebbe come attività preferita la lettura, spesso di testi redatti da autori ancora piuttosto sconosciuti in Italia e dei quali, proprio grazie a lui, si iniziò a sentir parlare; fra questi vi fu in particolare Franz Kafka, Peter Altemberg, Lawrence, Hemingway. E probabilmente, queste innovative letture risultarono degli ottimi spunti di conversazione per tutti quegli intellettuali riunitisi nel salotto Dobra. L’intelligenza vivace e penetrante di colui che, in futuro, sarebbe stato riconosciuto come uno dei più acuti critici letterari del secolo, dovette senza dubbio non passare inosservata agli occhi della Fini. A concorrere dunque allo sviluppo di un interessamento decisamente precoce dimostrato dalle parole riportate sopra, concretizzatosi nel corso del tempo col trasferimento a Parigi di Leonor Fini, fu proprio Bazlen, il quale con tutta probabilità il più delle volte dovette reggere le redini discorsive all’interno del salotto di Elsa Dobra. Con i suoi racconti del mito parigino e della sua avant garde abbracciante più di un fronte culturale, egli riuscì a canalizzare su di sé l’attenzione della giovane Leonor. Bazlen dunque fu capace di far luce entro la nebbia esistente all’interno di diversi orizzonti culturali: ad esempio, Giorgio Voghera (1980) ricordò di come egli fu colui grazie al quale conobbe l’arte negra e quella precolombiana e indiana mentre Stuparich (1948) mise in primo piano il suo precocissimo fiuto editoriale e la sua incredibile capacità di «scovare autori e opere poco note che di là a non molto facevano scalpore e risonavano di fama universale». A questo proposito si può ricongiungere la notizia secondo la quale fu Bazlen a presentare alla Fini gli scritti di Paul Éluard e André Breton; tale informazione è riportata da Webb (2009) il quale non conferisce però particolare importanza a questa affermazione e non approfondisce dunque tale dato. Esso in realtà com’è facilmente intuibile, è meritevole di una profonda attenzione e analisi dal momento che, supponendone la veridicità, collocherebbe Bazlen come l’iniziatore dal punto di vista teorico di Leonor Fini al surrealismo. Tale ipotesi trova fondamento soprattutto prendendo in considerazione uno scritto di Éluard precedente alla stesura del Manifesto del Surrealismo (1924): trattasi della raccolta di poesie e poemi Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, uscito in prima edizione nel 1920 per l’editore Au Sans Pareil e strettamente connesso col concetto di metamorfosi. Già dal titolo infatti, vi si avverte una «doppia possibilità di proiezione» enfatizzata in un numero considerevole di versi ivi contenuti. In quest’ottica, risulta particolarmente rappresentativa la poesia Poisson nella quale, l’acqua, trasformatasi, riesce a inglobare un pesce il quale però a sua volta scompare dopo essersi allungato. Quello di Éluard è un sottolineare enfaticamente la connotazione metamorfizzante di un elemento naturale come quello dell’acqua, al quale lo scorrere del tempo giova per la sua libera trasformazione. Ancora una volta perciò, quel che si evince è una prova tangibile dell’origine dello spirito metamorfizzante finiano che, benchè nel 1920 fosse ancora primordiale nella sua accezione teatralizzante, dovette senza dubbio conoscere questi versi eluardiani tendenti ancora verso lo stampo dadaista, per il tramite appunto dello stesso Bazlen. E del resto parrebbe essere sempre lui, il grande e acuto critico letterario “Bobi” come amarono chiamarlo i suoi amici triestini, il promotore delle teorie junghiane dalle quali Leonor Fini derivò con tutta probabilità uno dei capisaldi della sua pittura: l’androginia. Come affermò Giorgio Voghera (1980), Bazlen infatti fu il primo a Trieste a sposare le dottrine di Jung, andando dunque contro corrente rispetto alla consuetudine per la quale invece la collettività intellettuale triestina soleva rimanere dalla parte degli studi freudiani. Nel contesto psicologico analitico junghiano, egli fu affascinato soprattutto dall’alchimia, dall’astrologia, dalla magia, dalle filosofie orientali e le altrettante religioni. In particolare, è proprio dall’ermetismo alchemico che Jung derivò la sua teoria dell’archetipo androgino. Difatti, Rebis in alchimia equivarrebbe all’androgino cosmico nato dall’unione del “zolfo sofico” (sole) e “mercurio sofico” (luna). Esso viene rappresentato nei trattati alchemici sotto forma di una creatura umana bisessuale; solamente chi era in possesso della pietra filosofale (chiamata anche questa rebis o “Androgino ermetico”) poteva ottenere questa creatura. Tuttavia l’operazione alchemica preliminare alla preparazione della pietra filosofale era l’unione del principio maschile e femminile. Tale simbolismo alchemico è stato riutilizzato e riesaminato da Jung, secondo il quale l’androgino rappresenterebbe l’archetipo fondamentale, l’essenza stessa dell’inconscio di ogni individuo. Difatti l’archetipo dell’Anima, è per Jung l’elemento femminile dell’uomo poiché «in ogni uomo, vi è un'immagine ereditaria collettiva della donna, col cui aiuto egli comprende l'essenza della donna» mentre l’Animus rappresenterebbe, al contrario, l'elemento maschile nella donna. Secondo Jung, uomo e donna sarebbero esseri divisi sul piano della psiche a causa della supremazia dell’uomo e della svalutazione della donna presente nella vita quotidiana e nell’immaginario comune; questa doppiezza psichica quasi sfociante in bipolarismo, può essere risolta con l’unione androgina dei due poli maschile e femminile incarnati nell’Anima e nell’Animus. Tuttavia, quel che assimilò la Fini per il tramite di Bazlen riguardo gli archetipi junghiani fu un punto di partenza per una ricerca che, in realtà condusse l’artista ad implicazioni ben più complesse: difatti, come sottolinea la Strukelj (2010)Leonor Fini alla pari delle altre artiste surrealiste, enfatizzò nelle sue tele la presenza femminile in piena autonomia rispetto a quella dell’uomo, tanto che in alcune opere ella si servì del repertorio cinquecentesco per dar vita a dei dipinti dominati da un ribaltamento dei ruoli maschile-femminile. Questo però non ci legittima, al contrario di come spesso la critica ha sostenuto, ad illuminare una spia femminista all’interno dell’arte finiana come neppure di gridare al richiamo verso una complementarità uomo-donna. Invero vi è un anello di collegamento con un mondo utopico nel quale le donne, conscie delle loro prerogative, sono state capaci di far attecchire nell’universo a loro circostante non la parità dei sessi ma bensì la loro superiorità nei confronti degli uomini. Questo risultato, però, secondo la Fini, probabilmente si otterrà solo con l’impiego dell’archetipo androgino junghiano. Ed è in questo senso, appunto che l’artista, sposando tali studi psicanalitici conosciuti grazie a Bazlen, compì un iter il cui punto di approdo fu l’indipendenza femminile dal mondo maschile. Infine, si vuole concludere questo paragrafo con le parole di Bobi Bazlen riguardanti Leonor Fini; esse non vertono su giudizi riguardanti la sua pittura né tantomeno costituiscono favelle ossequiose e reverenziali nei confronti dell’allora giovane artista triestina. Trattasi infatti di una frase tratta da una lettera indirizzata a Eugenio Montale datata 5 gennaio 1929, nella quale Bazlen fece riferimento a delle opere della Fini delle quali, al momento, non si ha nessuna notizia: «Gerti balla, Lolò ha fatto un ritratto di tua sorella e di tua nipote, di Solmi, di Lodo, di Ginetta, ecc. gli altri hanno l’influenza». La questione andrebbe giustamente indagata in maniera esaustiva ma non sarà questa la sede consona per questo. Ci si limiterà qui a puntualizzare come i ritratti dei personaggi ivi citati condurrebbero a pensare ad una fervida attività ritrattistica condotta durante il periodo milanese -il quale meriterebbe un’attenzione maggiore e un’analisi più approfondita- negli anni ’29 e ‘30. Difatti alla fine degli anni Venti, Marianna Montale –citata da Bazlen quale soggetto ritratto dalla Fini- è già a Milano, città ove morì nel 1944. La sorella del celebre poeta si distinse sempre per la sua raffinata cultura letteraria e filosofica, tanto che il carteggio fra lei e Montale è stato recentemente oggetto di pubblicazione. Anche per Sergio Solmi, il “poeta dell’eterno ritorno nietzschiano” come viene definito da Matteo Monti (2008) si è certi della sua presenza a Milano durante quegli anni dal momento che iniziò proprio allora a lavorare per l’ufficio legale della Banca Commerciale Italiana che aveva sede proprio a Milano ed inoltre, proprio nel ’30, venne pubblicato uno dei suoi primi saggi da una casa editrice milanese. Questa iniziale analisi, condotta in maniera capillare  per dare  in questa sede il giusto approfondimento,  si porterebbe ipotizzare la presenza della Fini all’interno di un’altra cerchia di intellettuali, stavolta localizzata per l’appunto