Giovanni Cardone Gennaio 2025
Fino al 21 Aprile 2025 si potrà ammirare ai Musei di Villa Torlonia e presso il Casino dei Principi, e il MLAC - Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma la mostra Antologica di Titina Maselli e curata da Claudio Crescentini, Federica Pirani, Ilaria Schiaffini, Claudia Terenzi e Giulia Tulino. L’esposizione è promossa da Roma Capitale Assessorato alla Cultura - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con Sapienza Università di Roma, l’Archivio Titina Maselli e il Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Centenario della nascita di Titina Maselli, e con l’organizzazione e i servizi museali curati da Zètema Progetto Cultura, celebra il
centenario della nascita dell’artista, proponendo una
visione complessiva della sua produzione pittorica e riportando al centro dell’
attenzione critica la sua pittura e la sua figura. Maselli ha attraversato con autonomia e libertà visiva molte correnti artistiche, dalla Scuola Romana al Futurismo, senza mai legarsi a nessuna di esse. Il filo conduttore della sua opera è stata la ricerca costante di un linguaggio in grado di cogliere e interpretare
la modernità. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Titina Maselli e sulla Neo figurazione apro il mi saggio dicendo : L’Italia uscita dalla II Guerra Mondiale era un paese che aveva bisogno di sicurezze e poteva cercarle solo in un clima di distensione e dialogo tra le parti che dovevano assolvere il difficile compito della ricostruzione.
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È necessario entrare nel merito della situazione politica e sociale, per poter comprendere quelli che furono gli sviluppi del panorama artistico italiano del dopoguerra. Gli anni fra il 1945 e il 1948 furono di grandi aspettative per la realizzazione di tutti quegli ideali, nati nel contesto della Resistenza, che l’iniziale elezione come presidente del Consiglio di Ferruccio Parri, membro del partito d’Azione e capo della Resistenza, fece ritenere attuabili. In realtà questo triennio vide delinearsi, sotto la superficie di un apparente accordo, gli schieramenti che si sarebbero fronteggiati per gli anni a venire: da un lato la Democrazia Cristiana, gli Stati Uniti e il mondo imprenditoriale; dall’altro i Comunisti, l’Unione Sovietica e la classe operaia; e fra loro i partiti di medio e piccolo calibro, primo fra tutti il Partito Socialista nelle sue varie conformazioni, che avrebbero finito per fare da ago della bilancia nella perenne instabilità delle maggioranze di governo italiane . Tali fronti però, in questi primi anni, presentavano a livello ideologico e strutturale ancora una certa elasticità interna che si sarebbe andata sclerotizzando negli anni seguenti. La politica culturale del Pci fu centrale, per quanti si riconoscevano in tale area ideologica, nel delineare l’atteggiamento di intellettuali e artisti nei confronti delle diverse tendenze interne come internazionali. L’intenzione era quella di creare un ponte tra le classi popolari e la piccola e media borghesia formando un sostrato culturale comune, di cui sarebbe stata fautrice la nuova intellighenzia di sinistra. Questo, almeno idealmente, nell’ambito di un’ampia libertà di dibattito di quanti si riconoscevano nell’area politica del partito. Di questo pluralismo iniziale del Pci fu testimonianza la rivista “La Rinascita”, nelle cui pagine venne dato ampio spazio, fin dal primo numero del giugno 1944 , al dibattito sulla ricostruzione materiale e morale del paese nei suoi aspetti politici e culturali. Era questa la piattaforma comune che, almeno fino alle elezioni del 1948, mantenne apparentemente disteso il clima politico: la necessità di veder rinascere dei valori condivisi sulle ceneri di una guerra che aveva messo in luce gli aspetti più brutali della natura umana, di favorire quelle istanze di progresso e libertà necessarie alla nuova società. Altra rivista che nacque all’interno di questa linea fu il ben noto “Il Politecnico”, di Elio Vittorini, che però avrebbe in breve testato i limiti della tolleranza interna al partito. Nel programma inserito nel primo numero di “Rinascita” leggiamo infatti: “Non separiamo e non possiamo separare le idee dai fatti, la cultura dalla politica, i singoli dalla società, l’arte dalla vita reale. In questa concezione unitaria e realistica del mondo intiero è la nostra forza, la forza della dottrina marxista.” Concezione tanto più importante quanto più si rifletta sulla misura in cui essa venne fatta propria dagli intellettuali di sinistra, divenendo però la base di scelte profondamente diverse. La querelle che iniziò con “Il Politecnico”, accusato di intellettualismo e di eccessive tendenze cosmopolite, dice molto del modo in cui venisse inteso tale programma d’intenti dagli organi dirigenziali del partito e della stessa rivista . In tale disputa, assunse particolare rilievo la pubblicazione da parte di Vittorini, nel settembre 1946, della traduzione dell’articolo di Roger Garaudy, esponente del Partito Comunista Francese e teorico del marxismo, intitolata “Non esiste un’estetica del partito comunista” . In tale intervento l’intellettuale francese affermava il valore assoluto dell’indipendenza estetica dell’artista, perché “il marxismo non è una prigione; è uno strumento per capire il mondo. Si può essere milioni a capirlo allo stesso modo e ad esprimerlo differentemente” . Nella nota che accompagnava l’articolo Vittorini, dichiarando Garaudy portatore dell’opinione non di un singolo, bensì, a suo dire, della maggioranza dei politici del Partito Comunista Francese, affermò che "dimenticati gli avvertimenti in proposito del nostro grande Antonio Gramsci, accade ancora oggi che qualche compagno pretenda di spingere ad instaurare in seno al Partito Comunista Italiano un utopistico regime culturale" . In contrasto coi vertici del Pci Vittorini affermò senza alcuna ambiguità che imporre un certo stile a un pittore o ad uno scrittore “non fa parte di nessun compito rivoluzionario” . Intanto l’alleanza antifascista cominciava a mostrare con sempre maggior evidenza i segni del cedimento. Nel maggio 1947 De Gasperi formò, dopo le dimissioni seguite ai fatti siciliani e l’impossibilità di Nitti di formare una maggioranza parlamentare, un nuovo governo senza le sinistre, teoricamente spostato al centro, in realtà inevitabilmente compromesso con i partiti di destra e quindi indirizzato verso un maggiore conservatorismo e autoritarismo . In seguito all’evoluzione politica nazionale e internazionale, e mentre la polemica con Vittorini era ancora in corso, si affermò anche in seno al Partito Comunista, tra il 1947 e il 1948, uno sviluppo in senso accentratore e restrittivo nella produzione culturale. Nel settembre 1947 infatti nacque il Kominform, struttura internazionale di coordinamento, ma anche di controllo, dei partiti comunisti nazionali, di cui respinse qualsiasi forma di autonomia rispetto al modello sovietico.
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Era la nascita del cosiddetto zdanovismo, linea a cui aderì completamente Emilio Sereni, responsabile del settore culturale del Pci, come esplicitò nel suo discorso Per la cultura italiana all’assemblea costitutiva dell’Alleanza della cultura a Roma il 19 febbraio 1948. Ma già il mese prima lo stesso Togliatti, nel Discorso inaugurale del VI Congresso nazionale del Pci, aveva evidenziato quale fosse la sua posizione nei confronti di quelle che definiva “le forme degenerate della cultura borghese”, che impedivano ad alcuni intellettuali del Partito di esprimersi con modalità che fossero facilmente accessibili alle masse . In ambito pittorico tale concetto fu espresso, in forme assai meno diplomatiche, sempre da Togliatti nel famoso articolo in cui, sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, commentava le opere presenti alla prima “Mostra nazionale di arte contemporanea” promossa dall’Alleanza della cultura a Bologna dal 17 ottobre al 5 novembre del 1948 . Il risultato delle elezioni del 1948, su cui influirono negativamente per le sinistre il colpo di stato comunista a Praga e l’appoggio della Chiesa cattolica alla Dc, e il nuovo quadro politico internazionale, ormai schierato sugli opposti fronti della guerra fredda, portarono al progressivo isolamento del Pci nell’ambito politico italiano. Se in politica si ruppe la grande alleanza delle forze antifasciste, si mantenne comunque una strategia di basso profilo del Partito che non intendeva arrivare allo scontro diretto, bensì condurre il paese gradatamente verso la rivoluzione socialista. Questo rese ancor più necessario uno stretto controllo sulla produzione culturale, che doveva farsi portavoce di una visione del mondo e di un’impostazione morale ben definita, che contrastasse il rafforzamento delle correnti anticomuniste: l’arte diventava un vero e proprio strumento di propaganda e il criterio di giudizio estetico dovette assoggettarsi alle necessità politiche. Era proprio questo il nodo della questione, il problema non fu mai il coinvolgimento politico degli artisti, dato di fondo della loro produzione, bensì la sottomissione del giudizio estetico e delle scelte stilistiche ad un programma ideologico preordinato. Se tale scelta veniva difesa nel nome dell’educazione e della comprensibilità del messaggio alle masse proletarie, era in realtà frutto di un pregiudizio di avanguardia e di una cultura del sospetto di natura molto più borghese di quanto i suoi assertori avrebbero mai potuto ammettere. All’inizio degli anni Cinquanta la situazione si estremizzò in posizioni sempre più rigide e sempre più determinate dalle contrapposte politiche culturali. Fu solo con la morte di Stalin, nel 1953, che si cominciò a intravedere una nuova possibilità di apertura al dialogo, favorito anche dal netto miglioramento percentuale del Pci alle elezioni politiche di quello stesso anno. Il 1956 fu un anno cruciale, che segnò un mutamento di atteggiamento da parte di molti artisti ed intellettuali italiani inseriti tra le file comuniste. Nel febbraio di quell’anno al XX Congresso del Pcus a Mosca, nella parte pubblica, vi fu un’importante apertura nei confronti delle vie nazionali al socialismo, ma ancor più determinante fu il rapporto segreto in cui Nikita Sergeevi? Chruš?ëv descrisse e denunciò per la prima volta i crimini dell’epoca staliniana: le purghe e la creazione del mito della personalità. Il rapporto giunse ben presto alla stampa occidentale creando la base per un duro attacco al movimento comunista internazionale. In Italia la risposta di Togliatti fu un capolavoro di strategia politica, che non evitò però la forte crisi d’identità del Partito. Questo perché nello stesso anno si aggiunsero anche i noti fatti della Polonia e dell’Ungheria, a cui il Pci questa volta reagì allineandosi con Mosca e scatenando all’interno del Partito, in particolare tra gli intellettuali, un acceso dibattito sulle cause della tragedia ungherese. In dicembre, all’VIII congresso del Pci, in cui emerse tutto lo sconcerto della base, si giunse al culmine delle tensioni di quest’anno tragico. Antonio Giolitti, alla testa dei dissidenti prese la parola per chiedere un’effettiva libertà d’opinione all’interno del Partito e che questo riconoscesse l’importanza delle libertà democratiche e la sua autonomia nei confronti degli altri partiti comunisti. Tale richiesta si risolse con un nulla di fatto, la dirigenza ebbe la meglio nello scontro, ma la crisi ideologica non potè essere bloccata. Il mutato atteggiamento del Pci nei confronti della libertà degli intellettuali, pur in una permanente rigidezza di fondo, venne evidenziato dalle affermazioni di Togliatti nella recensione ad un testo sui fatti d’Ungheria uscito presso gli editori Laterza pubblicata su “Rinascita”: “Compito specifico del partito è di stimolare e indirizzare la produzione artistica, operando per trasformare, e riuscendo a trasformare, con la sua complessa azione economica, politica e ideale, la realtà della vita sociale e quindi la esistenza e la coscienza degli uomini. [È necessario] non porre freni all’indagine e alla creazione artistica, perché un determinato indirizzo di ricerca formale, per esempio, anche se per il momento si presenta sterile e negativo, e come tale può essere denunciato e criticato, potrà apparire domani come una tappa che è stato necessario attraversare, per giungere a nuove e più profonde forme di espressione e quindi ad un progresso di tutta la creazione artistica.” Dopo le elezioni politiche del 1958, che confermarono la Dc come partito di maggioranza e i comunisti come il principale partito d’opposizione, il Partito si impegnò a concretizzare la “via italiana al socialismo” nella sua azione politica, ricercando con ostinazione un’apertura a sinistra del governo che desse al partito un peso e un ruolo significativi al suo interno. Obiettivo che non venne raggiunto, ma che condusse il Pci, ormai lontano dalle utopie di una dittatura del proletariato, ad integrarsi nella vita politica del paese dando vita a importanti movimenti di massa. Nel gennaio 1959 si aprì l’ennesima crisi che portò alla caduta del governo Fanfani; l’anno successivo il presidente della Repubblica Gronchi pose alla guida del nuovo governo il democristiano Fernando Tambroni che accettò l’appoggio del Msi alla formazione di una maggioranza. Venne così a profilarsi un governo nettamente spostato verso destra che scatenò le polemiche, fomentate dalla concessione al Msi della città di Genova, roccaforte dell’antifascismo, per lo svolgimento del Congresso Nazionale del partito. Si giunse naturalmente a violenti scontri e Tambroni ordinò la repressione delle proteste nella città ligure e di quelle che seguirono a tale decisione. Si aprì una nuova crisi e fu richiamato Fanfani a formare un nuovo governo che segnò il progressivo avvicinamento di democristiani e socialisti, grazie anche all’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca nel 1961 e quindi all’allentarsi delle peggiori tensioni della guerra fredda . Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta si assistette, nel contesto del favorevole momento economico, alla trasformazione dell’Italia da paese prevalentemente agricolo ad una delle nazioni più industrializzate dell’Occidente e ad un profondo cambiamento del paesaggio così come della società italiana. Pur negli squilibri sociali e regionali, aumentarono alfabetizzazione e reddito pro capite, sulle forme di vita tradizionali si innestarono i nuovi miti del consumismo capitalistico, che trovarono nella televisione il veicolo ideale di trasmissione e unificazione culturale del paese. Tale modello accentuava una caratteristica tipica del modello italiano, ovvero la preminenza del ruolo dell’individuo, o comunque del nucleo familiare, rispetto alla collettività. Elemento che veniva enfatizzato dalla propaganda democristiana e dalle posizioni della Chiesa cattolica e che non poteva non porre in allarme quanti auspicavano per l’Italia un futuro di sviluppo sociale e intellettuale, preoccupazione che fu naturalmente raccolta dagli intellettuali di Sinistra, del Pci in particolare, che si riconoscevano nello smarrimento di fronte a questo mutamento di stili di vita, che non sembrava portare con sé anche le necessarie forme di giustizia sociale e progresso che avrebbero dovuto sostituire le usuali reti di aiuto delle società tradizionali. In realtà, il timore nei confronti di uno sviluppo della società troppo indirizzato sui valori del consumismo e del libero mercato avvicinava paradossalmente le posizioni dei comunisti, che mantennero forte la loro presa sul mondo intellettuale nonostante un progressivo declino del movimento, a quelle della Chiesa cattolica che, a sua volta, con l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII, modificò il suo atteggiamento di intervento diretto nella politica italiana in favore di un maggiore impegno sul fronte assistenziale. L’incapacità di comprendere le dinamiche della comunicazione di massa e di sfruttarle era un elemento che traspariva in tutta la pubblicistica di sinistra: se ne coglieva il fattore alienante e straniante, la scomparsa dell’immagine dell’uomo, l’elemento di decadenza dei costumi morali, ma, ironicamente, considerando i presupposti teorici del comunismo, non se ne vedevano le enormi possibilità di diffusione culturale che offriva. Umberto Eco lo definì “vizio umanistico”, eredità di una cultura meditativa di stampo elitario che non si riconosceva in una fruizione di larga scala quale quella del mondo moderno che portava a stigmatizzare elementi della contemporaneità senza averli compresi. Si trattava di un atteggiamento conseguente ad un’altra caratteristica tipica delle masse: l’attaccamento alle tradizioni, fossero anche proletarie, e la refrattarietà al cambiamento percepito indistintamente come pericoloso. Nel dicembre 1963, dopo la fase transitoria del governo guidato da Giovanni Leone, si raggiunse finalmente l'accordo fra Dc e Psi che portò alla costituzione del primo governo della storia repubblicana italiana con la tanto attesa partecipazione dei socialisti, guidato dal democristiano Aldo Moro. Si succedettero tre governi guidati da Moro che, se si eccettua la crisi del 1964, furono caratterizzati sostanzialmente dall’immobilismo politico e accompagnarono il paese fino alle soglie dell’epoca delle nuove lotte sociali e dell’azione collettiva, che si aprì nel 1968 e che segnò una nuova fase nella storia d’Italia e nel rapporto degli intellettuali con la politica e con la possibilità di una loro concreta azione all’interno della società. Nel corso degli anni Sessanta si fronteggiarono, da un lato, una visione manicheistica dell’arte, in cui ogni scelta stilistica risultava come una scelta di campo, dall’altro, la ricerca di un confronto dialettico con i diversi apporti culturali, alternandosi in note e recensioni, a volte degli stessi autori, che comparivano sulle testate di sinistra, in cerca di un difficile equilibrio tra etica ed estetica. Mentre il partito tentava di comprendere come intraprendere un’effettiva politica e dunque cultura di opposizione, si trovava inevitabilmente sempre più integrato nelle dinamiche compromissorie della politica reale. Con tali elementi si sarebbe dovuto fare i conti alla luce delle rivolte studentesche. Nell’Italia dell’immediato dopoguerra, mentre il movimento spazialista mostrava la strada per una possibile rottura con l’arte precedente, altri cercavano di riallacciare i fili di un discorso che era stato interrotto prima dai dettami fascisti e poi dalla guerra. Il dibattito si concentrò, per questo settore del mondo artistico, da un lato sull’antitesi astrazione e figurazione, tentativo di costruirsi un’identità nel rispecchiamento con l’opposto, e, dall’altro, sul rapporto tra forma e contenuto e sul ruolo dell’impegno politico nel fare artistico. In questo senso un precoce banco di prova fu la mostra "L'arte contro la barbarie" del 1944, organizzata presso la Galleria di Roma dal quotidiano del Pci "l’Unità". Fu la prima di una serie di esposizioni recanti lo stesso titolo, ma con contenuti polemici di volta in volta diversi. In questa fase erano ancora possibili confronti trasversali che appena poco tempo dopo sarebbero sembrati impossibili. Esisteva ancora nel 1945 una mobilità che permetteva che l’Art Club, promosso da Prampolini, si definisse nel suo statuto come una “Fratellanza di artisti indipendenti da ogni influenza ufficiale, riuniti in un movimento ideale e liberamente operanti in un clima internazionale” o che, l’anno successivo, nel gruppo Arte Sociale, si trovassero riuniti artisti come Vespignani, Dorazio, Guerrini e Perilli. In quello stesso anno sulla rivista milanese "Il 45", diretta da Raffaele De Grada, comparve un saggio del critico Mario De Micheli dal titolo Realismo e poesia, e gli artisti eredi dell’esperienza di Corrente sottoscrissero a Milano il Manifesto del Realismo, noto anche come Oltre Guernica, poi pubblicato sulla rivista “Numero” fondata l’anno precedente: “Dipingere e scolpire è per noi atto di partecipazione alla totale realtà degli uomini, in un luogo e in un tempo determinato, realtà che è contemporaneità e che nel suo susseguirsi è storia. In arte, la realtà non è il reale, non è la visibilità, ma la cosciente emozione del reale divenuta organismo. Realismo non vuol dire naturalismo o verismo o espressionismo, ma il reale concretizzato dell’uno quando determina, partecipa, coincide ed equivale con il reale dell’altro, quando diventa, insomma, misura comune rispetto alla realtà stessa . Questa misura comune non sottintende una comune sottomissione a canoni prestabiliti ma l’elaborazione in comune di identiche premesse formali fornite, in pittura, dal processo che da Cezanne va al fauvismo e al cubismo.” Il realismo non si configurava dunque necessariamente come naturalismo; si trattava piuttosto di una tensione etica di partecipazione al reale in quanto dato umano e storico, che trovava i suoi referenti privilegiati in una linea che cercava di coniugare l’espressionismo, il dato coloristico ed emotivo, con la ricerca formale cubista . Dopo la divisione del Gruppo Arte Sociale si formò, da una parte, il gruppo del Portonaccio , mentre Dorazio, Perilli, Guerrini, Manisco si avvicinarono al Fronte Nuovo delle Arti (1946-1948), che, nato tra Roma, Milano e Venezia, fu un difficile tentativo di azione comune di artisti dalle inclinazioni più diverse, quali Guttuso, Leoncillo, Morlotti, e Pizzinato. Nel manifesto costitutivo dichiaravano la loro intenzione di “avvicinare a una prima base di necessità morale le loro singolari affermazioni nel mondo delle immagini, assommandole come atti di vita. Pittura e scultura, divenute cosí strumento di dichiarazione e di libera esplorazione del mondo, aumenteranno sempre piú la frequenza con la realtà”. Intanto si riavviava poco a poco l’attività delle sedi istituzionali così come delle gallerie private in cui, col disappunto di molti realisti, si moltiplicarono le esposizioni di arte astratta. Momento significativo dello scontro tra realisti e astratti fu, nel 1947, la mostra di Cagli, che, appena tornato dagli Stati Uniti, espose presso la galleria romana Studio Palma le sue opere più recenti e vicine all’astrazione. La presentazione in catalogo era di Antonello Trombadori, critico d’arte de “l’Unità”, che assolveva l’artista da ogni legame col regime fascista. La scelta non fu apprezzata dagli astrattisti di Forma 1, che affissero fuori dalla galleria una sorta di manifesto con foto delle opere dipinte da Cagli per il regime, accompagnate da un breve scritto di attacco nei suoi confronti intitolato Da Cagli a Cagli. Ne seguì uno scontro con gli amici di vecchia data di Cagli: Mirko, Afro e Guttuso, che si concluse in questura. Lasciando a margine la questione del coinvolgimento col fascismo di Cagli , l’introduzione di Trombadori nasceva nel solco di una precisa linea d’azione del Pci, che intendeva costruire un passato antifascista per coloro che, anche solo alla fine, si erano opposti al fascismo e che, in certo modo, potessero essere ancora di supporto alla politica del partito. Tale scelta, per Trombadori, non si fermava neanche di fronte alla necessità di elogiare l’opera astratta di Cagli, dopo aver criticato senza esitazione le scelte artistiche di Forma 1: per questi giovani pittori astratti e militanti comunisti la delusione non poteva essere maggiore. Si è detto degli effetti che ebbe sulla politica culturale del Pci la sconfitta elettorale del 1948; mentre in ambito figurativo fu la rivolta dei contadini del 1949 che, posta sotto l’ala del Partito, fornì agli artisti la prima occasione di mostrare il loro sostegno ai braccianti . Mentre Burri, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio del nuovo decennio, superava l’antitesi di astratto e figurativo in virtù di una ricerca di tipo materico, il sindacato organizzava concorsi e mostre a sostegno delle lotte, occasioni per rafforzare il ruolo degli artisti come combattenti al fianco di operai e agricoltori, oltre che per esplicitare le scelte estetiche dei vertici culturali, sancite dall’intervento di Togliatti nel dibattito che segnò la fine dell’effimero esperimento del Fronte Nuovo delle Arti. Data per acquisita la scelta figurativa, la questione si spostò dal dibattito formale a quello contenutistico, e si cominciò a prendere le distanze da soggetti che non avessero un’evidente impostazione nazional-popolare, un orientamento politico e tendenze meridionaliste. Questo condusse all’elaborazione di un linguaggio più vicino alla comprensione popolare che trovò piena espressione alla Biennale di Venezia del 1950, ulteriormente sottolineato dalla presenza al padiglione messicano di quell’anno dei vati del muralismo: José Clemente Orozco, Diego Rivera e Alfaro Siqueiros. Il movimento confluì dal 1952 sulle pagine della rivista “Realismo” diretta da Raffaele De Grada e fra cui figuravano come redattori i pittori Guttuso, Mucchi, Pizzinato, Treccani, Vespignani e Zigaina, oltre ai critici Del Guercio, De Micheli, Maltese, Morosini e Trombadori. Sulle pagine della rivista si dispiegò, fino alla chiusura, il dibattito sul concetto e sul ruolo del realismo, ricercandone le radici storiche nella tradizione italiana e sancendo il ruolo dell’opera d’arte come strumento conoscitivo in grado di operare nella società. Nel 1953 si ebbero però dei segnali di apertura e ne fu testimonianza l’atteggiamento nei confronti di Picasso, artista esplicitamente condannato dalla stampa sovietica e non solo, a cui in Italia venne dedicata una grande mostra antologica alla Galleria Nazionale di Arte Moderna a Roma, proprio nel maggio dello stesso anno. Mostra promossa dal Pci, ma presentata da Lionello Venturi, nonostante fossero ancora fresche le polemiche scoppiate in seguito al suo duro intervento all’Associazione italiana per la libertà della cultura in cui attaccava apertamente il realismo socialista . Ma fu solo con il profondo cambiamento che portarono con sé i fatti del 1956 che si modificarono anche gli schieramenti del dibattito artistico. Artisti e intellettuali legati al Pci cercarono una via possibile di operare, prendendo le distanze da un partito in cui non si riconoscevano più, ma tenendo fede ad una sincera esigenza di coinvolgimento nella società. Un obbligo cui sentivano di non poter venir meno, ma anche una ricerca etica ed esistenziale che aveva perso il suo contenitore e doveva trovare un nuovo modo di esprimersi. Quest’apertura al dialogo e alla sperimentazione trovò la sua voce, tra il 1957 ed il 1958, nelle pagine di “Città Aperta”. La rivista vide tra i suoi fondatori anche gli artisti Vespignani e Attardi e diede un’importante contributo al dibattito sull’arte. Secondo la definizione di Vespignani era una “rivistina interdisciplinare destinata a guastare i sogni della Commissione Culturale del Pci”. Infatti, rilevava ancora Vespignani: “Dario Micacchi non ci approvava, anche se garantiva sulla nostra buonafede: lui 'ora' restava 'dentro' il Partito ('dentro la stampa di Partito' malignavamo 'che c’entra il Partito?'). L’ora era quella di Budapest, delle cattive coscienze e delle cocenti delusioni, dell’attacco alle sinistre, concentrico, spietato, e non aveva torto fino in fondo. Qualsiasi cosa scrivevi fuori, o accanto alla forma partito, ti metteva sul confine, sfumatissimo, che divideva gli atteggiamenti critici da quelli reazionari.” Sul quarto-quinto numero di “Città aperta”, del luglio 1957, Vespignani curò una lunga intervista a Guttuso intitolata Il vecchio schieramento realista si può considerare in crisi? Vespignani riteneva che, al di là delle retoriche, esistesse effettivamente una crisi interna al movimento da imputare a “un sempre più accentuato schematismo critico, una sempre più miope e rozza fede nei contenuti intesi come generiche e retoriche tematiche, un classismo spesso degenerante nel populismo, un primitivo, settario e mutilo modo d’intendere la tradizione, un legame spesso pesantemente utilitario con gli apparati politici e burocratici.” In cui “l’Unità del movimento era divenuta vera e propria omertà critica ed ideologica“, impedendo così al realismo di “dar vita ad un linguaggio veramente rivoluzionario e maturo”. La disillusione era evidente nelle parole del giovane artista e quello che Guttuso esprimeva nelle sue risposte era soprattutto il rifiuto di una reale meditazione critica . Quando nel marzo del 1959 “Città aperta” riprese le pubblicazioni, dopo la chiusura voluta dal partito, nel manifesto vennero chiarite alcune questioni su cui si riteneva necessario un dibattito. Ci si chiedeva se il realismo fosse “una delle tendenza dell’arte contemporanea” e non piuttosto “la più avanzata concezione del mondo espressa in linguaggio d’arte”. Questione accompagnata da un monito: “Non si fa civiltà rifiutando la complessa civiltà, scambiando chiarezza per elementarità, popolarità per folklore, socialità per politica, modernità per contingenza”. All’inizio del decennio si avvertiva un’esigenza trasversale a tutta la cultura artistica italiana, un’esigenza di comprensione e resa di un contesto di progressivo e massiccio inurbamento, dall’aspetto e dalle esigenze profondamente mutate rispetto al passato, e che continuava ad evolversi ad una velocità a cui, artisticamente, si rispondeva con strategie di volta in volta diverse. In