Giovanni Cardone Ottobre 2021
Fino al 30 Gennaio 2022 si potrà ammirare a Palazzo Strozzi Firenze la mostra Shine di Jeff Koons a cura di Arturo Galansino e Joachim Pissarro. La mostra è promossa e organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi e sostenuta dal Comune di Firenze, Regione Toscana, Camera di Commercio di Firenze, Fondazione CR Firenze, Comitato dei Partner di Palazzo Strozzi. Main Partner: Intesa Sanpaolo. Possiamo dire che Jeff Koons è una delle figure più importanti e discusse dell’arte contemporanea a livello globale. Questo progetto nasce da una selezione delle più celebri opere di un artista che dalla metà degli anni Settanta a oggi ha rivoluzionato il sistema dell’arte. Sviluppata in stretto dialogo con l'artista, la mostra Jeff Koons, Shine ospita prestiti provenienti dalle più importanti collezioni e dai maggiori musei internazionali, proponendo come originale chiave di lettura dell’arte di Koons il concetto di shine (lucentezza) inteso come gioco di ambiguità tra splendore e bagliore, essere e apparire. Autore di lavori entrati nell’immaginario collettivo grazie alla capacità di unire cultura alta e popolare, dai raffinati riferimenti alla storia dell’arte alle citazioni del mondo del consumismo, Koons trova nell’idea di shine (lucentezza) un principio chiave delle sue innovative sculture e installazioni che mirano a mettere in discussione il nostro rapporto con la realtà ma anche il concetto stesso di opera d’arte. Per Koons il significato del termine ‘shine’ è qualcosa che va oltre una mera idea di decorazione o abbellimento e diviene elemento intrinseco della sua arte. Dotate di una proprietà riflettente, le sue opere accrescono la nostra percezione metafisica del tempo e dello spazio, della superficie e della profondità, della materialità e dell'immateriale. Come dichiara Arturo Galansino Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi : “Abbiamo lavorato diversi anni per realizzare a Palazzo Strozzi questa grande mostra su Jeff Koons, una delle figure più significative dell’arte contemporanea a livello globale, continuando così la nostra sequenza di esposizioni dedicate ai maggiori protagonisti dell’arte contemporanea. Per la prima volta si indaga un aspetto unico e caratteristico dell’arte di Koons, quello legato alla riflettenza e alla luce. Lo “Shine” termine che dà il titolo alla esposizione è il principio chiave delle sculture e dei dipinti esposti all’interno della severa architettura quattrocentesca di Palazzo Strozzi, in un dialogo essenziale tra le forme platoniche delle opere e la regola aurea di un contenitore perfetto. Realizzare a Firenze una delle più importanti mostre di Jeff Koons significa pensare alla città come a una moderna capitale culturale, in grado di partecipare in modo attivo all’avanguardia artistica del nostro tempo” . Mentre afferma Joachim Pissarro: “Jeff Koons insiste spesso sulla dimensione umana del suo ruolo di artista. In effetti, è corretto dire che il lavoro di Koons colpisce e influenza l'umanità, noi tutti, nella diversità di ciascuno. C'è qualcosa di immediatamente coinvolgente nel lavoro di Jeff Koons, qualcosa che parla al nostro cuore in profondità. Tuttavia, la sua opera è tutt'altro che facile. Il suo impatto è diretto e potente, ma i livelli di significato, le complessità e la ricchezza del suo lavoro sono inesauribili. La possibilità di vedere oggi la sua opera a Firenze è estremamente importante: entra profondamente in risonanza con la tradizione del Rinascimento e ci procura un'intensa gioia e un appagamento estetico. Questo è il mistero di Jeff Koons”.  Jeff Koons ha come primaria fonte di ispirazione sia Marcel Duchamp che Andy Warhol, Koons realizza opere che hanno suscitato un ampio dibattito critico e innescato polemiche, ottenendo però allo stesso tempo uno straordinario successo. La sua arte unisce pop, concettuale e postmoderno dimostrando come l'opera d'arte agisca quale metafora più ampia della società e della comunità.