a Milano e nella quale probabilmente ella operò solo in qualità di ritrattista. La critica ha sovente fatto riferimento unicamente al gravitare dell’artista all’interno dell’orbita di Novecento, ma la veloce ricostruzione ivi proposta adduce a gettare le basi per il riconoscimento di un altro gruppo di intellettuali, certo non paragonabili per raffinatezza culturale a quello triestino, nel quale Leonor Fini presenziò. L’ultimo personaggio del circolo culturale triestino al quale si vuole far riferimento in questa sede, è la pittrice Felicita Frai. A lei e al suo rapporto con Leonor Fini si è deciso di dedicare un paragrafo intero allorché come vedremo è assieme a lei che l’artista iniziò a scoprire il costume e la teatralità congiuntamente alle relative potenzialità espressive. La critica ha sempre sostenuto, specie negli ultimi anni, che l’arte della Fini non sia stata mai realmente capita e considerata in Italia. Spesso gli ambienti artistici italiani sono stati accusati di provincialismo e superficialità nei confronti dell’artista argentina, il tutto motivato dal fatto che all’interno di questi la sua arte non sia passata in primo piano rispetto a quello che invece era il suo “personaggio”: la passione per gli ambienti mondani, i suoi travestimenti, i suoi atteggiamenti da femme fatale dominarono totalmente la scena e attirarono gli sguardi e la curiosità del pubblico, con la conseguenza negativa che Leonor Fini venne relegata al ruolo di artista secondaria all’interno del panorama italiano degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta. Uno studio su questa tematica fu affrontato da Vanja Strukelj nel saggio “Leonor Fini vista dall’Italia. Ricostruzione di un dibattito”, redatto per il catalogo della mostra triestina Leonor Fini l’italienne de Paris tenutasi nel 2009. La studiosa, partendo dal presupposto che la critica italiana non sia mai riuscita a scindere il piano dell’analisi artistica da quello puramente “comportamentale” della Fini, mette a confronto una serie di documenti tra cui articoli, recensioni, fotografie e qualche estratto della corrispondenza fra l’artista e lo studioso Mario Praz; la Strukelj puntualizza come le ragioni di questa “distrazione” dell’Italia rispetto all’arte finiana siano in gran parte da ricostruire ed avanza comunque l’ipotesi secondo la quale la causa di questa “assenza” sia da imputare in primis, alla tormentata ricezione della corrente surrealista nel nostro paese, nonché « alla rigidità e ai limiti di un impianto critico interpretativo, a cui noi stessi facciamo riferimento, troppo fortemente modellato su alcune linee e tendenze della cultura artistica del secolo scorso». E’ fuor di dubbio che le ragioni che portarono quasi ad una vera e propria damnatio memoria e di Leonor Fini in Italia furono anche queste; difatti è un dato di fatto che la corrente surrealista ebbe non pochi problemi a essere recepita nel nostro paese e di questo ne costituisce una prova, ad esempio, la dura critica scagliata nel 1950 da Alfredo Mezio nelle pagine de “Il mondo” verso tale movimento. L’articolo di Mezio venne pubblicato proprio dopo la visita alla mostra di Stanislao Lepri presso la Galleria L’Obelisco di Roma da parte dello stesso giornalista. In questo scritto, egli non mancò di definire il surrealismo come “un’eresia letteraria finita da vent’anni” e di sottolineare come questa corrente artistica mostrasse ormai solamente la sua sfaccettatura “mondana ed epidermica”. Mezio scrisse poi che «Il surrealismo va in macchine a dodici cilindri e ha il conto in dollari alla banca»; infine egli citò anche Leonor Fini e identificò la sua arte come “surrealisme pour dames”. La citazione della nostra artista da parte di Mezio non costituisce un evento consequenziale, ma è invece una prova del fatto che la scarsa recezione del surrealismo in Italia costituì un fenomeno non di poco conto per la germinazione del disinteresse critico verso la figura della Fini, essendo lei stessa inclusa all’interno della cerchia degli artisti surrealisti. E l’errore risiede proprio qui: dare peso alla Fini solamente per la sua brevissima esperienza surrealista in anni peraltro distanti dallo svolgersi vero e proprio del surrealismo, ignorando totalmente il resto della sua poliedrica ricerca. Ed è questa la specifica mancanza quella presente all’interno della critica italiana, assenza questa che è necessario capire e interpretare ricostruendo, come ha affermato la Strukelj, le motivazioni che la generarono. Ad un’analisi più attenta, emergono difatti diversi fattori e molteplici sfaccettature che in maniera ineluttabile conducono non solo ad una riconsiderazione dell’intera vicenda critica, ma anche ad una nuova percezione di quella che è la Leonor Fini personaggio da copertina nonché all’ipotesi che, molto spesso, sia stata la stessa artista a manifestare un atteggiamento riluttante nei confronti dell’Italia. Si attiva quindi una nuova presa di coscienza riguardo le modalità con le quali l’artista considerava se stessa un personaggio e se si reputasse davvero tale, ma soprattutto se le interessasse veramente stupire ed apparire. Vero è che in molti articoli di giornale di quegli anni si identifica la Fini come un “personaggio”, ma questi in realtà mostrano un piglio lontano anni luce dall’ essenza scandalistica sulla quale spesso in maniera superficiale si è posto l’accento. Può aiutarci esemplarmente a comprendere le modalità con le quali viene accolta, l’eco sui giornali della sua mostra del ’45 presso la Galleria “La Finestra”. Difatti è raro trovare un giornalista che abbia recensito in maniera negativa una sua mostra, anche se a volte prende il sopravvento l’elemento mondano dell’evento artistico finiano. Anche le parole di Klaus Mann arrivarono, come nel caso di quelle di Ettore Masi, in concomitanza con l’esposizione della Fini presso la Galleria La Finestra di Roma; questi articoli dunque, sono indice del fatto che, con tutta probabilità, la Fini spiccò, nel corso dell’inaugurazione a “la Finestra”, per essere stata la regista di uno “spettacolo mondano” al quale prese parte una buona fetta dell’alta società romana, costituita da personaggi borghesi, intellettuali e scrittori, attori e registi. L’occhio attento e la visione omnicomprensiva di Masi e Mann però, riuscì a esulare la Fini dalla sola immagine di adepta al solipsismo alla quale purtroppo spesso è stata associata; il primo critico infatti, auspicò che all’artista non venisse conferita solamente una spiccia “sentenza di mondanità” ma le venisse riconosciuta anche la dignità artistica che meritava; Mann invece parlò proprio di un’arte giocosa e amante dei mascheramenti –che come sappiamo tanto cari furono alla Fini- e vide nel suo modo di creare proprio l’orchestrazione stessa di uno spettacolo. Alla Bucarelli, come anche ad altri critici che non spesero nei suoi confronti delle belle parole, la Fini rispose fra le pagine di «Domenica» con un articoli intitolato proprio Critica ai critici. Ad ogni modo il sottolineare da parte dei sopracitati Masi e Mann il rischio di far passare in primo piano il “Leonor Fini personaggio” al posto della “Leonor Fini artista” suona quasi come un presagio rispetto a ciò che si sarebbe verificato nell’immediato futuro. E’ dunque probabile che, i critici e gli intellettuali più acuti come Masi e Mann, avvertissero già alcuni prodromi di tale fenomeno: la relegazione ad artista di secondo ordine per una donna che, al contrario, come scrisse Mann, fu una «personificazione dell’arte in tutta la sua capricciosa grandezza». I segnali avvertiti da Masi e Mann potrebbero essere emersi, ad esempio, già nel 1944, anno questo precedente all’esposizione presso “La Finestra”: difatti il critico d’arte Fortunato Bellonzi dedicò qualche riga a Leonor Fini in occasione della sua mostra presso la galleria romana “Il Secolo”, svoltasi in concomitanza con quella di Dalì a “Lo Zodiaco”. "Dissacrante" viene definito dalla Strukelj il capitolo su Leonor Fini scritto da Marcello Venturoli per il suo testo Interviste di frodo. Venturoli sottolineò come, secondo lui, sussistesse nella sua arte una certa «inadeguatezza tra i pretesti e la resa. I pretesti sono assai più allusivi». Nonostante ciò, il capitolo di Venturoli non si può definire in toto dissacrante poiché, dalla descrizione che diede della Fini, sembrerebbe invece che lui stesso non si sentisse "pronto" per affrontare una personalità così forte come quella dell'artista. Traspare un misto tra stupore, spiazzamento e incapacità di reazione alla vista della pittrice argentina. Insomma, dell'inadeguatezza di cui Venturoli accusò la pittura finiana, sembrerebbe invece esserne affetto lui stesso quando si trovò a dover intervistare l'artista: «Pensai che in quella penombra sarebbe stato opportuno, tuttavia, farle delle domande sulla sua vita, una volta che avessi trovato il tono