questo modo entrarono in crisi, nella comune incapacità di comprendere e dare un volto al cambiamento, quelli che erano stati i due grandi antagonisti degli ultimi anni in campo artistico: il realismo e l’informale. Questa fase storica vide l’inevitabile complicarsi del rapporto tra soggetto e realtà, un rapporto che fino a quel momento era sembrato diretto e lineare, quale che fosse l’estremo cui si desse il ruolo principale. Si avvertì la necessità di riorganizzare i frammenti dispersi della realtà e dell’esperienza che ne viveva il soggetto, l’artista, in un orizzonte di senso compiuto o, almeno, in un contenitore che li potesse raccogliere, ma la domanda che rimaneva sospesa era se questa fosse ancora un’opzione possibile in un panorama segnato dal senso dell’informe, come avvertiva Sanguineti in ambito letterario. Si cercò dunque da più parti di intraprendere un nuovo discorso: “ Si parla molto di nuova figurazione, una figurazione oltre l’informale, non sarebbe male parlare anche di ciò che vi è stato oltre all’informale, perché in quegli anni nei quali certuni oggi vedono soltanto la sublime esteriorizazzione di visceralissima interiorità, molte altre cose si sono fatte in Italia e nel mondo ricerche figurative senza le quali la stessa radunata attuale di molti attorno a idee neofigurative sarebbe impensabile . Bisogna ora attendere i risultati che possono venire da coloro che oggi si pongono su posizioni di nuova figurazione partendo da un hinterland informale . Il tempo delle semplificazioni estreme e dell’iconoclastia a buon mercato forse sta finendo; ora viene un grosso appuntamento con la cultura ” Il breve lasso di tempo tra il 1960 ed il 1964 circa costituì un momento di ripensamento e riflessione da parte delle diverse correnti artistiche, una sorta di momentanea sospensione, in un contesto in cui si aprivano innumerevoli possibilità, tutte strade ancora percorribili di fronte agli artisti che si trovarono a dover cercare un nuovo modo di relazionarsi con la realtà. Un arco temporale segnato dalla ricerca costante di un’immagine in cui identificarsi, in cui il dubbio fu il fondamento di un operare artistico sospeso tra un passato ancora troppo vicino e un futuro di difficile definizione. Le diverse poetiche dell’informale, ormai giunte al loro apice sperimentale, vissero il periodo di massima diffusione, ma anche di graduale distacco da una concezione sociale dell’arte che si andava modificando in direzione di una maggiore aderenza al dato quotidiano e che prefigurava l’avvento del nuovo orizzonte oggettuale delle sperimentazioni dell’arte programmata e cinetica. Un’evoluzione che si dipanava dalle premesse stesse dell’informale, mirando però a superare i limiti della dimensione spiccatamente individuale, a erodere quella che Crispolti aveva definito la “parete dell’angoscia” . Questa situazione non poteva non mettere in crisi il concetto di realismo quale strumento di rappresentazione, infatti dopo il 1956 gli ideali stessi su cui si era basato vacillavano ormai di fronte all’avanzare della modernità, che esigeva una rielaborazione della realtà su nuovi livelli critici. Sanesi, nel suo contributo al catalogo Possibilità di relazione, indicava come i pittori italiani presentati non fossero “quasi mai rifuggiti da una sorta di figurazione di ‘impegno’, che permettesse di nuovo il ‘racconto’, tanto che spesso le loro opere sono abitate da ‘personaggi’ così caricati di tutto il senso che il termine comporta da poter esse facilmente definiti ‘personaggi progettanti’.” Anche i più ostinati fautori del realismo erano consapevoli che la sterile contrapposizione con l’arte astratta apparteneva al passato. Guttuso stesso, ancora nel 1957, scriveva: “Procedere per liquidazioni non serve a nessuno. Chi pretende di dividere il mondo in due: arte astratta-arte realista, senza comprendere quanto di realtà ci può essere in un’opera classificata astratta, e quanta astrattezza in un’opera classificata realista, è un settario e non un filosofo.” Che poi, fra la consapevolezza di questo dato di fatto e la pratica quotidiana ci fosse ancora una frattura profonda è discorso più di analisi sociologica e politica che non di studio estetico. Alcuni artisti cercarono risposte che andassero nella direzione di un rinnovamento della pittura di impegno storico e civile: “chi non vuole sfuggire a un effettivo impegno civile dell’arte deve condurre un aspro e quotidiano combattimento per costruire immagini che siano, al tempo stesso, coinvolte nella lacerante complessità del mondo e portatrici di nuova conoscenza e di nuovo giudizio il loro intento non è di consolare, chiedono che le diverse fasi del loro sviluppo siano riguardate senza pregiudizi, cercandovi la sostanziale unità che è data dall’impegno di intervenire sulla realtà.” Così l'immagine umana, variamente deformata, ma riconoscibile, divenne lo strumento espressivo e comunicativo dei temi e dei problemi che coinvolgevano, anche nei termini di una ricerca etica e morale, l'uomo contemporaneo. L’iconografia umana si fece punto di incontro privilegiato fra l’artista e i destinatari dell'opera, il mezzo più idoneo per instaurare una relazione di comprensione con un pubblico spesso disorientato. Ma la spinta non poteva esaurirsi nella dimensione etica, si rendeva necessario mettere in discussione anche gli strumenti linguistici atti a rendere la contraddittorietà del reale senza perdere in capacità comunicativa. Qui entrarono in gioco le nuove teorie del linguaggio e gli studi sulla prospettiva, ma spesso si trattava, da parte degli artisti, di conoscenze a livello superficiale che contribuivano a creare un humus creativo condiviso, ma non sempre assurgevano a un livello cosciente. Non tutti infatti avevano la curiosità onnivora e indagatrice di un Romagnoni, ma è comunque spesso documentato l’interesse nei confronti di tematiche filosofiche e il possesso di riviste e volumi che ne trattavano. L’esistenzialismo ebbe ampia diffusione in Italia nel secondo dopoguerra e, negli anni Cinquanta, le opere di Sartre furono lettura condivisa, in particolare i racconti, si leggeva Camus e si venne riscoprendo Kierkegaard . Si consideri comunque che, a differenza di quanto avvenne nella cultura francese, la corrente filosofica predominante del marxismo umanistico raramente si accompagnò all’esistenzialismo, anzi ne fu spesso il più feroce detrattore, segnandone l’assimilazione in un contesto di separazione dall’impegno politico . Forse il miglior tramite di un’evoluzione italiana dell’esistenzialismo fu Enzo Paci, fondatore e direttore della rivista “Aut-Aut”, con il suo relazionismo fenomenologico che, attraverso il pensiero di Marleau-Ponty, interpretò l’esistenza come evento finito dove non è data alcuna realtà assoluta, secondo una fenomenologia basata sui concetti di tempo e relazione che configurano il mondo come insieme di connessioni che danno luogo a forme precise, ma sempre aperte, dunque in continua formazione e mutamento. In questo processo dinamico le relazioni sono le condizioni dell’esistere, in uno scambio continuo tra passato, presente e futuro dalla forte impostazione etica. Il riferimento all’esistenzialismo per i fenomeni artistici che si svilupparono tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta è dunque d’obbligo, ma per i movimenti neofigurativi, discendenti ripudiati di genitori incompatibili, forse più che a Sartre e a Camus bisognerebbe guardare a Walter Benjamin e alla sua prospettiva storica. L’edizione italiana di Angelus Novus, curata da Renato Solmi, uscì nel 1962 presso Einaudi, solo sette anni dopo la prima edizione tedesca degli Schriften . Pubblicata in pieno auge delle poetiche neofigurative, dava fondamento e giustificazione a una visione della storia come tragedia e ad una concezione del linguaggio che rimanda costantemente al suo fondamento indicibile. Gli scritti di Benjamin ebbero notevole fortuna in Italia, ovviamente soprattutto nell’ambiente intellettuale di sinistra, che tese ad approppriarsi e a identificarsi con questa figura tormentata, divisa tra un profondo sentimento religioso dell’esistenza e la fiducia nel marxismo. L’Angelus Novus di Paul Klee diventa, nel commento di Benjamin, l’angelo della storia e in quel suo volgere la testa verso le macerie del passato, mentre l’inarrestabile vento del progresso lo sospinge verso il futuro, non può non far pensare al difficile confronto tra tradizione e modernità vissuto dai nostri pittori. Alcune affinità con la concezione del linguaggio di Benjamin si riscontrano in un altro testo che all’epoca trovò ampia diffusione, il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, pubblicato in Italia nel 1954. Secondo il filosofo austriaco i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo, perché è solo attraverso il linguaggio, e nella comprensione del senso del linguaggio stesso, che la totalità dei fatti risulta accessibile, o meglio raffigurabile . Questa proposizione può essere applicata anche agli artisti che considerano la pittura un vero e proprio linguaggio, dunque tramite per la conoscenza del mondo e, quindi, allo stesso tempo, limite che circoscrive il loro mondo. Vi è però anche ciò che il filosofo austriaco definisce “il mistico”, ovvero ciò che trascende i limiti del linguaggio e quindi del conoscibile. Questo tipo di questione non è logicamente giustificabile e resta inaccessibile al linguaggio , quanto meno a quello fondato su strutture logiche, ossia ad un linguaggio razionale e verbale. Varrebbe il medesimo discorso per un linguaggio che non funziona secondo nessi logici? Lo stesso Wittgenstein affermava che etica ed estetica sono valori trascendentali e che, almeno in relazione al solipsismo, quanto non può essere detto può essere mostrato . Possiamo considerare in tal modo anche la pittura in quanto linguaggio di cui il soggetto crea i codici di lettura? La risposta potrebbe essere positiva facendo riferimento alla teoria dei giochi linguistici delle Ricerche filosofiche di un Wittgenstein più maturo: “Esistono innumerevoli tipi differenti di impiego di tutto ciò che chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. ” Dunque per l’artista i limiti del suo linguaggio sarebbero realmente i limiti del suo mondo. Per quanto riguarda la riflessione sulla prospettiva furono fondamentali gli esempi di Bacon e Giacometti, così come vennero commentati in diversi articoli di Renato Barilli, oltre alla pubblicazione nel 1961 de La prospettiva come forma simbolica di Erwin Panofsky per i tipi della Feltrinelli. È noto che Romagnoni possedeva la prima edizione del saggio dello storico tedesco, e di come questo fu alla base dei suoi tentativi di superamento della rappresentazione prospettica tradizionale. Al di là del complesso apparato di spiegazioni con cui nel testo viene avallata la teoria che faceva della prospettiva non più una trasposizione scientifica dei meccanismi visivi, bensì un sistema simbolico che esprimeva i valori di un preciso momento storico, e della querelle che scatenò fra gli storici dell’arte italiani, ciò che contò per gli artisti coevi era l’ennesimo esempio della relativizzazione di valori dati per assodati e dunque la contestualizzazione dei più basilari mezzi artistici al momento storico dato, non più strumenti innocenti di una visione, ma scelta connaturata alla visione stessa. Inoltre, il reinserimento di una sorta di profondità all’interno delle opere figurative di quegli anni fu un esplicito atto di rigetto nei confronti dell’appiattimento delle opere informali, la ricerca di una dimensione nuovamente umana in cui inserire corpi concreti, ma che non poteva più identificarsi con l’armonico spazio rinascimentale dominato da un uomo in posizione privilegiata. Nell’ambito di queste ricerche un pericolo che, non a torto, anche se su basi critiche discutibili, veniva esposto da diversi commentatori di sinistra era quello di un vuoto sincretismo che si limitasse a mantenere un gusto vagamente aggiornato, seppur gradevole, però fosse totalmente privo di messaggio e di una ricerca linguistica che non si limitasse ad un adattamento superficiale: “Un rischio gravissimo oggi corre la giovane pittura: quello che, attraverso un caotico ricomporre i frammmenti di tante e tante esperienze plastiche, essa ricostruisca l’iconografia di una pittura leggibile, ma senza messaggio, pittura descrittiva degli oggetti, ma vuota di oggettività, se non, addirittura, portatrice di malinconiche e senili associazioni di oggetti della vita di sempre.” Non mancavano dunque elementi di critica e malcelati pericoli sul percorso di una nuova figurazione di cui già si intravedevano i limiti. In un articolo del 1960, riferito alla mostra alla Galleria Bergamini tenuta da Vespignani, Ferroni, Sughi e Banchieri, Kaisserlian coglieva già le critiche principali rivolte ai neofigurativi: “C’è un po’ di tutto: un pizzico di sinistrismo con la “dialettica contraddizione”, di relazionismo, cioè di problematicismo aggiornato, con la “serie infinita dei rapporti”, una strizzatina d’occhi ai vecchi figurativi con la “leggibile immagine del mondo”, che è poi l’unica cosa vera. Non ci pare comunque che nelle loro opere Ferroni e Vespignani abbiano affrontato sinora il tema figurativo storicamente più attuale: l’uomo dilacerato che non riesce a stare a se stesso (Bacon, Giacometti) e che si trova solo nell’impeto di una proposta (il miglior Guttuso, Guerreschi).” Forse a dare il miglior quadro della situazione cui rispondevano gli artisti neofigurativi, più che un pittore o un filosofo, fu uno scrittore, Pier Paolo Pasolini. Vicino ad alcuni artisti del gruppo, e comunque parte del medesimo entourage intellettuale, lo scrittore friulano espresse in scrittura, cinema e talvolta anche su tela, le medesime ansie di fronte alla realtà e descrisse lo stesso mondo dei pittori neofigurativi. La condizione di Pasolini, ideologicamente nel Pci, ma al di fuori moralmente, reazionario sulla questione dell’urbanizzazione e massificazione della società, ma fin troppo avanzato sul fronte del linguaggio e della tematiche dei suoi libri, rispecchiava, sotto molti profili, la condizione degli artisti che cercarono di andare oltre l’ideologia comunista e la prassi realista, ma lanciando la sfida dall’interno. Lo scrittore strinse rapporti con artisti delle tendenze più diverse come potevano essere, ad esempio, Fabio Mauri e Giuseppe Zigaina, ma condivise in particolare con i nostri e seppe esprimere quella frattura fra arte e ideologia, tra forma e contenuto, che fu la sfida che questi pittori affrontarono in quegli anni, la questione sempre centrale e mai risolta che fu l’origine della loro opera e anche il limite oltre cui non seppero