Giovanni Cardone Giugno 2023
Fino al 10 Settembre 2023 si potrà ammirare al Palazzo Ducale di Genova nella Cappella del Doge la mostra 5 Minuti con Van Gogh A tu per tu con un Capolavoro a cura di Costantino D’Orazio. L’ esposizione è promossa e organizzata da Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Comune di Genova, Regione Liguria e Arthemisia, in collaborazione con il Kröller-Müller Museum di Otterlo. Nel 2020, in pieno Covid, Palazzo Ducale di Genova e Arthemisia hanno lanciato un nuovo format: la fruizione “a tu per tu” con i grandi capolavori dell’arte. La prima volta è toccato a Monet, padre dell’Impressionismo. Migliaia di visitatori hanno potuto godere della bellezza delle Ninfee come non succede mai nei musei o nelle mostre: da soli, in un rapporto intimo e intenso con l’opera d’arte.

Questa volta tocca all’artista più amato al mondo, Vincent Van Gogh, di cui sarà esposta una delle sue opere iconiche, Paesaggio con covoni e una nascente realizzato a Saint-Rémy-de Provence nel luglio 1889. Nel periodo di maggiore instabilità mentale, Van Gogh realizza quest’opera durante il suo ricovero volontario presso il manicomio di Saint-Paul-de-Mausole e riproduce il panorama che scorgeva dalla finestra della sua cella: un campo di grano, dipinto ad ogni cambio di stagione, a diverse ore del giorno, che diventerà presto il soggetto dominante delle opere di questo periodo e quasi un’ossessione per lui. In una mia ricerca storiografia e scientifica sul Post- impressioniamo e sulla figura di Van Gogh che è divenuta modulo monografico universitario e convegno interdisciplinare apro il saggio dicendo : Il secondo Ottocento vede la nascita degli Stati nazionali, l’affermazione della borghesia e una nuova fiducia nel progresso tecnologico: è il periodo della Seconda Rivoluzione Industriale. Dopo la caduta nel 1870 di Napoleone III e la nascita, in Francia, della Terza Repubblica, Parigi consolida il proprio ruolo di capitale europea diventando sempre più una città borghese, con infrastrutture all’avanguardia, una estesa ed efficientissima metropolitana sotterranea, grandi stazioni ferroviarie con ardite strutture in acciaio e vetro, grandi magazzini dotati dei primi ascensori elettrici, imponenti boulevards ed un grandioso impianto di illuminazione pubblica, realizzato mediante lampioni a gas. Si afferma così quella fama di “ville lumière” (città della luce) che ne diventa descrittiva anche in ambito culturale ed artistico, facendone la meta di tutti i più grandi artisti ed il grembo di tutte le avanguardie. Verso la fine dell’Ottocento, il mondo culturale fu percorso da un profondo cambiamento che portò una pausa di riflessione durante la quale, l’attenzione di gran parte degli intellettuali, si spostò dal mondo della realtà a quello dell’interiorità umana. In questo contesto nasce e si sviluppa in Francia tra il 1880 e il 1890, il Post-impressionismo, non un movimento artistico, ma un clima culturale, nel quale si svilupparono nuove tendenze pittoriche ‘Puntinismo’ e in cui operarono singole personalità artistiche che svilupparono ricerche originali nel tentativo di superare le sperimentazioni impressioniste. Il termine “Post-impressionismo” fu coniato nel 1910, in occasione di una mostra dal titolo “Manet e i post-impressionisti”, dal critico inglese Roger Fry per identificare la generazione di artisti immediatamente successiva all’Impressionismo. Artisti che partendo dalle basi essenziali poste dall'impressionismo proseguono la loro ricerca su strade nuove fino a raggiungere esperienze diverse o addirittura opposte. Questi artisti tra cui Seurat, Signac, Van Gogh, Cezanne, Gauguin concepirono la pittura come ricerca dell’espressione soggettiva, per rappresentare l’interiorità dell’individuo e gli effetti della realtà sull’animo umano. Il Post-Impressionismo, dal canto suo, arriva a superare definitivamente i principi alla base del realismo demolendo il concetto stesso di arte quale “imitazione fedele della natura, cioè di ciò che si vede”.