giusto. Ma, occupato a cercare le parole, non dissi niente». Tuttavia, non fu di certo benefico per l'immagine della Fini che ad illustrare il libro di Venturoli fu la pungente penna di Mino Maccari, il quale, da sensazionale interprete della satira qual era, non ci pensò due volte prima di rappresentare causticamente la figura della pittrice. Portano la sua firma le tre vignette corredanti il capitolo di Venturoli dedicato alla Fini in queste, l'artista venne rappresentata sopra un tappeto di spade che spuntano come erba dalla terra, con indosso un cappello alquanto eccentrico; e poi nell'atto del creare e mentre trafigge con la sua lama altri artisti. Maccari pose l'accento non tanto sulle azioni dell'artista, quanto sul suo modo di presentarsi al prossimo: la rappresentò infatti abbastanza svestita, con i seni nudi e in pratica abbigliata solamente del suo enorme cappello. Le vignette di Maccari potrebbero essere considerate come uno specchio riflettente l’immagine italiana rispetto alla figura di Leonor Fini, che, come vedremo, accentuerà sempre di più l'identificazione dell'artista esclusivamente come personaggio eccentrico. Ciononostante, a riscattare Leonor Fini dalla pungente penna di Maccari fu, quello stesso anno, l'uscita della prima monografia a lei dedicata, testo questo che portò le firme di illustri intellettuali ed artisti: Alberto Moravia, Mario Praz, Charles Henri Ford, Edmon Jaloux, Georges Hugnet, Paul Éluard e Alberto Savinio. Oltre a questo, gli scritti introdotti nella monografia si rendono testimoni di un interesse critico per l'arte finiana che esula sia da qualunque richiamo verso il concetto di mondanità, nonché dall'effige di eccentricità e stravaganza trasmessaci dalla penna maccariana. E del resto, il talento e nient’altro che quello emerge in precedenti recensioni degli anni Trenta e Quaranta, scritti questi in cui l’impronta mondana della Fini non viene minimamente menzionata. Leggendo le recensioni ne deriverebbe un bilancio nettamente in contrasto con quello enunciato nel corso degli anni; difatti gli estratti degli articoli qui proposti permettono d’ identificare Leonor Fini come una grande artista, disgiunta dalla sola immagine di “personaggio da copertina”. Cos’è successo quindi? Sicuramente Roma, rispetto a Parigi e al suo ambiente, dovette nutrire al suo interno, e specie in ambito giornalistico, alcuni sintomi di provincialismo. Se nella capitale francese indossare uno stravagante cappello passava come un fatto inosservato, in Italia così non era. Queste, ad esempio, furono le parole scritte su “Cosmopolita” in occasione di una mostra di Stanislao Lepri e Antonio Vangelli presso la galleria “La Finestra” rispetto alla presenza di Leonor Fini. L’autore definì il cappello indossato dall’artista “avventuroso”, definizione questa posta però in un’accezione negativa visto che fece notare come gli intellettuali di secondo ordine di cui però non citò i nomi siano stati affascinati dalla Fini e abbagliati dalla sua presenza, descritta qui come un “lume”. Possiamo dire che questo pensiero del giornalista sia comunque ricco di contraddizioni, visto che il “tanto” posto accanto a “lume” potrebbe far emergere un’ammirazione per la Fini da parte dello stesso autore. Successivamente però, sottolineando come a essere calamitati verso l’artista, quasi come se fossero “falene contro un lampione”, siano stati soprattutto intellettuali di poco conto, egli sembrò quasi voler prendere le distanze dalla precedente identificazione di Leonor Fini quale “lume”, facendo svanire quindi ogni possibile riconoscimento dell’autore come uno dei proseliti dell’artista. Ad ogni modo, costituisce un dato di fatto che il costume sia stato uno dei fattori scatenanti la damnatio memoriae finiana in territorio italiano; difatti non rappresenta una coincidenza che gli articoli con giudizi negativi riguardo la sua arte -ma soprattutto la sua persona-, abbiano preso piede soprattutto successivamente alla sua partecipazione al ballo mascherato Bestegui organizzato a Venezia, presso Palazzo Labia, nel settembre del 1951. In quell’occasione, Leonor Fini si distinse per lo stupendo costume indossato: quello da Angelo nero, caratterizzato da delle enormi ali applicate al vestito che riuscirono a conferirle una dimensione quasi extra terrena ma allo stesso tempo inquietante e demoniaca, nonostante l’abito fosse quello di un angelo. Il punto nevralgico della questione risiedeva nel rinvenimento delle motivazioni per le quali l’arte di Leonor Fini sia stata in Italia vittima di oblio, ed inoltre un’altra problematica nella quale ci si è dovuti dimenare è consistita nel comprendere se, tale inclinazione della critica italiana, sia stata pur mossa dal fatto che il “personaggio” abbia in un qualche modo oscurato l’artista. A ciò si ricollega quello che può essere definito il fine ultimo dello svisceramento di tale tematica: la comprensione dell’inclinazione mondana dell’artista che riconduce in toto al concetto di costume. Accendere un faro all’interno del fosco labirinto dell’idea di mondanità finiana conduce all’illuminazione sulla vera natura in merito all’incessante volontà di apparire: era costruita? Era un bisogno vitale? Dall’analisi del materiale ivi proposto, possiamo certo affermare senza esitazione che è assolutamente veritiera la tesi secondo la quale la responsabilità della lacuna critica finiana sia in parte del costume. Difatti, è interessante notare come la storia critica dell’artista si dimeni in una dicotomia temporale: da una parte, abbiamo infatti le recensioni positive della sua arte che perdurano durante gli anni Trenta e Quaranta; dall’altra si trovano alcune recensioni negative, ma soprattutto frequenti alterchi scoppiati fra la Fini e il giornalista italiano di turno nel corso degli anni Cinquanta. A fare da spartiacque, vi è un fatto per niente casuale: uno dei più grandi eventi mondani di tutti i tempi, nel quale a regnare fu per l’appunto il costume. Stiamo parlando del ballo in maschera tenutosi presso il veneziano Palazzo Labia nel settembre del 1951, al quale la Fini prese parte. L’evento, che non dimentichiamo si colloca in un momento importante per l’Italia poiché trattasi del dopoguerra, difficilmente si rese compatibile con lo stato d’animo dei cittadini di allora; il pittore Fabrizio Clerici, il quale definì l’evento come uno dei «più sorprendenti, eccentrici, e forse inutili del Novecento» ricordò che il ballo. La critica italiana si beffa di questo personaggio e non riesce a conferirgli quell’aurea creativa e poliedrica che invece si meriterebbe; fa ristagnare la figura dell’artista all’interno di uno scenario apparentemente frivolo, che si ciba soltanto di lustrini, flash e copertine scandalistiche. La critica italiana è incapace quindi, di assumere uno sguardo totalizzante nel momento in cui la Fini viene fotografata in un contesto estremamente mondano dove a fare da padrone è il costume. Ma infine, è impossibile non notare come Leonor Fini si sia preoccupata maggiormente, almeno in Italia, delle critiche riguardo il suo “personaggio” piuttosto che il suo essere artista, anche perché, come abbiamo potuto notare, pressoché nulle furono le recensioni negative alla sua arte. Ricongiungendoci a quanto detto precedentemente, ossia alla necessità di considerare criticamente Leonor Fini come un’armoniosa unione di artista e personaggio, è probabile che il disconoscimento a livello autorevole di una delle due prerogative abbia generato in lei la convinzione che neppure la sua arte fosse pienamente compresa. Questo è in parte vero, dal momento che abbiamo appurato che, quando si parla di lei, è necessaria l’adozione di uno sguardo ampio e totalizzante che inglobi arte e vita, persona e personaggio. Tuttavia possiamo appoggiare questa concezione solamente nell’istante in cui, a indisporre la Fini, non sia una qualsivoglia mancata deferenza riguardo la sua sfera strettamente personale; ne sono prova di questo, sia l’articolo di Giovanni Arpino ma soprattutto quello di Nantas Salvalaggio, il quale venne imprigionato perpetuamente nella bolgia dei falsari dell’inferno finiano poiché colpevole d’aver narrato i motivi che generarono la rivalità fra “la leonessa e la gazzella”. Questi furono la giovane età della de Pisis, la sua bellezza ma con tutta probabilità anche l’essere responsabile della perdita, da parte della Fini, di uno dei suoi punti di riferimento intellettuali: Andre Pieyre de Mandiargues. Salvalaggio insomma, si inserì all’interno di un terreno piuttosto impervio da percorrere: quello della vita personale di Leonor Fini. Per evitare intrusioni ma soprattutto smascheramenti, l’artista preferì chiudere i ponti con l’Italia, anche se in realtà la sua fu un’assenza pro tempore, visto che già sul finire degli anni Cinquanta cominciò nuovamente ad esporre in Italia, sebbene in maniera molto sporadica: nell’ottobre