muovere. Scrisse presentazioni sia per Guttuso che per Vespignani e, se dichiarò apertamente la sua sintonia col primo, fu forse ancora più vicino al secondo con cui aveva in comune anche l’amore per la Roma delle borgate. Nel 1960 si cominciava già a intravedere nella nuova figurazione un’alternativa concreta di sviluppo, un’opzione in più su cui scommettere per l’immediato futuro: “Si è parlato molto negli ultimi mesi, di ritorno al realismo, di sopravvento del figurativo. È indubbio che una serie di mostre, per lo più positive, di giovani pittori figurativi abbiano dato impulso a una pittura di idee, lontanissima, nella forma, dal pittoricismo oleografico del neo-realismo, ma nuovamente aperta ad una tematica ideologica che, questa volta, invece dell’orgia proletaria e miserabilistica di dieci anni fa, punta sulla satirica rappresentazione di un particolare ‘bel mondo’, già ampiamente documentato nei fatti di cronaca e soggetto preferito di un crudo neo-verismo conematografico . La concorrenza e la connivenza con il reportage giornalistico-fotografico e con il cinema, farà presto cadere questa pittura di idee in clichès falsi e triti, ma, come sempre, i migliori si salveranno, lasciando una documentazione essenziale e non contingente di certi costumi e di una data situazione sociale, così, ad esempio, un Vespignani a Roma e un Guerreschi a Milano, saranno dei pochi a far centro portando il loro engagement ideologico oltre la cronaca e la satira, su di un piano d’arte e di poesia. L’importante mostra che Renzo Vespignani e Ugo Attardi hanno allestito alla Galleria “La nuova pesa”, costituisce il più riuscito esempio di questa nuova pittura tipicamente italiana, che sarei tentata di chiamare “realismo antiborghese” o, forse meglio, “nuovo espressionismo antiborghese”.” All’inizio del 1961 si formò un primo raggruppamento neofigurativo a Roma, Libertà e Realtà, durato la breve parentesi di un’unica esposizione, ma che era sintomatico di un’esigenza diffusa che cercava un coerente modo di esprimersi. Nella presentazione della mostra gli artisti dichiaravano: “Siamo un gruppo di giovani pittori romani. Abbiamo in comune una posizione critica di fronte alla cultura e all'arte della società in cui agiamo: rileviamo nella teoria e nella pratica dell'”arte per l'arte” e dell'”arte informale” la conclusione di un generale processo di decadenza che è in corso da molto tempo nell'arte ed in genere nella cultura italiana. Questo gruppo di pittori intende quindi opporsi alla atmosfera culturale creata da questa situazione, desidera ristabilire un rapporto tra l'artista e la società, società che, malgrado il non disinteressato pessimismo, questi pittori credono ancora viva e vitale e intendono cogliere nella dialettica del suo sviluppo. Spesso in questi ultimi anni, alcuni artisti impegnati alla ricerca di una visione oggettiva della società, hanno finito per arenarsi su posizioni quanto mai pericolose ed equivoche. Da un lato si è voluto esprimere un'aspra posizione di critica nei confronti della società; un giudizio violento che passando dal sentimento, sia pure in parte giusto, dello sradicamento che l'uomo subisce nella moderna vita borghese (sradicamento sa sé stessi, dalla propria umanità, da ogni sano ed organico rapporto sociale), ha finito spesso per coinvolgere l'uomo stesso in una condanna irrimediabile. Una condanna questa che a noi sembra invece nascere principalmente dall'impossibilità o dall'incapacità di questi artisti di distinguere tra una contraddittoria e drammatica posizione individuale e le contraddizioni obiettive di una società da questa posizione deriva poi l'attrazione più o meno cosciente, che gli artisti di questa tendenza provano verso l'arte informale, che infatti nel suo estremo “smembramento” della visione e questo concetto sull'arte informale noi lo sosteniamo malgrado che una certa parte della critica parli di una ricostruzione offre a questi artisti congeniali e suggestive nonché facili soluzioni formali. D'altro canto ci sembra che a volte si sia corso il rischio di cadere nell'eccesso opposto, cioè, in un generoso ma ingenuo ottimismo e, peggio ancora, a noi pare che nella lotta condotta contro tutto ciò che è irrazionale, morboso, contro cioè certi motivi centrali della cultura decadente e forse anche nella paura di essi, si sia rimasti impigliati in un fare rigido e impacciato che ha portato a una visione a volte superficiale della vita e della storia. E' nostra intenzione lottare contro questo opposti pericoli cercando appunto di comprendere la realtà del nostro tempo nel vivo della sua dialettica. E' nella restituzione della verità una verità non scontata a priori ma da scoprire giorno per giorno partendo da una posizione spregiudicata e progressiva, lontana da qualsiasi cristallizzazione letteraria e nella volontà di esprimerla con mezzi adatti a ricostruire una moderna iconografia, che noi sentiamo di trovare il modo più profondo per partecipare attivamente all'evoluzione della cultura e della società. Noi desideriamo conservare ognuna la massima libertà di ricerca e di espressione per la conquista di un linguaggio che ci permetta di restituire la realtà oggettiva del nostro tempo. Non respingiamo perciò a priori le esperienza artistiche del nostro secolo ma al contrario sosteniamo la necessità di una valutazione meno unilaterale delle esperienze della avanguardia storica.” Nasceva in questo contesto l’esperienza del gruppo Il Pro e il Contro a cui “ più o meno organicamente collaborarono Ferroni, Guerreschi, Recalcati, Fieschi, Francese, Aillaud, Arroyo, Guida, Verrusio, Maselli, Gillespy, Mc Garrrel. Ed anche nell’assedio della rage informelle. Duilio Morosini, appena arrivato dalla Francia parlava di pittura viscerale, 'al di sotto della cintura'. Un nuovo esperanto, comunque, lo era, una corporeità, senza la persona umana, una radicale destrutturazione di ciò che restava del patrimonio iconico. Qualunque cosa si potesse pensare dell’informale e noi ne pensavamo assai male, se non altro perché moda 'facile' era evidente che liquidava le residue tentazioni 'veristiche'. Certo la soluzione del problema, come avevamo provato sulla pelle, non era in un aggiornamento al moto perpetuo dell’avanguardia. ” Vespignani tendeva ad allargare i confini del gruppo anche a quelle che furono solo partecipazioni virtuali e legami indiretti, poiché, se è vero che vennero organizzate dal collettivo diverse esposizioni di altri artisti, non sempre entrarono in contatto diretto con loro. Allo stesso tempo però l’elenco di nomi riportato evidenzia la vivacità dell’ambiente culturale romano, in cui si incrociavano e frequentavano artisti della più varia provenienza, estrazione e indirizzo, rendendo possibili collaborazioni che se, a volte, possono apparire incongrue, furono però spesso proficue di risultati e soprattutto stimolanti per il mondo artistico in generale. Si trattava, nelle intenzioni, di formare un sodalizio che fosse occasione di confronto tra gli artisti senza minare la loro libertà di espressione; in cui si ponessero i problemi, ma non si prefissassero le soluzioni come era stato a lungo nello schieramento realista: “Il pro e il contro è un gruppo che vive della sua interna dialettica, del libero confronto tra personalità diverse intorno a problemi e prospettive comuni. È dal ’60 che già si avvertono gravi segni di usura in seno alle correnti artistiche egemoni sostenute dal mercato internazionale, dalle gallerie pubbliche, dall’industria editoriale. Il momento è caratterizzato dalle resipiscenze di chi non ha creduto in ciò che faceva, dal risveglio dello spirito problematico di chi ha creduto in ciò che faceva. Dalle sponde opposte si riapre il dialogo. La condizioni di lavoro degli artisti che negli anni precedenti hanno continuato od intrapreso ad operare sul terreno del realismo moderno non sono nemmeno tali da scoraggiare lo sviluppo individuale delle esperienze.
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La spinta a creare nuovi strumenti culturali viene, insomma, da fattori oggettivi.” Si trattava più di una dichiarazione d’intenti politici e sociali che non di una dichiarazione di poetica, ma come realizzarla concretamente? Non era chiaro nemmeno agli artisti, ciò di cui erano consapevoli era la necessità di cercare nuove strade per la pittura di realtà, un’arte in cui ci fosse posto per la concretezza umana, ma senza le pesanti sovrapposizioni del realismo tradizionale: “ la ragione ultima di questo nostro ‘collettivo’ sta in fondo proprio nel proposito di cogliere nel concreto e demitizzare queste incidenze di una cultura fittizia, di contraddizioni ideologiche e sociali, d’essere presenti con coscienza critica nel mondo di oggi. Sono però anche convinto che ogni intervento debba essere sotteso dalla ferma coscienza di alcuni valori, dall’intima presenza in noi di un’immagine dell’uomo ancora integro, ancora in grado di agire nel mondo.” E in questo loro tentativo si affidarono anche ad elementi che appartenevano alla tanto ostracizzata corrente informale. Vigorelli nel testo per una mostra di Vespignani del 1963 affermava: “ Ora che gli astratti tentano un ritorno calcolato, spesso comandato, alla figuratività, i figurativi autentici rischiano coscientemente il processo inverso? è facile liberarsi della figura quando si crede poco all’uomo, e meno ancora alla società. Vespignani qui opera criticamente. Non salta l’uomo, piuttosto fa saltare l’uomo: per provarne la consistenza, la persistenza. Mi viene in mente, guardando questi quadri di Vespignani tra il ’62 e il ’63, quel che una volta disse Wittgenstein: che il corpo umano tende naturalmente ad affiorare alla superficie, e occorre uno sforzo per andare a fondo. ” I componenti originari del gruppo, che si riunivano nello studio di Vespignani, furono Attardi, Calabria, Farulli, Gianquinto, Guccione e Vespignani . I percorsi individuali all'interno del gruppo italiano si confrontavano reciprocamente alla ricerca di un nuovo corso che affondasse le radici nella tradizione, in un tentativo di rinnovamento del legame dell’artista con la società, ognuno secondo una sua personale soluzione figurativa. Si andava da Attardi, che era stato tra i firmatari del manifesto di Forma 1 del 1947 per poi aderire al neorealismo a cui cercò di conferire maggiore libertà formale, a Calabria con i suoi effetti di dinamismo e le scene di massa realizzate con modalità che si rifacevano al futurismo; da Farulli, passato dall’astrazione geometrica al neorealismo, sviluppando una personale visione della società contemporanea resa nei forti contrasti di colore e nell’utilizzo della linea in opposizione ad ampie stesure di pigmento, a Gianquinto, che sul gioco di una spazialità sempre tenuta su un solo piano innestava un luminismo di matrice veneta dalla forte connotazione lirica; da Guccione, la cui pittura risentiva di una forte influenza di Bacon, a Vespignani, che aveva alle spalle un lungo e sentito percorso realista, a cui l’approfondimento dell’esperienza informale conferì una nuova dimensione tragica e fredda al tempo stesso. Più precisamente questi artisti si qualificarono come “collettivo”, termine molto in voga in quegli anni, ovvero “bottega della giovane arte italiana”, definizione che rendeva bene l’idea del tipo di lavoro che conducevano: non si trattava soltanto di esposizioni congiunte, ma anche di organizzare mostre individuali di singoli artisti storici o contemporanei in linea con le idee alla base della formazione. Nacquero così le varie mostre siglate dal collettivo, dalle individuali di Guerreschi, piuttosto che di Ferroni o Calabria, a mostre quali quelle di Quattrucci o Turchiaro o, ancora, Georg Grosz o Sutherland. Il tentativo fu anche quello di mettersi in contatto con artisti che non gravitassero per forza nell’area romana, estendendo l’esperienza al di là dei limiti di un localismo che cominciava ad andar stretto agli artisti stessi. Secondo Vespignani, il critico Dario Micacchi, che prese parte al progetto con grande entusiasmo, “teneva una fitta e 'gesticolante' corrispondenza con i pittori delle altre città”. Pare che in questo tentativo non fosse secondario neanche il ruolo svolto da Guttuso che cercò di coinvolgere altri giovani artisti in questo progetto, forse con la volontà di creare una nuova diramazione della scuola realista, che ne prolungasse i valori tramite un linguaggio che potesse confrontarsi ad armi pari con le nuove correnti. Secondo Crispolti: “A un certo punto Guttuso ha tentato di creare un gruppo di giovani, per diventarne lui lo sponsor e, da leader, avere intorno una sorta di situazione. Aveva cercato Schifano, Angeli, Vacchi stesso. Però poi non c’è riuscito a convincerli e a organizzarli.” Sicuramente esisteva una lettera in cui Guttuso invitò Romagnoni a entrare a far parte de Il Pro e il Contro, ma ci sembra di poter affermare che l’artista partecipò alle esposizioni del gruppo, da cui mantenne sempre un certo distacco, più in virtù della volontà del suo gallerista romano, Mario Roncaglia, che non per questo autorevole, se non autoritario, invito che non poteva non guardare con una certa diffidenza. La prima uscita del collettivo come tale avvenne, nel dicembre del 1961, presso la galleria La Nuova Pesa, con la mostra intitolata “La violenza, ancora”, dedicata ad un tema che permetteva di esprimere al meglio i principi sia stilistici che concettuali portati avanti dal gruppo e che veniva esplicitato già nella copertina del catalogo della mostra che riportava il dettaglio della testa mozzata di Golia, dal caravaggesco Davide con la testa di Golia (1610) di Galleria Borghese . Secondo il collettivo “ la mostra, centrata sul tema della violenza nel mondo contemporaneo, non si configura sotto il profilo (di dubbia efficacia) d’un generico atto di denuncia, ma come nuova verifica del rapporto conoscitivo e critico tra l’arte e gli avvenimenti, come sperimentazione individuale, articolata, varia, di singoli pittori che cercano il loro vero, sicuro punto di attacco alla realtà; come occasione di mettere alla prova, anche, le difficoltà oggettive i condizionamento sociali, culturali, linguistici che incontra l'artista contemporaneo ad attingere alle fonti dirette dell’emozione, e, infine, come sondaggio concreto degli insostituibili strumenti di demistificazione di cui dispone l’arte in un epoca quale la nostra, caratterizzata dallo sviluppo di nuove, molteplici forme di documentazione visiva.” La mostra era allargata anche ad altri artisti e fra questi va rilevata proprio la presenza di Renato Guttuso, a conferma che la sua opera restava un punto di riferimento, seppur considerata secondo modalità più libere e aperte a nuove influenze.
