Giovanni Cardone Ottobre 2024
Fino al 9 Febbraio 2025 si potrà ammirare a Palazzo Reale Milano una retrospettiva dedicata ad Enrico Baj - BAJ. BajchezBaj a cura di Chiara Gatti e Roberta Cerini Baj. L’esposizione è Promossa dal Comune di Milano-Cultura e prodotta da Palazzo Reale in collaborazione con Electa. Uno dei maestri della neoavanguardia italiana e internazionale, con un’ampia retrospettiva studiata per ripercorrere tutti i temi e i soggetti della sua lunga e poliedrica esperienza. Baj torna a Palazzo Reale nella Sala delle Cariatidi, a cent’anni esatti dalla nascita, a dodici anni dall’esposizione, nella stessa sala, de I Funerali dell’anarchico Pinelli, che per la prima volta sono integrati in un percorso antologico e in un dialogo puntuale con altri lavori del maestro. In mostra quasi cinquanta opere distillate in un arco temporale che dai primi anni Cinquanta giunge all’alba del Duemila, attraversando le fasi di ricerca e adesione ai movimenti del tempo: dal recupero del Dadaismo e del Surrealismo ai modi dell’arte Informale, dalla vicinanza al gruppo nordico di Co.Br.A alla genesi del movimento dell’arte Nucleare, che Baj fondò a Milano con Sergio Dangelo nel 1951. Partendo dall’astrazione gestuale degli esordi, passando per la nascita delle sue larvali figure antropomorfe e per l’eruzione delle montagne liquefatte nel corpo magmatico dei Generali, si tocca la parodia delle invasioni extraterrestri per approdare all’esercito dei Meccano e al mondo animato delle cassettiere e dei trumeau. I suoi personaggi, entrati nell’immaginario comune, le Dame e i Generali, gli Ultracorpi, gli Specchi, i Mobili e i mostri dell’Apocalisse animano una giostra di creature frutto dell’universo surrealista e insieme fantascientifico di un autore che ha fatto dell’ironia e del grottesco un grimaldello per scardinare il conformismo borghese e schierarsi contro ogni forma di potere costituito. La sua celeberrima estetica del ninnolo e della passamaneria, delle nappe e dei bottoni lucidi come mostrine sui petti tronfi dei suoi militari blasonati, è il filo conduttore destinato a cucire, per sezioni, i temi giganteschi della poetica di Baj, liberati da una rigida sequenza cronologica o di genere, con continui rimandi fra arte e letteratura, colori e parole, seguendo una sorta di sceneggiatura che, anche in sede di allestimento, suggerirà allo spettatore un tempo e uno spazio teatrali. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Enrico Baj apro il mio saggio dicendo
: La cultura postbellica europea e nordamericana è invasa da “neo” e “post”. Secondo molti critici le seconde avanguardie (o “neoavanguardie”) non furono altro che una ripetizione dei movimenti storici d'avanguardia, magari con la stessa volontà di rottura, ma indubbiamente con meno verve; dagli anni Sessanta in poi gli artisti cercarono di riannodare il filo che si era interrotto a causa delle due guerre, assimilando esperienze e pratiche già di successo. Riscoprirono alcuni degli espedienti delle avanguardie storiche, quali l'analisi costruttivista dell'oggetto, la pittura monocroma, l'immagine-fotomontaggio, il collage e la critica dei modelli espositivi tramite il ready made, inserendoli però in un contesto contemporaneo. Come ricorda Foster, «quella dei ritorni storici è una vecchia questione nella storia dell'arte; anzi, sotto forma di rinascimento dell'antichità classica, ne è uno dei fondamenti». Se gli anni Trenta simboleggiarono il momento culmine del modernismo, gli anni Sessanta segnarono invece l'epoca del postmodernismo. Postmoderno è ciò che segue il moderno e l'avanguardia storica, rappresenta un'epoca, un periodo di nuovo inizio dopo la fine della modernità; è la cultura di una società di consumatori, nella quale le merci hanno un'importanza fondamentale perché lo stesso mercato è divenuto un'autorità culturale in grado di legittimare o meno un autore. Storicamente il modernismo è stato identificato con le avanguardie storiche, a loro volta associate a un concetto di originalità e antagonismo con le poetiche precedenti dell'accademismo.
Il loro programma era demolire l'arte e la sua tradizione: con essa e tramite essa è cambiata l'idea di opera, non più concepibile. Il postmodernismo al contrario, non nega ciò che lo ha preceduto, ma lo assimila e lo rielabora nel proprio stile. Fin dal Rinascimento un'opera d'arte era apprezzata non tanto per la sua originalità, quanto per sua la capacità di fare riferimento alla tradizione. La storiografia rinascimentale stabilì un canone di valori e un modello di bellezza ideale, al quale le opere d'arte dovevano attenersi: per Vasari l'arte doveva proseguire verso un classicismo universale che rappresentava la misura per valutare le opere di epoche successive. L'innovazione era contemplata solo come conseguenza implicita del mutare delle condizioni del lavoro artistico e non come fine perseguibile. Di contro, nell'arte moderna l'essere legati a un contenuto particolare o a un determinato tipo di raffigurazione non è più obbligatorio e anzi costituisce un concetto superato, poiché l'arte è divenuta nel tempo uno strumento libero che l'artista utilizza anche con fini introspettivi. Mentre il modernismo simboleggiava una reazione e un tentativo di resistenza all'emergere dilagante della società di massa e della massificazione, il postmodernismo sembra essersi quasi rassegnato nei loro confronti, accettando di venire completamente inglobato nei loro meccanismi. Esso rappresenta una fase storica che occupa quasi tutta seconda metà del XX secolo, durante la quale vi sono state numerose riconfigurazioni materiali e soprattutto culturali, che appaiono come una perdita dei punti di riferimento, quasi in preparazione di una rivoluzione tecnologica. Il suo inizio va ricercato nell'acquisizione del potere rappresentativo: il movimento Concettuale è stato il momento di massima sublimazione ideologica, la prima corrente che si è opposta alle regole del moderno e che ha segnato un punto di non ritorno. In questi anni si è delineata una frattura fra l'ideologia dell'arte e il concetto di “arte per l'arte”; se nel moderno vi è stata la corrosione dell'estetica, nel postmoderno si passa all'esternazione dell'apparenza. Nella società degli anni Settanta l'arte continua a essere un manifesto di etica sociale, ma a seguito del fallimento di determinate ideologie politiche, assume forme e contenuti differenti. Le opere di Kosuth ispirarono intere generazioni di artisti e l'arte Concettuale divenne la rappresentante del portato teorico dell'arte. La pittura è una delle arti in cui il rapporto tra modernismo e postmodernismo assume una valenza chiarificatrice. Il modernismo cercava l’essenza dell'arte: in pittura ciò portò all'eliminazione della rappresentazione figurativa, accusata di eccessiva teatralità, a favore di un ambiente più introspettivo e autocritico. Al contrario il postmodernismo ritiene che l'arte non possa isolarsi dalla quotidianità ed evitare connessioni o scambi con il mondo reale: la teatralità, la rappresentazione e il racconto sono le modalità di articolazione del vissuto umano e quindi simboleggiano una materia che la pittura non può ignorare. A partire dall'architettura il postmodernismo si diffonderà in tutte le arti: in pittura vi sarà il recupero del figurativo, in letteratura l'abbandono degli sperimentalismi, il ritorno dei generi e la commistione tra arte colta e forme più popolari. Il comune denominatore di tutte queste tendenze sarà la rinuncia al dogma fondamentale dell'avanguardia, ovvero la necessità di essere innovatori ad ogni costo. Il postmodernismo abolisce la gerarchia delle avanguardie storiche, secondo la quale ciò che era nuovo doveva inevitabilmente sovrapporsi al passato, rendendolo di conseguenza inutilizzabile e svuotandolo di significato.