Partendo da queste riflessioni ed analisi è nata una mia ricerca sui nuovi linguaggi contemporanei e in particolar modo su l’arte concettuale contemporanea che vede in Koons uno dei maggiori esponenti, questa mia ricerca è divenuta un convegno universitario interdisciplinare ed io scrissi in questo saggio :  Qualcosa è cambiato! Non si tratta di scuola, di forma, o di stile, la mutazione è avvenuta dall’interno, si tratta di un fenomeno che ha intaccato alle radici il concetto stesso di arte. Il cambiamento non interessa un solo luogo, una regione, una nazione, si tratta di un virus che ha ammorbato due continenti, America ed Europa, con una molteplicità di nomi, correnti, artisti, critici, tutti d’accordo nell’attribuire la scintilla che ha innescato il cambiamento, alla condizione in atto, la condizione postmoderna. Tutto è influenzato dallo Zeitgeist, lo spirito del tempo, al quale si può cedere o reagire, ma che comunque impone la sua influenza. Le reazioni sono ovviamente diverse, legate alla cultura che ospita la condizione stessa. Solo il ritorno alla pittura sembra essere un comune denominatore nel mondo degli artisti. In realtà non muta solamente il modo di operare nell’arte, bensì cambia soprattutto il modo in cui essa viene fruita. La corsa all’acquisto di Van Gogh, di Picasso, di Fontana, di Warhol, comincia proprio sul finire degli anni Settanta, per raggiungere l’apice a metà degli anni Ottanta creando un mercato di disseminata corsa al rialzo basata più sul nome dell’artista che sulla qualità dell’opera, ed immettendo nel contempo un notevole numero di falsi velocemente assorbiti da un pubblico impreparato. La comunicazione di massa, la velocità con la quale viaggiano le notizie, un benessere diffuso, portano all’assalto dei musei, di fronte ai quali si è disposti a fare ore di fila pur di entrare. L’arte entra nelle case non più come gratificazione intellettuale od orgasmo visivo, bensì come investimento o status symbol. Anche sotto questo aspetto, l’Europa assomiglia sempre più all’America, paese in cui bisogna intendersi d’arte per far parte dell’élite sociale o per lo meno di quella che si ritiene tale. Anche il mondo politico occidentale ha un atteggiamento positivo nei confronti dell’arte contemporanea. In Francia un ministro della cultura socialista che come nessun altro dei suoi predecessori aveva sostenuto l’arte contemporanea divenne uno dei membri più popolari del suo gabinetto. Mentre in Germania un cancelliere conservatore ha dimostrato una grande apertura nei confronti dell’arte contemporanea e non ha esitato a patrocinarla con dispendiosi vernissage. Ed anche i Länder e i comuni nella Repubblica Federale Tedesca, le città, le province e le regioni in Francia, in Italia, e nei Paesi Bassi, così come mecenati privati in Inghilterra, cercano di superarsi l’uno con l’altro nella fondazione di nuovi musei e gallerie d’arte. Tutto ciò, in un momento particolarmente critico dell’arte o perlomeno della sua evoluzione, porta ad una febbrile ricerca del nuovo. Se si getta uno sguardo sulle diverse correnti artistiche degli anni Ottanta, quello che di primo acchito salta all’occhio è la frequente utilizzazione dell’aggettivo “nuovo”: si parla di “nuovi” pittori selvaggi, di una “nuova” arte figurativa, di una “nuova” pittura tedesca e austriaca. Alla luce del nuovo appare tutto quello che merita di essere preso in considerazione. In un lasso di tempo assai breve ai “nuovi” selvaggi è seguita una corrente artistica con un programma neogeometrico, abbreviato “neogeo”. Ma non è tutto, i neofigurativi e i neogeometrici non avevano ancora terminato le loro esposizione a New York, a Colonia, a Parigi, a Vienna, a Londra, e a Milano per recarsi in tournée nelle diverse gallerie e musei di fama internazionale, che già i neoconcettualisti attiravano l’attenzione del mondo artistico. Quanto viene lanciato in primavera, si rivela spesso già in autunno, sorpassato. Strano a dirsi sono i già citati critici d’arte i primi a lamentarsi se non c’è subito qualcosa di “nuovo”. L’opera d’arte assume il valore dell’oggetto firmato, del capo di moda. Ma le mode passano. Il fascino intrinseco in un oggetto d’arte non dovrebbe consumarsi. Anzi! Le gallerie d’arte negli anni Ottanta aumentano a vista d’occhio, sembra che riescano a riprodursi come un’entità autonoma. Autonoma rispetto all’arte. Il critico scopre, l’artista produce, il mercato esaudisce i desideri di tutti. Il potere del mercato, che sempre più spesso riesce a condizionare il pubblico, aumenta. Ciò che maggiormente è quotato maggiormente lo sarà e pertanto va acquistato.
Ciò che viene maggiormente acquistato diventerà esclusivo ed aumenterà maggiormente il suo valore. Ed intanto la creatura cresce! Negli Stati Uniti, le agevolazioni fiscali per chi acquista un’opera d’arte sono molteplici, ed è infatti negli USA che negli anni Ottanta assistiamo ad una vera e propria esplosione del mercato. Al fenomeno Wahrol, che deve anch’esso molto a questo favoloso e ricchissimo, sul piano economico, decennio, conferma definitivamente la sua corsa verso cifre fino ad allora impensabili. Ad esso seguono fenomeni come Julian Schnabel, Jeff Koons, e non ultimi Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. L’artista incarna, spesso, il ruolo dell’objet trouvé, della scoperta, del ragazzo di strada portatore sano di genialità al quale critica e mercato riservano, finalmente, il trattamento che gli si doveva. I mercanti, i galleristi fanno forza, talvolta, proprio sull’aspetto più poetico della genialità incompresa per affermare le loro scoperte. Basquiat incarna la figura bohémienne dell’artista maledetto di fine millennio, inizialmente sottovalutato e non capito come Vincent Van Gogh, poi acclamato ragazzo prodigio come Michael Jackson o come Mozart. L’artista non sembra proporre solo le proprie opere, bensì anche e soprattutto il proprio ambiente. Ed è proprio il termine ambiente un’altra parola chiave di questo periodo. La pittura si mette in relazione con il mondo esterno, non è più chiusa in se stessa, si pone come medium tra due mondi, quello pittorico e quello extra-pittorico. Muta anche l’ambiente nel quale si trovano ad orbitare gli artisti. L’arte diventa mondana e salottiera. Le vernici sono l’occasione