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Guttuso fu, per gli artisti del gruppo, così come per molti altri giovani pittori, allo stesso tempo un baluardo contro l’avanzata dell’arte astratta, che non riuscivano a non vedere come un’operazione fine a sé stessa, e un freno ad uno sviluppo più libero ed aperto del codice figurativo. Si trattava di un’esposizione di quarantacinque fra disegni e incisioni di cui, già durante l’esposizione, si vendeva una collezione di dieci litografia scelte. Tale raccolta ebbe almeno due edizioni e sarebbe poi stata trasposta nel 1962, per i tipi degli Editori Riuniti, in una nuova versione composta da 24 litografie, accompagnate dalle dodici Ballate della Violenza di Pier Paolo Pasolini . Nel catalogo della mostra, oltre ad un commento del collettivo di artisti, era inserita anche una lettera di Angélica Arenal, consorte del muralista messicano Alfaro Siqueiros: un appello per la liberazione del pittore, gravemente malato, dal carcere in cui era rinchiuso per motivi politici. La partecipazione alle iniziative volte alla liberazione del pittore messicano dovette, con ogni probabilità, venir decisa poco prima dell’apertura della mostra, in quanto, in linea con quella che era la tematica pacifista dell’esposizione, il soggetto principale erano in realtà le recenti, drammatiche vicende della guerra d’Algeria, che avevano visto nei fatti del 17 ottobre 1961a Parigi uno dei momenti più bui di quello che fu uno scontro politico e militare di incredibile ferocia. Nei commenti critici inseriti nella cartella del 1962 la parte più ampia era destinata a Guttuso, a testimonianza del ruolo di patrono del gruppo che gli si voleva assegnare. Del Guercio scriveva: “ non si può rinunciare a sperare che venga un tempo nuovo nel quale sia possibile riproporre gli splendori della bellezza come splendori di dignità. Intanto, tocca tracciare sui fogli segni aspri furenti e scarni, da comporre entro l’eterna iconografia del dolore e dello sdegno, in apparizioni fulminanti che sappiano scuotere le coscienze. Così in questi tre disegni: che non pretendono di competere coi fatti sul piano delle orrende evidenze cronistiche, ma che, muovendo dall’orrore (come dimenticare i flash scattati sopra i cadaveri appiattiti al suolo nei viali d’Algeri?) approdano a un giudizio nel quale sono insieme coinvolte cose di Nord Africa e cose di casa nostra evocate sotto il profilo d’un discorso sul destino dell’arte europea. Questa può forse legittimare ormai la propria presenza o la propria necessità, al cospetto di quel che accade nel mondo, con interventi saltuari che servano solo ad archiviarne i problemi di fondo e la crisi permanente, o col solito giardinaggio in serra calda in vista di nuove ibridazioni ancora più strane e più estranee? È difficile crederlo. Certo, la via presa da Guttuso non offre alle diverse evasioni, opposte forse solo in apparenza, un’alternativa agevole, poiché egli propone in sostanza una chiara continuità creativa nei confronti della tradizione rivoluzionaria dell’arte moderna (Picasso, in primo luogo) e, al tempo stesso, una quotidiana verifica di questa tradizione e della sua capacità di reggere alla tensione d’una ricerca che ha per oggetto i conflitti del nostro tempo. Sicchè, nelle sue opere più esemplari laddove, com’egli stesso ha detto qualche volta, l’impegno è più ‘catastrofico’, Guttuso appare insieme come il più strenuo e il più problematico erede della linea moderna di sviluppo artistico che ha in Picasso il suo punto di congiunzione tra passato e avvenire. Il lavoro di Guttuso è dunque una risposta sia al pessimismo di chi con sicumera tecnocratica o con vertiginosa incertezza tardo-romantica, non importa dice concluso l’umano discorso della pittura sia all’ottimismo di chi ritiene possibile un pacifico artigianato moderno. Certo, la ragione prima del suo dipingere o disegnare non è di rispondere a qualcuno, ma di corrispondere a certe realtà oggettivandole per tutti: sicchè, proprio perché non limita l’area delle sue passioni alle questioni interne alla Repubblica delle Arti, le sue immagini hanno l’ardente fuoco della restituzione artistica della vita e la persuasiva eloquenza del ragionamento in tema di scelte critiche. È questa, insomma, la virtù speciale di questi disegni: che l’arabo smagrito dalle braccia levate in alto o le donne della cui bellezza s’è fatto strazio, ci inducono a guardare, attraverso quella ribellione e quella tortura, a noi stessi e a pesare fino in fondo la vanità di molti nostri pensieri squisiti.” La parte più interessante del testo è quella conclusiva che voleva collocare, ancora una volta, Guttuso, e con lui i pittori presenti all’esposizione, lungo la direttrice del realismo che da Courbet discendeva fino alla rivoluzione modernizzante di Picasso che i nostri, raccogliendo l’eredità del pittore siciliano, avrebbero dovuto portare alla successiva evoluzione. Ma si trattava di un’analisi superficiale, che si fermava solo agli aspetti più evidenti delle immagini e così, ancora una volta, il punto focale restava l’aspetto contenutistico, quasi d’occasione, che metteva in ombra la questione del linguaggio. A Del Guercio era assegnato anche il commento sul lavoro di Vespignani, e anche in questo, si focalizzava sulla questione del contenuto, in particolare sulle polemiche originate dal fatto di eleggere a tema delle sue opere eventi di cronaca nera: “ è solitamente mal posta la questione del rapporto di Vespignani con la ‘cronaca’. È vero che le sue immagini offrono una visione spietatamente plausibile di cose spietate, in un’ossessione di verità che non vuol risparmiare al riguardante nessun dettaglio che abbia una qualche portata nella definizione e nella localizzazione del tema; è altrettanto vero però che questa spietatezza e questa ossessione e questa dura volontà di precisione si attuano per rapporti formali che non possono certo dirsi ottici. Farebbe una fatica grossa, e vana, chi volesse dimostrare che in questi disegni i rapporti di spazio e di proporzione, o le strutture stesse degli oggetti, siano da ridurre a visione ‘naturalistica’: in verità, quel che qui dispiace – con nostro compiacimento alle anime belle, è tutt’altra cosa: la restituzione espressiva di fatti che possono solo recar turbamento o fomentare dubbi sulla bellezza dell’ordine costituito. Come non rilevare a quali toni emblematici della visione sia giunto questo pittore, nel corso d’un lungo processo che dalla cronaca ha bruciato per chi sappia vedere i limiti angusti per metterne a fuoco i fatti più crudamente esemplari, al lume d’una volontà pronta a correr tutti i rischi fuorchè quello d’esser elusiva?” Se Guttuso si era concentrato esclusivamente sulla tematica algerina le opere degli altri spaziavano anche, al di là dell’occasione specifica, in una concezione della violenza più ampia rispetto all’evidenza dell’atto fisico che si espleta in un contesto bellico. Ad esempio Vespignani in un’opera come Televisore, in cui la luce di un apparecchio televisivo posto in alto a sinistra illuminava l’interno di una camera e un neonato piangente su un letto sfatto, oltre a dimostrare il virtuosismo tecnico delle sue incisioni, dava un immagine di quella che poteva essere la violenza di una quotidianità in cui gli affetti si perdevano e la tecnologia diventava l’unico riferimento possibile. L’ambiente era reso con un tratto quasi informale, mentre i poli d’attrazione erano in primis il televisore nettamente delineato, oggetto quasi mistico, la cui luce conduceva lo sguardo dello spettatore in una diagonale fino alla figura del bambino reso con tratto classico, ma significativamente subordinato alla macchina. Nel commento di Micacchi sull’opera di Attardi troviamo il vecchio motivo marxista dell’opposizione anti-borghese: “Ciò che oggi noi abbiamo ‘benessere’ borghese e liberale consenso borghese non è ciò che abbiamo desiderato, non è minimamente ciò per cui abbiamo combattuto. E non è nemmeno quel posto pulito illuminato bene di cui scriveva Hemingway. Abbiamo cercato battaglia in campo aperto contro un nemico borghese che credevamo un nemico omerico dalla forma terribile e gigantesca ma ben chiara sulla curva della terra e della cultura. Il nemico, invece, s’è fatto avanti non con una ma con mille forme e certo più di seduzione che d’offesa. Sorridendo ci va tirando nella sua Troia e molte porte delle sue case ci va aprendo, e ci offre unguenti per le piaghe e nettare per la lunga fame, e piange assieme a noi sui guai del mondo e dell’arte.” Il bersaglio polemico era ovviamente un’arte estetizzante e decadente che rifletteva i gusti della borghesia e probabilmente anche l’esperienza giovanile di adesione all’astrazione di Ugo Attardi, ma veniva subito chiarito come l’artista avesse operato le sue scelte non perché corrotto e illuso dal potere, ma seguendo la sua ispirazione: “Per lui un quadro è un’occasione nuova per conoscere il mondo e non un nuovo passo obbligato per l’egemonia, per il potere. Il senso tragico della sua pittura attuale viene dalla consapevolezza del presente e dalla esperienza quotidiana di quanto si faccia sempre più precaria la qualità umana degli uomini.” L’obiettivo era sempre puntato sull’uomo e, dato questo presupposto, allora si poteva qualificare la ricerca artistica come onesta, anche se non necessariamente sempre riuscita e risolta nei suoi elementi. L’oggetto dell’indagine era l’essere umano, questa entità che nelle sue abiezioni poteva risultare sempre più uno sconosciuto, altro da sé, che fosse vittima o carnefice. Scriveva Micacchi: “Guardo le “nature morte algerine” di Farulli: fogli rabbiosi dove una mano che ha coscienza dell’abisso si trova a ‘parler de l’homme’ con pezzi di filo spinato, con chiodi, fili elettrici, tenaglie.” Si cercava di oggettivare quelle che risultavano realtà inaccettabili, magari riducendole al rango di nature morte come nelle opere di Gianquinto: “Vede ombre di mostri che lui solo sa abitare le quiete stanze. E nella luce solare vede uomini, schiacciati da ombre spaventose, pure avanzare e conservare memoria di arcipelaghi e isole. Anche se la lampada l’emblematica lampada della ragione innalzata da Picasso sul massacro di Guernica sembra non dare più luce e chi cerca la lampada vede, invece, penzolare lingue enormi come in una beccheria della coscienza – lingue più di bestia che d’uomo, simboli plastici crudeli delle parole che ci opprimono: parole, parole, parole. Tante che la lingua di chi vorrebbe urlare basta!, la riconoscete solo per quel chiodo che la immobilizza. È dalla qualità poetica delle ombre che voi dovete cominciare a ‘leggere’ queste ‘nature morte’ di Gianquinto, o meglio questi frammenti di un mondo che il pittore vede svilito a natura morta.” In un’opera come Al di là della notte Gianquinto aveva delineato un personaggio al centro della tela, un uomo le cui braccia si prolungavano verso lo spettatore, in una deformazione prospettica che tagliava la tavola diagonalmente e creava una zona più chiara nell’angolo in basso a sinistra e una zona molto scura nell’angolo in alto a destra, in cui erano inscritte due bocche da cui usciva la lingua. In quest’opera si mescolavano fonti molto diverse tra loro, come l’ispirazione fumettistica dei singoli elementi della composizione e una resa bozzettistica e tonale di chiara derivazione dalla tradizione veneta. Questo tentativo di coniugare modernità e tradizione era la cifra stilistica che accomunava tutti questi giovani autori. Ad esempio, rispetto a Calabria, Morosini scriveva: “Nell’atto stesso di abbordare senza paura di ‘bruciare’ l’arte al fuoco dell’attualità, una tematica di interesse più generale, egli tenta, oggi, si adeguare ai tempi ‘l’apologo’ goyesco, di sfaccettarne i significati, di infittirne le analogie, ricorrendo alla tecnica della rappresentazione multipla esperimentata dalla avanguardia.” E sempre Morosini diceva di Guerreschi: “Lo spazio perde il suo carattere dominante, cede il posto alla continuità delle immagini che si legano l’una all’altra in una sorta di campo ‘neutro’ secondo la logica della metafora. Al centro di un unico piano ravvicinato, esse articolano, infatti, quelle loro forme composite, da metamorfosi kafkiana. Soldato dalle membra di insetto ed albergante in corpo una macchina di distruzione, ragazza dei ‘quartieri alti’ dall’abito a dal ‘maquillage’ rievocanti drappi funerei ed occhiaie di morte, donna o ragazza della borgata, radiografata dalla cintola in su, tutte queste figure dicono del persistente e radicale pessimismo dell’artista nei confronti di una società che, insieme alle apparenze della facilità e del benessere, genera le guerre coloniali ed il riarmo atomico. Cranach e Bosch, Beckmann ed Ernst sono i ‘padri spirituali’, lontani e vicini, di quest’arte che è giudicata ‘irritante’ da chi ne respinge il messaggio, ma che è forte, in realtà, proprio di questo suo contenuto ‘provocatorio’ e del rigore formale con il quale ordina, compone e domina lo stridore e la dissonanza delle sue immagini.” In Soldato e ragazza Guerreschi mostrava due figure che si stagliavano su un fondo bianco, privo di interventi: a sinistra il soldato chiuso nella sua uniforme e nel suo isolamento, a destra la ragazza che l’abito di un rosso vivo rendeva il punto focale della composizione. Lei avvicina il soldato, ma è voltata dal lato opposto come a sancire un’assoluta impossibilità di comunicazione tra le due figure. Fra la la prima mostra del gruppo e la successiva trascorse più di un anno, ma in questo periodo né gli artisti, né i critici rimasero inattivi. Innanzitutto continuò l’opera di coinvolgimento di altri autori nel progetto; la presenza di Giuseppe Guerreschi alla prima esposizione del Pro e il Contro fu uno degli elementi che permise di sviluppare una collaborazione tra gli esponenti romani della nuova figurazione e alcuni interpreti milanesi dell’esistenzialimo: lo stesso Guerreschi, Gianfranco Ferroni e Giuseppe Romagnoni . L’impegno civile di Romagnoni, come quello di Guerreschi e Ferroni, unito al loro lavoro di sperimentazione linguistica fu alla base dell’invito a partecipare al collettivo, pur nell’evidente diversità di approccio di questi artisti. I tre avevano alle spalle l’esperienza del realismo esistenziale che si era poi canalizzato in una pittura caratterizzata da una particolare tensione oggettuale, assente nel panorama degli artisti romani, così come non sussisteva quel rapporto con la tradizione tanto importante invece per i fondatori del collettivo, avvicinandoli piuttosto all’ambito della Figuration Narrative francese. Ferroni, dopo una pittura influenzata dall’opera di Giacometti, si era andato addentrando in un territorio tangente la Pop Art, ma che viveva di una dimensione più intima e problematica. Nel caso di Guerreschi il nuovo interesse per l’oggetto si coniugava ad una critica sociale esplicita che si avvaleva di un ampio utilizzo della tecnica della pittura a spruzzo e del fotomontaggio. Mentre Romagnoni