Questo passaggio determinerà non solo tutta la produzione artistica del nuovo secolo, ma la definizione stessa di Arte; è da allora e grazie a loro che si può affermare che l’arte non è espressione o immagine di qualcosa ma è una “realtà autonoma” con regole, mezzi e caratteristiche, propri. Come è avvenuto per altri movimenti rivoluzionari si pensi al movimento fiorentino che portò alla rivolta rinascimentale, l’impressionismo è sin dall’inizio bersaglio di critiche, ma anche di approfondimenti da parte di artisti, letterati, opinionisti, nonché da parte degli stessi protagonisti. Ciò spiega perché a dodici anni dalla prima mostra il movimento si è già disperso. Le principali critiche che gli vengono mosse battono tutte sugli stessi punti quali la presunta superficialità, la fugacità dell’immagine, la passività del soggetto, la sua assenza di partecipazione. Attacchi e commenti, comunque, non impediscono di guardare agli impressionisti come a degli autentici innovatori. Infatti, dopo di loro, la maggior parte dei movimenti d’avanguardia non possono fare a meno di partire dalle premesse del gruppo di Batignolles. Fra questi si distinguono innanzi tutto i neo-impressionisti e i post-impressionisti. Il neo-impressionismo sorge nel 1884 in seguito alle intenzioni di alcuni giovani pittori di voler fondare la strutturalità dell’immagine impressionistica su principi scientifici: la cosa circola nell’aria da tempo. L’impressione visiva era già stata oggetto di ricerca scientifica da parte di Chevreul era stata portata avanti da Helmholtz a Rood . Nel 1880 Sutter sentenzia che l’arte deve trovare un piano d’intesa con la scienza. Lo prende sul serio un giovane pittore, Georges Seurat che inizia ad elaborare una sua teoria e a sperimentarla di persona. Il nodo centrale è costituito dalla divisione del tono. La luce è fatta di onde elettromagnetiche; ad ogni lunghezza d’onda corrisponde un colore; la sommatoria di tutte le lunghezze d’onda dà la luce bianca. Se si mischiano tutti i colori quello che s’ottiene non è il bianco ma un grigio fango: segno evidente che il colore è solo un simulacro della luce. Tuttavia rimane valido il principio per cui un colore non dipende dal miscuglio di tutti gli altri ma dal loro accostamento. Si potrebbe obiettare che così facendo si perde l’unità del tono. Si risponde che l’unità è ricomposta tenendosi ad una certa distanza d’osservazione. Non solo: la divisione del tono crea anche una certa vibrazione, che è poi l’essenza stessa dell’impressionismo. La prima opera di Seurat eseguita con la tecnica puntinista sperimentata dai neo-impressionisti sulla base del principio teorico della divisione del tono è il Bagno ad Asnières, ma la più famosa è Una domenica d’estate alla Grande Jatte. Una domenica d’estate alla Grande Jatte è un’opera manifesto. Il soggetto è un classico soggetto da impressionisti: una splendida giornata di sole con i parigini che passeggiano sulle rive della Senna. Tutta diversa è però la tecnica: non una pennellata data in plein-air, nessuna improvvisazione; tutto è studiato; tutto è premeditato nel chiuso di uno studio. È ovvio: se la luce dipende dall’applicazione di una teoria scientifica anche la forma che rivela deve dipendere dall’applicazione di una teoria scientifica. Questa forma è la forma geometrica. Ecco dunque ritrovato il teorema pierfrancescano dell’identità fra spazio geometrico e spazio luminoso. Risultato: il quadro è costruito su un ordito di orizzontali e verticali, i personaggi sembrano manichini disposti sul piano erboso come gli scacchi su una scacchiera durante una partita, le ombre formano un angolo retto con i corpi, la profondità richiama la prospettiva di classica ascendenza. Messa in questo modo sembra che Seurat voglia tornare allo spazio euclideo e al rapporto fra vuoto contenitore e pieno contenuto, ma non è così. Infatti, se si guarda bene, il contesto ambientale è una massa luminosa fatta di pulviscolo colorato che vibra e tende a debordare da tutti e quattro i lati della tela, le figure sono volumi cilindrici e conici fatti dello stesso pulviscolo. Insomma con Seurat le macchie diventano astratti pallini di colore disposti secondo un preciso ordine dettato dalla teoria. Dunque quel che Georges sottopone a regolamentazione geometrica non è lo spazio concettuale dei classici, ma quello empirico dei romantici. Lo spazio neoimpressionista è fatto di dosi di luce, non già di misure metriche, compito dell’arte è stabilire le dosi giuste; e questo lo può fare solo lei in quanto arte, non già la scienza. Per Seurat la dose giusta è quando nel dipinto si raggiunge l’equilibrio cromatico-luminoso, e questo equivale a trovare un tono medio proporzionale fra le