per incontrare i divi più famosi del panorama artistico. Critici, galleristi ed artisti conquistano le copertine dei rotocalchi, fanno parlare di sé più che delle loro opere. Durante le cene ufficiali diventa buona abitudine essere aggiornati sulle ultime tendenze. L’artista diventa divo riconosciuto ed acclamato da un giorno all’altro. I casi di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring sono i più eclatanti in questo senso, ma non rimangono certo fenomeni isolati. New York è la città dalle mille possibilità e su di essa si concentra l’attenzione degli operatori d’arte di tutto il mondo. Anche artisti italiani si trasferiscono in America. Con una vena molto preziosa, ma ugualmente personale, la nascita della graffiti art spinge al limite i confini che separano l’arte colta dall’arte popolare. Se la maniera decorativa usata dagli artisti di cui prima si è parlato potrebbe essere etichettata spregiativamente come preziosismo, Kitsch o roba di cattivo gusto, la graffiti art, nel suo autentico fondamento, mette in questione le implicazioni di una bellezza controllata di fronte alla nota, forse anche assurda, deturpazione perpetrata dai “badboys”. L’arte dei graffitisti sembra urlare, l’espressione è di Sokolowski, il diavolo mi ha costretto a farlo. Accanto alla graffiti art, si sviluppano, sempre negli USA, altre etichette come pattern painting, bad painting, decorative art, narrative art, east village, new image tutti modi di esprimersi che sono accomunati dall’intento generale di abbattere il concetto di avanguardia. La produzione artistica diventa così ricca ed eterogenea che si potrebbe paragonare allo spaccio di un supermercato, o meglio, di un grande centro commerciale. Durante la passeggiata ideale che ci porta al centro commerciale ci inebriamo dei graffiti stesi alla rinfusa sui muri della città come una seconda pelle, della pubblicità fotografica di raffinata e stridente eleganza, degli effetti ottenuti al computer utilizzati nei manifesti, delle varie immagini di riproduzioni di opere d’arte più o meno note ecc.. Una volta arrivati al centro commerciale l’atmosfera non cambia. Tra gli scaffali troviamo immagini di reminiscenza pop, oggetti Kitsch, confezioni decorate con ogni tipo di soluzione. Allo stesso tempo l’immagine globale dell’interno del supermercato appare come una grande opera nella quale imperano colori e materiali. Tuttavia, all’interno delle confezioni del supermercato si conserva pur sempre il cibo, un bene irrinunciabile come il contenuto ignoto che rende l’arte così importante. Gli oggetti da supermercato li ritroviamo nelle opere degli artisti, come se lo scambio arte - market avvenisse vicendevolmente. L’arte americana degli anni Ottanta è un’arte multiforme, multicolore, multietnica e multirazziale anche perché, finalmente, gli artisti di colore sono considerati alla pari dei loro colleghi. Rimangono dei punti nodali come la decorazione, lo pseudofumetto che sempre più spesso affronta temi reali scottanti e l’espressione, una sorta di recupero dell’istinto metropolitano privo di briglie.
Anche l’arte tedesca degli anni Ottanta si avvale della ludicità e dell’espressione per portare l’attenzione verso i temi trattati. Tuttavia l’interesse rivolto nei confronti della realtà sembra rifarsi a due tendenze, entrambe riconducibili alla Neuen Wilden. La prima tenta di proporre temi storici, spesso legati anche al nazionalsocialismo ed alle terribili atrocità che lo hanno reso noto, con una formula estremamente individuale e spesso con un’ironia graffiante e decisamente hard. La seconda inserisce temi infantili in atmosfere cupe e claustrofobiche, la tela Guerra Cattiva  del 1983, di Martin Kippenberger nella quale si crea un netto e stridente contrasto tra un Babbo Natale ed una nave da guerra è particolarmente rappresentativa. La definizione “nuovi selvaggi” per esempio, era stata coniata dal direttore del museo di Aquisgrana, Wolfgang Becker, in un saggio riguardante artisti quali Robert Kushner e Kim Mac Connel e l’aveva anche applicata ad artisti quali George Baseliz, Markus Lüperz, A. R. Penck e Anselm Kiefer. Becker intendeva sollevare la questione se fosse plausibile stabilire delle relazioni tra i drappeggi sontuosi degli americani, i quadri espressivi degli artisti tedeschi e la cerchia dei fauvisti attorno a Henri Matisse. Si riproponeva quindi il vecchio problema dei rapporti tra il fauvismo francese e l’espressionismo tedesco intorno al 1910. Effettivamente Becket avrebbe dato inizio ad una discussione interessante, anche perché nel suo saggio aveva tentato di spiegare non solo l’aumento di tendenze espressive e figurative nell’arte contemporanea, ma aveva anche messo in rilievo la connessione tra gli sviluppi neofigurativi dell’arte americana e tedesca, stabilendo il loro punto di riferimento comune all’interno della tradizione europea. Purtroppo la discussione non ebbe mai luogo. Si utilizzò invece la definizione di Becket, che si prestava sicuramente a delle contestazioni, per artisti che all’inizio degli anni Ottanta fecero improvvisamente irruzione nel mondo dell’arte contemporanea con un’esuberante attività, cambiandone improvvisamente la configurazione. La causa di questo malinteso può essere ricercata nel fatto che questi artisti effettivamente si servivano di un linguaggio figurativo. Meno comprensibile è il fatto che Baseliz, Lüperz, Penck e Kiefer siano stati definiti i “padri dei nuovi selvaggi”.  