del 1957 si tenne infatti un’esposizione personale a Torino presso la galleria Galatea e nel 1968, dopo molti anni di assenza, tornò pure a Roma e precisamente presso la Galleria Iolas Galatea. Emerge dunque un quadro abbastanza chiaro riguardo le motivazioni che portarono la Fini a essere pressoché assente dal dibattito critico artistico italiano; primariamente, si può chiaramente desumere come l’Italia sia stata incapace di comprendere quanto nel suo caso, artista e personaggio vadano in realtà considerati come un arricchimento l’uno per l’altro a livello espressivo e artistico. A questo si aggiunge inoltre, la confusione di cui la critica stessa in questi anni si è peccata nel momento in cui ha reputato, come responsabile del problema, l’incapacità da parte del panorama italiano di scindere artista e personaggio. Persino nel 2009, anno della grande mostra di Trieste, non è mancata occasione di sottolineare come il piano “comportamentale” di Leonor Fini andasse scisso da quello artistico; erroneamente però si sono incluse nella cerchia degli elementi “nefasti” anche quelli che in realtà debbono essere considerati come delle prerogative delineanti i connotati peculiari dell’artista stessa, uno su tutti il suo interesse ma soprattutto il suo bisogno del costume. Questo difatti, come abbiamo visto, deve essere considerato come una necessità vitale per l’esistenza non solo dell’arte, ma anche dell’artista stessa. In questo senso, si delinea dunque un punto di partenza che conduce alla riconsiderazione dell’intera vicenda critica: la rivalutazione della Leonor Fini personaggio ai fini di una maggiore comprensione dell’artista, nonché l’individuazione di tutti i micro elementi, i quali precedentemente trascurati, sono ora riconosciuti come complici per l’input creativo artistico. E del resto, come scrisse Kot Jelenski, la Fini deve essere considerata in questo modo poiché in lei «persona e personaggio, vita e arte si fondono e si cristallizzano come una matrice brillante e duratura nel tempo» generando quindi “il mito”.  Un folto gruppo di coloro che si sono occupati dell’arte di Leonor Fini, rimarcò sovente la profonda inclinazione dell’artista riguardo il posare per l’obiettivo di numerosi fotografi, alcuni dei quali possono essere annoverati fra i più grandi del XX secolo. In un’ottica di rilettura totale della vicenda critica, che vede come maggiori incriminate per l’immagine negativa di Leonor Fini in Italia quelle che abbiamo chiamato “performance della vita”, dalle quali scaturisce la mancata comprensione dell’unitarietà artista-personaggio, non si deve assolutamente eludere il discorso sulla fotografia; essa anzi deve essere intesa, alla pari dei balli in maschera, come performance della vita essa stessa. I motivi che consentono di classificarla come tale, sono presto detti: allo stesso modo infatti dei travestimenti operati per i bals masqué, anche le foto risultano essere fondamentali per la sancizzazione dello spirito artistico finiano, se pur in maniera difforme rispetto ai balli. Si vuole puntualizzare tuttavia, che ivi non verrà proposto un mero elenco di scatti di cui Leonor Fini fu musa indiscussa, bensì si cercherà di dimostrare come il travestimento sia penetrato in ogni attività performativa della vita dell’artista, condizionandone e reggendone le redini come se si assistesse ad un gioco artistico dalle libere regole. Per introdurre questa problematica, è stato necessario intraprendere una schematizzazione, combaciante in toto con un’esaustiva semplificazione, delle foto di cui Leonor Fini posò come modella per i più celebri fotografi del XX secolo. Osservando il materiale fotografico difatti, esso sembra avvalersi del diritto di essere scisso in due distinte tipologie: la prima di esse deve essere letta parallelamente ai balli in maschera, entro una sorta di doppio binario che conduce inesorabilmente alla damnatio memoriae della nostra artista; la seconda è invece la fotografia propriamente detta, sensuale ed erotica con una Leonor Fini regista della scena, della quale però è anche unica e principale attrice. Per quel che concerne la prima tipologia, è il travestimento a richiamare l’attenzione dell’artista verso l’obiettivo del fotografo e, conseguentemente, a far sì che vi sia una sua compartecipazione all’evento; un fenomeno dunque identico a quello sviluppatosi nell’ambito dei balli in maschera ove è il costume a fare da richiamo per la partecipazione alle feste parigine. Nella seconda tipologia invece, il movente è di tutt’altro genere e si riflette nell’interesse per l’autorappresentazione di se stessa. Riguardo le foto della prima tipologia, esse possiedono come anticipato poc’anzi, un filo conduttore che le lega ai balli in maschera, del quale tiene ineluttabilmente le redini il fotografo André Ostier. Artefice di una moltitudine di scatti ripresi proprio durante i vari bals masqué, non mancò giustamente di immortalare l’artista triestina, la quale –come abbiamo avuto modo di notare nel precedente paragrafo- spesso si distinse nel corso di questi eventi proprio per i suoi creativi travestimenti. Sono di paternità Osteriana del resto, le stupende foto che andarono a corredare il testo di André Pieyre de Mandiargues, Masques de Leonor Fini, opera che è risultata capitale per lo sviluppo del paragrafo sui balli in maschera. Si può asserire che quella capacità di elargire potenza e mistero allo sguardo finiano al di sotto della maschera scarlatta da gatto, si sposi perfettamente con l’attitudine di Leonor Fini per il dipingere in maniera autorappresentativa la stessa identica declinazione espressiva, aggettivata come composta ed ambigua, spaventosa e seduttiva. I due possedettero dunque la stessa linea operativa, l’uno nella fotografia, l’altra nella pittura, collocando i loro lavori entro uno scenario spettacolare ed effimero. Di tutto questo, quel che attrasse l’artista triestina -non dimentichiamo-, fu il travestimento, unica ragione del resto per la quale dichiarò di aver partecipato ai balli in maschera. In questi scatti difatti, la coniugazione costumistica risulta essere funzionale alla fotografia, nonché motivo dominante dello scatto stesso; questo concetto ha una valenza profonda giacché testimone del fatto che la fotografia si originò poiché vi fu in atto un travestimento; allo stesso tempo quest’ultimo, finisce per distogliere l’attenzione dallo scatto stesso di Ostier, perfetto anche da un punto di vista formale. Il risultato che ne consegue è che non solo l’obiettivo del fotografo è stato soddisfatto, ma soprattutto lo è quello dell’eccentrica artista, la quale trovò appagamento nel calamitare su stessa l’attenzione collettiva. Precedentemente si è menzionata l’esistenza di un’ulteriore tipologia fotografica, la quale è stata definita come “propriamente detta”. In questo insieme di scatti, a destare l’interesse è solo la personalità dell’artista triestina, denudata di un qualunque travestimento e recisa di una qualsivoglia maschera, un estro che appare scenografico esso stesso nella sua singolarità, e che, per risultare tale, non ha bisogno né di maschere né di costumi. Si tratta di scatti in cui la sensualità è condotta al suo vertice estremo e nei quali vi è la delicata esaltazione di un soffice erotismo, il tutto declinato entro la sua definizione più pura. In questa tipologia, si sviluppa un cammino progressivo dal punto di vista della canonicità dello scatto: si inizia, difatti, con l’ordinarietà della foto di Wanda Wulz del 1928, priva di qualunque teatralità ma già interessante per la capacità dell’artista di polarizzare verso se stessa l’interesse dello spettatore, il quale viene soggiogato del suo sguardo apparentemente innocente; si raggiunge poi l’apice della declinazione espressiva della musa fotografica finiana con gli scatti di Henri Cartier Bresson del 1932, sui quali apriremo una breve parentesi nelle prossime righe. Il cerchio di questa seconda tipologia infine, può dirsi concluso con uno scatto di Man Ray (1936) e con uno di Georges Platt Lynes (1936), il quale pochi anni dopo scoprirà l’amore per l’immortalare il corpo nudo maschile. Per quel che concerne le foto bressoniane, è ragguardevole l’articolazione di esse entro due nuclei: nel primo è lo sguardo della Fini a catturare lo spettatore; nel secondo è invece il suo corpo. In seno al primo gruppo, è possibile racchiudere due scatti, entrambi del 1932, nei quali è messa in risalto la potenza per l’appunto dello sguardo. In tali fotografie, quest’ultimo risulta in antitesi in primis con quello inesistente del manichino de chirichiano presente nello scenario immortalato , e, in seconda battuta, con quello altrettanto assente della bambola innalzata al cielo dall’artista nel secondo scatto omaggio forse, al film La corazzata Potemkin. Entrambe le scene, condite di una teatralità inquietante, trasudano di una drammaticità