note cromatiche più chiare e più scure, più calde e più fredde, più intense e meno intense. Ne risulta che il mondo rivelato dall’immagine scientifica di Seurat è un mondo di automi in uno spazio senza vita, un universo senza slanci, privo di sentimenti. Questo universo così ordinato, così controllato tuttavia qualche incongruenza ce l’ha: la scimmietta al guinzaglio, la pescatrice in gonnella e cappellino, le sottogonne rigonfie. Ma queste difformità sono solo eccezioni che confermano la regola. Il simbolismo è una corrente che si sviluppa in Francia negli stessi anni in cui si va svolgendo la parabola dell’impressionismo. Sorge nel periodo di riflusso controrivoluzionario che fa seguito alla comune di Parigi del 1871. Il fenomeno ha a che fare con le reazioni suscitate nei gruppi impegnati sul fronte del rinnovamento dalla restaurazione dell’ordine prerivoluzionario. Queste sono sostanzialmente di due tipi: impressionisti e neo-impressionisti reagiscono con un più rigoroso impegno metodologico scientifico; i simbolisti con il rifiuto della società e l’alienazione volontaria. Il distacco dell’artista dal resto della società non è una novità assoluta. Già l’ultimo Delacroix aveva manifestato una tendenza del genere con i suoi viaggi in Marocco. Ma è con il simbolismo che questa “necessità poetica” si estende ad un intero movimento. La poetica simbolista sembra porsi in antitesi con la poetica impressionista, in realtà vuole essere il suo superamento. Rispetto al neo-impressionismo, orientato nella stessa direzione, si qualifica come via alternativa impostata sulla spiritualità invece che sullo scientismo. Ma come non si può negare una differenza fra simbolismo e neo-impressionismo così non si può negare la loro tendenza ad accomunarsi come discipline spiritualistiche, dal momento che anche la scienza può essere considerata un’entità spirituale. Seguendo le linee del romanticismo sublime, i simbolisti definiscono, in opposizione alla concezione impressionista di un’arte intesa come ricerca strutturale fondata sulla percezione, la concezione di un’arte intesa come strumento di visualizzazione dei contenuti profondi della spiritualità umana, tra cui, primo fra tutti, l’immaginazione. Il punto di partenza è la critica all’impressionismo giudicato arte brillante ma superficiale. Per loro, contrariamente ai neo-impressionisti, l’arte non è un processo analitico della percezione visiva della realtà fenomenica, ma un processo di fenomenizzazione in forme percettibili di realtà invisibili, quali la fantasia, il pensiero astratto o il mondo onirico. Il suo manifesto è firmato da Moréas , poeta e critico letterario di origini greche, nel documento si sottolinea il fatto che l’indirizzo simbolista nasce dall’esigenza di portare l’arte ad occuparsi anche di quelle immagini che sfuggono alla percezione dei sensi, cioè le immagini psichiche, ritenute, chissà perché poi, più pesanti, meno superficiali, più vicine all’anima di quelle ottiche degli impressionisti. Per i simbolisti l’arte è un qualcosa che appartiene al solo spirito, il che vuol dire che deve trarre i suoi mezzi espressivi guardando esclusivamente al proprio io, senza considerare le sensazioni derivanti dal mondo esterno. Questo non significa però interrompere ogni contatto con la realtà naturale; significa solo che la superficie del dipinto non si limita a raccogliere le immagini provenienti dalla realtà oggetto filtrate dalla mente e dalla tecnica dell’operatore, ma che la superficie della tela si eleva a mezzo di supporto dell’operazione di trascrizione delle immagini che hanno origine nella mente dell’artista stesso. Tuttavia non ci si astrae dalle cose concrete, si ricerca in esse i segni inconfondibili dell’elezione spirituale. All’inizio le immagini che salgono dall’interno incontrano quelle che provengono dall’esterno, ma presto questa “osmosi” lascerà il posto alla sola immaginazione. I segni dell’elezione spirituale sono le linee e i colori attraverso cui la realtà percettiva si trasmuta in sagome fluttuanti nello spazio indefinito, note cromatiche che si fanno eco; non si vuole convertire la sembianza in simbolo, si vuole che la sembianza diventi simbolica. Le immagini psichiche non precludono la strada all’indagine strutturale, anche se la loro natura metafisica può indurle a organizzarsi su elementi di diversa origine rispetto a quelli su cui si basa la sensazione del gruppo di Batignolles. Riguardo al ruolo sociale la proposta simbolista suona perentoria: l’arte non sarà più un modello operativo, né uno strumento di ricerca strutturale sulla percezione, bensì un procedimento finalizzato all’indagine della struttura, dei contenuti e dei modi di operare della psiche umana.

