ANISH KAPOOR

Al

MACRO (Via Nizza)

a cura di
Mario Codognato

Dal 17 dicembre 2016 al 17 aprile 2017
Da martedì a domenica ore 10.30-19.30
24 e 31 dicembre ore 10.30-14.00
Chiuso lunedì, 25 dicembre

Aperta straordinariamente lunedì 26 dicembre e lunedì 2 gennaio con orario consueto

Lo scorso 16 dicembre sono stata a quello che i romani hanno chiamato l'opening - ma ho sempre preferito l'espressione vernice – dell'anno, ovvero l'inaugurazione della personale di Anish Kapoor al MACRO.
Io non amo gli opening dell'anno e non amo molto il lavoro di Anish Kapoor, quindi, al MACRO sono andata piuttosto malvolentieri.
 
Dal 16 dicembre sono trascorsi alcuni giorni, giorni in cui ho rimuginato su cosa scrivere e giorni in cui ho letto quel poco che era già stato scritto. Al solito, con le dovute eccezioni, ho trovato in rete una cospicua attività di rimaneggiamento del comunicato stampa. Il comunicato contiene più di qualche imprecisione. Si può facilmente immaginare cosa accada in fase di rimaneggiamento: la deontologia del cut and copy viene immancabilmente trasgredita! Eh, già! Questo accade anche a Kapoor, uno degli artisti contemporanei più noti al mondo. Così, a dirla tutta, non sono riuscita a leggere un gran che di bello su questa mostra.
 
Un po' perché amareggiata da questa costante pigrizia culturale nostrana - che poi, cosa ci andranno a fare tutti all'opening dell'anno se non per scrivere qualcosa che invogli il pubblico potenziale a visitare un'esposizione, magari pagando anche il prezzo del biglietto? - un po' perché certi lavori di Kapoor mi avevano parlato già all'inaugurazione, oggi sono tornata al MACRO.
Dovevo tornare a vedere alcune di quelle opere e, perché no, a dar loro una palpatina! E, da grande amante dei momenti in cui i musei sono quasi deserti, sapevo quando andare. Infatti, all'ora di pranzo, ho visitato un MACRO deserto e sonnolento. Possibile, a meno di una settimana dalla vernice? Ebbene sì, nella Roma di questi anni, è possibile. Nemmeno Kapoor resiste a lungo al dopo inaugurazione!
Certo è che una sala vuota e dei guardiani distratti sono l'ideale per godersi una mostra. Non immaginatemi mentre vado per musei a danneggiare opere d'arte. Ma se avessimo dimenticato le provocazioni di Dada, ci ha pensato Bob Rauschenberg a ricordarci che l'arte non è roba fatta solo per gli occhi (pensate al suo celebre Letto del 1955). Mi piace, a questo punto, usare un'affermazione uscita proprio dalla bocca di Anish Kapoor:
"The skin, the outermost covering, has always been for me the place of action. It is the moment of contact between the thing and the world'.
Vale a dire che è l'epidermide delle cose che lo interessa. E, in ciò, l'artista indiano non dissente molto proprio Rauschenberg che si considerava uno che agiva nell'intervallo (quel famoso gap) tra l'arte e la vita.