oggettiva e senza tempo, localizzata entro uno spazio dal retrogusto metafisico. E’ una drammaticità però, cosparsa di ambiguità per via dello sguardo finiano, che a tratti può apparire tremendo e minaccioso, e a tratti seduttivo. E dunque, ancora una volta, ci troviamo davanti ad una Leonor Fini che ci confonde e ci rende deboli, persi e smarriti entro la profondità del suo sguardo ambiguo e seducente. Nel secondo nucleo di scatti bressoniani che dal punto di vista fotografico sono senza dubbio più interessanti dei precedenti- possiamo annoverare tutta la serie di foto che videro come protagonisti Leonor Fini e Andre Pieyre de Mandiargues. Tale corpus fotografico – uno dei primi esperimenti di Bresson fu concepito nell’estate del 1932 a Trieste ed è straordinario per la naturalezza con la quale egli riprese i due amanti . Lo scatto è preso dall’alto: l’obiettivo bressoniano si rivolge verso la limpida acqua marina triestina che accoglie i corpi intrecciati di Leonor Fini e Mandiargues; sono scatti in cui viene messo in risalto il corpo dell’artista, il quale sembra nascere dalle acque e ivi perdersi. Esso dà vita ad un bioritmo perfetto con esse, un bioritmo che sembra trovare il suo equilibrio anche grazie alle gambe incrociate che vengono immortalate qui quasi come se fossero delle “sezioni” corporee. Inconsapevolmente in questi scatti, Bresson racchiuse tutta la poetica finiana: l’idea di nascita e rinascita dalle acque, nonché quella della morte che viene richiamata dalle gambe quasi “sezionate” nello scatto; la tematica del femminino, ma soprattutto il rapporto quasi corporale e metamorfico che Leonor Fini ebbe con la natura, una relazione questa che bene si evidenzierà negli scatti di Eddy Brofferio a Nonza negli anni Sessanta e Settanta. Leonor Fini in tali fotografie riuscì inoltre nell’impresa di cancellare, senza alcuna problematicità, la presenza di Mandiargues: allo stesso modo delle sue tele in cui la figura femminile dominò senza riserve su quella maschile, l’artista, grazie non solo ad una scontata seduttività femminile che si coniugò nell’ovvia bellezza corporea, ma soprattutto per merito della sua capacità di apparire come figlia appena partorita dalle limpide acque, riuscì a concentrare l’attenzione su stessa. Lo fece, anche in questo caso, con un tenore dal ritmo ambiguo e subdolo: in quanto creatura che nasce dalle acque e con esse si metamorfizza, essa può essere guardata e ammirata, senza per questo dover essere necessariamente un richiamo sessuale. Come è stato asserito in precedenza, con le foto di Cartier-Bresson l’apice della declinazione espressiva della musa finiana è stato raggiunto nella sua interezza: dapprima con lo sguardo, poi con il corpo sacralizzato dalla compresenza della natura ad esso legata in maniera ombelicale. Ma, la seconda tipologia fotografica definita come “propriamente detta”, è stata identificata in quella che compie un cammino progressivo iniziato con Wanda Wulz –foto canonica e per niente teatrale-, e che raggiunse la vetta con Cartier-Bresson. Il cerchio, infine, come abbiamo detto, si chiude con due foto, una di Man Ray e l’altra di George Platt Linette del 1936 . La prima evade il classico copione teatrale, riconducendosi in qualche modo allo scatto prettamente canonico della Wulz; il secondo invece, immortalando il corpo nudo inginocchiato di Leonor Fini, accarezzato sensualmente dalla luce che dipinge soavemente le sue curve, non può che essere in linea con gli stupendi scatti bressoniani. Abbiamo visto dunque, come le foto in cui Leonor Fini apparve in qualità di splendida musa per fotografi di fama internazionale, possano essere distinte in due tipologie –l’una legata al travestimento, l’altra alla mise en pose dell’artista stessa, flessa in termini quali seduttività, profondità dello sguardo, etc-; viene da domandarsi se esistano, nell’infinita moltitudine fotografica che la vide protagonista, degli scatti che siano riusciti a coniugare entrambe le declinazioni espressive. La ricerca ha trovato una risposta positiva in questo senso, e precisamente negli scatti di Dora Maar (1936) e in quelli di Eddy Brofferio (1965). Con la Maar, la Fini sembrerebbe nutrire un’affinità artistica veramente notevole e, come ben evidenziato da Strukelj (2009): «Le due artiste sembrano complici di una messa in scena dissacrante che esplicitamente ribalta i rituali dell’icona surrealista
della “femme enfant”». E difatti gli scatti della fotografa francese non mancarono di mettere in risalto la sensualità finiana, ad esempio nell’immagine in cui la Fini, con indosso solamente un corpetto e delle calze velate smagliate la cui sfilatura sembrerebbe essere attribuita ad un graffio felino -, tiene fra le mani un gatto nero all’interno di una scenografia teatrale, nella quale appare anche una tenda-sipario in velluto. E poi ancora: Leonor Fini nel medesimo scenario teatrale, scosta la tenda di velluto per uscire poi da essa; in questa fotografia l’artista appare coperta nel busto, ma ancora una volta con le gambe vestite unicamente dalle sue calze velate. E infine, sempre di Dora Maar, non si può non menzionare la stupenda fotografia con ripresa dall’alto dell’artista triestina , la quale appare sdraiata su un pavimento in legno, in una posa che riporta alla mente le fusa che compiono i suoi amati gatti. La Fini qui appare contornata di drappi e tessuti, dissipati e gettati disordinatamente su un pavimento-palcoscenico; essi sono toccati dalla luce alla stessa maniera di quella che accompagna gli attori a teatro. Da questi tre brevi esempi, si evince come nelle fotografie di Dora Maar si generi una perfetta dialettica fra teatralità e personalità dell’artista, in una dimensione da liber conformitatum che ivi raggiunge il suo apogeo sensuale. L’inclinazione teatral-costumistica dunque, qui dialoga ineccepibilmente con la potenza del personalismo finiano, che sebbene a prima vista sembrerebbe peccare di morbosità ed egocentrismo, in realtà riflette un’accezione quasi riconducibile alla filosofia del personalismo tout court. L’altra sfumatura personale, declinata in termini teatrali attraverso il mezzo fotografico, è l’unitarietà con la natura, della quale si rende padre fondatore ed interprete assoluto Eddy Brofferio nello suggestivo scenario di un monastero di proprietà dell’artista a Nonza, in Corsica. Il travestimento qui, raggiunge il vertice espressivo ed è pure utile quale mezzo per metamorfizzarsi col paesaggio; un esempio ragguardevole può essere offerto da uno scatto del 1965 in cui l’artista, ripresa dal basso verso l’alto, appare in piedi in prossimità di quello che sembrerebbe essere un dirupo. Vestita con un costume che rimanda alla vegetazione circostante, -composta di sterpaglie, fiori che sembrano quasi essere stati bruciati dal calore della stagione estiva e rocce, anche nella posa la Fini si confonde con la scenografia dello scatto. La posizione da lei adottata infatti, sembra istituire un parallelismo con il vecchio campanile sullo sfondo, che spunta al di là di un ammasso roccioso che fa un tutt’uno con esso, quasi come l’artista sembra esserlo con il ciglio del dirupo. La metamorfizzazione in questo scatto è totale: sia il costume che la scenografia infatti, nascono e si metamorfizzano con la natura; l’artista qui rappresenta il ragguaglio perfetto di tutto, ed è l’univoca interprete di uno spettacolo naturale e teatrale. Si potrebbe continuare per lungo tempo a discorrere su questa tematica sviluppata dalle fotografie di Eddy Brofferio, dal momento che cospicuo è il numero di scatti orientato in tale senso . Tuttavia quel che interessa in questa sede, è il riscontro di quella tipologia fotografica che potrebbe essere definita “mediana”, poiché incentrata sulla dispiegazione unitaria e del travestimento, e delle varie sfumature personali della natura dell’artista. Di questo, abbiamo visto che ne costituiscono una prova le foto di Dora Maar -le quali tracciano una linea fra travestimento, teatralità e sensualità-, e quelle di Brofferio, riprove salienti del segmento teatrale e natural metamorfico. Gli esempi dipanati entro questo breve -e si spera esaustivo-paragrafo, hanno indubbiamente dimostrato come la fotografia, nel momento in cui si affronta uno studio su Leonor Fini e in particolar modo sulla costumistica, non vada affatto trascurata. Riconducendoci all’incipit di tale argomentazione, la pratica fotografica deve essere necessariamente identificata quale “performance della vita” alla pari dei balli in maschera. In questa performance, giocosa ed ambigua, naturale e teatrale, il travestimento gioca un ruolo cruciale, a riprova ancora una volta del fatto che esso debba essere considerato come essenza costitutiva nonché come nutrimento vitale per l’esistenza della stessa Leonor Fini, la quale non dimentichiamo che esiste come unità totalitaria di artista e personaggio.