All'ordinamento fondato sul tempo, tipico del modernismo, sostituisce la valorizzazione dello spazio, privilegiando la performance, che ora rappresenta una forma d'arte vera e propria. Come già ricordato, essa costituisce un evento determinato, che accade in un momento prestabilito, in una sorta di presente perpetuato; il luogo, i partecipanti, le condizioni ambientali in cui tutto avviene diventano le componenti caratterizzanti l'evento stesso. Nella cultura della postmodernità la produzione di linguaggi estetici si inserisce nella perdita di “valore d'uso” e nella riduzione radicale delle opere a “valore di scambio”, in una società votata verso l'esteriorità. Quando Duchamp presentò i suoi ready made negli anni Dieci del Novecento, pose la questione del valore estetico, di cosa contasse veramente nell'arte, suggerendo che in un contesto borghese il valore dipendesse dall'autonomia dell'oggetto, ovvero dalla possibilità di separarlo dal mondo che lo circondava. Da una parte l'opera viene definita secondo il suo valore di scambio (o per Benjamin, l’Austellungswert”, il valore di esponibilità), come accade per una merce; dall'altra essa è definita in termini di valore d'uso. Questo conflitto tra valori rappresenta il punto cruciale dell'ambiguità critica messa in gioco dai ready made. L'arte nel periodo postmoderno favorisce gli investimenti economici, inducendo gli artisti più “integralisti” a isolarsi per evitare compromissioni e perdite di significato causate dalla “contaminazione” con il mercato. Divenuta particolarmente interessante sotto il profilo economico, tanto da rappresentare un vero e proprio investimento monetario, l'arte postmoderna ha progressivamente liberato i propri dogmatismi alla ricerca del successo commerciale e verso la metà degli anni Settanta ha posto fine alle ideologie politiche, iniziando a puntare verso il mercato. L'ideologia sottesa all'azione dell'arte nelle avanguardie storiche e nelle neoavanguardie ha spinto il portato comunicativo verso una radicalizzazione dell'interventismo attivo del singolo individuo; l'arte postmoderna si è posta tra mercato e creazione, tra artista e fruitore, rimanendo però sempre saldamente ancorata al mercato. Il postmodernismo esaurì la propria carica come concetto egemone a livello culturale negli anni Novanta, e ora per indicare la contemporaneità si cercano nuove definizioni, come “era post-umano”, in riferimento ai progressi scientifici e tecnologici e all’intelligenza artificiale. Nel tempo nei confronti dell'avanguardia è stato perpetrato un esproprio di tecniche e linguaggi, ormai da tempo integrati (contro la loro natura) nei sistemi di comunicazione di massa, che ne abusano continuamente; come si vedrà in seguito, il destino di mercificazione e russificazione incombe sull'avanguardia. L’attività artistica del milanese Enrico Baj comprende «mezzo secolo di avanguardie», per citare il sottotitolo delle Conversazioni con Enrico Baj di Luciano Caprile, da lui così motivato: «l’avanguardia è il clima di fondo che permea ogni discorso, ogni pensiero di Enrico Baj» . L’avanguardia per Baj ha infatti un significato metastorico quando il concetto viene riferito a quella pratica artistica che non fa della novità un valore assoluto ma che si mette all’insegna dell’immaginazione. Il Surrealismo per Baj è stato senza dubbio il «movimento più importante del secolo, vuoi per la quantità e la levatura degli aderenti, vuoi per le radici lontane da cui deriva, vuoi per le sue proiezioni, tuttora vitali attraverso l’automatismo e le varie figurazioni simboliche dell’immaginario» . Attraverso André Breton, conosciuto a Parigi nel 1962, che in un saggio del 1963 a lui dedicato interpreta l’«aspetto ironico di Baj» come «una maschera che camuffa un impegno costante contro ogni forma di distruzione e di oppressione dell’uomo sull’uomo» , Baj si inserisce nel «flusso della fantasia» che egli individua nell’arte di tutti i tempi con quell’«ironia dissacratoria» e quel «continuo rinnovarsi dell’espressività» che secondo la moglie, Roberta Cerini Baj, hanno caratterizzato la sua opera nei vari periodi. Il Surrealismo è per Baj anche legato intrinsecamente alla patafisica grazie all’anticipatore Alfred Jarry, che ha insegnato all’artista milanese fondatore nel 1963 dell’Institutum Pataphysicum Mediolanense, in presenza tra l’altro di Raymond Queneau , che quel «che non può fare la ragione positiva, l’impossibilità cioè di risolvere i problemi dell’umanità, è invece verificabile in patafisica mediante le soluzioni immaginarie». Si tratta dunque di un’interpretazione «propositiva» dell’«accettazione del paradosso e dell’assurdo», e quindi di «una sorta di anarchia della scienza e del potere scientifico». La sovversione patafisica si dirige non solo contro i “dogmi” o “paradigmi” della scienza che Baj riporta all’epistemologo Thomas Kuhn, ma anche contro l’archetipo del potere, l’Ubu Re di Jarry, che va combattuto con l’ironia, definita da Baj «uno dei pochi sistemi di difesa che i popoli hanno, che l’uomo comune ha». Sarà la patafisica “spirale” che parte dall’ombelico di Ubu Re a determinare la predilezione di Baj per gli arabeschi e i ghirigori della fantasia, e a ispirarlo nelle sue battaglie contro «l’estetica dell’angolo retto». Ma anche a tener congiunti in un’unica arte il gioco e la «resistenza all’oppressione in quanto tale», per Baj non esiste contraddizione tra «impegno» e «patafisicità» . Il primo gesto avanguardistico di Baj è la fondazione a Milano del Movimento Nucleare insieme a Sergio Dangelo nel 1951. Questa iniziativa, che secondo Baj stesso a distanza di anni peccava di «avanguardismo facile», costituisce invece anche una costante nell’evoluzione di un’arte volta al paradosso in senso ironicocritico. Sotto la voce Movimento nucleare scrive Baj in Ecologia dell’arte.Il Movimento nucleare che produce vari manifesti avanguardistici è stato studiato ampiamente dalla critica internazionale nel contesto dell’arte nucleare nazionale e globale e della critica dell’avanguardia. Pierpaolo Antonello contestualizza il nuclearismo di Baj e Dangelo all’interno di ciò che chiama il «riduttismo apocalittico» degli anni Cinquanta, ovvero la tendenza sia in Italia che all’estero di «“ridurre” la preoccupazione per questa minaccia da una parte, mettendo in risalto le potenzialità emancipative e materiali dell’energia atomica, dall’altra cercando di comprendere le implicazioni tecniche, belliche e geopolitiche di questo nuovo oggetto». La limitazione della pittura nucleare di Baj a una fase specifica nell’immaginario apocalittico non tiene però conto dell’evolversi della sua opera che porta la «denuncia» contenuta nel Movimento nucleare direttamente a I funerali dell’anarchico Pinelli del 1972 e, dopo lo scoppio di Chernobyl nel 1986, all’allestimento all’interno di un laboratorio artistico per il Centro Studi Libertari della performance Re Ubu a Chernobyl, ovvero da Pinelli all’Apocalisse. Viaggio di gruppo con Enrico Baj tra mostri ordinari e straordinari. Tale continuità di temi all’interno di un’arte civile e combinatoria testimonia di un’interpretazione ontologica dell’avanguardia che rimane costante in Baj e che anch’essa può essere riportata agli anni Cinquanta. Si tratta, secondo Sven Lütticken, di un’interpretazione dell’epoca nucleare postbellica nei termini di una “tragedia esistenziale” più che in quelli di un soggetto politico, e in quanto tale di una concezione profondamente umanistica dell’opera d’arte, che resiste nonostante la minaccia della distruzione totale della cultura e della vita. Alla crisi dell’estetica, resa ancora più acuta dalla minaccia nucleare, Baj risponde dunque con un’estetica che diventa pratica e teoria della crisi. In altre parole, come sostiene Gabrielle Decamous, reagendo a una tecnologia con una bipolarità così radicale come quella nucleare, gli artisti non solo vengono confrontati con quest’ambivalenza tecnologica, ma si sfaldano anche le categorie estetiche binarie di autonomia modernista da una parte e pratiche politicamente impegnate dall’altra. Tale crisi all’interno dell’eredità modernista e della successione progressiva delle avanguardie costituisce allo stesso tempo il potenziale critico per mettere in questione la nozione di progresso nelle scienze . Se si può percepire una “svolta” nell’avanguardismo di Baj a partire dal 1959 , essa è dunque riconducibile sia alle sue riserve nei confronti del Situazionismo, sia alla mercificazione dell’avanguardia, che egli identifica con la Pop Art americana e con la “Factory” di Andy Warhol, campione della filosofia del “commercio” e del “cinismo” nell’arte. La traiettoria di Baj procede invece lungo la linea sperimentale dell’“opera aperta” con cui Umberto Eco nel 1962 teorizzava l’arte informale, e lungo la linea metastorica del continuo riposizionamento dell’opposizione artistica che porta Baj infine alla conclusione, nelle conversazioni con Caprile, che «l’unica posizione possibile di avanguardia oggi è l’inattualità». Quest’ultima posizione paradossale può essere associata a quella di Edoardo Sanguineti, che contro la tesi della normalizzazione dell’avanguardia poneva nel 1976 quella della “nuova temporalità” di un’avanguardia «pienamente consapevole della storicità del museo e della storicità della propria rivolta». Baj incontra Sanguineti a Milano nel 1951 quando questi stava scrivendo Laborintus e lui stesso era alle prese con la prima mostra di pittura nucleare. I due artisti condividevano allora la stessa posizione in bilico tra utopia e distopia riguardo ai possibili effetti dell’energia nucleare sui campi della scienza e dell’arte. Da qui nascerà una lunga collaborazione sperimentale e “resistente” che, dopo la pubblicazione combinatoria nel 1968 di Baj: The Biggest Art-Book in the World, ispirato a Cent mille milliards de poèmes di Queneau del 1961, continuerà con la messa in scena “ironica”, letteraria e pittorica, delle composizioni Apocalisse e Berluskaiser del 1994. Infatti, l’unico significato che può avere per Baj la rivisitazione postmoderna del «passato-museo» è insita nell’«ironia» della citazione come esposta da Eco nelle postille a Il nome della rosa . La sua apertura verso la collaborazione interartistica nonché la predilezione per il collage o l’arte dell’assemblaggio fanno infine di Baj un erede paradigmatico di un approccio interdisciplinare dell’avanguardia, non più riconducibile a categorie o schemi ideologici ma che invece si costruisce nella sperimentalità dell’opera aperta, nella critica dei parametri normativi e nella freschezza e lo zelo della confidenza iconoclasta . Dunque, il progetto di Baj è riassumibile nella messa in pratica di «una ecologia dell’arte e dell’opera d’arte, che si pongono più che mai come metafora e simbolo del nostro immaginario, della nostra fantasia e, in definitiva, della nostra libertà». Ne è un esempio la composizione in progress Apocalisse in cui la metafora dell’immaginario si fa «teatro» e così si sottrae alla cinica logica del mercato. Quest’opera manifesta «un forte impegno civile contro ogni tipo di aggressività» che la mette in continuità con i “generali” degli anni Sessanta e le grandi opere I funerali dell’anarchico Pinelli avvenuti nel 1972 e Nixon Parade (1974), con le quali forma un trittico a cui si aggiungerà Berluskaiser nel 1994. Questa serie mette in crisi la massima libertaria sessantottina dell’immaginazione al potere, e quindi può essere analizzata come la risposta “post-Sessantotto” di Baj a una condizione che egli analizza sulla scia di Gregory Bateson nei termini di un inquinamento mentale che pervade anche «i territori dell’immaginario». Il Sessantotto segna per Baj non tanto un momento di liberazione ma un episodio di repressione che porterà avanti una storia di aggressione e di oppressione sostenuta sia dalla scienza che dall’arte. Negli anni Sessanta l’artista lavora ai “generali” che «rientrano nel tema della mascherata sociale nel modo più critico, come denuncia degli abusi di potere a opera delle più alte gerarchie militari» . Si scontra in varie occasioni con diverse forme di censura, tra cui il sequestro nel 1961 del “grande quadro antifascista collettivo” esposto durante l’esibizione-manifestazione a Milano Anti-procès 3, allestita su iniziativa di Alain Jouffroy e Jean Jacques Lebel in protesta contro la guerra sporca in Algeria, e «perseguitata per offese alla morale corrente, alla religione e a capo di stato estero» e la censura dei generali alle biennali di São Paulo del 1963 e di Venezia del 1964. Quella della premiazione di Rauschenberg alla Biennale di Venezia del 1964 è inoltre per Baj la prova della collusione tra arte e potere: l’avanzamento della Pop Art lo interpreta come un «affare di Stato protetto addirittura dai servizi segreti». Il grande quadro I funerali dell’anarchico Pinelli del 1972, anch’esso oggetto di censura, deve essere interpretato alla luce di questo contesto repressivo.