Nei lavori più interessanti del MACRO Kapoor scava di gran lunga oltre l'epidermide. Egli raggiunge la carne e financo le viscere.
Per questa ragione, m'infastidisce che la mostra venga celebrata dai media quasi solo per la presenza di Sectional Body Preparing for Monadic Singularity (2015), un'opera site-specific esposta lo scorso anno nei giardini della Reggia di Versailles. Non è vero, come recita il comunicato, che quest'opera dialoga con l'architettura del MACRO. Tra l'altro, il MACRO è un tale patchwork architettonico che è meglio evitare di farlo dialogare anche con qualcos'altro! La si celebra perché appartiene a quel genere di opere che ha reso Kapoor una star internazionale. Marketing culturale all'italiana. E, all'interno dello spazio espositivo, finisce per tamponare una sorta di horror vacui. Più coraggiosa e coerente, sia intellettualmente che esteticamente, sarebbe stata una scelta curatoriale in grado di esporre solo la materia bruta - per lo più un misto di silicone e pigmento - che eviscera da opere (composte tra il 2010 e il 2016) come Unborn (Mai nato), Hung (Appeso), Flayed (Scorticato), Inner Staff (Materia Interiore), Dissection (Dissezione), eccetera
Questi lavori agganciano una molteplicità di riferimenti nell'arte moderna e, soprattutto, contemporanea. Non per questo sono banali o datati. S'inseriscono in quel rapporto tra gli artisti e la materia che, tra i primi, fu scoperto dal tardo Tiziano (Marsia scorticato, 1570-76). Alcuni artisti hanno scelto di affidare alla materia un grande potere: quello di esprimersi in modo assoluto. E nei secoli hanno rinnovato questa coraggiosa scelta. Alla fine dell'Ottocento un Monet quasi cieco si ostinò a dipingere il ricordo delle ninfee del suo giardino. In questa serie, la pura materia pittorica veicola il senso di ciò che si è fatto quasi invisibile. A molti è parso che, così facendo, Monet abbia aperto possibilità infinite all'arte contemporanea. La lista, nel novecento, si fa lunga; parte con Gauguin e chissà dove arriverà. Alcune avanguardie sono state troppo rigorose, ma quei rigori sono serviti. Scevri dal peso di troppe tradizioni gli artisti americani esaltano e, al contempo, demistificano la materia-colore. Fanno della pittura un'arena, un campo d'azione

Siamo a Rothko e Pollock e non c'è bisogno di aggiungere altro. Nel frattempo, gli europei si stanno misurando con l'irrappresentabile. Gli anni sono quelli della seconda guerra mondiale. Il surrealismo, di Breton e di Bataille, li aveva tanto aiutati a liberarsi dei molti rigori. Arriva Burri. E, in questo caso, un solo nome può bastare perché il contributo che, in quegli anni, l'artista italiano diede all'irrappresentabile ha del sensazione. Ancora Rauschenberg, perché egli crea un legame tutto materico tra quello che si fa in Europa e quello che si fa in America. A partire da questo momento, l'arte è libera di eviscerare. Non è più solo verticale, il che vuol dire che non è più solo rivolta alla vista. Niente più immagini da contemplare.

Non posso invitare il visitatore a palpare le opere di Kapoor, se ciò non è previsto dall'artista o dal regolamento del museo. Ma il tatto è, in questi lavori, intrinsecamente implicato. Hanno tutte a che fare con un interno che eviscera. Tutto il contrario dei Concetti spaziali di Fontana che invitano a farsi strada verso uno spazio altro, i siliconi purpurei di Kapoor sono un ammasso di materia molle e sanguinolenta, forse ancora calda, e che è stata vomitata fuori da un corpo straziato, sezionato e, ormai, irriconoscibile. Ma, pur sempre, un corpo. Nessun sudario o lembo di tela è in grado di assorbire queste materie. Si potrebbe rimanere disgustati, forse anche un po' scioccati, da queste interiora ingrandite. Dai loro colori lividi. Dalla loro consistenza appiccicosa e gocciolante. Ma, in realtà, forse perché se ne immagina il tepore, o forse perché il cinema e la fotografia ci hanno abituato a quel gesto oscenamente disperato con cui gli uomini feriti a morte tendono a rinfilarsi dentro gli intestini, viene voglia di avvicinarsi a queste montagne di carne. Per abbracciarle o abbracciarsi e rimettersi dentro quello che è uscito fuori.
di
Giorgia TERRINONI

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A un decennio di distanza dall'ultima mostra in una sede museale del Belpaese, Anish Kapoor torna in Italia per esporre 30 opere al MACRO, a curadi Mario Codognato, dal 17 dicembre fino al 17 aprile.