Il bilancio che ne deriva dalle argomentazioni ivi proposte, è piuttosto complesso e articolato, del quale possiamo tentare un breve sunto. La considerazione del travestimento, e conseguentemente del costume come elementi-chiave della personalità artistica finiana, non ha difatti risposto a nessun principio postulato, e proprio per questo motivo si è ambito a dimostrare la validità di tale aggettivazione. Nella prima disamina, che si è incentrata sugli spogli della stampa del tempo, è stato messo in luce come la critica italiana, seppur talvolta ammettendo la validità artistica di Leonor Fini, sia stata sempre prevenuta ab inizio. Le motivazioni sovente, abbiamo visto, furono racchiuse proprio nella propensione dell’artista verso il travestitismo e nell’ineffabile sua inclinazione nei confronti di un qualsivoglia senso spettacolare. Per la stampa, il punctum dolens è stata la mancata comprensione dell’unitarietà artista personaggio; in tale equazione, il secondo termine è stato considerato ribaldo e frivolo e senza alcun merito artistico. D’altro canto però, il “personaggio” ha risposto anche alle caratteristiche del performer. Quale corollario di tale identificazione, sono state adottate quelle che abbiamo definito come “performance della vita”, delle quali il travestimento ha costituito il leitmotiv. Esse, riflesse nei balli in maschera e nelle fotografie, appaiono a prima vista di semplice comprensione; in questa sede però, sviscerandole e riducendole ai minimi termini, abbiamo dato vita ad una lettura complessa nella quale nulla, in verità, si è verificato per dettami casuali e fortuiti; neppure come la ricerca ha dimostrato- nei vestiti scelti per i balli in maschera, per il quali nella maggioranza dei casi si è trovato un corrispondente pittorico o disegnativo. Leonor Fini dunque, è fedele ad una sorta di mos maiorum che si articola in principi complessi ed enigmatici, dei quali il primo, per ordine d’importanza è senz’altro il costume e il travestimento, cresciuto non di rado entro un perimetro “performativo vitale” costituito da balli e fotografie. Nessuno, eccetto pochi lungimiranti critici e giornalisti, ai tempi lo comprese. Forse uno, di questo ristretto gruppo di oculati personaggi, fu l’artista Fabrizio Clerici. Difatti egli, già nel 1945, corredò un articolo dedicato alla Fini con tutta una serie di scatti - raggruppati entro la didascalia “L’album di Leonor Fini” - ove il travestimento costituì il predicato verbale di un soggetto perfettamente descritto dal Clerici quale «connubio di una gatta e d’Apollo». In tale articolo il pittore, ripercorrendo uno dei suoi primi incontri con la Fini -in realtà qui con un suo autoritratto, avvenuto entro una cornice tragica quale quella della Seconda Guerra Mondiale, diede un ritratto poetico ed intenso della pittrice triestina. Il suo descrivere la Fini risuona quasi come il tracciare il profilo di un’entità trinitaria, costituita in questo specifico caso da artista capace, personaggio e creatura metamorfica. Clerici insomma, fu uno dei pochi a non considerare esecrabile “il personaggio finiano”, ma anzi a capirne la sua profonda ricchezza nonché il suo legame gemellar-siamese con quella che fu l’artista. Questi due capitoli hanno costituito un proemio teorico e filosofico per la comprensione del travestitismo finiano, una sorta di terreno preparatorio che ci conduce, da ora in poi, ad entrare nel vivo della descrizione dei costumi teatrali e cinematografici realizzati dall’artista triestina. Un ricerca artistica alla quale come vedremo, l’artista si avvicinò non prima di essersi cimentata nell’elaborazione di figurini per l’ambito della moda. Procedendo per tappe cronologiche, il primo vis à vis fra Leonor Fini e la moda è costituito dall’esposizione tenutasi presso la Galerie Jacques Bonjean di Parigi dal 24 novembre al 7 dicembre del 1932. Il punto nevralgico della questione, è la menzione dell’altro responsabile della galleria oltre a Jacques Bonjean: il futuro designer Christian Dior. Come difatti apprendiamo dalla vasta bibliografia sullo stilista, a quel tempo egli –condizionato dal volere della famiglia che avrebbe preferito per lui una carriera da diplomatico -, nutriva per la moda un rapporto per lo più velleitario, nel quale cominciò a muovere i primi passi solo nel 1937 grazie a Robert Piguet. D’altro canto, gli interessi di Dior fin da allora, erano inequivocabilmente orientati verso una prospettiva artistica. Egli difatti a Parigi, fu solerte nel tessere una trama di conoscenze e amicizie di stampo quasi esclusivamente intellettuale ed artistico. Invero, fu in contatto con Christian Bèrard del quale divenne fraterno amico, Max Jacob, Jean Cocteau. Fin da questi primi nomi, si possono dedurre i termini grazie ai quali Leonor Fini entrò in contatto con Dior: una condivisione di interessi indubbiamente, ove però a fare da ragguaglio furono le conoscenze comuni. La prima di esse, fu certamente quella con Max Jacob, giacché durante i primi anni parigini la Fini fu un’assidua frequentatrice, insieme a Filippo de Pisis, del Café aux deux Magots all’interno del quale fu in stretto contatto col poeta. Egli fece da intermediario fra la pittrice argentina e Christian Dior che, rimanendo colpito dalla pittura della Fini, ne organizzò la prima personale. Il rapporto Fini-Dior sia stato alimentato non solo da una stima di profonda entità, ma anche da un senso comune per il divertimento, giacché l’artista non mancò di fare riferimento allo spiccato senso dell’umorismo dello stilista quale sua peculiarità caratteriale. A riprova della medesima percezione del divertimento, si ricorda anche la congiunta partecipazione, nel 1949, al Bal des Rois et Reines, questione questa già affrontata nel precedente capitolo. Un altro punto fondamentale in seno alla tematica relazionale Dior-Fini, è quello riguardante le creazioni dello stilista. Apprezzate e sovente indossate dall’artista triestina, che puntualizzò come alcuni abiti dello stilista francese furono da lei scelti in occasione della sua partecipazione a L’Art et les hommes, nello specifico per la puntata Leonor Fini ou l’insolite au quotidien, trasmessa dal canale ORTF nel 1959. A caratterizzare il percorso tracciato da Leonor Fini negli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta, fu la continuità con la quale nutrì il suo rapporto con la moda. La marcia di avvio messa in atto con Christian Dior, fu solo la prima ad essere attivata ai fini dell’incessante ricerca di una propria dimensione all’interno di questo universo, costantemente accompagnata, come abbiamo visto, da un dialogo serrato tra le sue opere e il costume. Esplicativo in questo senso –e indubbiamente il più eminente fra tutti i rapporti intessuti col mondo della moda- fu il sodalizio che si creò in questi anni fra la Fini ed Elsa Schiaparelli. Per inquadrare la stilista entro un panorama cronologico e tematico, non risulterà pleonastico qualche riferimento alla storia della moda. L’appunto è, in particolare, verso il fotografo Cecil Beaton, -artefice, come abbiamo appurato, di un cospicuo numero di scatti all’interno del contesto dei bals masqué-. Egli difatti, rese la sua autobiografia The glass of fashion (1953) un capitale testo di storia della moda: le sue conoscenze e i suoi lavori con i più illustri designer, unitamente ad un frizzante entusiasmo partecipativo rispetto agli eventi per così dire “mondani”, contribuirono