Con i riferimenti al dipinto del futurista Carlo Carrà, I funerali dell’anarchico Galli (1911) e all’opera profetica Guernica di Picasso, Baj si inserisce nella tradizione anarchica delle avanguardie storiche, ma il manifesto che accompagna l’opera introduce anche un’interruzione e uno spostamento di direzione. Mentre i manifesti precedenti pubblicati tra il 1952 e il 1959 si iscrivono ancora pienamente nella retorica del “gesto” avanguardistico, Cosa è un quadro dà una risposta d’artista allo sgretolarsi dell’autonomia dell’arte con l’«espansione propiziatrice della sintesi arte-vita che, come quella clorofilliana, darà, speriamo, nuovo ossigeno alle nostre menti inquinate», e con un quadro che, come già Guernica, si scosterà «dalla generica spinta alla identificazione gestuale con la vita» e che si farà invece «rappresentazione» e «testimonianza» del fatto realmente accaduto. Gillo Dorfles, a proposito del rapporto tra arte e società nell’opera di Baj, descrive il periodo post 1968 come la svolta nell’arte verso «un’esaltazione di fermenti egocentrici o addirittura “autistici”, di più o meno approfondite indagini psicologiche o psicanalitiche» mentre mancano «operazioni» che valorizzino «l’assetto sociale», a eccezione di Baj: «Eppure c’è un artista italiano – uno dei più narcisisti, dei più giocosi, dei più sperimentali, e, in apparenza, dei più “frivoli” – che ha tratto un notevole impulso e una notevole carica creativa dalla situazione sociopolitica in cui viviamo». Tale coerenza sociale deriva anche dal senso di apocalisse che come si è visto accompagna l’artista già a partire dal Movimento nucleare, motivo per cui Eco inserisce il manifesto del 1959 nel compendio all’Apocalisse di Baj. Ricorda Jan van der Marck che Baj, in un’intervista con Ellen Wardwell nel 1977, che aveva già accennato all’opera in preparazione. In alternativa alla dialettica “arte per arte” e “arte impegnata”, Baj propone la “mostruosità” dell’arte. È illustrativa la sua critica verso artisti e critici che scambiano l’autoreferenzialità dell’arte con l’incidere sulla realtà paradigmatica in questo senso la critica espressa da Baj verso i fenomeni della pseudo arte ecologica di Christo, Alberto Burri e dell’Arte Povera e con il valore di mercato . Altrettanto feroce è la sua critica verso quell’arte che si identifica con l’apocalisse da contrastare: l’arte autodistruttiva secondo Baj è un vicolo cieco che può anche degenerare in esiti perversi. Invece la voce Mostri e anamorfosi nel dizionario artistico Ecologia dell’arte contiene quell’idea del dualismo dei significati con cui ama giocare Baj: in sintonia con la patafisica di Jarry, l’artista considera il mostro «il segno di un processo che, dando libero corso a tutte le possibilità, mette in pericolo le certezze». L’apocalisse pullula di mostri che sono stati interpretati dalla critica come costitutivi dell’ambiguità dell’avanguardia di “protesta” e di “gioco” di Baj . Entra così in scena la categoria dell’eterogeneo, elemento già inerente al collage che viene legato non solo alla qualità dell’opera stessa ma anche al suo allestimento in continua mutazione. Così facendo Baj affranca l’opera d’arte dal museo e l’inserisce nella sfera della vita, combattendo allo stesso tempo il mostro della “morte dell’arte” e della «morte generalizzata senza salvezza conseguente» con cui Edgar Morin identifica «L’Apocalisse di terzo tipo» a cui appartiene anche l’Apocalisse di Baj. La sua, infine, è “l’apocalisse critica” attribuitagli da Eco nel suo saggio dedicato all’opera. Eco distingue tre sensi nel pensiero apocalittico. In conclusione, l’avvicinamento al teatro e il discostamento dallo “spettacolo” di Baj è un ulteriore passo verso la “messa in movimento” dell’avanguardia, e può essere considerato l’elemento più innovatore dell’apocalisse “critica” di Baj. Con le sue composizioni l’artista invita a riconsiderare il “post” come il sentirsi postumi alla salvezza e allo stesso tempo essere eredi di una «estrema libertà creativa» che è la «forza dell’arte moderna». Infine voglio raccontare della nascita e dello sviluppo del Movimento Nucleare attraverso una selezione di opere firmate dai fondatori e dagli artisti che con loro collaborarono. e della seconda fase nucleare, in cui si accentua la materialità organica della pittura di Baj. Ma è Luigi Castellano a dettare il passo successivo, promuovendo nel 1958 l’omonimo gruppo formato da giovani artisti napoletani: Biasi, Del Pezzo, Di Bello, Fergola, Luca, Persico, e pubblicando nel giugno dello stesso anno il primo manifesto collettivo, accolto “in un clima di sgomento, di ostilità e di scandalo”. Punti di riferimento esterni alla città rimangono Baj e il gruppo nucleare, trovando inoltre una sponda utile e prestigiosa nella rivista Il Gesto, cui Biasi collabora negli stessi anni. Altro momento chiave giunge nel gennaio 1959, quando la mostra gruppo ’58+Baj alla galleria S. Carlo l’unica galleria che sostiene il gruppo, come viene sottolineato e il parallelo Manifeste de Naples, sanciscono definitivamente il connubio artistico tra la sperimentazione napoletana e quella nucleare, guardando contestualmente alle esperienze di Phases a Parigi e di Edda a Bruxelles: non a caso tra i corrispondenti di Documento Sud compaiono proprio Edouard Jaguer e Jacques Lacomblez, direttori delle due riviste. Contestualmente, è chiaro il ruolo strategico che in Italia svolgono periodici come i già citati Il Gesto e L’esperienza moderna, che non a caso condividono con la pubblicazione napoletana contraddistinta però da una maggiore “intransigenza” e autoreferenzialità autori e artisti, e rimandano nelle pagine pubblicitarie alle stesse riviste internazionali menzionate da Documento Sud, a sua volta posto tra le “riviste raccomandate” da Il Gesto. La rivista diretta da Castellano, in tale contesto, si propone di essere “il ponte” tra varie esperienze, “servendosi soprattutto (e non è un paradosso), di molte inedite tradizioni locali e del materiale di “colore” del vecchio Sud”, cui va aggiunto un certo orientamento generale verso tutto quello sperimentalismo centro-europeo (dalla seconda “vague” surrealista ai “Cobra”, ai “nucleari” ecc.) il quale sottolinea una certa aspirazione universale alla più spregiudicata libertà delle forme, così come è facilmente riconoscibile nel programma dell’avanguardia napoletana (e quindi nel suo organo) una ben precisa simpatia verso tutti i tentativi di instaurazione di una nuova infanzia figurativa (seconda una riscoperta in chiave “magica” del repertorio figurale).
Così come vengono dichiarate le fonti ispiratrici, nella mappa culturale redatta all’interno di Documento Sud sono ben chiari anche i poli negativi e i riferimenti artistici da cui differenziarsi. È così che Mario Persico, in “Prima idea per una etica dello scandalo”, invita a superare le “ricette alla Fautrier o alla Wols” che portano ad allontanarsi da una adesione epidermica alla realtà, uccidendo “ogni percezione e sintomologia esistenziale”, e sostenendo invece “una mostruosa unità di pensiero”. Il pericolo, continua Persico, è di “schematizzare delle sensazioni”, riducendo “in formula ogni mistero Ogni cosa è registrata, lo stupore quasi non esiste, ogni immagine ha il suo freddo cifrario.”. La “condanna” di Wols e Fautrier nasce ovviamente dalla necessità di prendere le distanze da un tipo di pittura che, per le crettature della superficie e l’immersione materica del colore, avrebbe potuto essere avvicinata alle sperimentazioni degli artisti napoletani, che invece evidenziavano orgogliosamente la collaborazione con l’ambito nucleare, arricchito da risonanze surrealiste francesi e da un empito panico soggettivo unito alla riscoperta di una materia pittorica pulsante. Ne è chiaro esempio l’articolo “valore delle cose” , dello stesso Mario Persico, che si serve della pittura per spiegare il testo e viceversa, in un dialogo tipografico che costituisce uno dei tratti distintivi di Documento Sud. Gesto pittorico e scavo euristico procedono di pari passo, Persico si concentra sulla valorizzazione e riscoperta di “presenze paleontologiche ancora palpitanti” che progressivamente si impongono sulla superficie dell’opera, dando luogo a un incessante susseguirsi di “Fatti emozionali” enigmatici e sorprendenti di cui percepisco soltanto il fascino, Fatti o Cose che io definisco presenze ancestrali. Un naso, una bocca, un braccio, un organo genitale, o qualsiasi altra cosa può trasformarsi in un essere avente una propria “spina dorsale”. Siamo in effetti sempre all’interno di una dimensione figurativa che viene allentata e fratturata, percorsa da scoppi di colore, ma che pure resiste e riemerge. È una concezione che trova significativamente una stretta corrispondenza con le “immagini attive” teorizzate da Jaguer nell’articolo “Matiere + Mouvement = Feu” pubblicato nel primo numero del Il Gesto giugno 1955. Il critico francese invita gli artisti a creare delle immagini che sorgano dall’immediato confronto con il fluire della vita, liberando l’autore dalle costrizioni socio-culturali imperanti. Una tale volontà artistica non può che confliggere con un altro indirizzo coevo, cioè gli ultimi esiti dell’Informale, oggetto di specifici attacchi sia su Il Gesto che su Documento Sud: in particolare nel contributo “Così come vi furono un tempo dei poeti maledetti.” di Edouard Jaguer per quanto riguarda il primo; nell’articolo “invettive” di Guido Biasi e nel commento di Toni Toniato dedicato a Sergio Fergola per quanto riguarda il secondo. In particolare l’articolo di Jaguer, pur risalente al 1957, sembra funzionare da cornice di quanto emerso fino ad ora, affrontando una ricostruzione più ampia dello sviluppo storico artistico coevo, a partire dalla necessaria rivalutazione del Surrealismo e di Dada e dalla constatazione che le ultime urgenze artistiche nascono dall’“insurrezione contro la trascrizione puramente oggettiva della realtà”. Eppure, “questo movimento che va sotto il nome abusivo di ‘Tachisme’ o di ‘Informe’è evidente che non può minimamente pretendere di aver superato il surrealismo e l’arte astratta dei tempi eroici”. Aperture e chiusure seguono nel raggio di poche righe: Jaguer da un lato concede a Pollock di essere animato “da una foga spettacolare, da una specie di rabbia sacra introducendo tecniche ancora poco usate”, ma dall’altro precisa subito che tuttavia tali tecniche erano “procedenti in gran parte da scoperte anteriori, sovente di marca surrealista”, e che in ogni caso “non si trovava ‘LA’ questa ‘Art Autre’ di cui si è tanto parlato . O piuttosto, si, fu questo ‘ART AUTRE’, ma di fatto esisteva già dall’avvento di DADA”. Se nei primi artisti “informali” Jaguer ravvisa dunque delle note positive pur circoscritte e definite, è contro le derive attuali che viene