La situazione nella Repubblica Federale Tedesca negli anni Ottanta risulta particolarmente difficile e tutta la tensione dei nuovi selvaggi sembra preludere a quell’atto liberatorio, la caduta del muro di Berlino, cui tutto il mondo assisterà nel 1989. È curioso vedere come alcuni artisti della Repubblica Federale Tedesca, come Markus Lüperz e George Baseliz, abbiano scelto un look particolarmente rétro degli anni Trenta-Quaranta, molto evidente dalle foto di gruppo fatte alle inaugurazioni delle mostre. La situazione si fa ancora più complessa se rivolgiamo l’attenzione anche al territorio francese, dove si comincia a parlare di figuration libre e neoclassicismo francese, con effetti molto simili a quelli ottenuti dalla Transavanguardia, dagli espressionisti tedeschi, dagli anacronisti e dai citazionisti italiani. Tutto, a questo punto, dovrebbe, almeno ad un livello generale, cominciare ad essere chiaro. In realtà ogni tipo di analisi applicata a questo periodo corre il rischio di essere messa in discussione per una caratteristica comune, come abbiamo visto non è l’unica, a tutte le tendenze prese in considerazione all’interno di questo lavoro, il nomadismo e alla trasversalità. L’artista postmoderno è un senza tetto che cerca rifugi occasionali, e che manifesta la propria difficoltà di identificarsi in un gruppo proprio con il desiderio di non appartenenza. Questa difficoltà di identificazione sembra però essere ambiguamente superata e trovare una propria soluzione grazie al mercato. La discontinuità originariamente, non era un atteggiamento intenzionale, era piuttosto il disagio provocato dal nostro stesso lavoro nato da instabilità, insoddisfazione, desiderio di libertà. Con il tempo purtroppo, si è tornati allo “stile”, ad un linguaggio identificabile. Il mercato, le gallerie sono state delle vere e proprie interferenze, in parte hanno smorzato la vitalità iniziale fatta di continua fabbrica di misteri e di corti circuiti. Il mistero e l’alchimia presenti in origine negli artisti postmoderni si sono velocemente esauriti, perché essi non avevano calcolato di essere pur sempre creature senza pelle esposte a qualsiasi stimolo ed in balia della realtà oggettiva. Anche i galleristi assumono posizioni diverse, vi è chi si impegna in prima persona nei confronti del sistema come il mercante Emilio Mazzoli di Modena, chi invece cerca di staccarsi da ogni sorta di struttura dettata dal mercato come il gallerista Tucci Russo di Torino il quale in una recente intervista dichiara che gli anni ‘80 sono stati anche per le gallerie private il periodo più ricco e intenso dell’arte contemporanea. Negli anni ‘80 ho cominciato a fare mostre di artisti stranieri e a fare delle scelte che non fossero quelle condizionate dal mercato. Nel 1979 ho fatto al prima mostra ad Enzo Cucchi e l’unica peraltro perché mi sono reso conto che quel tipo di percorso mi interessava relativamente proprio perché metteva le basi per un tipo di mercato che cominciava a diventare un po’ troppo violento secondo il mio punto di vista... La grande sovrapproduzione di opere d’arte e di artisti, non permette, neppure agli addettia i lavori, di seguire con attenzione quello che succede, è quasi come se il mercato fosse preponderante rispetto alla vera esigenza del fare arte. In questo modo vengono fuori delle false proiezioni imposte dal mercato per poter vendere a prezzi non “reali”... l’immediata riconoscibilità e lettura attraverso la figurazione proposta da certi artisti, ha fatto rapidamente crescere i prezzi in maniera non reale. A questo punto mi sia concesso pensare che l’irrefrenabile nascita di etichette sia stata funzionale al mercato capace di influenzare gli artisti a tal punto da limitarne la libertà. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la civiltà di massa costituisce per l’arte moderna, al tempo stesso la garanzia di un incremento infinito delle proprie possibilità espressive e comunicative e la negazione ben definita, oppressiva e perfino demoniaca, del concetto stesso di fare arte come operazione individuale, libera, formale ed autentica. L’arte trova il “suo” mercato proprio in quanto rifiuta certe leggi dominanti della produzione capitalistica... però nella misura in cui si crea un “suo” mercato, accetta le regole del mercato capitalistico ed è perciò costretta... ad accostarsi sempre di più agli umori, ai gusti, alle abitudini, alle tendenze e alle richieste delle masse che chiedono visioni di libertà e di riscatto, ma impongono poi lo spessore delle proprie mediazioni intellettuali e morali per accettarle (e “comprarle”. Cosa sarebbe accaduto se il mercato non avesse richiesto una riconoscibilità alla quale la maggior parte degli artisti ha finito col cedere? Avremmo assistito ad una rivoluzione vera e propria o sarebbe stata comunque castrata a metà percorso come mi pare di poter affermare sia successo? È esistito realmente il postmoderno o è esistita solo la condizione per la quale il postmoderno sarebbe potuto esistere? Con un ironico accenno al celebre articolo di Francesca Alinovi, quel che piace a me è dovuto diventare inevitabilmente quel che piace a loro. La lotta operata nei confronti del concetto di avanguardia si è dimostrata una lotta contro i mulini a vento, il postmoderno contesta alle avanguardie il loro utopismo, ma considera utopia quello ch’era progetto e, represso, è fallito. Sostiene che il fatto di essere (o esserci) esime l’opera da ogni ricerca sulla sua ragione dei essere, che riporterebbe ad una progettualità e finalità sia pure soprannaturali. Ponendo l’attualità come un carattere del moderno, per il qui-ora del postmoderno dirò presenzialità. Consiste nell’identificazione del valore col prezzo, della realtà del fatto artistico con la sua realtà economica. Se il valore muta col prezzo, non ha più la stabilità concettuale che gli si attribuiva quando si pensava che mutasse bensì, ma come processo evolutivo o rivoluzionario della storia. La mutabilità del valore-prezzo è in rapporto con la frequenza ed il volume del consumo: tanto maggiore, naturalmente, quanto più il prezzo, che aumenta il consumo, prevale sul valore, che lo rallenta. Non è stato sufficiente nemmeno diventare dei trasversali, dei nomadi per conservare la propria libertà. La civiltà dell’arte, se ironicamente vogliamo chiamarla così, alla fine ha prevalso, l’operazione si è verificata a metà, il mercato ha avuto il sopravvento ed ha incanalato gli artisti in molteplici scatolette ed ha cominciato a collezionarli uno ad uno come tanti bei soldatini quotati e riconoscibili. Malgrado le teorizzazioni che parlano di superamento delle avanguardie storiche, la postavanguardia ripropone solo una restaurazione del concetto stesso di avanguardia. Sostiene di applicare una rimozione, ma produce una riforma, tanto che nel suo procedere fa dell’inattuale rivisitazione della storia una definizione di attualità. Ma non è tanto il richiamo al passato a disturbare, quanto l’efficacia simbolica, una “rettificazione” della storia, che sembra auspicare un ri-cominciamento e una rinascita del spere-autorità.
