al Metropolitan Museum (N.Y.)
7 ottobre - 16 gennaio
di
Michela GIANFRANCESCHI
«
How could one not love Valentin? His paintings contain such sincerity, such emotion, such true humanity; they possess a rare combination of delicacy and savagery».
Con queste parole
Jean-Pierre Cuzin apre il suo saggio all’interno del catalogo della mostra inauguratasi il 5 ottobre al
Metropolitan Museum of Art di New York.
[1]
La medesima domanda è giusto porre a chiunque abbia già potuto vedere o vedrà le opere del pittore francese
Valentin de Boulogne esposte dal 7 ottobre fino al 16 gennaio 2017 nella sede newyorkese, e a chi avrà modo di intervenire invece a Parigi, dove la mostra sarà trasferita, negli spazi del
Louvre, dal 20 febbraio al 22 maggio 2017.
La questione non è peregrina, trattandosi della prima mostra monografica dedicata al francese dopo quasi quattrocento anni dalla sua morte e quasi altrettanto tempo dal lungimirante invito di
Giovanni Baglione, che nella biografia dedicata al pittore ne sottolinea il valore e la necessità di tenere a mente la sua opera: «
Non si deve passar con silenzio la memoria di Valentino Francese, il quale andaua imitando lo stile di Michelagnolo da Caravaggio, dal naturale ritrahendo. Faceua quest'huomo le sue pitture con buona maniera, e ben colorite a olio, e tocche con fierezza: e i colori a oglio ben' impastava».
[2]
Nel 1935
Roberto Longhi notava la mancanza di uno studio dedicato al più appassionato seguace francese del naturalismo di
Caravaggio. Da allora trascorsero circa quarant’anni fino all’inaugurazione de “
I Caravaggeschi francesi”, la rassegna ospitata a Roma nelle sale dell’
Accademia di Francia e in seguito a Parigi presso il
Grand Palais (1973-1974), curata da
Arnauld Brejon de Lavergnée e dallo stesso
Jean-Pierre Cuzin, ove compariva riunito un gruppo di venti opere di
Valentin (il titolo francese della mostra non a caso recitava “
Valentin et les Caravagescques français”), definito in quell’occasione dagli stessi curatori quale uno dei più grandi artisti francesi del XVII secolo.
Seguirono poi, nei decenni fino ad oggi, la mostra cremonese che riuniva i pittori legati a
Manfredi “dopo Caravaggio” (che era appunto il titolo della rassegna), tra cui figurava anche
Valentin, la cui sezione per l’occasione fu curata da
Brejon de Lavergnée, e la monografia italiana di
Marina Mojana (1989), meritevole di aver raccolto, al tempo, quanti più dati possibile sull’artista;
[3] inoltre la presenza sul mercato internazionale di

svariate tele del pittore che iniziò ad essere avvistato in più di una collezione anche negli Stati Uniti, insieme alle frequenti comparsate all’interno delle mostre a tema caravaggesco, favorì la circolazione del nome del pittore, pur senza garantirne una più concreta conoscenza.
Da tempo il curatore della odierna rassegna,
Keith Christiansen –
John Pope-Hennessy Charmain of the Department of European Paintings presso il
Met – desiderava consacrare un intero allestimento al pittore francese: l’occasione si è presentata nella collaborazione con la storica dell’arte
Annick Lemoine, studiosa francese del periodo caravaggesco – tra i suoi ultimi lavori si ricordano la bella monografia su
Nicolas Régnier (2007) e la mostra
Bassifondi del barocco, curata insieme a
Francesca Cappelletti (2014-15).
[4]
Dopo un lungo lavoro di studio e selezione delle opere, la mostra newyorkese si presenta con quarantacinque dipinti su un numero di circa sessanta attualmente riferibili al
Valentin, offrendo, oltre alla gradita occasione di rimirare le opere finalmente affiancate, un
corpus di notevole pregio per gli studi sul pittore, la cui complessa personalità artistica ancora per molti versi si conserva misteriosa.