puntato il dito “oggi assistiamo ad un’orgia reiterata di macchie colorate, sempre più aleatorie sprovviste delle connessioni psichiche che drammatizzavano l’opera di WOLS o di DE KOONING”, individuando invece le radici di un’avanguardia genuinamente rivoluzionaria nell’“azione considerevole del gruppo ‘REFLEX’, del movimento COBRA (1948-1951) e l’attività vigorosamente polemica del Movimento Nucleare di Milano”. Il commento di Toniato, si concentra sulla definizione della pittura come espressione di un dettato interiore, capace di tradurre “una aderenza assoluta alle strutture fenomenologiche e psicologiche” del mondo contemporaneo in “presenze emergenti di una concreta esperienza, di una situazione vissuta nelle sue varie dimensioni ed implicazioni”. Non c’è più il simbolo allora, quanto piuttosto “segni” che nascono da una “de-simbolizzazione dell’oggetto” e che portano in sé memoria del “mimetismo surreale di una loro originaria relazione”. In sostanza, Toniato vuole marcare la lontananza rispetto alla “sensibilità inerte di una incontrollata visione informale”, rispetto alla quale, a suo parere, le opere di Fergola, così come quelle degli altri pittori d’avanguardia napoletani, portano evidenti le tracce di un’archeologia visuale, da ritrovare sia nei ricordi personali, sia negli archetipi mitici meridionali: elementi questi che emergono anche nella scelta di disseminare la rivista di proverbi napoletani e di inserire spesso una foto dedicata a squarci di vita partenopei nelle prime pagine dei diversi numeri. Del resto, il ruolo chiave della figurazione viene giocato anche nel campo della scultura, come dimostra l’articolo di Marcello Andriani su Antonio Venditti , capace di riscoprire temi arcaici, perfino legati “allo stupore religioso del primo uomo: animali, gruppi di figure, e ancora figure, figure, figure…”, e di ridefinirli all’interno “di una mitologia nuova, complessa, misteriosa”. Venditti, sottolinea ancora Andriani, è “uscito sano e salvo dall’incubo dell’astrazione più amorfa”, facendo ritorno a una scultura in grado, oltreché di valorizzare gli aspetti formali, artigianali, della materia, anche di essere “metafora dei propri sentimenti” ancora una volta figurazione, elaborazione di un universo mitico ed echi di memorie personali si amalgamano all’interno di un’articolata ermeneutica interpretativa. Ma figurazione non vuole dire ovviamente scadere nel realismo, visto come conseguenza della negazione della libertà espressiva nei paesi socialisti. Lo testimoniano almeno due articoli: “L’avantgarde en Pologne” di Alexandre Henisz e “Realismo socialista nella Repubblica Democratica Tedesca” di Walter Fedler. Nel primo l’autore, parlando dell’Esposizione d’Arte delle 32 Repubbliche Popolari svoltasi a Mosca nel dicembre 1958, sostiene che il padiglione polacco fosse stato il più visitato, scandalizzando gli “ortodossi” del partito ed esaltando invece il pubblico per il tentativo di riprendere il dialogo con le avanguardie europee, interrottosi dapprima a causa della guerra e poi per le imposizioni staliniste di sviluppare un’arte di impronta realista. Anche Fedler, nel suo pezzo centrato sulla situazione delle arti nella Germania Est, non esita a denunciare una situazione in cui tutto è stato ridotto al livello di “una cattiva arte di fare manifesti”, soggetta alle volontà “dell’onnipotente funzionario culturale” e succube di un contenuto che non deve essere “in disaccordo con le direttive dell’ufficio politico . Vive soltanto il ‘realismo socialista’, l’arte di fare manifesti del pittore politico”. L’obiettivo dei due articoli è evidentemente quello di funzionare da raccordo con quelli rivolti contro l’Informale, per evitare che si ingenerasse nei lettori l’equivoco di assimilare la volontà di sovversione culturale del Gruppo 58, a quella militante partitica degli artisti legati al P.C.I.. Quella promossa dall’avanguardia napoletana è invece una lotta morale che nasce prima di tutto da un’esigenza personale e intima di “liberare” il Mezzogiorno da un’asfissia morale e culturale, con il proposito di “realizzare una graduale ibridazione dei diversi modi di pensare e di essere, tanto necessari a restituirci un individuo più vivo e sensibile”. L’accusa di essere provinciali viene ribaltata dagli artisti napoletani ammettendo da un lato il legame inscindibile con il territorio di provenienza (sottolineato anche nel lessico: “ovemai fossimo ‘guappi di cartone’ il nostro agire sarà sempre meno mortificante che se fossimo artisti disonesti e uommene e niente”), e dall’altro enfatizzando la necessità di promuovere un’arte che non sia imbrigliata in griglie omologanti. D’altra parte, i termini “provinciale” e “dialettale”, intesi in senso provocatorio e positivo, possono essere utili per leggere alcune delle caratteristiche della poetica portata avanti negli anni da Documento Sud, che tra i suoi obiettivi pone anche quello di valorizzare e risemantizzare la tradizione popolare napoletana: non a caso, in uno degli editoriali precedentemente citati si dichiarava di voler dare vita a “un sud laico e popolare”.
È così che nascono, in senso antifrastico, i continui richiami alla superstizione e alla numerologia, riletti però secondo un’ottica surrealista, in grado cioè di attivare memorie recondite e creare cortocircuiti inventivi. Ne è un chiaro esempio l’inserto in cartoncino rosso di quattro pagine dedicato alla prima mostra del Gruppo 58+Baj la cui copertina è riquadrata dalla scritta “La superstizione contro la ragione”, commentata a sua volta dall’aforisma di Goethe che recita “La superstizione è la poesia della vita: in modo da non ferire il poeta di essere superstiziosi”. Funziona da controcanto giocoso il trafiletto intitolato “Il vostro destino” al centro della pagina, in cui la superstizione, dopo l’apertura a Goethe, torna a essere ricompresa nel suo senso tradizionale legato appunto alla numerologia e alle previsioni astrologiche. È evidente però che per Documento Sud, nella prospettiva di rileggere e valorizzare le credenze meridionali, la superstizione sia vista innanzi tutto come la capacità poetica di trasfigurare la realtà, facendo emergere sulla superficie significati arcani e reconditi: l’allusione all’arte degli aderenti al Gruppo 58 è lampante, e infatti molti commenti ruotano attorno al potere immaginifico delle pitture degli avanguardisti napoletani, in grado di filtrare e trasfigurare la realtà attraverso la propria sensibilità. La superstizione allora non sarà più un retaggio culturale da nascondere e lasciare nell’oblio, quanto piuttosto un’anticipazione, per certi versi, degli studi psicanalitici. A questo sembra almeno alludere Mario Persico nell’articolo “Gli atti deformanti”, accompagnato da una sua opera del 1959 . Persico sostiene che ogni trasformazione, innovazione decisiva, risieda “in un ‘atto’ o in una ‘deformazione’, indipendenti dalla realtà fino a quel punto concepita; vale a dire in una relazione illogica con essa”: da qui nascono dipinti e lavori in grado di trovare rapporti nuovi con la contemporaneità, a partire da una lettura personale del reale. È un percorso evolutivo che avviene in prima battuta nell’interiorità dell’artista, seguendo un processo euristico che deve molto alla psicanalisi e alle letture surrealiste ad essa connesse: “Freud ebbe coscienza della forza e delle conseguenze di quel ‘non logico’, e mosse da ‘esso’ per esplorare i labirinti dell’IO”. Associazioni mentali incongruenti, capacità inventive fantastiche: è la stessa interpretazione che Henry Delau offre delle pitture di LUCA nell’articolo Imagerie cosmica meravigliosa . Delau spiega infatti che una delle principali qualità di Castellano è quella di trasportare l’osservatore in una dimensione arcana, solcando territori inesplorati eppure visibili, superfici artificiali eppure memori di una loro profonda naturalità esistenti da sempre. Un ruolo chiave, in questa dinamica di riti arcani e tradizioni riaffioranti, è svolto dalla città di Napoli che permea di sé la rivista, sia attraverso la pubblicazione di proverbi e detti locali, sia attraverso opere d’arte che la presuppongono o la ritraggono direttamente. Ad esempio Castellano in Napulione e’ Napule , pubblicata sul secondo numero della rivista, con procedimento simile a quello di Baj di cui si dirà a breve, sovrappone una sua fotografia su una cartolina con il golfo di Napoli: il busto dell’artista emerge dal Vesuvio sullo sfondo, esprimendo un legame indissolubile con la città, e rendendo manifeste quelle intersezioni tra razionale e irrazionale, visibile e invisibile, di cui parla Delau nel suo articolo. Ma questa rilettura in chiave surrealista di Napoli contraddistingue tutto il periodico, a partire dalle foto inserite a fianco dell’editoriale nei primi quattro numeri, e raffiguranti aspetti tipici, folkloristici o legati all’ambito religioso popolare: nel primo numero una fila di reggiseni, nel secondo un teschio sormontato da una candela in quello che sembrerebbe un sepolcro sotterraneo, nel terzo un “madonnaro” all’opera , nel quarto una strada o un cortile con vari oggetti disposti alla rinfusa. L’intento è evidentemente quello di far scattare nel lettore collegamenti visivi e mentali inaspettati, cercando di rendere tangibile, come scrive Mario Persico in un’altra circostanza, “questa compenetrazione di ‘essenze’, facendo convivere il pessimo e l’ottimo, il brutto e il bello, il bene e il male (in tutte le loro accezioni) e tutte le apparenti antitesi che si possano immaginare”. Ideali antenati di simile operazione non possono dunque che essere “i Duchamp, i Max Ernst, gli Schwitters e altri, quando introdussero nel surrealismo il ‘readymade’ e ‘l’objet trouvé’”. Tuttavia, spiega ancora Persico, “essi miravano a produrre una serie di ‘schoc’ del tipo più generale, a trasferire sulla tela quel ‘fortuito incontro di un ombrello e una macchina da cucire su di un tavolo operatorio’ profetizzato da Lautreamont ”, mentre finalità del Gruppo 58 è “annullare ‘il giudizio di valore’, formulare un’estetica dell’accettazione totale”. Ancora più diretto è Guido Biasi che nel suo “Elogio del rifiuto”, partendo dall’assunto secondo cui “oggi il rifiuto è ormai irrifiutabile”, sostiene la centralità poetica e artistica “di oggetti in disuso, di cose usate e smesse, di rottami in disordine, di avanzi confusi”, capaci di riscattare la loro precedente destinazione funzionale attraverso una vita postuma, purificandosi, e tornando a essere “significato” e non più “funzione”: “Il rifiuto è la vendetta fantastica delle cose che si ribellano”. Le carte sono così definitivamente svelate ed è di nuovo Biasi, nelle “invettive” del quarto numero, ad affermare con decisione che “sia inutile negare che il Surrealismo abbia deposto le sue uova segrete in un luogo