Oggi però l’avanguardia è pienamente accettata e ufficializzata tanto da diventare una pratica comune e banale. Non se ne può più parlare, poiché la violazione delle regole è retorica e il discorso intellettuale non si svolge più all’interno della dialettica tra avanguardia e avanguardia, come dire tra tradizione e tradizione. La permutabilità dei termini comporta una sfida alla progressione delle tendenze e dei movimenti, quanto un interscambio tra progresso e regresso, rivoluzione e reazione, sviluppo e involuzione, qualità e quantità. A questo stadio ogni segno si sottrae a critica e si assicura un rango storico, senza farlo perdere all’altro... L’effetto omogeneizzazione di cui le attuali ricerche soffrono è conseguenza di un conformismo generalizzato secondo cui si è ridotto lo spazio riservato alle scelte personali e ampliato il territorio del mediocre e del servile, quanto di un indottrinamento caratteristico di una società che, nell’associazione paritetica dei prodotti, tende ad abolire dissociazione e discussione. Anche il decoro e il redesign della storia, così da disintegrare qualsiasi segno di alterazione e di effervescenza. Anzi, per non correre il rischio di dissociarsi, si dirige verso un’imitazione passiva del passato che, riciclato mediante la citazione, si fa “contemporaneo”, così da soddisfare la richiesta del consumatore. In questo senso, il nuovo si intuisce a copia del moderno e soddisfa il doppio ruolo di un oggetto che è “sperimentale” poiché si basa sulla sicurezza del modello storico. Il soggetto di vendita è quindi sicuro, si muove tra la tradizione dell’avanguardia e l’avanguardia della tradizione. Arte senza rischio quella postmoderna, soprattutto per il mercato, secondo Germano Celant, già accademizzata grazie ai riferimenti storici dei quali si fa scudo, ma allo stesso tempo debole come il pensiero che la sostiene. Tutto ciò che affermato Celant si avverato oggi più di ieri il sistema dell’arte è stato sostituito o meglio divorato dal mercato. Da questo momento che nasce il rifiuto che le neoavanguardie oppongono alla differenza tra arte e realtà, ossia tra oggetto artistico e oggetto comune con la conseguente rinuncia alla forma artistica e quindi alla sua autonomia a costituire il tratto distintivo di quell’arte attuale che tende per molti versi a coincidere con l’industria culturale. Non a caso i mass media, sempre più nel passaggio dal ventesimo al ventunesimo secolo, si sono appropriati delle tecniche delle neoavanguardie, tanto che le stesse provocazioni artistiche rientrano nel circuito commerciale, essendo inserite in una dimensione di spettacolarizzazione. La conseguenza è che, se il sogno dell’avanguardia era quello di redimere la vita per mezzo dell’arte, ora, negli ultimi tre decenni, è l’arte stessa, o meglio la rappresentazione, a farsi vita, proprio nel momento in cui l’opera ha rinunciato alla forma. È quanto, non a caso, troviamo negli attuali reality show, come anche nel tentativo di Jeff Koons di fare della sua vita appunto un’opera d’arte: il che significa rinunciare alla vita per l’arte e, insieme, pensare che si possa presentare la vita senza più rappresentarla, con la conseguente messa fuori gioco di ogni possibile auraticità dell’opera. Più in generale, si può dire che la riconnessione tra arte e vita è avvenuta precisamente attraverso la cultura dello spettacolo, che ha da tempo assimilato gli strumenti dell’avanguardia, riprendendo sia le “ripetizioni” delle neoavanguardie, sia la cultura industriale: il risultato è una revisione della nozione stessa di “valore estetico” e, insieme, appunto, una eliminazione dell’aura. Se infatti prendiamo in considerazione un ready made di Marcel Duchamp, come per esempio lo scolabottiglie del 1914 presentato come opera d’arte, ci accorgiamo che, in questo caso, è esattamente il valore estetico dell’opera, e con ciò stesso la sua autonomia, a essere messo in questione, dal momento che in un contesto borghese il valore artistico dipende invece proprio dall’autonomia dell’oggetto, cioè dalla possibilità di separarlo dal mondo. In questa prospettiva, se la maggior parte dei ready made di Duchamp propone la sostituzione degli oggetti di valore d’uso con gli oggetti di valore estetico e/o di scambio- esponibilità uno scolabottiglie al posto di una scultura, appunto i ready made di Koons, invece, suggeriscono che tutti questi valori estetico, d’uso, e di scambio- esponibilità sono ora assimilati dal valore di scambio del segno. In altre parole, essi lasciano intendere che noi desideriamo e consumiamo non tanto merce in genere, ma merci con una marca precisa, e questa passione per il segno, questo feticismo del significante, regola anche la nostra percezione dell’arte: desideriamo e consumiamo “i Koons”, non l’opera in sé, sì che, mentre questo artista aumenta di valore sul mercato, la stessa cosa succede per le merci che egli produce. Insomma, Koons porta a compimento quanto già Benjamin aveva predetto: il bisogno culturale di compensare la perdita dell’aura dell’arte con la “falsa attrattiva” della merce e del personaggio famoso. Così, soprattutto con Koons, l’aura perduta dell’arte viene sostituita dalla falsa aura della merce: un paradosso, visto che la merce sminuisce l’aura artistica e, nello stesso tempo, trasforma il ready made da dispositivo che demistifica l’arte a uno che la mistifica nuovamente. Da