a dettare la sua autobiografia, riuscendo a renderla però anche un’affascinante cronistoria del fashion. Riguardo Elsa Schiaparelli, nel suo testo Beaton riflesse entro una sintetica frase l’immagine di come, allora, dovette girare la ruota modaiola, nonché dei termini entro cui la stilista si localizzava entro il suo raggio: «Due donne, prese tra due guerre mondiali, tra l’harem di Poiret e il New Look di Dior, dominarono il campo della haute couture: la Schiaparelli e Coco Chanel». Beaton quindi, assegnò a due donne la paternità creatoria della moda fra le due guerre; è chiaro dunque, come il fashion possedesse a quel tempo un puro sapore femminile, talvolta inebriato dal surrealismo, talvolta più tendendente al minimalismo del quale Coco Chanel si rese portatrice indiscussa. Leonor Fini ha intrecciato un legame significativo con il mondo della letteratura, dimostrando una profonda sintonia con alcune delle personalità più influenti del suo tempo. Nonostante i contatti con André Breton, leader del Surrealismo, il rapporto tra i due è complesso e distante: Fini rifiuta le rigide convenzioni del movimento, preferendo un percorso autonomo che le permette di esplorare liberamente la sua visione artistica. Parallelamente, frequenta intellettuali italiani come Alberto Moravia ed Elsa Morante, instaurando con loro rapporti di amicizia e scambio creativo. Con Elsa Morante, in particolare, nasce un’intensa affinità, testimoniata da un ricco scambio epistolare e da parole cariche di ammirazione, come nella celebre dedica della scrittrice: «Poi viene Leonor. Le finestre diventano luce, le ragnatele tende preziose di nuvole e stelle, i rami secchi doppieri accesi, e la sera una grande serata; perché Leonor (come le ho detto mille volte e come non mi stancherò mai di dirle) unisce in sé due grazie: l’infanzia e la maestà». Questo rapporto, basato su una stima reciproca e una comune sensibilità poetica, si colloca nel fervido contesto culturale romano degli anni di guerra, arricchendo l’universo creativo di Fini con suggestioni letterarie e filosofiche. Anche la frequentazione di Jean Cocteau, con cui condivide il gusto per l’arte visionaria e il simbolismo, sottolinea l’ampiezza del dialogo intellettuale che caratterizza il percorso artistico di Fini. L’Artista ha lasciato un segno indelebile anche nel mondo del cinema, dove ha collaborato e intrecciato legami con alcune delle figure più iconiche del panorama cinematografico del XX secolo. La sua amicizia con Anna Magnani era caratterizzata da una profonda affinità, condivisa anche nella passione per i gatti. Con Federico Fellini, Fini collabora alla realizzazione di costumi per una scena di Otto e mezzo (1963), sebbene non accreditata ufficialmente. Inoltre, il personaggio di Dolores, previsto nella prima stesura di La dolce vita, era ispirato a lei: una scrittrice matura e intellettualmente stimolante, simbolo di guida e riflessione per il protagonista, che Fellini immaginava interpretata da Luise Rainer. Il rapporto intellettuale con Pier Paolo Pasolini è altrettanto intenso. I due condividono un viaggio a Parigi, in visita a gallerie e musei, dove Pasolini rimane affascinato dalla capacità di Fini di cogliere l’essenza delle opere d’arte. Tra le loro conversazioni emerge l’idea di un film, poi mai realizzato, incentrato su un’artista che sfidava le convenzioni sociali e artistiche del suo tempo, e che avrebbe visto Fini come consulente artistica. Anche Luchino Visconti riconosce il talento di Fini, coinvolgendo nella creazione dei costumi per produzioni teatrali e liriche come La Vestale e Il Trovatore. La componente teatrale del suo lavoro non solo sostiene concettualmente la sua ricerca pittorica, nel gioco delle parti tra mascheramento, vestizione e svestizione, ma si concretizza anche nella collaborazione con decine di produzioni teatrali, operistiche, di balletto e cinematografiche. In mostra gli splendidi costumi per Tannhaüser (1963) e gli originali bozzetti per le scenografie del Teatro alla Scala - partner della mostra - a evidenziare una creatività poliedrica, ancora oggi molto influente. La mostra è accompagnata da un accurato catalogo edito da Moebius, che illustra tutte le opere in esposizione. Oltre ai saggi scritti dai curatori della mostra sono inclusi altri studi inediti e originali di specialisti internazionali, come lo storico dell’arte e critico Vanja Strukelj, la storica dell’arte e scrittrice Susan Aberth, il presidente e fondatore della International Society for the study of Surrealism (ISSS) Jonathan P. Eburne, la scrittrice Anna Waltz e l’artista Eros Renzetti. Il catalogo include anche, per la prima volta completo e tradotto in italiano, il testo autobiografico scritto dalla stessa Leonor Fini, che permette un nuovo dialogo tra l'artista visiva e la scrittrice che era in lei, e che consente ai lettori di accedere all’intimità confessionale delle sue parole.
La Mostra è Suddivisa in nove Sezioni :
Sezione 1 Scene Primordiali 
Nel corso della sua carriera, Leonor Fini mantiene un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’interpretazione biografica della sua pittura: se in alcune dichiarazioni respingeva l’idea sostenuta da critici e storici dell’arte, in altre affermava di non essere stata capace di resistere alla tentazione dell’autorappresentazione e della confessione. Con questa premessa apre il percorso espositivo, che raccoglie una selezione di opere emblematiche delle esperienze giovanili vissute dalla Fini, che hanno lasciato un segno nel suo immaginario e che come scene compaiono ripetutamente nella sua produzione fino ad assumere il valore di pilastri concettuali. Ne sono testimonianza opere come Le Bout du monde (Fée à Beltem) (1953) e Voyageurs en repos (1978).
Scena prima: La sfinge – l’altro io
La sfinge è la creatura con cui Leonor Fini identifica sé stessa, come essere ibrido, mutante, potente e travolgente. L’artista incontra la figura della sfinge nella scultura in porfido rosa – un originale portato dall’Egitto – custodita nel Castello di Miramare a Trieste, città che le concede incontri ripetuti con altre figure allegoriche, come le cariatidi o i mascheroni noti come panduri. Creatura ibrida, custode e nemica, la sfinge diventa la figura che con la sua ambiguità e complessità seduce Leonor Fini nella definizione del suo carattere di artista libera da convenzioni e stili.
Scena seconda: L’uomo inerme – morte o sonno
Appena adolescente, Leonor Fini visita l’obitorio di Trieste dove ha la visione sconvolgente di un corpo morto, descritto in seguito come di una bellezza straordinaria in riferimento ai ricchi tessuti, i collari e i fiori con cui la sua famiglia gitana lo copriva e scopriva ritualmente. Nell’opera pittorica dell’artista torna ripetutamente l’immagine di uomini addormentanti e inermi, apparentemente morti - ispirati dalla tradizione pittorica del Cristo morto - comunque succubi della potenza femminile.
Scena terza: Travestimento – mascherarsi per sopravvivere
Nata a Buenos Aires da una famiglia italiana, Leonor Fini si trasferisce a Trieste a soli due anni con la madre, una donna indipendente che la inserisce nei circoli intellettuali della città, e cresce lontana dal padre. È lui a organizzare il rapimento della piccola Leonor Fini, che scappata ai sicari trova un rifugio sicuro nel travestimento: vestita da bambino si aggira per la città, segnando così il suo immaginario.