da noi ereditato, e che esse abbiano maturato il senso delle formidabili avventure che noi ci apprestiamo a vivere. Assistiamo oggi alla metamorfosi del fumoso fantasma onirico in allucinante Realtà di carne”. Quello che viene reclamato è dunque il permanere dell’immagine che segue sentieri associativi e meccanismi visivi surrealisti, abbinati a un senso tattile della pittura ma nel caso del rifiuto e del reimpiego entrano in gioco necessariamente anche Pierre Restany, il Nouveau Réalisme e il suo sviluppo successivo, ovvero la Mec-art, di cui infatti farà parte anche Bruno Di Bello. Snodo fondamentale sono in questo senso le sperimentazioni portate avanti da Baj, tra cui gli “specchi”, che vengono interpretati da Andriani come metafora della fantasia inventiva dell’artista “che ‘specula’, al momento, sulla magia delle superfici ‘speculari’”, ma soprattutto come manifestazione eclatante “di una visione violentata dalle crepe e moltiplicata dai frammenti apparentemente sconvolti”, che rivela a sua volta “un altro aspetto (magico ma presente fino alla più spiccata suggestione e sensazione delle dita) di quella ambiguità e plurivocità fantastica che lo affascinano fin dal fortunato e fortunoso periodo delle ‘montagne’ (1957-58)”. Non sorprende allora che nello stesso numero le opere di Colucci siano lette alla stregua di “larve e immagini di larve; larve future di prefigurazioni presenti, simboli di fatti senza data – la sua bicicletta di smalti pedala dentro liquidi soli verso violenze cromatiche dalle cifre inaudite”, in cui dunque dato pittorico e contenutistico si innervano l’un l’altro. Non diversamente, i lavori di Cena sono frutto di una profonda riflessione interiore “i suoi segni sono dettati da un impulso interno, per un discorso intimo con una realtà dello spirito”, che attraverso un “lungo processo formativo” si concretizza in un “mondo fatto di un messaggio di segni e forme” che “materializza sensazioni e percezioni nuove per un’epoca nuova”. È un sovrapporsi di stati emotivi e di materia pittorica che arriva a concretizzarsi visivamente in alcune opere presentate sul periodico, a partire dai quadri di Enrico Baj. È lo stesso artista a presentare una delle sue opere nate dalla sovrapposizione di oggetti incongruenti su pitture precedenti , facendo “apparire l’arrivo di alcuni sputnik o di personaggi di altri mondi su fondi assolutamente convenzionali”. L’effetto di spaesamento era accresciuto appunto dallo stratagemma di ricorrere a “fondi dipinti da altri pittori artigianali”, quanto di più “convenzionale e antiemozionale esista nel campo della visione” un effetto simile, aggiunge Baj, a quello provato quotidianamente da ciascuno di noi allorché, uscendo di casa, si immette in un sistema preesistente, prendendovi parte del riferimento eclatante alle “passeggiate” surrealiste. Dall’ambito surrealista il Gruppo 58 eredita anche le allusioni e un linguaggio critico afferente alla sfera sessuale, come dimostra, tra l’altro, l’articolo. “L’Eden e la satrapia del sesso” che Riccardo Barletta dedica a un dipinto di Sergio Fergola (Elegia). Tutto il commento, rispettando del resto l’iconografia del quadro, si sviluppa sui poli centrali della composizione (l’elemento fallico accanto a Eva, “esaltato da un alone luminoso”, e invece “l’esplosione vitalistica di una macchia di rosso acceso”, accanto ad Adamo), che arrivano a enucleare “il mito della caduta, il valore del sacro, il destino del mondo, l’antitesi tra sesso ed amore”. A livello pittorico, Fergola sviluppa invece un denso “simbolismo realistico” in cui riesce a conciliare il rispetto della forma e della figurazione con un uso espressivo del colore, rendendo “esperibili esistenzialmente le realtà rappresentate”. Una pagina propriamente surrealista è poi quella in cui a Il tagliatore di teste (collage del 1960) di Mario Persico viene affiancato uno scritto di Marcello Andriani , che svolge il tema della decapitazione dando vita a diversi micro racconti di poche righe: dalla richiesta di un marito che cerca “Tagliatore di Teste Anche Non Autorizzato Disposto Sopprimere Mia Moglie” alla narrazione postuma di un condannato a morte “Sentii la lama fredda dividere in un istante più rapido degli istanti normali la mia testa dal mio busto. La mia nuca batté con forza contro il fondo del paniere di vimini”, dall’elenco di decapitati “celebri” (Luigi XVI, Golia, Maria Antonietta, Tommaso Moro, Oloferne) alla redazione di un verbale poliziesco con finale satirico “La perizia necroscopica ha potuto stabilire che la decapitazione è stata eseguita in maniera pressoché perfetta, si ha ragione dunque di sospettare che l’assassino sia un macellaio o un chirurgo”. In un simile contesto non poteva poi mancare un esplicito riferimento al librocollage surrealista forse più famoso: La Femme 100 Têtes di Max Ernst. Ragnar van Holten nel suo pezzo affianca un’incisione di François Boucher tratta da Faunillane ou l’Infante Jaune, di Carl Gustaf Tessin, in cui il principe Perce-Bourse ritrova, passeggiando nel parco, la testa di una statua femminile, che poi ricomporrà per intero, a una delle incisioni di tema analogo di Max Ernst, ricavandone, a suo dire, un documento storico sui diversi atteggiamenti e comportamenti. Mario Persico, in cui il primo racconta al secondo il suo incontro nella metropolitana parigina con la “Giovane Masturbatrice presso il finestrino, sonnolenta, con l’ultimo piacere spento come una cicca sotto gli occhi fumosi. Aveva le unghie tutte lunghe, eccezion fatta per il medio della destra dove l’aveva cortissima”. Ricordi surrealisti, ambizioni poetiche, avanguardie artistiche dialogano dunque sulle pagine di Documento Sud che tra 1959 e 1961, come visto, prova ad attirare l’attenzione del mondo culturale sul Meridione d’Italia, collegandolo alle grandi imprese artistiche italiane ed europee, in particolare milanesi, francesi e belghe. Il tentativo sicuramente in parte riesce, anche grazie alla preziosa collaborazione con artisti e critici del calibro dei vari Jaguer e Lacomblez citati in apertura, ma non avrà forza a sufficienza per andare oltre i sei numeri del periodico. Tuttavia, il seme della rinascita era stato piantato e crescerà negli anni seguenti attraverso gli esperimenti editoriali di Quaderno tre fascicoli concentrati nel 1962, promossi da Stelio Martini e maggiormente virati sull’ambito della Poesia Visiva e Linea Sud sei numeri tra 1963 e 1967 promossi di nuovo da Castellano riviste diverse tra loro e anche rispetto a Documento Sud, che perfino nel suo aspetto tipografico aveva cercato di funzionare da ponte con altre esperienze d’avanguardia. Nel presente contributo si è cercato di offrire una prima panoramica d’insieme della rivista, evidenziandone gli apporti surrealisti e la parabola creativa, ma naturalmente molte altre piste d’indagine sarebbero ancora percorribili, analizzando ad esempio in profondità l’impatto della rivista sugli artisti napoletani intorno al 1960, considerando anche che molti degli aderenti al Gruppo 58 lasciarono poi la città. Un filo che però in qualche modo non si interruppe, grazie ancora una volta a Luigi Castellano e alla sua Linea Sud. Nel 1966 illustra la traduzione italiana di Luciano Caruso dell'opera patafisica "Ubu Cocu" di Alfred Jarry. In Persico l'interesse per le teorie patafisiche una sorta di ironico ritorno a quanto di esoterico rimane nel pensiero occidentale, secondo l'insegnamento di Alfred Jarry, demone dell'assurdo e della derisione è una costante della sua opera. Fin dagli anni cinquanta Mario Persico frequenta e collabora con Edoardo Sanguineti.Tra i momenti più interessanti di questa collaborazione si possono annoverare le scenografie e i costumi per l'opera Laborintus II di Sanguineti su musiche di Luciano Berio, andata in scena alla Scala nel 1973. Più recentemente ha firmato con Sanguineti, Dorfles e Pirella il "Manifesto dell'Antilibro" ed ha realizzato nel 2001, alla Biennale di Venezia, due "Bandiere della Pace" impagina nei modi della "poesia visiva" un testo di Sanguineti. Ancora nel 2003 ha illustrato un "Omaggio a Goethe" e nel 2004, un "Omaggio a Shakespeare, nove sonetti", con traduzioni di Sanguineti. Dal 2001 divenne il Rettore Magnifico dell'Istituto patafisico partenopeo e stampa "Patapart" , una delle più belle, colorate e difficili da sfogliare riviste d'arte contemporanea ma i avute a Napoli. Intanto si consolidavano i contatti con i Nouveaux réalistes francesi e con gli italiani di Parigi a essi collegati, tra tutti Mimmo Rotella. Il quarto e ultimo fascicolo de
Il gesto, pubblicato nel settembre di quell’anno, fu dedicato all’
Arte interplanetaria, con scritti e opere, tra gli altri, di Jaguer, Farfa, Antonio Recalcati e Giovanni Anceschi. Nacquero allora i primi
Specchi, rotti o tagliati e poi ricomposti; Baj dette avvio alle prime
Modificazioni, riconducibili alle prospettive dell’arte interplanetaria; incominciò la serie dei
Generali, il «tema dominante nel 1959», destinato a influenzare tutta la sua prima produzione, al quale approdò attraverso un processo di personificazione delle
Montagne realizzò le prime
Dame, serie che riprese tra il 1974 e il 1975. Tutte opere nelle quali, sotto il comune segno dell’ironia dissacratoria, prevalsero la visione ludica, il desiderio di lavorare con ogni tipo di materiale, l’attenzione privilegiata per l’infanzia e l’«adesione-rottura alla storia della pittura». Nel biennio 1960-61, mentre gli Specchi, con le loro trame di prefigurazioni, venivano presentati alla galleria del Naviglio di Milano (gennaio 1960), Baj continuò il lavoro sui
Generali, cimentandosi pure nei primi
Cartoni (ripresi nel 1964-66 e nel 1970) e nei
Mobili, poi sviluppati nei
Personaggi in legno dal 1962, dove l’oggetto stesso si faceva protagonista. Intanto, per l’intensità del suo humour e per l’oggettualità del suo lavoro, la critica lo indicò tra i maggiori esponenti del neodadaismo. Il 1962 fu un anno decisivo, segnato dal significativo incontro a Parigi con Breton: Baj si accostò ancor di più al mondo della poesia, che da tempo frequentava per i legami con personalità quali Jaguer, Jouffroy, Dal Fabbro, Sanguineti, Sanesi, Balestrini, a cui si aggiunsero, tra gli altri, André Pieyre de Mandiargues, Octavio Paz, Raymond Queneau, Jean-Clarence Lambert e, più tardi, Dino Buzzati. Rapporti che nel tempo lo condussero anche a collaborare per rare edizioni di poemi accompagnati da incisioni, collage e libri-oggetto. Sempre nel 1962 Baj raggiunse gli Stati Uniti, dove un suo
Specchio venne presentato nella grande mostra «The art of assemblage», organizzata in autunno da William C. Seitz al Moma di New York. In quell’occasione conobbe Marcel Duchamp: nacque un’amicizia destinata a durare negli anni. Ancora nel 1962 Schwarz dette alle stampe una monografia sull’