questo punto di vista, il precedente è sicuramente Warhol, che è stato di fatto solo un precursore di ciò che oggi è diventata la norma: negli ultimi anni, non a caso, il cinismo artistico-commerciale e l’esasperazione del “mito dell’artista”, del quale Warhol è stato nel suo tempo uno dei massimi esponenti, hanno raggiunto uno sviluppo fino ad allora inimmaginabile: basti pensare alle opere-operazioni del già citato Jeff Koons o di Damien Hirst. Insomma, il fattore economico oggi gioca indubbiamente un ruolo importante nel processo di destabilizzazione, e insieme di dis-auratizzazione, dell’arte; del resto, è anche vero che sempre più l’artista, se vuole ottenere l’attenzione dei media, deve essere in grado di “fare notizia”. Così, quello che caratterizza il nostro mondo è il fatto che il pluralismo nell’arte, vale a dire il riconoscimento di una coesistenza di diversi modi di intendere la produzione artistica, è ora reso impotente dal “mercato dell’arte” il quale prescrive, esattamente come la moda, ciò che è appunto, di volta in volta, “di moda” nell’arte stessa. In questo quadro, a partire dagli ultimi decenni del Novecento, si può senz’altro parlare di una vera e propria “svolta reazionaria” dell’arte, intendendo con ciò, tra l’altro, il prevalere di un realismo del tutto acritico e simulacrale. In tal senso, contro il modernismo si assiste alla resurrezione di vecchie forme come la pittura a olio e la scultura in bronzo, con il conseguente abbandono del mondo dell’arte nelle mani del mercato come mai prima era avvenuto. A questo proposito, è esemplare ancora una volta la produzione di un artista come Koons le sue opere di scultura e pittura, infatti, soprattutto dopo gli anni Ottanta, si configurano sempre come imitazioni naturalistiche della realtà; ed è proprio questo realismo acritico a presentare una totale assenza di stile, e quindi di forma, come lo stesso artista ammette: “Le mie opere  rispettano l’integrità dell’oggetto al punto di far scomparire qualsiasi traccia di intervento manuale da parte mia». In queste opere, insomma, a emergere è una totale assenza di quel senso critico, e insieme di quella ironia, che invece caratterizzano le opere d’arte della modernità adornianamente intesa. La conseguenza è che quello che nelle opere moderne si presenta come “negazione” della realtà quale essa è di qui, appunto, la sua dimensione utopica, e insieme auratica nelle opere di Koons, e in quelle di molti altri artisti attuali, si presenta piuttosto come una dimensione “affermativa” nei confronti del reale, tanto da tradursi in una piatta accettazione dell’esistente. Così da contrapporsi a quella dimensione ancora iconica ed epifanica che caratterizzava alcune avanguardie dei primi del Novecento in modo esemplare l’Astrattismo oggi, in molte produzioni artistiche contemporanee la pretesa di trovare il Senso nell’opera fa di questa non già un’icona bensì un vero e proprio “idolo”: non c’è alcun rimando, alcun “di più”, alcuna “epifania”, tutte dimensioni queste che invece avevano a che fare con la nozione di aura. In questo caso, infatti, a essere negata è ogni dimensione rappresentativa in nome di una presenza che, nel suo darsi come assoluta, pretende di esaurire ogni senso. Rispetto dunque all’iconicità dell’Astrattismo dei primi decenni del Novecento, e all’iconoclastia dell’Espressionismo Astratto americano, che ha in Jackson Pollock il maggiore rappresentante e nel quale la forma è messa in questione fino ad arrivare a quell’informe che è l’opera ormai identificata con un work in progress, tendono ora a prevalere opere che si offrono a noi come autentici idoli, nel paradosso di una dimensione mimetico-naturalistica che finisce col negare, di fatto, ogni funzione rappresentativa. Qui, ormai, arte e industria culturale fanno tutt’uno. Invece con il rifiuto delle opere minimaliste almeno in prima battuta, sembrano porsi totalmente nel segno di una negazione dell’aura. Così, le opere di Judd, costituite da file di scatole fissate alla parete, in quanto materiali di tipo industriale disposti in moduli seriali senza alcuna gerarchia, implicano l’eliminazione di ogni intervento manuale e presentano così la massima impersonalità. Allo stesso modo, per Carl Andre l’identità dell’opera si risolve nei componenti industriali prefabbricati, e tuttavia il merito specifico di questo scultore è quello di avere ribaltato il valore della verticalità della scultura, realizzando lavori assolutamente orizzontali: la scultura si offre come pura “pavimentalità”, e il fatto che si possa camminare sopra queste opere annulla ogni tipo di rapporto basato sulla contemplazione e insieme ogni concezione monumentale della scultura stessa. Più in generale, la formula “una cosa dopo l’altra” implica l’assenza di forma, di direzione e quindi di senso; non solo, ma con la sua tendenza a ricorrere a elementi di origine industriale o di uso commerciale, il Minimalismo ha in comune con la Pop Art un rinnovato interesse per il ready made di Duchamp, la cui attualità, non a caso, era stata rilanciata dalle opere di Jasper Johns alla fine degli anni Cinquanta, come il Bersaglio con quattro facce e la prima Bandiera. Resta comunque il fatto che c’è un’importante differenza tra gli artisti minimalisti e quelli pop: questi ultimi lavorano su immagini già fortemente connotate (fumetti o fotografie di personaggi