Non si cancellano le conquiste impressioniste, si ammette che anche la percezione rientra nel novero degli ordinamenti interiori, ma ne rappresenta solo una piccola parte, quella iniziale: dunque il simbolismo non esclude l’impressionismo, lo ritiene solo limitato. Assai importanti sono le conseguenze del simbolismo. Se l’impressionismo inserisce la pittura in un sistema specialistico di attività il simbolismo fa della pittura un’attività d’élite fatta da e per pochi prescelti. L’impressionismo vede nella disciplina pittorica un modo di stare al mondo; il simbolismo ci vede un mondo in cui stare, cioè vede l’arte come un’attività compensatrice del pragmatismo industriale, capace di creare un mondo alternativo, un’oasi dove rifugiarsi. La cosa ha dei risvolti di classe: il simbolismo contrapponendosi al pragmatismo industriale va costituendosi come cultura della classe dominante e prerogativa indispensabile per la sua pretesa alla direzione culturale della società. Essendo poi lo spirito dell’uomo lo stesso in tutti i luoghi e in tutti i tempi, non ha senso per un’arte che si pone come fine quello di renderlo manifesto contemplare fra i suoi problemi quello del progresso delle tecniche espressive. È per questo che il simbolismo non si ferma all’Ottocento, seguita ad esercitare la sua influenza per tutto il Novecento, fino ad approdare nel nuovo millennio. Così lo ritroviamo nel modernismo della Belle Époque, nell’espressionismo del Blaue Reiter, soprattutto nell’opera di Kandinskij e Klee e nelle varie avanguardie europee. Trionfa ovunque col surrealismo, quindi dopo la seconda guerra mondiale alimenta varie correnti informali. E oggi, laddove le avanguardie vedono esaurita la loro missione storica, sembra rimanere l’unica ancora di salvezza per la sopravvivenza dell’arte del periodo romantico. A dispetto del termine con il quale viene indicato, il post-impressionismo non arriva talmente dopo l’impressionismo da giustificare in pieno l’applicazione del prefisso “post” in ambito storico. Infatti il periodo post-impressionista è contemporaneo in ordine di tempo a quello impressionista; la parabola professionale dei suoi principali artefici si svolge contemporaneamente a quella degli impressionisti. Perché le loro opere si pongono oltre l’impressionismo. Di qui la coniazione del termine che non va dunque interpretato in senso cronologico ma in senso strettamente critico. I principali artefici che danno vita al post-impressionismo sono Paul Cezanne , Vincent Van Gogh e Paul Gauguin . Sono tre fra i più importanti artisti della storia dell’arte moderna; sono tre artisti che, pur rimanendo a tutti gli effetti degli impressionisti, sviluppano poetiche i cui contenuti superano l’impressionismo stesso. Queste semplici considerazioni ci impongono dunque di fare la loro conoscenza. Courbet aveva sancito un principio fondamentale: stare a quello che si vede. L’osservatore non è una lastra ovvero una pellicola che i raggi luminosi impressionano e basta, ma è un soggetto che con questi interagisce; non è una tabula rasa, non è solo un interprete, un traduttore di sensazioni luminose in colori; ma non è neanche soltanto un contenitore di strutture, di contenuti memorizzati, un cervello e basta; non è solo un contenitore di sensibilità che reagisce a degli stimoli esterni. Il soggetto è un insieme di cose molto più complesso delle mere facoltà percettive; è un essere pensante, culturalmente e storicamente determinato, che interagisce con il mondo che lo circonda, cerca di rapportarsi ad esso, cerca di conoscerlo, lo giudica, cerca di difendersi dalla sua aggressività, di non lasciarsi sopraffare; è un essere dotato di anima. Gli studi scientifici sulla percezione visiva confermano quello che è ormai una certezza per tutti gli artisti e cioè che il vedere è condizionato non solo da vere e proprie leggi psicologiche, ma dall’essere in quanto totalità indissolubile di natura e cultura. Insomma noi vediamo come siamo; più che con gli occhi, con la coscienza; vediamo quello che vogliamo vedere. Questo significa che non diamo la stessa importanza a tutto, ma mettiamo a fuoco solo quello che ci colpisce è la nostra natura prevalente questa è stata la grande intuizione di Toulouse Lautrec .Subito dopo la comparsa dell’impressionismo ma in un certo senso anche con l’impressionismo stesso, il problema principale che si pone dinnanzi agli artisti più avanzati diventa quello di