Alla sua morte a Roma nel 1632, i registri della parrocchia di
S. Maria del Popolo definiscono Valentin «
pictor famosus»: egli, nonostante un’esistenza
bohémien variamente ricordata nelle biografie, morì all’apice della carriera, nel momento in cui la sua pittura, lontana ormai dall’essere considerata semplicisticamente una rielaborazione del prototipo merisiano (nonostante le parole di
Baglione), era stimata da alcuni dei maggiori patroni delle arti quali
Cassiano dal Pozzo, i cardinali
Ascanio Filomarino, Angelo Giori, e non ultimo il cardinal nipote
Francesco Barberini, che gli aveva commissionato la grande pala con l’
Allegoria di Roma (1628-29,
Villa Lante al Gianicolo,
Institutum Romanum Finlandiae, Roma).
Al finire del terzo decennio si ascrive anche l’altra prestigiosa committenza per la
Basilica di San Pietro, l’eccezionale
Martirio dei santi Processo e Martiniano (oggi nei
Musei Vaticani), grande tela che costituisce la summa delle capacità dell’artista, nella composizione a più figure e nella resa puntuale dei sentimenti. Nella stessa basilica, per volontà di
Francesco Barberini, dal 1629 si ergeva sull’altare a sinistra il
Martirio di Sant’Erasmo di
Nicolas Poussin, astro della pittura francese classicista e antiquaria, che venne così affiancato alla miglior espressione del caravaggismo d’oltralpe a Roma.
Il successo del pittore fu grande anche in Francia, come sottolineano i saggi in catalogo di
Cuzin e di
Lemoine che forniscono diversi esempi dell’apprezzamento riscosso a partire dalla seconda metà del XVII secolo.
[5] La sua pittura colta, da camera, venata di un naturalismo genuino appreso in ambito romano, alla sorgente stessa della rivoluzione dell’arte figurativa d’inizio secolo, fu ammessa nelle stanze personali del re. Del ciclo

di apostoli che segnò un punto di svolta stilistica nel percorso artistico di
Valentin per i rimandi a
Domenichino e alle eleganti declinazioni del caravaggesco
Nicolas Régnier, sono presenti in mostra il
San Matteo e il
San Marco, due tele appena restaurate per l’occasione (ca. 1624-26,
Musée National des Châteaux de Versailles et de Trianon). Le composizioni, pur rispecchiando la tradizionale iconografia degli evangelisti accompagnati dal tetramorfo, esprimono un solido naturalismo, accentuato dal tono intimo e ravvicinato del taglio orizzontale delle tele, e da una solennità calma (notata già da
Mojana), che coinvolge il riguardante trasportandolo nel tempo/spazio sospeso e indefinito dell’ispirazione divina. Le tele entrarono a far parte della collezione di
François Oursel (ca. 1605-1669), noto uomo d’affari e appassionato d’arte, accanto ad altri capolavori della pittura francese e italiana contemporanea, includendo così il nome di
Valentin nell’universo dei “grandi”. Acquistati nel 1670 da
Luigi XIV, l’anno successivo gli
Evangelisti di Valentin ebbero gli onori della stampa, entrando a far parte delle trentotto incisioni di traduzione presentate nel prestigioso
Cabinet du Roy; poco tempo dopo le quattro tele furono accolte, insieme al
Tributo a Cesare (ancora
in situ) nell’arredamento della più importante sala dello
Château de Versailles, la camera del re.
Accostabile al succitato ciclo è il
San Giovanni Evangelista, raffigurazione di potente naturalismo – che
Christiansen in catalogo anticipa di qualche

anno al 1621-22 circa, in accordo con
Richard E. Spear (1971) e
Pierre Rosenberg (1982)
[6] – ove ritroviamo il gesto sospeso del santo, e che certamente è da accostare alle contemporanee espressioni riberesche, quale eccezionale testimonianza del ruolo avuto da
Valentin nella diffusione del lascito merisiano.
Il rinvenimento d’archivio di
Patrizia Cavazzini scopre, inoltre, una traccia della presenza a Roma di tale “
Valentino del Bologna Gallo” in un documento relativo ad una controversia risolta con il conterraneo
Nicolas Noël (“citato come “Nicolaus Natalis Gallo”) risalente al maggio del 1614.
[7] Rispetto al riferimento cronologico fino ad oggi accettato dalla critica del 1620 come inizio del legame di
Valentin con la città pontificia, si apre la possibilità di indagare una prima fase romana della sua produzione artistica, concomitante anche con l’arrivo nell’Urbe di
Nicolas Tournier e prima ancora di
Simon Vouet, rispettivamente nel 1616 e nel 1613. Il nuovo documento va ad avvalorare l’ipotesi che il nome “Valentino”, emerso più di una volta nei registri parrocchiali riferiti agli anni 1609, 1611 e 1615, come reso noto dai recenti e meno recenti studi in proposito,
[8] sia da ricondurre proprio al francese. Su questa base, i
Bari di
Dresda (
Gemäldegalerie Alte Meister, Staatliche Kunstsammlungen) così come il
Concerto a tre musicisti di
Chatsworth (
Devonshire Collection, non presente a New York) possono essere anticipati al 1614-15: ecco dunque le prime tappe del percorso artistico del pittore, oltre che precoci esempi di pittura di genere a Roma, accanto alla straordinaria
Negazione di Pietro di
palazzo Corsini, finalmente assegnata a
Ribera da
Papi nel 2002, dopo lunga incertezza degli studi. Che in queste prime prove ci sia una evidente vicinanza allo spagnolo è dimostrato anche dal crudo
Martirio di san Bartolomeo, databile tra il 1613 e il 1615, proveniente dalle
Gallerie dell’Accademia di Venezia, ove nei cataloghi di fine XIX secolo il dipinto era stato attribuito a
Ribera, per essere ricondotto successivamente da
Longhi al nostro.
Da questi primi esempi, che risentono chiaramente dell’influenza di
Cecco del Caravaggio, le scene di genere di
Valentin, nel corso del secondo e terzo decennio, si complicano nella struttura, arricchendosi di figure, oggetti ed elementi simbolici, che il pittore alterna in modo colto e disinvolto, inserendo frequenti richiami e giochi semantici tra le diverse tele. Nella
Negazione di Pietro della
Fondazione Longhi (ca. 1615-17), proveniente dalla

collezione di
Giovanni Battista Mellini (1591-1627), la scena si svolge intorno ad un frammento architettonico istoriato con figure derivate da una delle tre terracotte presenti in
collezione Farnese, da cui deriva anche la decorazione di un altro bassorilievo in un’altra invenzione valentiniana: il sontuoso
Concerto con bassorilievo del
Louvre (ca. 1624-26), in cui si individua uno stralcio della terracotta con le
Nozze di Peleo e Teti (Parigi,
Musée du Louvre).
Gianni Papi, nel suo saggio in catalogo,
[9] offre una panoramica dell’universo culturale in cui si mosse il pittore in quel primo decennio di attività, dagli esempi di
Cecco, alle suggestioni manfrediane, ricordando come già i curatori della citata mostra sui
Caravaggeschi francesi, avessero individuato suggestioni che avvicinavano il primo
Valentin al
Maestro del Giudizio di Salomone e soprattutto a
Ribera, la cui personalità artistica in ambito romano (lasciò Roma per Napoli nel 1616) è stata approfondita proprio da
Papi più recentemente.
[10] In ossequio a tali studi, l’esposizione newyorkese si apre con tre tele significative: il
Martirio di San Sebastiano (ca. 1611-13,
Warsaw, Muzeum Narodowe) di
Cecco;
Cristo caccia i mercanti dal tempio (ca. 1616-17,
Libourne,
Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie) di
Manfredi e la
Negazione di Pietro (ca. 1615,
Roma,
Galleria Nazionale d’Arte Antica,
Palazzo Corsini) di
Ribera.
L’attribuzione di una tela lascia un velo di perplessità: il
Ritorno del Figliuol prodigo (ca. 1615-16,
Firenze,
Museo della Venerabile Arciconfraternita della Misericordia) mostra una tecnica pittorica leggermente inconsueta nell’uso dei colori, nella materia e nella brillantezza, come fa notare anche
Christiansen, che tuttavia conferma l’attribuzione nonostante gli evidenti rimandi a
Ribera,
Manfredi e certamente al
Maestro del Giudizio di Salomone.[11]
I soggetti dei quadri, in alternanza equilibrata tra sacro e profano, definiscono un universo figurativo molto preciso, in cui i volti dei santi e quelli degli avventori nelle taverne sono trattati con pari attenzione ai dettagli fisiognomici e intensità espressiva. Più in generale non vi è apparente distinzione di valore tra le differenti composizioni (e anche qui emerge la visione del lombardo). Ogni soggetto viene plasmato con la stessa calda materia pittorica, e con la medesima attenzione al dato naturale, come dimostra la struggente tela di
Cristo e l’adultera (ca. 1618-22,
Los Angeles,
J. Paul Getty Museum), in cui il francese risolve il racconto sacro nei toni di una scena di genere, ove nella presumibile cornice della strada troviamo i soldati con le scintillanti armature, posti accanto alla donna, la cui pelle nuda è esposta con grande senso del dramma, mentre la gente, in secondo piano, si ferma ad assistere. È l’intensità dello sguardo di Cristo inginocchiato a riassumere tutto il senso poderoso del passo evangelico, riconducendo la narrazione ad un più alto livello di significato.
Il
Concerto, nelle due varianti di
Los Angeles (ca. 1625-26,
County Museum of Art) e di
Strasburgo (ca. 1627-27,
Musée des Beaux-Arts), offre un catalogo interessante dei personaggi ricorrenti nelle scene d’interno: il bevitore, posto spesso in secondo piano, il suonatore di liuto con cappello piumato, la figura femminile, solitamente centrale, il giovane musico, il vecchio, spesso presente quest’ultimo nelle scene collettive, quasi un monito al fuggire della vita. Più avanti, verso la fine degli anni Venti, le riunioni di musicisti arriveranno a includere fino a quindici figure, diventando delle vere e proprie prove di virtuosismo da parte dell’artista.
Se il sottotitolo dell’odierna rassegna include il nome del “caposcuola”
Merisi, efficacissimo polo attrattore di ogni evento artistico da qualche tempo a questa parte (talvolta anche a sproposito), è da rimarcare l’assenza del lombardo dalle sale, ove può essere evocato unicamente attraverso le tele del
Valentin, indiscusse e meritevoli protagoniste di una successione di crescente livello qualitativo ed emozionale, tanto da ricordare l’andamento coinvolgente di un allestimento teatrale perfettamente riuscito. Nessun ricorso ad elementi esterni alla pittura, nessuna bizzarra istallazione video o musicale, nessun bisogno di attualizzare il racconto del’arte, bensì una piacevole scansione cronologica, che guida il visitatore attraverso le sale del museo, in un percorso visivo raffinato.
I quadri del
Valentin sono bellissimi, realizzati con una pittura calda, a tratti pastosa, in altri casi tanto sottile da mostrare la trama della tela sottostante, eppure sempre densa di colore e sicura nella forma. Ogni composizione, anche la più statica, contiene un implicito senso del movimento: le pose dei personaggi sembrano voler mutare da un momento all’altro, le espressioni dei volti sono fuggevoli, esprimono un moto appena accennato, e ciò è dovuto, a vedere da vicino e con attenzione, a quella caratteristica vibratile del pennello che riesce a sfumare le linee, usando le ombre, anche le più minute, nella definizione dei dettagli. Ogni tratto, ogni linea sulla tela è viva e viene alleggerita o rafforzata con immensa perizia, in una resa finale avvolgente e comunicativa. Gli sguardi dei personaggi rappresentati bucano le tele, i gesti attraggono l’attenzione del riguardante, ogni dettaglio è studiato per suggerire un vincolo forte tra i soggetti rappresentati e la realtà viva e circostante in cui l’opera campeggia, eterna. Solo la mano di un grande della pittura può tanto.
Lì dove
Merisi usa l’artificio teatrale, l’espressione forte della scena allestita nei minimi dettagli,
Valentin ricorre al vincolo psicologico, con cui sottilmente attrae lo spettatore. In molte composizioni, alcuni protagonisti raffigurati guardano a loro volta l’osservatore; in alcuni casi, nelle scene collettive di taverna ad esempio, questi personaggi interrompono la loro attività e deliberatamente si voltano con occhi complici nel tentativo di sottolineare qualcosa, di offrire un suggerimento al riguardante. La volontà di coinvolgere con ogni mezzo è evidente e si fonde magistralmente con il naturalismo ricercato delle composizioni. Nella
Giuditta, la cui datazione è fatta slittare alla fine del terzo decennio (
Valletta,
National Museum of Fine Arts), il pittore rappresenta una donna giovane, sensuale, dolce nei lineamenti del viso, e tuttavia impegnata nel terribile atto di “segare via” la testa di Oloferne: ecco un eccellente esempio di quella “delicatezza” e di quella “ferocia”, notate da
Jean-Pierre Cuzin, che caratterizzano la visione artistica di Valentin, rendendolo ancora oggi un pittore capace di eccezionale presa sul pubblico.
di
Michela GIANFRANCESCHI