pubblici), mentre i minimalisti usano elementi che non hanno alcun contenuto specifico, scoprendo anzi che alcuni materiali, come per esempio i mattoni, potevano essere usati senza alcuna manipolazione. Inoltre è proprio l’uso di mattoni o di altri materiali industriali, caratterizzati dall’identità di formato, che permette ai minimalisti di eliminare qualsiasi rapporto gerarchico fra tali elementi: si dà soltanto la ripetizione e la progressione seriale, eliminando così, con la dimensione dell’aura, quelle idee di centro e di necessità interna che stanno invece alla base della rappresentazione realistica propria dell’arte del xx secolo. In particolare Johns rifiuta non solo l’idea che il contenuto delle forme possa fondare la loro significazione, ma anche l’idea che il significato dell’opera pre-esisterebbe nella mente dell’autore, che è quanto mostra appunto il ready made; anche per Morris la superficie scultorea non è più il riflesso di un’idea pre-esistente nel soggetto: nelle sue opere della fine degli anni Sessanta, composte di moduli in fibra di vetro, Morris crea infatti un tipo di struttura priva di qualsiasi ordine interno fissato, sì che ognuna delle combinazioni scultoree può essere continuamente configurata in modo diverso; il risultato è il venir meno di ogni significato interno dato una volta per tutte, tale cioè da riflettere l’intenzione già formata di un soggetto esterno. Richard Serra radicalizza questo rifiuto di qualunque significato ideale interno all’opera, come mostra un suo lavoro costituito di quattro lastre di piombo che si mantengono in equilibrio tra loro senza alcun dispositivo particolare: al cubo come “idea” determinata a priori Serra sostituisce così un cubo che esiste nel tempo e dipende completamente dalle tensioni materiali che percorrono la sua superficie. Insomma, i minimalisti vogliono far derivare dal contesto esterno l’origine del significato dell’opera, negando che la composizione sia il risultato, definito una volta per tutte, della volontà dell’autore. Tutto questo porterebbe a credere che il Minimalismo, eliminando il lavoro sulla forma e della forma, faccia dell’opera un puro oggetto che si offre alla nostra vista come cosa tra cose, e in quanto tale priva di qualunque senso ulteriore rispetto alla sua semplice e definitiva visibilità: priva, insomma, di ogni auraticità. È quanto si può trovare nel “programma” di quegli artisti minimalisti che hanno in genere prodotto puri e semplici volumi, che si volevano privi di immagini e senza contenuto, volumi cioè che non indicavano altro che se stessi. Così in alcuni scritti teorici degli artisti di questo movimento, tra i quali Judd e Morris, troviamo l’intenzione di eliminare ogni idea di latenza, per proporre oggetti che chiedono solo di essere visti per ciò che sono. Si tratterebbe dunque di oggetti davanti ai quali non sembra esserci nulla da immaginare, dato che essi non nascondono niente e si offrono piuttosto come meri volumi da vedere. È quanto Frank Stella sintetizza con la formula “ciò che vedi è ciò che vedi”. A partire da questo si può capire la posizione nettamente antieuropea di Stella e di Judd: alludendo infatti ai pittori geometrici europei, ai quali era stato paragonato, Stella mette in evidenza che la loro è una pittura relazionale, basata su quell’idea di equilibrio che non è affatto importante nella pittura americana; inoltre, a giudizio di Judd, questo effetto compositivo deve essere evitato, giacché esso porta con sè una filosofia razionalista, e quindi i concetti di essenza e di intenzionalità; anche Morris, rievocando i primi anni Sessanta, afferma che allora era intenzionato a distruggere tutto quello che aveva a che fare con l’“altro”, con la trascendenza. In quei primi anni Sessanta i parallelepipedi di Morris coincidono non a caso con quelli di Judd: la conseguenza è, appunto, quel minimalismo con il quale si vuole sottolineare la qualità impersonale del processo generativo di queste opere, che hanno un carattere seriale e insieme industriale, e nello stesso tempo il superamento della distanza tra pittura e scultura. Di qui, come s’è detto, il rifiuto di quei “sistemi aprioristici” che stabiliscono inevitabilmente una gerarchia tra gli elementi costitutivi dell’opera, mirando a raggiungere un equilibrio e a produrre relazioni compositive. Riducendo radicalmente gli elementi di un’opera al punto da ricondurli tutti alla forma unitaria, Judd spera non solo di cancellare la composizione, ma anche di eliminare l’altro aspetto aprioristico, costituito dal fatto che un’idea o un’intenzione preceda la realizzazione dell’opera, come se quest’ultima avesse un nucleo motivazionale interno. La messa al bando dell’illusionismo, vale a dire del naturalismo, è dunque strettamente connessa alla liberazione dell’opera dall’intenzione. È, del resto, quanto Morris intende quando nega la trascendenza e i valori spirituali, affermando al contrario che non c’è niente, nessuna idea pre-esistente al di là della forma esterna o Gestalt. Ora, è vero che tutto ciò starebbe a significare che l’opera si risolve totalmente nella superficie, e quindi in ciò che si offre alla nostra vista, e tuttavia si tratta di una superficie che non si presenta come qualcosa di invariante, dal momento che è sensibile al gioco della luce e della prospettiva dello spettatore. Non solo, ma lo stesso Morris nelle sue opere mette in gioco due o più elementi formalmente identici e tuttavia disposti in modo differente rispetto all’osservatore, tanto da arrivare lui stesso ad affermare che l’esperienza dell’opera si fa necessariamente nel tempo.