stabilire quanta parte del soggetto deve proiettarsi nell’opera d’arte: ormai risulta chiarissimo che la visione non è niente di automatico, ma è ciò che la coscienza investe nella sensazione per avere il controllo sulla realtà, o, se si preferisce, è ciò che la coscienza investe per rendere la realtà anche qualcosa di apprezzabile. Dopo la prima fase romantica il problema dell’arte impressionista si concentra proprio su questo punto, e cioè portare alla luce non tanto quello che è davanti agli occhi di tutti, ma le strutture e i contenuti della coscienza che influenzano la visione umana. Questo significa che il soggetto guadagna sempre più importanza nella consapevolezza che ormai se l’arte deve avere un senso questo sta proprio nella sua qualità di strumento insostituibile per la visualizzazione di sé, una visualizzazione che si fa sempre più diretta, cioè si serve sempre meno dell’oggetto come medium linguistico. Di fronte alla problematica principale dibattuta in questo periodo, cioè il peso da dare al soggetto nella elaborazione finale del processo artistico, Cezanne, Van Gogh e Gauguin intervengono schierandosi dalla parte di chi intende dargli maggiore importanza, però non intendono distruggere altresì le premesse della sperimentazione visiva. Il problema lo aveva già posto alla riflessione degli impressionisti, sin dai loro primi incontri con Degas e riguardava lo stabilire quale parte dell’apparato strutturale del soggetto deve intervenire nella restituzione dell’immagine percepita. Cezanne, Van Gogh e Gauguin approfondiscono questo argomento, cosicché il problema prioritario, con loro, diventa in definitiva quello di stabilire in che cosa si identifica il soggetto: che poi sarebbe la stessa cosa che porsi la questione dell’origine della reattività comportamentale dell’artista di fronte alla realtà. Le risposte costituiscono gli stili dei tre artisti. Con questi tre grandi personaggi il soggetto va ad acquisire sempre più importanza, fino al punto di arrivare alla deformazione della realtà in funzione della visualizzazione delle forze interiori agenti sulla visione del mondo oggettivo.

Queste forze sono le strutture attraverso cui il soggetto ordina e esperimenta il mondo reale: il raziocinio, la memoria, l’immaginazione, l’inconscio e i sentimenti. Per Cezanne il soggetto si identifica con la propria struttura mentale, quell’insieme di meccanismi attraverso cui l’uomo comprende il mondo che lo circonda e vi si relaziona in modo razionale; per Van Gogh il soggetto si identifica con le proprie pulsioni viscerali che lo spingono a partecipare della realtà oggetto in modo convulso e appassionato; per Gauguin si identifica invece con la propria immaginazione, unico vero segno d’elezione dell’attività artistica. Cezanne, Van Gogh e Gauguin sono oltre l’impressionismo perché in loro il dipinto rappresenta la realtà trasformata dalla proiezione trasfigurante del soggetto. La loro identità si spiega, è proprio il caso di dirlo, più che mai con la differenza della loro personalità: razionale quella di Cezanne, mistica e visionaria quella di Gauguin, emotiva quella di Van Gogh. Negli impressionisti il soggetto è parte passiva dell’operazione artistica; si limita a raccogliere, interpretare, definire e collocare le sensazioni su un supporto artificiale quale la tela. Con Cezanne, Van Gogh e Gauguin il quadro ma ormai l’uso di questo termine è improprio diventa una superficie dove si costruisce l’immagine percettiva, non ci si limita a registrarla. Vale a dire che con questi tre artisti il soggetto, con tutte le sue strutture mentali e viscerali, diventa parte attiva del processo formativo dell’opera d’arte; e questo passaggio demarca il confine fra i cosiddetti impressionisti veri e propri e i post-impressionisti. Dunque il termine postimpressionista non indica una differenza generazionale, ma un diverso modo di concepire il peso del soggetto nell’operazione artistica. Cezanne, Van Gogh e Gauguin rappresentano anche tre modi di concepire l’arte come processo creativo. Tutti e tre si trovano d’accordo nel ritenere l’arte operazione finalizzata alla messa in evidenza del processo creativo stesso, quindi convengono sul fatto che l’espletamento di questa operatività creativa si compia mediante tecniche manualistiche tradizionali motivo: l’indissolubilità fra pensiero o immaginazione e azione. In particolare sia per Cezanne che per Van Gogh l’arte è un mezzo di