conduceva uno studio rivolto allo sviluppo delle possibilità dinamiche all’interno del quadro, realizzato tramite l’uso del collage e di campiture nette di colore. Altro motivo di questo ampio lasso di tempo tra la prima e la seconda esposizione fu la decisione di cambiare la galleria di riferimento. Se la prima mostra si era tenuta presso La Nuova Pesa, galleria con cui comunque alcuni artisti del collettivo continuarono a intrattenere rapporti espositivi, la seconda si tenne invece alla neonata Il Fante di Spade che Vespignani definiva “il braccio secolare” del gruppo, la cui direzione sarebbe poi passata al mercante modenese Mario Roncaglia, già ampiamente inserito nell’ambiente dell’intellighenzia di sinistra romana . La prima mostra che il gruppo allestì nella nuova galleria fu “Sette pittori d’oggi e la tradizione”, che ebbe luogo dal 23 febbraio al 9 marzo 1963. La mostra fu preceduta, in corso di allestimento, da un dibattito fra critici e artisti che in seguito venne riportato in catalogo a modo di presentazione. All’esposizione parteciparono i sei pittori fondatori del collettivo, Attardi, Calabria, Farulli, Gianquinto, Guccione e Vespignani e, nuovamente, Guttuso. Ad illustrazione della copertina del catalogo e della nota introduttiva al dibattito venne utilizzato un disegno preparatorio di Picasso per Guernica e una silografia di Beckmann intitolata Donna con candela: un modo di ricollegarsi a una specifica tradizione di figurazione espressionista e di impegno sociale , oltre che di illustrare il concetto sotteso al titolo dell’esposizione. L’idea della mostra era quella di un confronto diretto tra sette artisti moderni e altrettante opere del passato scelte da loro stessi come emblematiche. La questione in campo era quella del rapporto con la tradizione. Ognuno degli artisti dipinse per l’occasione un’opera che prendeva come termine di riferimento, emulazione o superamento, un’opera del passato: Farulli volle confrontarsi con una tradizione di genere come quella delle nature morte, Attardi scelse Manet, Guccione Luca Signorelli e Bacon, Gianquinto il prediletto Tintoretto, Calabria il Beato Angelico, Vespignani, così come Guttuso, Géricault. Lo snodo cruciale fu appunto quello del rapporto tra ricerca linguistica e funzione sociale in relazione alla storia; secondo le parole degli artisti si trattava di “libere variazioni (e riflessioni) su opere e temi di un recente o lontano passato lungo il triplice filo di poesia, ideologia e lingua”. Nel catalogo venne registrato un dibattito sul rapporto di questi artisti con la tradizione, sul concetto di avanguardia e sulle ragioni di una figurazione contemporanea. Nell’introduzione, significativamente intitolata Ragioni attuali del figurare, il collettivo esprimeva la volontà di un confronto con il passato che si facesse portatore di stimoli per il futuro: “la mostra dice la ragioni attuali del figurare ed attua una verifica singolare su di un passato che, per troppi, consiste solo in un bruciare oggi quanto era reputato vivo ieri. Dentro questo gioco, la stessa avanguardia non appare più come alternativa fra distruzione di vecchie iconografie e proposta di nuove forme, adeguate ai conflitti del mondo d’oggi, ma viene tradita nella sua promessa di un avvenire. Gli artisti che espongono insieme sono consci di muoversi lungo una secolare parabola storica e tentano di continuarla senza portarsi dietro la nostalgia del restaurare , cercano di afferrare il senso della storia, moderna ed attuale hanno l’obbiettivo di restituire alla pittura la capacità di creare forme nuove per realtà ed idee nuove.” Si passava poi a presentare la registrazione del dibattito in cui gli artisti esposero le ragioni alla base delle loro scelte nel realizzare le opere per la mostra, e si confrontarono quindi con i critici riguardo alle questioni contenutistiche e linguistiche sollevate. Il confronto col passato, di cui questa mostra si faceva vetrina, voleva mettersi in polemica sia con quanti ritenevano che fosse necessario farsi terra bruciata alle spalle per poter produrre un linguaggio artisticamente valido e in sintonia con la contemporaneità, in generale dunque con le neoavanguardie; sia con quanti vedevano l’evoluzione artistica come un percorso lineare ed obbligato, generato da progressivi slittamenti estetici e linguistici. Sia Vespignani che Guttuso decisero in questo contesto di confrontarsi con una delle opere più famose del realismo, ovvero con la Zattera della Medusa di Géricault, ed è significativo il confronto tra le due diverse interpretazioni che ne risultarono. L’opera di Vespignani, intitolata Un naufragio oggi e realizzata lavorando sul ricordo rimastogli da un recente viaggio in Francia, manteneva con il predecessore un legame di tipo unicamente emotivo, tanto che il terribile e monumentale gruppo realizzato dall’artista francese si riduce, in un processo di svuotamento eroico, ad un unico individuo che sembra sprofondare tra le pagine di un quotidiano e il cui sguardo, ormai privato di ogni speranza, si volge verso il nulla; mentre la sterminata, e spaventosa distesa marina si muta in un angosciante vuoto privo di riferimenti spaziali. La contemporaneità, per Vespignani, non lasciava più margine per l’eroismo patetico e statuario di Géricault, ci lasciava ad affrontare i nostri demoni in una solitudine esistenziale priva di sbocchi. Nella Zattera Vespignani vedeva: “ Quasi un messaggio esistenziale ante-litteram”. E specificava: “Mi sono misurato dunque con queste impressioni, e non con il tema “letterale’ di Géricault. ho dipinto un mio più modesto naufragio Ma lavorando sono stato costretto ogni giorno ad ulteriori ‘riduzioni’ Ho avuto la scoraggiante sensazione di poter dire qualcosa di esatto solo con le forme, ma di non poter chiudere nelle forme tutto quello che volevo dire esattamente . Forse la fantasia che castra se stessa una libertà che uccide la libertà è la sola fantasia dell’arte moderna? L’impulso che ci spinge a operare è ancora lo stesso che spingeva Goya, fondato sull’uomo e sulla sua scena naturale; ma per noi l’arco creativo, alla sua conclusione, non restituisce l’uomo nelle forme dell’uomo. Si può fare, certamente, molta estetica e molta retorica sulla sinteticità delle forme, sulla emblematicità delle macchie e delle lacerazioni; ma rimane il dubbio che esse siano, in concreto, una perdita di capacità conoscitiva.” Il linguaggio non poteva più essere quello del realismo perché, secondo l’artista, si era ormai persa la capacità di comprensione della realtà. Era proprio questo gap conoscitivo che generava l’avvicinamento al linguaggio sintetico dell’informale di cui condivideva anche la tendenza all’introversione: “ la giustificazione di una ricerca realistica veniva cercata sul piano di una responsabilità attiva del pittore nei confronti della realtà, al di là della trascrizione figurativa di certezze già raggiunte per altre vie conoscitive .” Sicuramente gli esiti del gruppo furono piuttosto disomogenei, non soltanto fra i diversi artisti, ma anche fra le le singole opere di ciascun pittore, segno di un percorso di ricerca che non procedeva seguendo un tracciato lineare, bensì si avviava a tentoni verso una modernità che ormai li aveva già sorpassati; il problema non era più solo quello delle soluzioni formali, forse erano le stesse domande da porsi a non essere più le stesse. Ciascuno di questi artisti avrebbe proseguito le proprie ricerche secondo il percorso individuale che in realtà non era mai stato abbandonato, in quanto non avevano mai formato un vero e proprio raggruppamento con degli intenti comuni: era stato un gruppo di discussione che aveva cercato col confronto di ampliare la visione dei singoli componenti e di spingerli a creare una nuova identità per la pittura d’impegno sociale. In parte avevano creduto veramente nel progetto, in parte avevano cercato un’occasione di visibilità personale, ma bisogna tenere in considerazione il clima che stavano vivendo e l’ambiente in cui esponevano. Si trattava di un momento di transizione in cui il volto del futuro, per coloro che si erano riconosciuti nell’arte di compromesso, era ancora incerto e in cui, allo stesso tempo, nonostante le delusioni della politica, non si era abbandonata la speranza di poter agire direttamente sulla società: “Questo mi pare che fossimo, in quegli anni: rabbiosamente innamorati di noi e della nostra avventura. Il percorso espositivo ha inizio nelle Sala Martino V del Castello Colonna che ospiterà le incisioni contenute nelle tre cartelle sulla violenza realizzate da “Il Pro e il Contro” tra il 1961 e il 1964 ed esposte insieme per la prima volta. Tra gli autori delle grafiche, oltre ai fondatori del gruppo (Ugo Attardi, Ennio Calabria, Fernando Farulli, Alberto Gianquinto, Piero Guccione e Renzo Vespignani), compaiono alcuni artisti emblematici del contesto della Nuova Figurazione quali Floriano Bodini, Bruno Canova, Valeriano Ciai, Gianfranco Ferroni, Vincenzo Gaetaniello, Giuseppe Guerreschi, Luigi Guerricchio, Renato Guttuso, Sandro Luporini, Augusto Perez, Carlo Quattrucci, Duilio Rossoni, Aldo Turchiaro. Posso Affermare che Titina Maselli nacque a Roma l'11 aprile 1924, primogenita di Ercole e di Elena Labroca. Il padre, di origini molisane, era figura assai nota nell'ambito artistico romano, grazie a un'intensa attività di critico d'arte. Anche la madre fu figura cruciale nel determinare quel clima di peculiare vivacità culturale, animato da un fitto incrocio di relazioni parentali e amicali, entro cui si svolsero l'infanzia e la prima giovinezza di Maselli. Della cerchia di intellettuali, scrittori, artisti e musicisti che abitualmente si ritrovavano nella casa familiare in via Sardegna 139 dove nel 1930 nacque il fratello Francesco (Citto) – o nei soggiorni estivi a Castiglioncello, fecero difatti parte, tra gli altri, Luigi e Fausto Pirandello, lo zio materno Mario Labroca, Massimo Bontempelli, Paola Masino, Emilio Cecchi, Palma Bucarelli, Alberto Savinio, Alfredo Casella. In questo ambiente maturò la sua precoce vocazione artistica. Fortemente sollecitata dal padre, che per i suoi undici anni le regalò tavolozza e colori, sin dalla prima adolescenza iniziò difatti a dipingere con assiduità, soprattutto nature morte e ritratti. Diplomatasi al liceo classico Tasso, e iscrittasi alla facoltà di lettere, abbandonò poi gli studi, già orientata verso una scelta di professionalità in cui coniugare passione per la pittura e attrazione per un'immagine di femminilità non convenzionale, libera e indipendente. In quella, al tempo, ancora acerba opzione, determinante si rivelò l'incontro con Toti Scialoja, a cui Maselli si legò nel 1941 e che sposò il 16 luglio 1945, trasferendosi nell'appartamento che l'artista divideva con i genitori in via di Porta Pinciana. Favorito anche dalla sofferta ricerca, pur nelle diverse età e inclinazioni, di una propria identità espressiva, l'intenso rapporto con Scialoja si svolse nel segno di un'appassionata comunanza di interessi artistici e intellettuali, condivisi con un vasta cerchia di amicizie, che comprese Cesare Brandi, Giovanni Stradone, Piero Sadun, Gabriella Drudi, Leoncillo Leonardi, Renzo Vespignani, fra gli altri. Ancora con il nome di Modesta, nel settembre 1944 partecipò alla Prima Mostra d’arte Italia libera, promossa a Roma dal Partito d'azione Galleria di Roma, esponendovi tre opere, fra cui Case, che venne acquistata dal mecenate Riccardo Gualino. Nello stesso anno collaborò anche attivamente con la Croce rossa americana, organizzando piccole mostre di pittura contemporanea italiana. Nel frattempo iniziò a delinearsi, nei suoi tratti fondamentali, quella scelta di radicale, solitaria autonomia di percorso, che fu poi sempre peculiare della sua ricerca: una scelta che si tradusse, già nell’immediato dopoguerra, nella rinuncia alla possibile facilità del dipingere e nel progressivo affrancamento dal clima entro cui erano nate le sue primissime prove. Scartando quindi le suggestioni del lirismo proprio del tonalismo romano, elesse a privilegiati riferimenti visivi, oltre che l'asprezza della pittura di Fausto Pirandello, le sequenze in bianco e nero del cinema d'avanguardia e, soprattutto, l'icasticità dei dipinti di Édouard Manet, studiati sulle riproduzioni seppiate di un volume di Théodore Duret. La «via d’entrata» risolutiva alla pittura, tuttavia, le si rivelò solo nell'estate del 1947, quando, dopo un viaggio a Parigi con Scialoja e altri amici artisti, a Procida iniziò a concentrarsi su oggetti comuni, effimeri – fette di anguria, bistecche dipingendo opere in cui la memoria degli impasti della Scuola romana si convertiva in un espressionismo denso e sgarbato, con brani di colore cupi, pastosi, nell'intento di rendere il «senso ossessivo», l'implacabilità «della materia percorsa da energia» (T. Maselli, in Crispolti, 1985). Nel solco di tale intuizione nacquero nel 1948 una serie di dipinti, con ampie campiture di neri densi, profondi, come Natura morta sull'asfalto o Piazzale Flaminio, che ribadirono il suo indirizzarsi verso temi inusuali vedute notturne della città, detriti urbani già nella determinazione, avrebbe affermato Maselli anni dopo, che gli «oggetti che non vengono guardati come assumibili nella pittura dalla gente come me, la gente del mio stesso ambiente o formazione, sono forse la realtà più vera» (Titina Maselli, 1988). Diciassette di questi oli su tavola furono esposti nell'ottobre di quell'anno a Roma, nella sua prima personale presso la galleria L'Obelisco. A presentarla fu Corrado Alvaro, il quale, riconoscendole il coraggio nelle scelte tematiche «un telefono, una macchina da scrivere, una di quelle cartacce che la notte fanno un grumo bianco sull'asfalto della città» ne coglieva con acutezza anche la distanza da una pittura di mera descrizione. Lo scrittore rimarcava inoltre la sua singolare attrazione per gli scenari urbani, anonimi, moderni, colti nell'oscurità della notte, che in quegli anni la portava a dipingere sempre più all'aperto, dopo il tramonto, prediligendo le zone intorno a piazza Fiume o alla stazione Termini: «Titina Maselli affronta qualcosa di più forte, la notte delle città, delle strade desolate, dei dintorni delle stazioni, la massa degli edifici moderni» (Titina Maselli, 1948). L'impegno come pittrice si coniugò, nella febbrile quotidianità del dopoguerra, anche con un'intensa vita di relazioni e vivaci interessi per la scrittura, la letteratura, il cinema, il teatro, la musica. Così, già dal marzo 1947, iniziò a frequentare le riunioni del gruppo degli Amici della domenica in casa Bellonci, partecipando nel 1948 al primo concorso per il manifesto del liquore Strega, in cui il suo bozzetto si classificò terzo, dopo quelli di Amerigo Bartoli e di Mino Maccari. Nel frattempo, in una graduale messa a punto di quella che sarebbe stata poi sempre la sua personalissima iconografia, a partire dal 1948 ai temi urbani iniziò ad affiancare soggetti legati al mondo dello sport. Dipingendole a partire da giornali sportivi, si concentrò su figure di calciatori nello stadio, bloccati nel loro dinamismo, nella volontà di cogliere l'azione nell'istantaneità del suo sfaldarsi, affascinata in particolare dall'«effimero del momento iperbolico fissato dalle fotografie», dall'aspetto parossistico dello spettacolo sportivo, dalla «tensione urlata che si leva dalla folla» (T. Maselli, in Vergine, 1984). All'avvio del nuovo decennio, presentò i primi esiti di queste ricerche in diverse occasioni: nel 1950 prese parte per la prima volta alla Biennale di Venezia con l'opera Giocatore ferito, e al premio Suzzara con Autista di piazza (Mantova, Galleria civica di arte contemporanea). Nel 1951 tenne una seconda personale a Roma (galleria del Pincio), dove raccolse notturni urbani, frammenti di sport, dettagli di camion, che nuovamente colpirono per originalità e durezza espressiva; ancora con quattro paesaggi urbani partecipò, alla fine dello stesso anno, alla Quadriennale romana. Anche nei dipinti degli anni immediatamente successivi la spregiudicatezza nell'assunzione di «certa realtà bruta al dipingibile» (T. Maselli, in Crispolti, 1985) si declinò in una pittura aspra, di crescente densità icastica, scevra da ogni compiacimento per la bella materia, caratterizzata da stesure corpose e gamme cromatiche ristrette, dove dominava il nero preparato con colori industriali: lo sottolineò Renzo Vespignani, ricordando i comuni esordi, segnati dall'intento «di “usare” la pittura per comunicare un nostro profondo disagio, le passioni della nostra generazione ancora acerba, ma già provatissima dalla paura e dalla disperazione» (Titina Maselli, 1955,). Già, dunque, dai primi anni Cinquanta, Titina iniziò a porre le basi di una pittura di realtà assolutamente originale nel panorama italiano, ribadendo con le sue «immagini rabbiosamente rattrappite» (T. Maselli, in Crispolti, 1985) la perentorietà del suo discorso isolato ed esclusivo: «io allora ero solissima, si faceva tutt'altra pittura intorno mi sono appoggiata a un rapporto molto ossessivo con le cose che volevo dipingere, cercando di non avere una ricerca stilistica, se non per esclusione» (Titina Maselli, 1964). Nel rovente dibattito che, in quegli anni, contrapponeva astrattisti e realisti, optò difatti nuovamente per una posizione indipendente e solitaria; pur meditando con attenzione «quell'A B C della forma che gli astrattisti ripresentavano» (T. Maselli, in Vergine, 1984). Definitivamente consumatasi la separazione da Scialoja (1950), Maselli decise di trasferirsi a New York. Partì nel 1952, accogliendo l'invito del pittore Fabio Rieti, spinta anche dalla profonda fascinazione per la metropoli americana sviluppata sin dall’adolescenza grazie al cinema. Il soggiorno negli Stati Uniti si prolungò fino al 1955, interrotto da brevi ritorni a Roma. Giunta con pochi mezzi, e stabilitasi in un hotel in Times Square, vi condusse una vita appartata, lontana dagli ambienti artistici, dedicandosi soprattutto alla pittura. L'atmosfera della città, il gigantismo, l'implacabile incombenza della sua struttura urbana, da subito, si rivelarono fondamentali nella maturazione della sua poetica e del suo linguaggio, confermandola definitivamente nella scelta della moderna condizione metropolitana quale tema centrale del proprio immaginario pittorico, come testimoniato anche dalle note in cui andava appuntando l'evolversi del proprio pensiero estetico: «Dare il senso di quest'aria disseccante scardinante contorcente» annotava ad esempio nel 1952 «Che questo non sia illustrativo, ma che la drammaticità (senza scampo) sia il nucleo e anche il soprassenso degli argomenti» (T. Maselli, in Titina Maselli, 2006,). Nel confronto con lo scenario newyorkese, l'iconografia dei dipinti di Maselli si ampliò: grattacieli, scale antincendio, impalcature, distributori di benzina, giocatori di baseball, pugili, convogli della metropolitana, spesso colti in primi piani ravvicinati, ostruenti. In parallelo la pittrice sviluppò con maggiore consapevolezza la ricerca di un linguaggio teso a superare l'aneddotico per «uscire dal fenomeno, passarlo come un ponte per toccare l'altra sponda: delle cose la verità ancora non percepita» (T. Maselli, in Titina Maselli,1988,). La raffigurazione di episodi emblematici della dimensione metropolitana si accompagnò difatti a un processo di riduzione all'essenziale della struttura dell'opera, in un figurare sintetico, raccorciato, caratterizzato ancora una volta dalla dominanza dei neri, interrotti da bagliori di luce, da griglie di segni, in gamme cromatiche ridottissime . In tal modo Maselli andava declinando la sua tensione a tradurre la «materia-energia, dell'effimero quotidiano, del mondo moderno» (T. Maselli, in Crispolti, 1985,) in un discorso «evidentissimo e freddo» (Maselli, 1997,), scevro da implicazioni sentimentali, narrative, sociologiche, come anche da seduzioni pittoriche. Nel maggio 1953 espose alcuni di questi dipinti, ventidue, nella sua prima personale a New York, allestita presso la Durlacher Gallery; ancora con tre opere di ambientazione newyorchese partecipò, l'anno seguente, alla XXVII Biennale di Venezia. Nel frattempo, in America, era nata la sua relazione con il diplomatico Marco Francisci di Baschi, allora membro della delegazione italiana presso l'ONU, insieme al quale fece definitivamente ritorno a Roma nel 1955. L’esperienza americana continuò tuttavia a rappresentare un riferimento fondamentale per tutti i decenni a venire: «New York la dipingo ogni giorno anche adesso; la suggestione è stata così forte (questa ipernatura) che è diventata un punto di partenza insostituibile», dichiarò difatti nel 1988 (Titina Maselli,1988,.). Le opere americane, esposte anche nella Quadriennale del 1955, egemonizzarono le due personali che Maselli tenne nella primavera di quell'anno, quasi in contemporanea, a New York (Durlacher Gallery) e, appena tornata a Roma, alla galleria La Tartaruga. In quest'ultima circostanza Vespignani rimarcò l'assoluta originalità delle immagini notturne dell'amica, notando come la sua pittura fosse «pericolosamente vicina all’astrazione; ma queste superfici tagliate e sfaccettate, questi elementi saldamente intrecciati, non rispondono ad un giuoco formale: sono l'acciaio, i cavi, le centine, le tenebrose incastellature della tua città» (Titina Maselli, 1955, ). Nello stesso 1955, dopo la nomina di Francisci come console a Klagenfurt, Maselli lasciò nuovamente Roma per trasferirsi in Austria, dove visse i successivi tre anni. In questo periodo, in cui espose ancora alla Biennale di Venezia (1956), si dedicò a un solitario lavoro di rielaborazione, per via di memoria, dei temi ormai consueti, sviluppando una nuova riflessione sull'uso simbolico del colore (Città di notte, 1956; Calciatore con i fiori, 1957), nella ormai matura convinzione che la pittura fosse «pensiero, non voluttà» (T. Maselli, in Crispolti, 1985). Nel 1958 fece ritorno a Roma, dove trascorse tutto il successivo decennio, stabilendosi inizialmente con Francisci in via di Ripetta. Dopo lunghi anni di assenza, riallacciò i suoi rapporti con l'ambiente artistico romano, tornando a esporre nel 1960 a L'Obelisco, dove presentò soggetti newyorkesi e alcuni dipinti di tema sportivo, realizzati dal 1959, e costruiti su dinamici contrasti di sagome scorciate di calciatori su trame di segni iterati di folla (Calciatore in azione, 1959). Fu questa la prima di una serie di importanti personali che, nel corso degli anni Sessanta, in un orizzonte segnato dal diffuso ritorno all’oggettualità, documentarono le evoluzioni della sua pittura. La ricerca di Maselli continuò, difatti, a svilupparsi, intorno ai medesimi topoi immaginativi, ma già alcuni dipinti realizzati all'avvio del decennio testimoniarono il suo indirizzarsi verso un approfondimento dell’efficacia icastica dei suoi «archetipi di modernità» (T. Maselli, in Crispolti, 1985, p. 46) con immagini di formato crescente e maggiore distensione compositiva, spesso con dettagli ingigantiti in primi piani incombenti, di un cromatismo teso, elementare, strutturato in larghe zonature contrastanti (Autostrada, 1961; Camion, Cielo di notte, Bar a New York, 1963). I primi esiti di questa nuova stagione espressiva, contrassegnata da una crescente attenzione critica, furono esposti già nel 1963 in due personali allestite a Bologna (Nuova galleria) e a Roma (galleria La Salita), introdotte da Cesare Vivaldi e da Francesco Arcangeli che, nelle loro presentazioni, divergevano sulle eventuali affinità della ricerca di Titina con il fenomeno emergente della pop art, tema che impegnò lungamente la critica anche negli anni a venire, nel tentativo di definirne anticipazioni, analogie e differenze. Emerse dunque già allora quella difficoltà a trovare puntuali collocazioni per il suo singolare percorso di outsider, che rimase poi tratto ricorrente nel discorso critico intorno alla sua opera. In questi stessi anni nel suo repertorio comparvero anche raffigurazioni di volti di taglio cinefotografico, come Greta Garbo (1964), una delle tre opere esposte alla Biennale di Venezia nel 1964. In tale occasione in cui emerse con particolare evidenza, in rapporto alla nuova ottica pop, il suo ruolo pionieristico nella selezione d'immagini tipiche dell'iconografia quotidiana Maselli stessa ebbe modo di chiarire, in un'intervista a Maurizio Calvesi, la distanza della propria posizione rispetto a quella degli artisti nordamericani: «io ho sempre cercato di prendere dalla realtà degli elementi simbolicamente drammatici, e poi però ragionarli. Loro vogliono dipingere la cosa in sé. Io invece intendevo dipingere dei conflitti» (Titina Maselli, 1964,). Nel frattempo il suo lavoro iniziò a essere ricondotto nell'eterogeno orizzonte della Nuova figurazione, mentre più stretti divennero i rapporti con alcuni degli artisti e critici – a lei vicini anche per orientamento politico – che avevano dato vita, all'inizio del decennio, al collettivo Il Pro e il Contro, individuando Il Fante di spade come galleria di riferimento: fra questi Vespignani, Piero Guccione, Lorenzo Tornabuoni, Eduardo Arroyo, Gilles Aillaud, Antonio Recalcati, con cui negli anni successivi Maselli condivise diverse occasioni espositive. Nel contempo si confrontò anche con pittori «lontani dalla pittura romana tradizionalmente intesa» (Rasy, 2004), come Franco Angeli o Tano Festa. Un primo riscontro complessivo sulla sua opera venne, nell'aprile 1965, dall'importante antologica allestita a Roma presso la galleria Nuova Pesa, in cui trentaquattro opere ne ripercorrevano un quindicennio di lavoro creativo, sfuggito alla «debita valutazione»: in quella circostanza, difatti, i prefatori del catalogo di Duilio Morosini, Enrico Crispolti e Renato Barilli concordarono nel «rivendicarle più di una priorità in ordine ai problemi e alle ricerche di una nuova oggettività della visione» (Titina Maselli, 1965, ). In particolare Morosini la definiva «personalità non subordinata a niente e a nessuno», mentre Barilli ne sottolineava, fra l'altro, le tangenze con il linguaggio futurista, altro argomento spesso evocato nella lettura critica della sua opera. A tale proposito Maselli stessa, anni dopo, volle ribadire la sua distanza dalla retorica celebrativa del futurismo storico, rimarcando anche come il suo interesse non fosse mai stato rivolto all'aspetto «cinetico del movimento», quanto a «mostrare il passare», l'ineluttabilità del movimento continuo della realtà «dall'essere al non essere» (Titina Maselli, 1988,). Sempre nel 1965, anno in cui trasferì il proprio studio in via Sardegna dove, dopo la scomparsa del padre (1964), la madre viveva ormai sola Titina partecipò alla V Rassegna di arti figurative di Roma e del Lazio e ad altre importanti collettive, fra cui «Alternative attuali 2» (L'Aquila) e «Il presente contestato» (Bologna). La nuova visibilità di cui godette il suo lavoro a partire da questo momento si accompagnò, del resto, a una progressiva intensificazione dell'attività espositiva, con l'appoggio critico di nuove, autorevoli voci: fra tutte quelle di Michel Sager, Lorenza Trucchi, Franco Solmi, Giuliano Briganti. Ancora a Roma, nel 1967, espose per la prima volta presso Il Fante di spade, la galleria diretta da Mario Roncaglia che accolse negli anni successivi diverse sue personali, proponendovi alcuni dipinti recenti, con soluzioni formali che Barilli, presentandola, imparentava ora a quelle cinematografiche, notando d'altro canto, nella produzione ultima, un'inedita insorgenza del colore. In effetti, nei dipinti realizzati nello scorcio del decennio Maselli approdò a composizioni più semplificate, monumentali, dalla tavolozza schiarita in colori accesi e antinaturalistici, in una nuova nettezza dell'immagine pittorica. Nel 1968, anno in cui partecipò anche al premio Marzotto, venne invitata a esporre al Salon de Mai a Parigi, episodio che ricordò poi come decisivo nello stabilire un particolare legame con la capitale francese (Grigliè, 1978). Animata come sempre da vivaci passioni intellettuali, etiche e politiche – pur se, nella connaturata insofferenza a ideologie e schieramenti, il suo essere comunista non si tradusse mai in un impegno militante –, in questi anni romani Maselli partecipò attivamente anche alla vita artistica e culturale della città. Nel biennio 1966-67 realizzò, con Tornabuoni, le sue prime scenografie nell'ambito della breve esperienza d’avanguardia della compagnia Il Porcospino, promossa, fra gli altri, da Dacia Maraini, Enzo Siciliano e Alberto Moravia. Nel 1967 si confrontò con Vespignani, che in quegli anni la ritrasse in più occasioni, su alcuni dei temi allora al centro del dibattito artistico il ritorno all'objective, l'impegno etico dell'artista, il rapporto con la società e la storia , esplicitando le proprie posizioni in un epistolario pubblicato sulla rivista La città (marzo 1967). Nel 1969, inoltre, interpretò il ruolo della madre nella pellicola Metti una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, mentre nel 1970 comparve in un film del fratello Citto, Lettera aperta a un giornale della sera. Conclusasi la relazione con Francisci, alla fine del 1969 assecondando ancora una volta quella vocazione al nomadismo, quel desiderio di spaesamento, di distanza dal proprio ambiente, che riconobbe sempre come necessario e vitale per la propria creatività Maselli decise di trasferirsi a Parigi, dove aveva cari amici. Dal 1972 si stabilì in una casa studio a La Ruche, complesso destinato sin dai primi del Novecento ad accogliere atelier d'artista, intensificando quindi i rapporti con gli ambienti artistici e intellettuali della città, dove frequentò, fra gli altri, Aillaud, Arroyo, Valerio e Camilla Adami, Fabio Rieti e il suo assistente Bernard Michel. Da allora la sua attività iniziò a dividersi, in una sorta di inquieta «nevrosi vitalistica» (T. Maselli, in Vergine, 1984), fra la Francia e Roma, dove tornava periodicamente, anche per stare vicino alla madre. Non si allentò difatti il legame con l'Italia. Già nel 1970 tre antologiche, presentate da Marco Valsecchi, a Milano (galleria Finarte - Eunomia), a Ferrara (Centro Attività Visive, Palazzo dei Diamanti), e a Roma (Il Fante di spade), proposero un'ampia selezione delle sue opere, a partire dal 1950. Alcuni dipinti presentati in quelle occasioni annunciavano l'avvio di una nuova stagione della sua ricerca che, in un percorso di continue variazioni e arricchimenti, si protrasse sino allo scorcio del secolo: abbandonata la raffigurazione dei singoli motivi, iniziò difatti a orientarsi verso composizioni strutturate sull'associazione di alcuni dei suoi consueti temi iconografici, in una nuova, complessa, tensione dinamica, che si coniugò con un cromatismo squillante, su supporti di formato crescente, con una predilezione per la tela in sostituzione della tavola (Goal 1, La Città 1: 1971; Boxeur et néon, 1972). Dal 1973, poi, l'associazione di temi iniziò a tradursi in una compenetrazione per trasparenza, come in Tramonto nello stadio (1973), pervenendo, nelle tele di sempre maggiori dimensioni della seconda metà degli anni Settanta, a una più accentuata complessità dei rapporti di intersecazione tra figure a ambiente, con contrappunti cromatici audaci e sovrapposizioni più filtranti, in spazialità senza profondità, espanse a ostruire l'intero campo visivo, caratteristiche, queste ultime, in grado di generare un intenso coinvolgimento dell'osservatore . La fase aurorale di tale ricerca che Titina stessa ricondusse al bisogno «di mettere più carne al fuoco, per dire ancora di più quello che voglio dire della complessità dell'immagine, dell'essere un tutt'uno dell'energia fisica, psichica, dell'energia umana, con quella delle cose» (Maselli, in Crispolti, 1985,) fu documentata, fra l'altro, dalle mostre tenute nel 1972 alla Fondazione Maeght di Saint-Paul-de-Vence, e nel 1973 a Milano, alla galleria Il Fante di spade. Jaques Dupin, che la presentò in ambedue le occasioni, rilevò difatti il nuovo, teso equilibrio delle sue ultime opere, in cui tessuto urbano e figura in azione, calciatore o pugile, «si sovrappongono e si incastrano, si contraddicono, interferiscono, il dinamismo dell'uno accusando l'immobilità dell'altro» (Titina Maselli, 1973,). Negli anni Settanta si cimentò anche in alcuni lavori per il teatro, inaugurando un'attività destinata ad assumere, nei decenni seguenti, una crescente importanza. La prima occasione le venne offerta da Jean Jourdheuil e Jean-Pierre Vincent, animatori del Théâtre de l'Espérance, i quali colpiti dalle opere esposte alla Fondazione Maeght la invitarono a realizzare le scene e i costumi per la Tragédie optimiste di Vsevolod Vichnevski (1974). Fu questo il primo episodio di una lunga serie di ideazioni scenografiche in cui si distinse, ancora una volta, per originalità di approccio ed esiti. Confluirono in questo nuovo ambito espressivo, oltre alla sua straordinaria cultura letteraria e musicale, anche antiche suggestioni maturate negli anni giovanili, grazie all'assidua frequentazione dei teatri romani, tanto che «archetipo in qualche modo mitico», per il suo lavoro scenografico, si rivelò il ricordo del Delitto e castigo messo in scena da Luchino Visconti nel 1946 a Roma (Damisch, 2001,). Nel frattempo la sua produzione pittorica iniziava a godere di sempre più estesi riconoscimenti, anche internazionali: nel 1975 uscì la prima monografia a lei dedicata, firmata da Jean-Louis Schefer, mentre si susseguivano le occasioni espositive, sia in Italia sia all’estero, fra cui, nello stesso 1975, la personale introdotta da Aillaud, al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris (ARC 2), in cui Maselli presentò il lungo dipinto Da un metrò all'altro. Nel 1980, a Roma (libreria Giulia), espose invece una selezione dei suoi lavori su carta, produzione che, in quegli anni, andava assumendo un maggior rilievo nel suo lavoro. A cavallo fra i due decenni, inoltre, testimoniarono ampiamente delle evoluzioni della sua pittura alcune importanti antologiche: nel 1979 a Berlino (Kunstamt Kreuzberg), nel 1980-81 a Ferrara (Padiglione d'arte contemporanea), e nel 1981 a Todi (Palazzo del Popolo). Contestualmente il discorso critico intorno alla sua opera si andava ampliando, con contributi in cui emergevano anche accenni a una possibile lettura del suo percorso in chiave di genere, come nel dialogo con Simona Weller, o nella presentazione alla mostra di Todi, in cui Marisa Volpi si interrogava sulla dicotomia, quasi una sorta di «schizofrenia», fra la postura intellettualmente severa dell'artista – decisa a fissare «con eccezionale concentrazione l'immagine di un agonismo cupo e vitale, spoglio e grandioso» – e una femminilità vissuta con «raro esprit de finesse» (Titina Maselli, 1981,). Nel 1982, dopo la morte della madre (1981), Maselli vendette la casa familiare per acquistare un piccolo appartamento in via di S. Calisto 10, affacciato sulla basilica di S. Maria in Trastevere. Nel corso degli anni Ottanta, difatti, pur continuando a mantenere lo studio a La Ruche, avuto in dotazione a vita dalla città di Parigi, sempre più spesso alternò l'attività in Francia con frequenti, lunghi soggiorni a Roma, nel corso dei quali le sempre vivaci relazioni con l'ambiente artistico romano si rinnovarono nella frequentazione di vecchi e nuovi amici. Fra questi anche Moravia, legato a lei da un rapporto di antica consuetudine, che nel 1981 firmò l'introduzione alla personale allestita dalla galleria Giulia al Grand Palais di Parigi (FIAC 81), soffermandosi, fra l'altro, sulle dimensioni delle sue tele, ormai cresciute a dismisura: «Strano a dirsi, perché vedendoti così magra e fragile non lo si penserebbe, per quanto riguarda lo spazio tu sei in un rapporto di rivalità con la realtà» (A. Moravia, 1981, in Maselli, 1997,. Nel 1983 Maselli tornò a presentare a Roma, sempre alla galleria Giulia, la sua produzione recente, in cui, accanto a opere che registravano un ritorno di attenzione per immagini senza effetti di sovrapposizioni, altre evidenziavano invece l'enunciarsi di un'ulteriore fase nell'elaborazione dei suoi tipici motivi, con compenetrazioni di vertiginoso dinamismo, dal cromatismo esasperato, e forme smembrate in schegge di colore-luce su griglie e pattern via via più pulviscolari (Elevated, grattacieli e calciatore ferito, 1984). L'evolversi di tale ricerca verso soluzioni sempre più coinvolgenti venne documentato, fra l'altro, dai due dipinti esposti nel 1984 a Milano (Studio Marconi, galleria Gastaldelli) fra cui Stadio,lungo nove metri, fra gli esiti più intensi di quella stagione , e ancora dalle quattro grandi tele con cui, nello stesso anno, tornò a partecipare, dopo un lunghissimo periodo di assenza, alla Biennale di Venezia. Contestualmente all'approfondimento di questa nuova modalità di figurazione, che attraversò tutto il decennio, alcune importanti antologiche andavano intanto proponendo puntuali ricostruzioni storiografiche del suo lavoro, fra cui quella tenutasi nel 1985 a Macerata, e curata da Enrico Crispolti, a cui seguirono quelle ordinate nel 1986 a Suzzara, e nel 1988 a Cavriago e a Sant'Ilario d'Enza e, ancora, a Lisbona (Fondazione Calouste Gulbenkian). Nel 1989, presentata da Achille Bonito Oliva, la pittrice tornò inoltre a proporre alcune sue tele recenti a Roma (galleria Giulia). Anche l'impegno per il teatro andava crescendo. Decisivo in tal senso si rivelò l'incontro con il regista Bernard Sobel, con cui collaborò per la prima volta nel 1980, firmando i progetti di scena per due pièces di Beckett (Va-etvient; Pas moi) al Festival di Avignone, che si rivelarono esemplari del suo peculiare approccio all'attività scenografica, intesa soprattutto come riflessione sui significati più riposti del testo, da tradursi non in termini descrittivi, ma in emblemi, in forme plastiche e dinamiche, animate da un movimento reale. Nel corso degli anni Ottanta parallelamente al proficuo sodalizio con Sobel, che si protrasse sino allo scorcio del secolo la pittrice lavorò anche con diversi altri registi, fra cui Klaus Michael Grüber, Marc Liebens e Carlo Cecchi: con quest'ultimo, in particolare, si instaurò a partire dai bozzetti scenici ideati nel 1989 per un Amleto per il Festival di Spoleto una profonda sintonia, che si tradusse in seguito in un duraturo, importante rapporto di collaborazione. L'impegno parallelo nella pittura e nel lavoro per il teatro caratterizzò intensamente anche gli ultimi anni, nel corso dei quali Maselli continuò a dividersi fra Parigi e Roma. In un orizzonte segnato, specie in Italia, da un discreto, seppur intermittente, interesse critico per la sua produzione pittorica, nel 1990 le venne dedicata una vasta antologica a Mesola (Ferrara), mentre nel 1991 un'altra ampia personale si inaugurò a Mantova (Casa del Mantegna), con opere dal 1948 al 1990. Ancora negli anni seguenti mentre la sua ricerca denunciava un'ulteriore evoluzione in direzione di composizioni meno frammentate nel segno, ma dinamizzate da vivaci contrasti cromatici (Boxeurs, 1994; Calciatori in azione, 1997) la sua produzione, antica e recente, continuò a essere oggetto di una certa attenzione. Oltre alla consueta partecipazione a rassegne e collettive, diverse occasioni espositive concorsero difatti a delineare ampie rivisitazioni del suo percorso. Nel 1996 le prime opere su tavola (1947-1959) vennero riunite a Roma, nella galleria dell'amica Netta Vespignani, mentre nel 1997 le venne tributata la maggiore antologica di sempre a Stra (Villa Foscarini Rossi), con dipinti dal 1947 al 1997. A queste seguì, nel 1998, una personale di sue opere recenti, ordinata a Roma, ancora una volta presso la galleria Giulia. Negli stessi anni il lavoro per la scena – che riscuoteva crescenti consensi e successi, specie in Francia – diveniva sempre più intenso. A partire dalle scenografie per Lucrèce: la nature des choses (1990, Bobigny), Maselli ideò numerosissimi allestimenti di potente efficacia scenica per alcuni dei maggiori teatri e festival europei, confrontandosi sia con testi classici sia moderni, in un fecondo rapporto di collaborazione, oltre che con Sobel e Cecchi, con molti altri registi. Nel 2001, in occasione della sua cinquantesima scenografia, uscì il volume di Hubert Damisch, nel quale la pittrice, in un lungo dialogo con l'autore, condensò alcune riflessioni sul suo particolare modo di intendere l'esperienza scenografica e sulla necessità di «far sentire il respiro del testo» attraverso una proposta tridimensionale, dinamica: «Lì dove uno scenografo tradizionale proporrebbe un quadro, oppure una macchina che renderebbe possibile ogni sorta di effetto scenico, il pittore lancia come una massa arrotondata una palla di significati» . Anche in questa ultima stagione non venne meno la sua passione per la scrittura, con la stesura di note autobiografiche, poesie, e un romanzo; una produzione a cui tuttavia, se si eccettuano brevi appunti e alcuni frammenti memoriali pubblicati in diversi cataloghi, non si decise mai a dare piena visibilità. L'inizio del nuovo secolo segnò un brusco arresto nell'attività espositiva, mentre non si diradò il suo impegno nel lavoro per la scena: con la vitalità di sempre, continuò difatti a creare scenografie e costumi per diverse opere e testi teatrali, sia in Italia sia in Francia. Con pari intensità continuò a dipingere, riattualizzando i consueti argomenti, specie quelli di tema sportivo, in lavori di formato quasi esclusivamente orizzontale, caratterizzati da inquadrature oblique e scorciate, e da un cromatismo acceso e contrastato .Dopo il premio Presidente della Repubblica, conferitole nel 2000 da Carlo Azeglio Ciampi, nel giugno 2004 la città di Roma, per i suoi ottant’anni, le volle dedicare una grande festa, promossa dal sindaco Walter Veltroni alle Scuderie del Quirinale, occasione in cui venne anche annunciata l'intenzione di riunire la sua produzione pittorica e scenografica in un'ampia antologica, curata da Bonito Oliva e dall'Archivio della Scuola Romana, da inaugurarsi l'anno successivo. Sino agli ultimi giorni Maselli lavorò per la mostra romana, che non si tenne mai, e per le scenografie di un nuovo spettacolo a Zurigo. Morì a Roma, nella sua casa di Trastevere, il 21 febbraio 2005. Venne sepolta, accanto alla madre e al padre, a Pescolanciano, il piccolo borgo molisano dove aveva trascorso molte estati della sua gioventù. La mostra si articola in un percorso che esplora
i principali temi iconografici dell’artista: i ritratti e autoritratti, i paesaggi urbani, lo sport, le nature morte e il teatro. Nelle sezioni espositive saranno presentati
lavori poco noti o raramente esposti, accanto a opere provenienti da collezioni pubbliche e private. Tra queste, figurano prestiti da istituzioni come il Museo del Novecento di Firenze, il Museo Galleria del Premio Suzzara (Mantova), i Musei Civici di Macerata e dipinti, documenti e materiale archivistico presenti nelle raccolte capitoline (depositi del MACRO, Casa Museo Alberto Moravia, CRDAV Centro Ricerche Documentazione Arti Visive, Archivio della Galleria d’Arte Moderna). Sono esposte, inoltre, opere provenienti dalla Fondazione Toti Scialoja e da varie gallerie e collezioni private. Al
Casino dei Principi, il focus è sulla
produzione artistica degli anni Quaranta e Cinquanta, con approfondimenti tematici trasversali che si estendono fino agli anni Duemila. Il
MLAC ospita invece una selezione di opere di grande formato, realizzate dagli anni Sessanta in poi. Qui è possibile immergersi nell’
attività teatrale di Maselli, grazie a documenti inediti, come fotografie di scena di Monica Biancardi e bozzetti restaurati dall’ultima collaboratrice dell’artista, Barbara Bessi. Entrambe le sedi offrono un
ricco apparato documentale e archivistico, che include fotografie, cataloghi, dépliant e video documentari. Tra i materiali audiovisivi spiccano Le metropoli di Titina Maselli (1969, regia di Massimo Mida), Nel ring della città (1971, regia di Mario Carbone), e Titina Maselli – peintre et scénographe (1924-2005) (2005, regia di Mark Blezinger). Il catalogo della mostra, edito da
Electa, propone saggi dei curatori, un ricco apparato di immagini e la pubblicazione integrale di interviste e presentazioni dedicate all’artista. Comprende inoltre una biografia dettagliata, una bibliografia e un regesto aggiornato delle scenografie e dei costumi teatrali.
Titina Maselli
Musei di Villa Torlonia – Casino dei Principi Roma
Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea Università La Sapienza Roma
dal 12 Dicembre 2024 al 21 Aprile 2025
Casino dei Principi
dal martedì alla domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea
dal lunedì al sabato ore dalle ore 12.00 alle ore 19.00 ( Ingresso Gratuito)
Foto Allestimento Mostra Titina Maselli Musei di Villa Torlonia – Casino dei Principi Roma -Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea Università La Sapienza Roma dal 12 Dicembre 2024 al 21 Aprile 2025 - Titina Maselli - ph.Monkeys Video Lab