L' artista indiano nato a Bombay, classe 1954, è stimato uno dei massimi esponenti sullo scenario contemporaneo, da quando nel 1990 ricevette il premio alla XLIV Biennale di Venezia, rappresentando il Regno Unito, poiché risiede e lavora a Londra. L' anno seguente vinse il Turner Prize e nel 2011 il Praemium Imperiale, realizzando progetti pubblici nel Millenium Park di Chicago e nel Queen Elizabeth Olympic Park di Londra.
Nell'esposizione del MACRO Kapoor presenta una trentina di rilievi e dipinti costituiti da strati salienti di silicone di colore rosso e bianco con pittura, monumentali sculture/architetture come "Sectional Body Preparing for Monadic Singularity" già presentata un anno fa nel parco di Versailles. 
L'opera di Kapoor scava intimamente un'indagine dialettica che dalle condizioni della materia, in una dimensione archetipica, suscita percezioni dinamiche attraverso l'evocazione di un linguaggio metaforico.
I precedenti della tradizione iconografica della carne e del sangue, infatti, icastici e brutali ma al contempo potentemente sensuali, possono essere individuati (dopo la "Bottega del macellaio/Grande macelleria" di Annibale Carracci del 1585, Christ Church Gallery di Oxford) nel "Bue macellato" di Rembrandt f. d. 1655 del Louvre ma quasi riletto attraverso la serie "Figure  with Meat" del 1954 (Art Institute Chicago) di Francis Bacon, omaggio anche a Velasquez, e non escluderei a priori, come omaggio al Belpaese, una condizione emotiva analoga ai "Sacchi" e alle "Combustioni" di Burri (che sembra noto all'artista anche in altre opere esposte).
"Internal Objects in Three Parts" (2013-15), trittico in silicone dipinto e cera, arriva da una recentissima mostra al Rijsmuseum di Amsterdam, che ospita capolavori di Rembrandt.
 L' artista usa un linguaggio che attraverso la metafora riesce a proiettare in una dimensione mitica e archetipica l'analisi e la critica della realtà contemporanea, tramutando l'esperienza individuale e contingente in una dimensione universale e trascendente. 
Alla condizione di genesi rimandano i titoli delle opere "Foetal/Fetale" in silicone pigmento e juta nonché "Inner Stuff/Materia interiore", entrambi del 2012; "First Milk/Primo latte" del 2015, ma inquieta e problematica o di caos primordiale di  "In-form" del 2015 e "Unborn/Mai nato" del 2016, entrambi in silicone e pigmento.
Alcune opere sembrano rievocare nel titolo il destino di una condizione umana dal tragico epilogo, metafora esistenziali della passione. In tal senso "Robe/Toga" in silicone e tela del 2012 "Disrobe/Spogliarsi" in silicone e pigmento e "Gethsemane", resina e pittura, entrambi del 2013; allo stesso modo "Hung/Appeso" in silicone "Flayed/Scorticato"  e "Flayed II/Scorticato II" (entrambi in silicone, pigmento e juta su tavola e tutti e due del 2016). In tal senso "Staff/Bordone", bastone del pellegrino che potrebbe alluderebbe al pellegrinaggio esistenziale o a profughi ed esuli in fuga da guerre carestie tirannidi e violenze in cerca di pace e libertà. "Hunter/Cacciatore", silicone su pelliccia e juta 2013 potrebbe rievocare una condizione di primitività di un passato al quale sembra che l'umanità stia tornando. Così come "Stench/Fetore" e "Disection/Dissezione" (entrambi in silicone pigmento e tela e del 2012) nonchè  "Apocalypse and Millennium", vetroresina e terra del 2013 sembrano rievocare un tragico destino e una situazione del nostro pianeta tra inquinamento e minacciosi orizzonti di conflitti termonucleari globali.
La poetica di Kapoor sviluppa dialetticamente forze antitetiche per sviluppare violentemente il contrasto tra luminosità e oscurità, volume e vuoto, virile e femminino, concavo e convesso, liscio e ruvido, lucido e opaco, quindi tra naturale e artificiale, ordine e caos. In fondo in queste opere d'arte sono traslate nel linguaggio universale e idealizzato lotte e guerre intestine e civili, attentati e stragi, violenze e morti, e l'artista denuncia con il suo urlo silente la sua critica della realtà contemporanea e il suo disperato messaggio di pace è affidato alla vita che pulsa e alla speranza che l'Arte riesca a stimolare e a convincere l'umanità a far prevalere la Vita sulla Morte. 
di
Antonio E. M. GIORDANO