Arte nucleare, nella quale veniva indagata l’intera opera di Baj. Di lì a poco, nel luglio 1963, Breton gli dedicò un ampio saggio su
L’Oeil. I contatti con il mondo artistico parigino erano allora quanto mai intensi; mentre allestiva a Milano un nuovo studio in via Bonnet, dal 1963 al 1966 Baj lavorò per lunghi periodi a Parigi, presso lo studio, già di Max Ernst, in Rue Mathurin Régnier. In accordo con il Collège pataphysique di Francia, il 7 novembre 1963, fondò l’Istituto patafisico milanese, con l’intervento di Queneau e sotto la presidenza di Farfa. Intanto, sue personali venivano organizzate a New York, San Paolo e Torino. In occasione della mostra «Visione e colore», tenuta a Venezia a Palazzo Grassi nell’estate del 1963, Baj presentò alcuni quadri-oggetto con personaggi realizzati con i mattoncini Lego. Contestualmente si dedicò alle prime sculture in Meccano «totem-robots privi delle connotazioni macabre e metafisiche della fantascienza», presentate l’anno successivo in una sala personale alla XXXII Biennale di Venezia e alla XIII Triennale di Milano. In questa sede, dove allestì un ambiente a
Specchi, Baj era stato invitato da Umberto Eco e Vittorio Gregotti; a Venezia, presentato in catalogo da Queneau, nel generale clima di critica negativa nei confronti della nuova figurazione, alcune sue opere furono oggetto di censura . Baj ritirò i
Nudi, ma espose parate militari e comizi politici, che manifestavano l’impegno civile contro ogni tipo di aggressività. Nel 1964 giunsero altre importanti occasioni espositive. Tra tutte, gli fu dedicata una sala nell’esposizione «Pittura a Milano dal 1945 al 1964» al Palazzo Reale di Milano; Baj fu inoltre invitato alla mostra sul «Nieuwe Realism» al Gemeentemuseum dell’Aja. L’anno si chiuse con un incontro fondamentale: Baj conobbe Roberta Cerini, che nel 1966 sposò in seconde nozze e con la quale ebbe sempre un intenso scambio intellettuale. Dalla loro unione nacquero quattro figli: Angelo nel 1967, Andrea nel 1968, Pietro nel 1969 e Marianna nel 1978. Nell’estate del 1965 gli fu dedicata la prima retrospettiva, «Omaggio a Baj», nell’ambito della rassegna Alternative attuali 2, presso il Castello Spagnolo dell’Aquila. Nella mostra, curata da Crispolti, furono presentate circa ottanta opere, tra dipinti e sculture, e si approntò una prima sistemazione storiografica del suo lavoro. Tra un susseguirsi di personali e collettive, nello stesso anno Baj fu invitato alla mostra «Pop art, Nouveau realisme» al Palais des beaux-arts di Bruxelles. All’immaginario pop, tra l’altro, si stava confrontando in Italia il lavoro di Baj, già al tempo della Biennale, e più chiaramente negli scritti di Crispolti, prima in occasione della retrospettiva aquilana, poi nel volume
. Tra il 1966 e il 1969, mentre cresceva il suo impegno come scrittore d’arte per cataloghi, giornali e riviste, Baj iniziò a interessarsi di multipli e si dedicò con assiduità alla grafica e all’incisione per edizioni numerate. Tra le tante:
L’intérieur di Sanguineti e
Limbo di Lambert nel 1966
Meccano ou l’analyse matricielle du langage di Queneau e
Les incongruités monumentales di de Mandiargues nel 1967;
I ricatti di Guido Ballo e il suo
Baj chez Picasso, con testi di Jean Cassou, Queneau, de Mandiargues, Sanguineti, Buzzati e Pierre Seghers, nel 1969. Sempre in quegli anni Baj si recò in Australia e viaggiò a lungo tra gli Stati Uniti e l’Europa per personali e retrospettive, tenute, in particolare, a Chicago (1966), L’Aia e Gand (1967), Praga, San Francisco e Parigi (1969). Sul finire degli anni Sessanta, nella produzione di Baj presero forma le prime riprese ironiche e parodistiche delle opere di Picasso; tra i
d’après, presentati alla galleria Creuzevault di Parigi (1969), si segnalavano i monumentali
Les demoiselles d’Avignon e
Guernica . Allo stesso tempo si datano i primi lavori per i quali si servì dei materiali plastici, già impiegati in passato e da quel momento adoperati, ad esempio, nelle
Cravatte, simbolo della cultura occidentale, esposte al 15° premio Lissone (1967) e allo Studio Marconi di Milano (1969). Nelle
Plastiche la «mitologia del “nuovo materiale”veniva intaccata proprio con i “nuovi materiali”». Mentre gli anni Settanta si aprirono con la pubblicazione del primo catalogo ragionato dedicato alle opere grafiche e ai multipli di Baj, a cura di Jean Petit (1970), e con tre importanti retrospettive, tenute tra la primavera e l’estate del 1971. A Ginevra, al Musée de l’Athénée, a cura di Petit si presentò la produzione grafica; a Venezia, a Palazzo Grassi, a cura di Sanesi si esposero oltre cento opere; a Chicago, al Museum of contemporary art, a cura di Jan van der Marck furono raccolti i lavori nel tempo confluiti nelle collezioni statunitensi. Nelle mostre di Venezia e Chicago comparvero anche i celebri
Chez Seurat, presentati già a Lugano nella primavera dello stesso anno in occasione della collettiva «D’après. Omaggi e dissacrazioni nell’arte contemporanea». Tra questi,
La grande jatte assurgeva a simbolo dell’immobilismo della borghesia. Tra una «continuità di fondo ideologica e quella che potremmo chiamare una continuità confirmatoria», sin dai primi anni Settanta Baj pervenne a nuovi traguardi e a «grandi impennate immaginative», che lo condussero soprattutto all’installazione e alla «disseminazione ambientale» . Al 1972 si data il primo lavoro di Baj di denuncia civile legato alla cronaca, fino a quel momento, tra l’altro, il più grande collage realizzato dall'artista (circa 12 metri di lunghezza per 4 di altezza),
I funerali dell’anarchico Pinelli , dedicato al ferroviere morto precipitando da una finestra della questura di Milano, dove era trattenuto per accertamenti in seguito alla eplosione di una bomba in piazza Fontana. L’opera venne realizzata con «oggetti vari, consistenti in nastri, cordoni, passamanerie, fiocchi tutto un materiale cadente e decadente , che sta a simboleggiare una caduta culturale, il degrado di un sistema, vuoi di sviluppo, vuoi politico», più che dei suoi funerali, si trattava di lui stesso, dell’anarchico che precipitava al suolo su un ipotetico selciato, antistante una non tanto ipotetica questura. Il titolo definitivo restò “I Funerali dell’Anarchico Pinelli”, sia perché il corteo degli anarchici ricordava, per mestizia mista a bandiere, un corteo funebre, sia per il richiamo a quel precedente quadro “I Funerali dell’Anarchico Galli che è una delle migliori opere del Carrà futurista e dell’arte moderna italiana. La grande installazione doveva essere presentata a Milano nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale il 17 maggio, lo stesso giorno in cui fu ucciso il commissario Luigi Calabresi, che a quell'epoca alcuni indicavano come responsabile della morte di Pinelli. Annullato subito l’evento per ragioni di ordine pubblico, il
Pinelli, nel 1973 presentato a Rotterdam, a Stoccolma e a Düsseldorf, si poté vedere a Milano nel 2000, presso la Galleria Giò Marconi, e solo nel 2012 a Palazzo Reale. Nello stesso tempo, mentre Baj continuava a scrivere testi di critica d’arte e a lavorare per edizioni numerate, tra fiocchi, cordoni e passamanerie, presero vita nuove
Dame «degne compagne» dei
Generali a cui dette titoli solenni, che rintracciò soprattutto nelle pagine del
Grand Larousse Illustré , e che presentò qualche tempo dopo: nel 1975 allo Studio Marconi di Milano, nel 1976 alla Arras gallery di New York. Nel 1974 Baj si traferì definitivamente a Vergiate, dove aveva già risieduto lungamente sin dalla fine degli anni Sessanta, rendendo la sua villa di campagna luogo di «convivio» per intellettuali italiani e stranieri . Fu allora che donò collezioni complete delle sue stampe alla Bibliothèque Nationale di Parigi, al Boijmans di Rotterdam e al Cabinet des Estampes di Ginevra. Sempre nel 1974 giunse un ulteriore grande impegno, simile al
Pinelli per dimensioni e per la presenza di sagome. Il collezionista di Chicago, Milton Ratner, che da tempo apprezzava il suo lavoro, gli commissionò (senza però poterla poi acquistare) un’opera che raccontasse un episodio della storia statunitense: «si convenne» per «Nixon e Kissinger alla parata del Columbus Day», titolo che per abbreviazione divenne
Nixon Parade (Parma, CSAC). Nella composizione, tra le più sarcasticamente Dada, «il mostruoso del politico e la pornografia del potere giungevano per Baj al loro apice». I fiori di plastica, a copertura dell’intera superficie in basso, simboleggiavano il kitsch, l’aspetto per Baj più caratteristico dell’attualità. Diversamente dal
Pinelli, l’opera venne presentata subito nelle sale del Palazzo Reale di Milano, dove nel maggio di quell’anno ebbe luogo una grande retrospettiva con lavori dal 1960 al 1974, poi allestita al Palais des beaux-arts di Bruxelles in ottobre e alla Kunsthalle di Düsseldorf nella primavera del 1975. L’anno successivo Baj donò l’intero
corpus di opere grafiche al Comune di Milano (donazione perfezionata nel 1987), presentato a dicembre al Castello Sforzesco in una grande esposizione accompagnata dalla pubblicazione di due cataloghi: il primo dedicato alle stampe originali con testi di Antonello Negri, Zeno Birolli, Baj e Queneau; il secondo dedicato ai multipli con testi di Negri, Birolli, Baj e Breton. Negli ultimi anni Settanta Baj viaggiò molto; si recò in Messico e in Egitto e si dedicò intensamente alla lettura, producendo pochissimo; fu profondamente suggestionato da
L'èsprit du temps del 1962 L’industria culturale 1974 di Edgar Morin, da
La società dei consumi (1976) di Jean Baudrillard . Fu proprio dal saggio di Lorenz che prese spunto per l’ultimo grande impegno del decennio: un vastissimo collage rappresentante l’
Apocalisse (Vergiate, Archivio Baj), incominciato sul finire del settembre 1978 e concluso nel marzo dell’anno successivo (con uno sviluppo finale di oltre 60 metri lineari per 4 di altezza), a cui Eco dedicò un volume . Allestita per la prima volta nei tre piani dello Studio Marconi di Milano nel marzo 1979 e composta da tele dipinte con tecnica informale e sagome dipinte o intagliate in legno, l’
Apocalisse metteva in scena il degrado della contemporaneità, l’asservimento alla tecnoscienza e al modernismo in una commistione di elementi tragici e grotteschi che annunciavano e palesavano il dominio del mostruoso attraverso un percorso ascensionale che richiamava i gironi danteschi. Nel 1983 Baj aggiunse all’
Apocalisse, considerata un
work in progress, alcune sagome e tele; più tardi inserì altre tele, in particolare dedicate alle storie di Gilgamesh, realizzate tra il 1999 e il 2003. Gli anni Ottanta, che si aprivano con la monografia