conoscenza operativa, ovvero quel che si conosce con l’arte è l’io come essere identificabile con il proprio processo cognitivo. La differenza fra i due consiste nel fatto che mentre Cezanne concepisce la conoscenza come un’appropriazione mentale delle cose percepite, Van Gogh la concepisce come un impossessamento materiale; cioè mentre il primo intende l’io come un’entità fatta di forme il secondo lo intende come un’entità fatta di forze. Per quanto riguarda Gauguin si tratta del primo artista ad usare l’impressionismo come mezzo di visualizzazione della propria immaginazione, o meglio come processo di formazione dell’immaginazione. Ricapitolando, il problema principale che ci si pone nel post-impressionismo è, in sostanza, quello di definire con che cosa fermare l’attimo transitorio del percepire per renderlo eterno. Cezanne, Van Gogh, Gauguin rappresentano tre proposte di soluzione. Per Cezanne l’attimo diventa eternità nel momento in cui le sensazioni si organizzano in forme, le macchie informi in forme geometriche; per Van Gogh l’attimo diventa eternità quando l’impressione si trasforma in segno; in Gauguin invece quando la percezione diventa simbolo. Per tutti e tre l’attimo diventa eternità quando alla percezione si aggiunge il soggetto, si fa sentire la sua presenza, la presenza della coscienza operante, nel momento in cui la sensazione si umanizza. All’inizio del nuovo secolo il cubismo non modifica di una virgola il quadro ideologico cezanniano, così come gli espressionisti non modificano quello vangoghiano; spetterà a queste poetiche però recidere gli ultimi fili che legano la figurazione artistica all’immagine percettiva della realtà. Mondrian sul fronte del cubismo e Kandinskij su quello dell’espressionismo approfondiranno il discorso, fino ad arrivare alle radici dell’io, ma ciò che non cambieranno saranno le premesse ideologiche da cui sono partiti i tre artisti post-impressionisti. Van Gogh non rappresenta il soggetto, lo vive; non rifà la realtà, esprime come la sente. Di fronte ad un suo dipinto non ci si deve chiedere cosa rappresenta, ma cosa ci fa sentire, come lo ha vissuto, quale è stato il percorso che lo ha portato a trasformare un’esperienza estetica in immagine artistica. A differenza del pensiero realista Van Gogh non concepisce l’arte come rappresentazione, bensì come lotta intrapresa per il possesso dell’essere, battaglia nella quale l’artista investe tutto sé stesso, il proprio sapere, la propria sensibilità, le proprie intuizioni. Per il pensiero vangoghiano l’arte non va colta nell’adesione istantanea e istintiva all’essere trascendente, né in quella lenta e mediata all’essere immanente, ma nel contatto diretto e spontaneo all’istante in cui il veduto si trasforma in immaginato. L’arte non è catarsi, è dramma; la sfera ontologica non è l’essere né l’apparire, né il trascendere, ma il divenire. La conoscenza a cui porta non ha utilità pratica, almeno nell’immediato; allarga semplicemente gli orizzonti della propria esperienza, impegnandola al livello della sensibilità. L’arte deve avere come scopo strumentale la conoscenza di forme e colori. Ma forme e colori non sono l’essere universale, bensì il risultato del rapporto fra due soggetti, l’uomo, da una parte, e la natura, dall’altra, i quali tentano di possedersi l’un l’altra. L’uomo, attraverso l’immaginazione, tenta di inquadrare la natura; la natura, a sua volta, reagisce cercando di non lasciarsi inquadrare. E l’arte si trova proprio lì, nel prodursi del conflitto fra ciò che si vede ed è direttamente controllabile dalla percezione e ciò che si cela ed è svelabile solo con il ricorso all’immaginazione. L’arte come mistero dei misteri va cercata nelle strutture sospese fra l’apparire e l’essere momentaneo, sintetico, opinabile, e come tale si può cogliere solo ricorrendo alla totalità del proprio io, in qualità di complesso organico di senso e intuito, sensibilità e pensiero. In quanto reazione immediata, l’arte per Van Gogh è l’unico vero aggancio dell’uomo con l’essere, dunque la prova inconfutabile del suo esistere e dell’esistere del mondo. Se l’arte è un’esperienza che si fa lavorando e il lavoro comporta sempre una tecnica, l’arte moderna è la risposta tecnica dell’artista dell’epoca tecnologica. Nel Paleolitico fra arte e artigianato non esisteva ancora una distinzione, e il rifare la realtà era un modo per sopravvivere, non per fornire un saggio di perfezione