È proprio grazie al riconoscimento di questa temporalità nella produzione concreta delle opere, che dobbiamo prendere atto che c’è forse una differenza tra ciò che gli artisti minimalisti dicono e ciò che essi realizzano. Non solo, ma è precisamente nel sottolineare l’importanza della temporalità che il critico Michael Fried concorda con i minimalisti sul fatto che le loro opere entrano in relazione con la realtà circostante, compreso appunto il tempo reale necessario alla loro realizzazione; ma questo significa pure – sempre secondo Fried – che la presenza di un oggetto del genere è simile a una vera e propria “presenza teatrale”. La conseguenza è che gli oggetti minimalisti non sono qualcosa di “dato” una volta per tutte, ma sono qualcosa che “ac-cade”, nel senso che “cade fuori” dal loro essere un dato immediatamente visibile, mostrando così aspetti sempre nuovi e diversi. Ma allora quello che abbiamo davanti, per minimale che sia, non è né un visibile che escluda l’invisibile, né un invisibile che riduca il visibile a mera apparenza. Si tratta invece di qualcosa che è l’uno e l’altro contemporaneamente e che, in quanto tale, si presenta come un oggetto strutturalmente instabile; in questo senso i cubi minimalisti si offrono come immagini nelle quali la temporalità fa sì che il continuo rimando tra il visibile e l’invisibile non si risolva mai in una sintesi totalizzante. Da questo punto di vista possiamo dire che i volumi minimalisti (cubi, parallelepipedi ecc.) implicano un vedere che è insieme un sentire, dal momento che la loro visibilità ha in sé una dimensione invisibile. E se è vero che questi volumi sono stati costruiti come pure “presenze”, nell’intento di dissolvere ogni illusione rappresentativa, è anche vero che, a ben vedere, in essi presentazione e rappresentazione fanno tutt’uno, sì che la loro esteriorità implica sempre una interiorità; di qui la possibilità di sentire che in tali opere qualcosa si sottrae alla vista: si tratta di un’interiorità che non si identifica con nessuna arché, vale a dire con nessuna profondità al di là della superficie, ma che si offre con e nella superficie stessa. Insomma, l’interiorità non è ciò che si nasconde “dietro” un volume minimalista, ma ciò che si manifesta in modo tale che è la stessa organizzazione visiva di questi volumi geometrici a presentarsi come “strana” e “singolare”. Di qui, allora, il loro carattere ancora auratico.
La mostra Jeff Koons. Shine si pone come uno dei maggiori eventi d'arte contemporanea in Italia e rappresenta un segnale forte della ripartenza culturale del paese dopo la pandemia, proseguendo il vivace dialogo di Palazzo Strozzi fra tradizione e contemporaneità attraverso la creazione di progetti e mostre dei più importanti artisti di oggi nel contesto della sua storica architettura rinascimentale.
 
BIOGRAFIA Jeff Koons nasce nel 1955 a York, Pennsylvania. Ha studiato al Maryland Institute College of Art di Baltimora e alla School of the Art Institute di Chicago. Vive e lavora a New York. Dalla prima mostra personale nel 1980, le sue opere sono state esposte nelle principali gallerie e istituzioni di tutto il mondo. Nel 2014 il Whitney Museum of American Art lo ha celebrato con Jeff Koons: A Retrospective, ospitata poi dal Centre Pompidou di Parigi e dal Guggenheim Museum di Bilbao. Jeff Koons è noto per opere iconiche come Rabbit e Balloon Dog o per la monumentale scultura floreale Puppy (1992), esposta al Rockefeller Center e in seguito installata permanentemente al Guggenheim Museum di Bilbao. L’artista ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il "Distinguished Arts Award" del Governor’s Awards for the Arts dal Pennsylvania Council on the Arts e il “Golden Plate Award” dell'American Academy of Achievement. Nel 2001 il presidente Jacques Chirac lo ha nominato “Officier de la Legion d'Honneur”, e nel 2013 il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton gli ha tributato la U.S Department of State’s Medal of Arts. Nel 2017 è stato il primo ospite nella residenza d’artista Mortimer B. Zuckerman Mind Brain Behavior Institute della Columbia University ed è stato nominato membro onorario della Edgar Wind Society dell'Università di Oxford. Dal 2002 è membro del Board dell'International Center for Missing & Exploited Children (ICMEC), ed è co-fondatore del Koons Family International Law and Policy Institute, istituzioni che si prefiggono di contrastare lo sfruttamento dei minori e di promuovere la protezione dell’infanzia a livello globale. Tra le sue mostre più recenti: Jeff Koons: Mucem. Works from the Pinault Collection (Mucem, Marsiglia, 19 maggio-18 ottobre 2021); Jeff Koons: Absolute Value. Selected works from the Collection of Marie and Jose Mugrabi (Tel Aviv Museum of Art 10 marzo 2020-3 aprile 2021); Appearance Stripped Bare: Desire and Object in the Work of Marcel Duchamp and Jeff Koons, Even (Museo Jumex, Mexico City 19 maggio-29 settembre 2019); Jeff Koons at the Ashmolean (Ashmolean Museum, Oxford 7 febbraio-9 giugno 2019).
 
 
Palazzo Strozzi Firenze
Jeff Koons Shine
Dal 2 Ottobre 2021 al 30 Gennaio 2022
Dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 23.00