Enrico Baj del 1980, introdotta dal sociologo francese Baudrillard, con il quale Baj ebbe vari incontri e collaborazioni, furono contrassegnati da nuovi progetti, pur sempre coerenti, che lo condussero a sperimentare nuove tecniche e tipologie compositive, anche nel «recupero del mezzo pittura, in ruolo del tutto protagonistico, e insomma in un vero e proprio “a solo” mediale». Intanto, nella necessaria «conquista del presente nel suo presenzialismo», sia nelle opere, sia nella scrittura, la critica alla contemporaneità, alla robotizzazione dell’uomo e al consumismo si fece sempre più presente. Una grande mostra personale, in cui si presentarono i lavori di vaste dimensioni del decennio precedente, venne inaugurata il 1° maggio 1982 al palazzo della Ragione di Mantova. Per l’occasione Edoardo Sanguineti lesse il suo
Alfabeto apocalittico contestualmente Baj partecipò al convegno
Il mostro quotidiano, con interventi, tra gli altri, di Morin e Baudrillard. Nello stesso anno pubblicò
Patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie, un ampio studio sulla scienza inventata da Alfred Jarry, sua passione da sempre, a cui seguì, l’anno successivo, una vasta esposizione al Palazzo Reale di Milano, «Jarry e la Patafisica», che curò con Vincenzo Accame e Brunella Eruli. Dal 1983, anno in cui dette alle stampe per Rizzoli la sua Automitobiografia. Dai giorni nostri alla nascita, raccontando se stesso, tra invenzioni e no, Baj si allontanò dal collage e dall’uso gestuale del colore, che adoperò, invece, in modo più disteso, a favore di ampie campiture. Di questo periodo sono i cicli
Futurismo statico ed
Epater le robot, dove emergono gli omaggi a Campanella (
La città del sole) e a Voltaire (
Studio per Micromégas), presentati allo Studio Marconi di Milano in ottobre. L’abuso della tecnologia e l’alienazione dell’uomo denunciati in queste opere furono alla base del coevo
Manifesto per un futurismo statico (1983). Nel 1985, tra l’inverno e l’estate, si tennero due importanti mostre, la prima al Center for fine arts di Miami dove si presentarono
Parate e grandi opere come
Guernica,
Pinelli e l’
Apocalisse, e la seconda al Forte di Bard in Valle d’Aosta, in cui vennero esposte
Generali e
Dame accanto a
Meccani e alle tele dedicate a
Ubu Roi. In quello stesso anno, sempre per l’editore Rizzoli, Baj dette alle stampe
Impariamo la pittura: un manuale semiserio per artisti, falsari e pittori d’ogni tipo. Per lo stesso editore, due anni dopo, uscì
Fantasia e realtà: un dialogo tra Baj e Renato Guttuso sull’arte, la cultura e la società. Altro impegno editoriale fu il volume
Cose, fatti, persone (1988), in cui raccolse numerosi scritti, anche inediti, pubblicati in giornali e riviste a partire dal 1981. Le serie di quegli anni, la prima dedicata ai
Manichini, la seconda intitolata
Metamorfosi metafore (che nasceva da una collaborazione con il poeta Giovanni Giudici), evidenziano ancora il momentaneo abbandono del collage. Se nella prima emergono chiari riferimenti al manierismo e alla metafisica, nella seconda lo sviluppo della figurazione, dell’immaginario e del fantastico anticipa le successive 'opere kitsch', alle quali Baj approdò nel 1989 per rappresentare la volgarità del kitsch attraverso grandi composizioni dette combinatorie, ottenute dall’assemblaggio di piccoli pannelli a indicare la futura esplosione demografica. Tutti gli anni Ottanta, intensamente animati da incontri e collaborazioni con artisti, poeti, letterati e filosofi di ogni nazionalità, si contraddistinsero, infine, per importanti lavori rivolti al teatro. Tra questi, il più significativo impegno giunse nel 1984, quando Massimo Schuster chiamò Baj a lavorare alla messa in scena dell’
Ubu Roi di Jarry, rappresentato la prima volta all’Espace Kiron di Parigi il 15 novembre dello stesso anno con 230 repliche in tutto il mondo. Baj realizzò il boccascena e circa cinquanta marionette in Meccano. Tra il 1986 e il 1987 si dedicò a una rivisitazione in chiave satirica dell’
Amleto 'il lunatico' di Shakespeare, scritto da Guido Almansi con la regia di Massimo Monaco, prodotto dal Teatro regionale toscano. Successivamente, con il figlio Andrea, creò settanta personaggi in legno per un’
Iliade di Schuster, in scena al San Matteo di Piacenza nel gennaio 1988. Il decennio si chiuse con la realizzazione di un ulteriore spettacolo di marionette al quale lavorò ancora con Andrea,
Le bleu-blanc-rouge et le noir, opera con libretto di Anthony Burgess e musica di Lorenzo Ferrero, sempre per la regia di Schuster, presentata a Parigi al Centre Pompidou nel dicembre 1989 nell’ambito del Festival d’Automne. Gli anni Novanta si aprirono con alcune significative pubblicazioni: tra tutte, nel gennaio 1990 Baj dette alle stampe per Rizzoli
Ecologia dell’arte, un ironico dizionario in 200 voci sull’arte moderna; nel maggio pubblicò per Elèuthera
Cose dell’altro mondo, una raccolta di scritti sull’arte americana degli anni Ottanta. Intanto, a cura di Massimo Mussini, per Electa, uscì
I libri di Baj, catalogo ragionato delle edizioni numerate. Le più importanti mostre di quel periodo furono «Enrico Baj. Die Mythologie des Kitsches», tenuta nella primavera del 1990 ai Musei civici di villa Mirabello a Varese, ed
«Enrico Baj, transparence du kitsch», curata da Baudrillard e allestita nel dicembre dello stesso anno presso la Galerie Beaubourg di Parigi. In entrambe le esposizioni Baj presentò quattro grandi composizioni combinatorie. Gli stessi pannelli furono esposti, l’anno successivo, a Milano, Roma e New York alla personale «Il giardino delle delizie», il cui catalogo curato da Giò Marconi, con testi di Eco, Baudrillard e Donald Kuspit, divenne una monografia sul suo percorso ideologico e stilistico. Altre opere di quel tempo, sullo stesso tema, si rifacevano a figure emblematiche, come
Amore e Psiche,
Adamo ed Eva o le
Tre Grazie (Vergiate, Archivio Baj): tutti soggetti che realizzò anche in maiolica, in un momento in cui ritornò a lavorare la ceramica.
Nel 1993 ebbe luogo una grande retrospettiva a Locarno, inaugurata a dicembre in tre diverse sedi, nelle quali si presentarono, rispettivamente, i lavori dal nucleare al kitsch, le opere grafiche e
I funerali dell’anarchico Pinelli. Dal 1994 Baj incentrò il suo lavoro sulla serie delle
Maschere tribali, immagini di un primitivismo moderno, selvaggio e istintuale, che aprirono un filone nuovo nell’ambito del suo lavoro, sulla cui linea si collocano i
Feltri, iniziati nello stesso tempo e realizzati sino al 1998, e i successivi
Totem del 1997. Mentre nei primi adoperò nuovamente l’ovatta, ma come base per la pittura, nei secondi sviluppò il tema della maschera in senso verticale e ritornò a citare nei titoli personaggi della storia, talvolta anche in coppia, come ad esempio
Lancillotto e Re Artù,
Luigi XV e Madama Pompadura (Vergiate, Archivio Baj). Tra le opere più significative di quegli anni vi è il satirico
Berluskaiser (Vergiate, Archivio Baj), lavoro dal forte impegno civile nato a seguito delle elezioni del 1994, che mette in scena la conquista del potere di Silvio Berlusconi attraverso una composizione di sagome che richiamano l’
Apocalisse. Come ulteriore meditazione sul tema, Sanguineti compose
Malebolge 1994-1995, o del malgoverno da Berluskaiser a Berluscaos (pubblicato nel 1995 in collaborazione con Baj)
. Sempre nel 1995, il
Berluskaiser, insieme al
Pinelli e all’
Apocalisse, furono presentati all’Institut Mathildenhöhe di Darmstadt in una grande retrospettiva con catalogo curato da Gabriele Huber e Klaus Wolbert. Durante la mostra ebbero luogo alcune rappresentazioni teatrali; in particolare Dario Fo, utilizzando come palcoscenico il
Pinelli, rappresentò il suo
Morte accidentale di un anarchico. Del 1996 sono il progetto per un
Monumento a Bakunin, un singolare e inedito
assemblage in omaggio all’anarchia, che venne presentato nella primavera in una grande collettiva berlinese dedicata al tema, e l’imponente acrilico su feltro
Impressioni d’Africa (Vergiate, Archivio Baj), ispirato all’omonimo libro di Raymond Roussel (1910), che pone alla ribalta il tema del grottesco e del kitsch. Tutta la produzione di Baj, sino a quel momento, fu raccolta nel 1997 nella seconda impresa del
Catalogo generale delle opere dal 1972 al 1996. Tra il 1998 e il 2000 una serie di mostre mise in rilievo alcuni aspetti significativi del suo lungo percorso artistico, da sempre segnato da «una certa irriverenza, un’ironia e un gusto del paradosso, quasi siano degli anticorpi dell’uomo contemporaneo». In particolare: con la retrospettiva «Enrico Baj», al Musée d’art moderne et d’art contemporain di Nizza dell’inverno 1998-99, si sottolinearono i legami con la cultura francese sin dagli anni Cinquanta; con la mostra «PicadadaBaj 2000», il cui catalogo contiene una prefazione di Dorfles e testi di numerosi critici italiani, allestita nell'estate del 1999 nel Palazzo del turismo di Riccione, venne presentata larga parte della sua produzione. Il decennio si chiuse con la prima serie dei
Guermantes, piccoli ritratti (in totale ne realizzò circa 300) dedicati a Marcel Proust e alla comune
Ricerca del tempo perduto. Mentre gli ultimi anni di vita furono quanto mai intensi: mentre si cimentava in nuove imprese editoriali (tra le varie si ricorda
Discorso sull’orrore dell’arte, 2002), in libri per edizioni numerate e nuovi progetti per il teatro, nel 2000 Baj ritornò a lavorare con l’amico di sempre Corneille, con il quale aveva già realizzato alcune
Montagne. Nello stesso anno, con l’esposizione «Enrico Baj. Masterpieces», organizzata nel febbraio alla galleria Giò Marconi di Milano, venne presentata una serie di opere particolarmente significative insieme al
Pinelli e ai
Guermantes. L’anno successivo Baj si dedicò all’organizzazione di un’ampia retrospettiva a Roma, tenuta in autunno al palazzo delle Esposizioni, con circa duecento opere che raccontavano il suo lavoro dal 1951 (alcune di grandi dimensioni come
Guernica,
I funerali dell’anarchico Pinelli e
L’Apocalisse); nel 2002 ritornò sul tema delle
Dame, presentate l’anno successivo da Dorfles alla galleria Giò Marconi di Milano, per la cui realizzazione adoperò materiali idraulici, quali sifoni, rubinetti, tubi e valvole; nel 2003 due importanti rassegne, la prima al Castello di Masnago di Varese, la seconda a Milano (in quattro sedi: Spazio Oberdan, Accademia di Brera, galleria Giò Marconi, Fondazione Mudima), furono incentrate, rispettivamente, sui rapporti tra Baj e la poesia e sulle grandi installazioni. L’ultima opera cui Baj si dedicò, senza fermarsi e riuscendo a completare il progetto a pochi giorni dalla morte, fu il grande
Muro di Pontedera, realizzato postumo, nel 2005, con il contributo dell’architetto Alberto Bartalini: cento metri di mosaico che corre lungo la linea ferroviaria della cittadina toscana, nel quale, come in un testamento spirituale, raccolse e rivelò ogni aspetto del suo lavoro, dall’impegno civile al gioco, dalla realtà all’immaginazione.