artigiana agli altri membri del gruppo. Allora l’arte non esprimeva nessun modello, ma un modo di affrontare il mondo attraverso gli strumenti propri della condizione umana primitiva. In quell’epoca l’arte era espressione di versatilità manuale, la stessa manualità che permetteva all’uomo preistorico di crearsi frecce, archi per andare a caccia e procurarsi tutto ciò che si rendeva necessario per sopravvivere; era quella stessa disciplina che gli permetteva anche di dipingere pareti e decorare impugnature di propulsori. Oggi, benché il mondo sia assai cambiato, sembra più che mai valido il bisogno che nell’arte venga espressa la capacità di rapportarsi con l’altro da sé. Ma questa capacità non si esprime più nella versatilità del singolo individuo, come è avvenuto per l’uomo del Paleolitico, bensì nell’unico modo che l’artista conosce per sopravvivere, e cioè quello di affrontare la realtà con le sole armi del suo mestiere. L’arte per Van Gogh è il rituale attraverso cui l’uomo si confronta con la realtà quotidiana per non essere da questa sopraffatto. Essendo reazione emotiva, il gesto di Van Gogh non è il gesto organizzato del tecnico, né prevede l’intercessione dell’intelletto: con ciò si esclude la possibilità di adottare strumenti tecnici che abbisognano dell’intervento della mente razionale. Ma la mano dell’uomo primitivo era guidata dalla duttilità che gli permetteva di uccidere una preda come gli permetteva di imprimere una pressione variabile sui tamponi imbevuti di tinta colorata, cioè, in sostanza, dalla cultura dell’uomo cacciatore. Chi guida la mano di Van Gogh è la cultura impressionista. Come Gauguin, Van Gogh dipinge per necessità interiore; come Gauguin è un dilettante autodidatta; come Gauguin distorce l’immagine reale per esprimere quello che sente agitarsi dentro. Ma al contrario di Gauguin non associa alla sensazione della luce i materiali riposti nella memoria, bensì aderisce all’operazione creativa con tutto il suo essere, cioè reagisce alla vita con la sua vita. Van Gogh, alla stessa stregua di Cezanne, dei neo-impressionisti e di Gauguin, non considera più il quadro come un piano di proiezione, ma il piano dove si consuma lo scontro fra l’artista che vuole costruire l’immagine del mondo e il mondo che vuole distruggere la creatività dell’artista, la costruzione della realtà percettiva. Van Gogh in vita è non ha avuto molta fortuna; l’ha avuta dopo morto. Forse perché esprime, meglio di chiunque altro, la crisi esistenziale dell’artista nella società moderna, ma più in generale dell’uomo moderno di fronte alla perdita dei valori tradizionali. Van Gogh pone le basi per lo spostamento della ricerca strutturale artistica dalla percezione degli impressionisti all’azione degli espressionisti, recidendo definitivamente anche l’ultimo, sottile filo che teneva, nonostante tutto, ancora unite la manualità dell’arte con il fare artigiano conservata nell’impressionismo e nel simbolismo. Con lui la manualità dell’arte non esprime più la sapienza tecnica dell’esecutore, ma diventa espressione del bisogno stesso di esistere.
L’Opera
Paesaggio con covoni e luna nascente, 1889
L’8 maggio del 1889 Vincent Van Gogh entra volontariamente nel manicomio di Saint-Paul-deMausole. Davanti a lui si apre la prospettiva di una triste esclusione dalla società: è destinato a vivere tra le urla e le intemperanze dei pazienti che manifestano di continuo la loro instabilità mentale. Per alleviare questa situazione, il fratello Theo riesce a procuragli la possibilità di avere a disposizione anche una camera dove dipingere, al primo piano della struttura. Per un anno, quella stanza sarà il suo atelier, illuminato dalla luce che penetra da una sola finestra, alla quale Van Gogh si affaccia ogni giorno. Il panorama che Vincent scorge da quel punto diventerà presto il soggetto dominante delle opere prodotte durante i mesi che trascorre come “pensionato internato”. Lo stesso campo di grano, dipinto ad ogni cambio di stagione, a diverse ore del giorno, quasi un’ossessione per lui. In una lettera al fratello Theo Vincent confessa: “[…] attraverso la finestra con le sbarre di ferro posso scorgere un quadrato di grano in un recinto, una prospettiva alla maniera di Van Goyen, sopra la quale al mattino vedo sorgere il sole nel suo splendore”. Van Goyen è un pittore olandese del Seicento – un artista barocco, proprio come l’autore degli affreschi della Cappella del Doge - uno