Scena quarta: Cecità – un’epifania
L’ultima delle Scene primordiali racconta di quando a 16 anni, nel 1923, Leonor Fini guarisce da un’infezione agli occhi che l’aveva costretta alla cecità per due mesi e mezzo. Al risveglio da quel «sogno», Fini sperimenta un’autentica epifania che la convinse a intraprendere la carriera artistica. La metafora della cecità come chiamata a una visione superiore divenne una delle massime del surrealismo, influenzando profondamente il suo sviluppo. Questa esperienza diede origine alla sua dedizione ossessiva alla pulsione visiva e all’eccezionale sensibilità tattile che emerge nella sua opera, evidente nelle carnagioni, nei tessuti e nelle texture: tratti di chi ha affinato gli altri sensi durante una temporanea privazione della vista.
Sezione 2 Gli Esordi di un Mondo
La seconda tappa della mostra approfondisce il rapporto di Leonor Fini con la città cosmopolita di Trieste, le sue architetture e la vita letteraria che l’animava, e i futuri sviluppi della ricerca dell’artista, influenzati dal contatto con Milano e la sua cerchia di artisti e con Parigi e il movimento Surrealista. A Trieste l’artista incontra intellettuali come James Joyce e Rainer Maria Rilke, che lasceranno un’impronta duratura sul suo immaginario, mentre a Milano la partecipazione alla Seconda Mostra del Novecento Italiano a fianco di Achille Funi, Giorgio De Chirico e Mario Sironi colloca le sue prime indagini pittoriche nell’orbita della ricerca metafisica e della nuova oggettività. L’approdo a Parigi si rivela prolifico e decisivo per il suo operato, grazie al contatto con gli esponenti del movimento Surrealista, Max Ernst, Paul Éluard, Salvador Dalì, Man Ray, André Breton, che la porta a dipingere capolavori come L’Arme blanche (1936) o Autoportrait avec Charlie Holt (1939).
Sezione 3 Il Confine del Mondo.
Un Profumo Di Morte La terza sezione espositiva apre con il dipinto Le Bout du monde (1948), opera cardine della carriera di Leonor Fini che introduce in mostra il tema del macabro e del minaccioso, ricorrenti in tutta la produzione dell’artista e rivelatori di quella “pulsione di morte” che ne connota l’intera esistenza. Nel dipinto, Leonor Fini si ritrae immersa nell’acqua fino al busto, in un contesto apocalittico come unica sopravvissuta, sovrana di un nuovo mondo popolato da docili teschi animati da globi oculari. Il pubblico incontra opere precedenti al 1948, come La Racine aux coquilles d'oeufs / Visage (1943) o L’Ange de l’anatomie (1949), dove l’angelico e il demoniaco convivono, poste in confronto a tele risalenti agli ultimi decenni di vita dell’artista, come testimoniano Qui est-ce? (1991) e Peut-être un divertissement (1995), che in un gioco di ombre, assenze e presenze rivelano un mondo popolato da lutti e spettri. Le atmosfere macabre che connotano la sua pittura sono emblematiche dello studio di Fini sul corpo e la sua decadenza con il trascorrere del tempo. L’attrazione di Leonor Fini per questi temi è suggerita da alcune letture come La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz e le poesie di Edgar Allan Poe, che infondono alla pittura di Leonor Fini un carattere romantico e decadente.
Sezione 4 Liaisons
Spazi per Forme Alternative di Sessualità e Famiglia L’attrazione di Leonor Fini per le trasgressioni che rivelano gli oscuri legami tra sesso, morte e promiscuità viene qui ripresa e svelata attraverso una selezione di opere che portano alla luce nuovi metodi di ribellione alle forme di moralità stabilite: Dans la tour (1952), L’Alcôve (1941) o Rasch, Rasch, Rasch, meine Puppen Warten! (1975), in modo volutamente disorientante, raccontano storie intime e domestiche, ricche di sfumature di amicizia, fratellanza, dipendenza sessuale e indipendenza. Cresciuta in una famiglia libera e anticonformista, senza padre e senza aver frequentato una scuola cattolica, nella sua vita Fini ha dato spazio a forme di relazione in cui i ruoli non sono rigidamente definiti. Le scene di famiglia e coppia trovano la loro ambientazione ideale nella camera da letto: luogo intimo e sociale di rivelazione, palcoscenico che accoglie i più inaspettati incontri.
Sezione 5 Narciso Impareggiabile . Androginia e Visione del Corpo Maschile
Leonor Fini nella rappresentazione del desiderio umano sovverte i ruoli tradizionali e patriarcali del pittore e della modella, e sfida i ruoli di genere. Lo sguardo sul corpo maschile è quello dominante di una donna che non teme di sfidare le convenzioni. Sono questi i temi esplorati nella quinta sezione e testimoniati da opere come Narcisse incomparable (1971) o Portrait de Nico Papatakis / Nu (1942), le cui ambientazioni evocano autori come Sandro Botticelli o Piero di Cosimo riletti dall’occhio ambiguo di Fini. Quando a puntare lo sguardo sull’uomo è un altro uomo, Leonor Fini lo carica comunque di desiderio, dimostrando la sua ricerca di un «mondo di sessi non differenziati, o poco differenziati». Le opere esposte rivelano visioni audacemente queer e il potenziale sovversivo dell’opera di Leonor Fini nel suo tempo.
Sezione 6 Gli Archetipi del Potere Femminile.
Dalle Amazzoni alle Dee La rappresentazione del corpo femminile è altrettanto rivoluzionaria e distintiva dell’opera di Leonor Fini. Femme assise sur un homme nu (1942) o Femme en armure II (1938), qui esposti, rivelano donne dal corpo d’armatura, tutt’altro che vulnerabili o languide. Protagoniste e non muse, le figure femminili di Leonor Fini rappresentano una forza primordiale e indomabile, portando l’attenzione sui temi di genere, identità e autoaffermazione.
Sezione 7 Rituali, Cerimonie e Metamorfosi 
Nell’opera di Leonor Fini gioca un ruolo centrale anche l’interesse per gli aspetti rituali e i fenomeni di metamorfosi che danno origine a creature ibride. Il pubblico incontra Asphodèle (1963), rappresentazione metaforica della dea greca Persefone; Stryges Amaouri (1947), dove l’artista, autoritratta come una strega, veglia insieme a una creatura ibrida su un giovane addormentato; o ancora La Cérémonie (1960), un rituale magico che evoca gli spiriti.
 
Sezione 8 Scena o Boudoir
Tra Pubblico e Privato Spaziando oltre l’universo pittorico, l’ottava sezione indaga i rapporti di Leonor Fini con i grandi intellettuali e creativi del Novecento: da Leo Castelli, per cui progetta i mobili per una mostra nella sede parigina della sua galleria - esposto qui il prezioso Armadio antropomorfo - a Elsa Schiaparelli per cui famosamente disegna la boccetta del profumo Shocking. La componente teatrale del suo lavoro non solo sostiene concettualmente la sua ricerca pittorica, nel gioco delle parti tra mascheramento, vestizione e svestizione, ma si concretizza anche nella collaborazione con decine di produzioni teatrali, operistiche, di balletto e cinematografiche. In mostra gli splendidi costumi per Tannhaüser (1963) e gli originali bozzetti per le scenografie del Teatro alla Scala - partner della mostra - a evidenziare una creatività poliedrica, ancora oggi molto influente.
Sezione 9 Persona 
Chiude il percorso espositivo di Io sono Leonor Fini una raccolta di ritratti fotografici dell’artista, rivelatori del suo gusto per i travestimenti e le maschere, e di fotografie d’epoca in cui la stessa Fini posava con l’intenzione di auto-rappresentarsi. Il pubblico scopre il personaggio Leonor Fini così come immaginato e costruito dall’artista, e la sua ossessione all’autorappresentazione attraverso vari mezzi e tecnologie, anticipando i fenomeni sociali attuali. L’ultima sala della mostra, un ambiente che gioca con specchi, fotografie e scritte, accoglie il dipinto Autoritratto con il cappello rosso che rappresenta un “saluto” simbolico di Leonor Fini al pubblico, invitato a identificarsi con la sua figura e a scattare una foto per condividerla sui social con l’hashtag #iosonoleonorfini.
 
Palazzo Reale di Milano
Io sono Leonor Fini
dal 26 Febbraio 2025 al 22 Giugno 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.30
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 22.30
Lunedì Chiuso
Foto Allestimento Mostra Leonor Fini dal 26 Febbraio 2025 al 22 Giugno 2025 Palazzo Reale di Milano -  courtesy Palazzo Reale di Milano