Il percorso espositivo di Palazzo Reale Milano
Sono dieci le sezioni tematiche della mostra studiate come affondi nella riflessione dell’artista per illustrare lo sviluppo del suo pensiero e dei suoi soggetti dal forte potere immaginifico. L’allestimento, progettato da Umberto Zanetti, ZDA Zanetti Design Architettura con la sponsorizzazione tecnica di UniFor per gli allestimenti, è pensato per armonizzare le opere dell’artista e il suggestivo contesto storico di una delle sale più iconiche del Palazzo: con un gioco di specchi esaltato dai colori e dagli specchi stessi realizzati dal maestro, si dipana nello spazio in un crescendo di forme e dimensioni fisiche delle opere monumentali, con soluzioni site-specific, come nel caso delle trecento sagome dell’Apocalisse oppure delle otto sculture della serie Meccano, disposte come un reggimento in parata. Il viaggio nel mondo di Enrico Baj è arricchito da una geografia personale, fatta di luoghi, episodi, incontri, prevalentemente ambientati sullo sfondo di una Milano passata dal boom economico agli anni di piombo, dai capricci della “Milano da bere” al nuovo millennio. Gli affondi intrecciano vita e arte; dalle strade di casa, in via Teullié e nello studio in via Bertini, agli anni della formazione in Brera, dagli spazi culturali, come il San Fedele che vide la nascita delle pittura nucleare, fino alla galleria Marconi, cenacolo fervido di stimoli e relazioni. Ad accogliere i visitatori nella sala del Lucernario, la ricostruzione scenografica dell’Apocalisse, un assemblaggio di figure immaginarie e oniriche in un polittico di quasi 100 metri quadrati, allestito in altezza, come ad evocare un’abside, ispirato idealmente al Giudizio Universale michelangiolesco, qui punteggiato di demoni goffi e beffardi, arrampicati e urlanti fino al soffitto. Dopo questa introduzione si susseguono: le Opere nucleari, gli Ultracorpi, le Parate, I funerali dell’anarchico Pinelli, i Generali, i Meccano, i Mobili, gli Specchi e le Dame.
I funerali dell’anarchico Pinelli (1972) Una nuova prospettiva
I funerali dell’anarchico Pinelli rappresentano un capitolo di svolta fondamentale nel lavoro di Baj, un passaggio formale nella sua ricerca estetica, in direzione di una narrazione articolata, sempre più scenografica, con soluzioni ambientali e teatrali. L’opera è per la prima volta integrata in un percorso espositivo grazie a un dialogo puntuale con i Generali e con la Parata a sei che, in particolare, ne è il prodromo, il diretto antecedente, sia come studio formale ritmico della composizione, sia nella critica caustica a ogni forma di sopruso e militarismo. I Funerali tornano a Palazzo Reale, a distanza di 12 anni dall’esposizione ‘in solitaria’ in sala delle Cariatidi e a 52 anni dalla loro realizzazione, in un allestimento inedito che li vede inseriti come un tassello essenziale nell’evoluzione dell’opera del maestro. Accanto ai Funerali, alcune opere picassiane e alcune citazioni fra cui due esemplari dell’Apocalisse che li ricollegano idealmente alla lezione di Guernica.
BAJ. Baj chez Baj è anche a Savona e Albissola Marina. Il catalogo unico edito da Electa
In occasione del centenario della nascita dell’artista milanese, inaugura l’8 ottobre una mostra dedicata all’opera ceramica di Baj in tutto il suo sviluppo storico e cronologico. Sempre sotto il titolo di BAJ. Baj chez Baj sarà aperta al Museo della Ceramica di Savona, con una sezione anche al MuDA – Museo Diffuso Albisola di Albissola Marina, nelle sedi del Centro Esposizioni e di Casa Museo Jorn. La collaborazione scientifica tra Milano e Savona, tra i curatori e le istituzioni coinvolti ambisce a disegnare due itinerari autonomi ma complementari, capaci di rendere omaggio al genio eclettico di Baj, documentati nel catalogo unico, edito da Electa, nel quale i due percorsi espositivi si dipanano fra luoghi, forme, materiali e incontri, percorrendo l’affascinante cosmogonia di Baj, epifania di intelligenza e creatività.
Biografia di Enrico Baj
Nasce a Milano il 31 ottobre del 1924, frequenta l’Accademia di Brera e contemporaneamente consegue la laurea in Legge. Nel 1951 promuove il Movimento Arte Nucleare con Sergio Dangelo e, in un secondo momento, con Joe Colombo; insieme abbracciano lo spirito d’avanguardia bohémien tipico dell’immediato dopoguerra. In questi anni di esordio, Baj partecipa ai movimenti d’avanguardia italiani e internazionali con mostre, pubblicazioni e manifesti, collaborando anche con Lucio Fontana, Piero Manzoni, Arman, Yves Klein, il gruppo Phases di Édouard Jaguer a Parigi, Asger Jorn e gli artisti del gruppo CoBrA. Nel 1953 con Jorn fonda il Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista, schierandosi contro la razionalizzazione e la geometrizzazione dell’arte. L’anno seguente organizza gli Incontri Internazionali della Ceramica ad Albisola. Nel 1958 tiene la prima personale a Parigi alla galleria Daniel Cordier, seguita nel 1959 da una seconda alla Galerie Rive Gauche e da altre due mostre alla Galerie Raymond Cordier e alla Galerie du Fleuve. Il suo debutto a New York avviene nel 1960, quando partecipa all’Esposizione Internazionale del Surrealismo, curata da Andre? Breton e Marcel Duchamp presso la d’Arcy Gallery. L’anno seguente il suo lavoro è incluso nella mostra The Art of Assemblage, curata per il MoMA da William Seitz. Nel 1963 a Parigi conosce Max Ernst, che gli affitta il suo vecchio studio lasciato libero da Duchamp. Qui Baj abitera? e lavorera? per lunghi periodi fino al 1966. Gia? membro del Colle?ge de Pataphysique di Parigi, fonda l’Istituto Patafisico Milanese insieme ad Arturo Schwarz, Paride Accetti, Roberto Crippa, Alik Cavaliere, con la presidenza del poeta futurista Farfa e l’intervento di Raymond Queneau. La Patafisica e il personaggio di Ubu saranno per Baj fonte di costante ispirazione. Nel 1964 viene presentata alla Biennale di Venezia una sala dedicata alla sua ricerca, cui seguono importanti personali, fra cui quelle allestite a Palazzo Grassi a Venezia, al Museum of Contemporary Art di Chicago e al Muse?e de l’Athe?ne?e di Ginevra. Numerosi sono i rapporti dell’artista con poeti e letterati italiani e stranieri, da Umberto Eco a Italo Calvino, da Edoardo Sanguineti a Guido Ballo, da Benjamin Pe?ret a Roberto Sanesi e Andre? Pieyre de Mandiargues. Nel 1974 nelle sale di Palazzo Reale a Milano ha luogo una retrospettiva con opere dal 1960 al 1974. Della mostra fa parte Nixon e Kissinger alla parata del Columbus Day, opera suggerita dallo scandalo Watergate, caso esemplare di corruzione e oscenità del potere. La mostra passerà poi al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles e alla Kunsthalle di Düsseldorf. Negli anni ottanta espone, fra gli altri, al Palazzo della Ragione di Mantova, al Center for the Fine Arts di Miami, al Forte di Bard, allo Studio Marconi, alla Galerie Beaubourg di Parigi, al Palazzo Rondanini di Roma e alla Marisa Del Re Gallery di New York. Ampie retrospettive seguono nel tempo a Locarno a Casa Rusca, a L’Institut Mathildenhöhe di Darmstadt e al Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain di Nizza. Nel 1999 Baj realizza una serie di 164 ritratti ispirati ai Guermantes di Marcel Proust. Enrico Baj è anche scrittore e critico: autore di libri, collabora con le pagine di molti giornali e riviste. Baj muore a Vergiate (Varese) il 16 giugno del 2003.
Infine Electa inoltre dedica a Baj un volume della sua collana A-Z, serie di lemmari monografici che raccontano figure eclettiche del Novecento. Il progetto grafico di mostra e dei libri è a cura dello studio Leonardo Sonnoli.
Palazzo Reale di Milano
BAJ. BajchezBaj
dall’8 Ottobre 2024 al 9 Febbraio 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.30
Giovedì dalle 10.00 alle ore 22.30 – Lunedì Chiuso
Foto Allestimento della Mostra a Palazzo Reale Milano BAJ. BajchezBaj credit © Luciano Palmieri