specialista del paesaggio senza figure umane, un cultore dei colori tenui e delle atmosfere rarefatte del Nord Europa: anche all’interno del manicomio, durante uno dei periodi più duri della sua vita, Van Gogh non rinuncia a riflettere sulla storia dell’arte, si confronta con la pittura barocca cercando di inserire il suo lavoro nel solco di una nobile tradizione. Lui che si è sempre voluto sentire un pittore tra pittori, non un rivoluzionario e nemmeno un alieno, bensì un artista apprezzato per il suo talento. Di quel campo coltivato esistono almeno dieci versioni, tutte diverse tra loro, tutte uniche. All’inizio del mese di luglio 1889 dipinge Paesaggio con covoni e luna nascente, dove riprende uno schizzo che aveva disegnato in una lettera inviata a Gauguin: “Ne ho uno in preparazione al sorgere della luna sullo stesso campo dello schizzo della lettera di Gauguin, ma i covoni sostituiscono il grano. È giallo ocra opaco e viola […]”. La terra si anima trasformandosi in una superficie mobile sulla quale i volumi dei covoni fanno eco ai pendii morbidi delle colline e ai crepacci dei monti. Siamo all’ora del tramonto, la luna sta sorgendo dietro alle montagne e il grano si tinge di arancione, il tono violaceo dei monti rimanda già ad un paesaggio notturno, i tocchi di pennello risentono ancora del linguaggio inventato dai pittori impressionisti, al quale Van Gogh si sente intimamente legato. Proprio come Monet aveva trattato i covoni e le cattedrali, così Vincent registra il mutamento della luce e dei colori di uno stesso punto di vista nel corso dei giorni e delle stagioni. Per mesi ripete instancabilmente il campo recintato da un muretto a secco con le montagne sullo sfondo, cambia semplicemente il momento della giornata o aggiunge piccoli dettagli: all’alba, al tramonto, alla sera, a volte inserisce un mietitore. Incredibilmente, nel periodo di maggiore instabilità mentale, riesce a portare avanti un progetto artistico estremamente razionale. Programma le sue sessioni di lavoro, studia gli effetti cromatici e calcola i gesti da compiere sulla tela. Paesaggio con covoni e luna nascente è la prova che Vincent nemmeno a Saint-Remy ha mai dipinto in preda alle sue crisi psicotiche, ma ha sfruttato i suoi rari momenti di lucidità per comporre capolavori di chiara matrice impressionista, esaltati da pennellate sofferte e precarie, che segnano la strada verso l’Espressionismo.
Il Kröller-Müller Museum di Otterlo
In vita, Helene Kröller-Müller volle affidare all’arte il compito di traghettare la società verso il futuro, espandendo il mondo delle opere oltre il concetto del bello. Desiderando ardentemente appagare l’intima e profonda esigenza di lasciare un segno del proprio passaggio sulla terra, Helene comprese il valore del contributo che sia lei che l’arte potevano dare. Infatti, tra il 1907 e il 1938 mise insieme una raccolta senza eguali in Europa, che comprendeva dipinti di Picasso, Gris, Mondrian, Signac, Seurat, Redon, Cranach, Gauguin, Renoir e Latour. Ma fu colei che, prima di ogni altro, seppe apprezzare l’opera di Van Gogh, a cui si sentì legata riconoscendo nella sua arte la sua stessa spiritualità personale e non dogmatica. Riconoscendo nel pittore olandese lo stesso tormento che la pervadeva, Helene comprese il senso di modernità rivoluzionario nella violenta trascrizione della realtà contenuta nelle opere di Vincent. La ricerca di assoluto di Van Gogh la disorientava e affascinava; percepiva nei dipinti la stessa inquietudine che sente nella sua anima, che trova consolazione e pace grazie al valore terapeutico della pittura, la porta verso un universo altro. È il 1908 quando acquista il primo dipinto di Van Gogh, poi altri tre nei mesi seguenti e poi altri e altri ancora fino a costituire la collezione di opere del pittore olandese più importante al mondo, seconda solo al Van Gogh Museum di Amsterdam. Helene Kröller-Müller espose i quadri di Van Gogh in Europa e negli Stati Uniti incrementando, così, non solo la fama dell’artista ma anche quella della propria collezione, gettando le basi per convincere lo stato olandese a partecipare alla costruzione del museo. Lavori che iniziarono nel 1937 e che videro, un anno dopo, l’apertura al pubblico del Museo con Helene nel ruolo di direttrice.
Palazzo Ducale Genova
5 Minuti con Van Gogh A tu per tu con un Capolavoro
dal 12 Maggio 2023 al 10 Settembre 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso