Giovanni Cardone Maggio 2024
 
Fino  al 26 Maggio 2024 si potrà ammirare presso la Società Promotrice delle Belle Arti di Torino la mostra Ligabue a cura di Giovanni Faccenda. Con patrocinio della “Fondazione Augusto Agosta Tota per Antonio Ligabue” ed è prodotta da SM.ART, con la direzione creativa e di produzione di WeAreBeside. Oltre 90 opere di Antonio Ligabue ne illustrano la vita, la psiche e la storia tormentata, un viaggio nell’arte di questo genio visionario sempre in evoluzione, e nella sua appassionata ricerca, con la quale sapeva inventare e rinnovare le sue opere nella loro pressante suggestione emotiva, in una iconografia popolare e raffinata. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Antonio Ligabue che è divenuta modulo monografico e seminario universitario apro il saggio dicendo : Antonio Ligabue nacque a Zurigo il 18 dicembre 1889 da Maria Elisabetta Costa, emigrata prima della fine del secolo in Svizzera dove faceva l’operaia, il padre è ignoto. Dopo un anno, Elisabetta si sposò con Bonfiglio Laccabue, originario di Gualtieri di Reggio Emilia, che riconobbe il bambino dandogli il proprio cognome. La vita di Antonio Ligabue non fu facile, fin da piccolo l’artista non visse mai con la sua vera famiglia, ma: fu affidato a una coppia: Johannes Gobel ed Elise Hanselmann che l'artista considerò come i propri genitori . Il rapporto con i suoi genitori naturali fu assai difficile ed ha segnato l’infanzia dell’artista. Dal matrimonio di Elisabetta con Bonfiglio nacquero tre bambini che crebbero con i loro genitori naturali, cosa che al piccolo Antonio non fu concessa. Questo avvenimento probabilmente fece crescere in lui sentimenti di inadeguatezza e di “non essere abbastanza”. Poi ci fu l’evento tragico, la morte della madre e dei fratelli nel 25 gennaio 1913 dopo tre giorni di agonia per aver ingerito carne avariata. La tragedia segnerà profondamente la psiche di Ligabue. I giornali locali scrivevano la notizia sugli immigrati italiani, che in quel periodo storico non erano benvisti dalla popolazione locale svizzera. “Widnau: Il ‘Giornale del Popolo della Val del Reno’ scrive: ‘Sabato mattina si diffuse la notizia alquanto inquietante che nella notte precedente, in una famiglia italiana, tutti i figli, tre di numero, fossero morti. Con tutta probabilità si tratta di avvelenamento. Il padre, un brutto dissoluto e ubriacone, che continuamente tormentava i figli, è già stato arrestato. Nell’ abitazione si trovava un disordine pauroso, pieno di sporcizia ed immondizia. I bambini morti furono trovati tutti vestiti coperti di stracci nei miseri giacigli. Tutto ciò è un quadro di miseria indicibile” . Il tragico avvenimento sconvolse la mente del povero Antonio, all’epoca dei fatti appena tredicenne, il quale nonostante le risultanze della polizia attribuì ogni responsabilità del misfatto al padre che lo aveva legittimato, odiandolo e detestandolo per tutto il resto della vita. Per questa ragione lo disconoscerà come genitore e già dal suo arrivo a Gualtieri nel 1919 si farà chiamare e firmerà poi le sue opere con il cognome Ligabue, pur rimanendo regolarmente iscritto nei registri di stato civile dello stesso comune con quello del padre, Laccabue. La famiglia adottiva, così come quella natale, viveva in condizioni economiche e culturali assai disagiate per questo era costretta a continui spostamenti a causa della precarietà del lavoro. L'infanzia del pittore fu caratterizzata da difficoltà e restrizioni economiche unite alle sue malattie, ne compromisero un normale sviluppo fisico e psichico. L’artista aveva difficoltà di apprendimento e disturbi comportamentali. Eccelle solo nel disegno, per il resto è definito “duro di comprendonio”. A causa di questi disturbi venne mandato in diversi istituti per ragazzi con deficit, dove si cercava di fornire a giovani come Antonio Ligabue gli strumenti per l’inserimento nella società. Nelle cartelle cliniche si testimonia la grande abilità di Ligabue nel disegno e soprattutto nel raffigurare animali. La mamma adottiva Hanselmann scrive in una delle lettere: “Io l’ho allevato sempre come il mio vero figlio… Antonio non è di cattivo carattere, non ama le bevute, i divertimenti, la sua soddisfazione è giocare con le bestie a casa”. I sentimenti della Hanselmann risultavano pienamente contraccambiati dal fanciullo, il quale le dimostrava un profondo attaccamento affettivo, nonostante il carattere lunatico e non facile lo porti spesso a comportarsi con la mamma adottiva con odio aggressivo e violento. Sia l’adolescenza sia la giovinezza del pittore sono segnate da una strana passione di amore-odio nei confronti della madre. Il ragazzo si allontanava per giorni da casa, vagando come un disperato tra le campagne e i cascinali del circondario. Poi, non appena il suo animo sì era placato, ritornava dalla madre, pentito e pieno di amore come non mai e di nuovo pronto a circondarla di ogni attenzione. è bene precisare che nonostante tutto, fu proprio il patrigno ad accompagnare il giovane Antonio a visitare i musei di San Gallo e ad abituarlo alla loro frequentazione. Ligabue stesso raccontò di essersi intrattenuto diverse volte con il padre adottivo nei musei di scienze naturali e di belle arti e così pure nei giardini, botanico e zoologico e di essere rimasto impressionato dalle varie specie di animali imbalsamati. Dalla prima giovinezza trascorsa in Svizzera il futuro artista prestava attenzione ad una notevole smania, seppure in termini autodidattici, di conoscere e di sapere con notevole interesse alle varie specie di animali esistenti. Come diceva l’artista, “conosceva le bestie anche dentro” . Dal maggio del 1913 al maggio del 1915 Ligabue viene affidato a un istituto rieducativo di Marbach diretto da un prete evangelico, che tenta il reinserimento dei ragazzi e delle ragazze dal carattere difficile mediante la pratica di attività lavorativa, contatto con la natura, la cura degli animali e la preghiera. Al ritorno dall’ istituto nella famiglia adottiva lavorò come contadino e accudì animali nelle fattorie dove ebbe la possibilità di osservare gli animali domestici, il loro carattere. Nel gennaio del 1917 ad appena diciotto anni di età, entra per la prima volta nell’ istituto psichiatrico di Pfafers, uno dei più grandi ed antichi di Svizzera. Le cartelle cliniche riportano quanto fosse “facile agli sbalzi di umore, con improvvise eccitazioni e profonde malinconie”, inoltre è più volte citata “la sua straordinaria capacità del disegno, soprattutto degli animali”, “non sopporta assolutamente il sentir tossire, il parlare ad alta voce, più spesso collerico e facile agli scatti d’ira”. A luglio del 1919 dopo una furibonda lite è la madre stessa a consegnare il figlio alle autorità competenti di Romanshorn affinché venga mandato in Italia. In seguito, la prefettura di Como affida il giovane italo-svizzero ai carabinieri reali affinché provvedano a consegnarlo al sindaco di Gualtieri. Il giovane era visto da paesani come timido e spaurito. Il municipio gli assegna un letto al ricovero di mendicità, una modesta sovvenzione in denaro e la possibilità di lavorare come scarriolante alla costruzione degli argini del Po o presso qualche contadino della zona. Nel testo originale dall’archivio di Gualtieri della visita medica scritto: “2 settembre 1919. Ufficiale sanitario di Gualtieri al sindaco. III.mo Signor Sindaco, a richiesta di V.S. III. Ma ho visitato Laccabue Antonio di anni 19(?). Nato a Zurigo e residente a Durgans e ho riscontrato che il medesimo non presenta sintomi di malattie contagiose e di malattie organiche clinicamente dimostrabili. Il medesimo però è individuo di costituzione piuttosto debole e affetto da ipertrofia della ghiandola tiroide e del tessuto adenoide del rinofaringe, nonché da estesa carie dentaria. Ritengo che il medesimo sia idoneo a lavori non eccessivamente gravosi. Con perfetta osservanza. Dr. Giuseppe Bertani”. Dalla biografia si apprende come il povero Antonio, di natura poco disponibile al dialogo, e sempre più solo e disperato, non conosce nemmeno la lingua e fatica quindi a esprimersi e a farsi comprendere. Inoltre, vive all’ospizio tra poveri vecchie dalla salute malandata, ammalati cronici e minorati mentali, a solo diciannove anni. Col tempo, per farsi meglio capire adotterà uno strano linguaggio, un insieme di italiano, tedesco e dialetto emiliano, sul quale si farà evidente una strana inflessione teutonica. Ligabue, dopo un fallito tentativo di ritorno in Svizzera “inizialmente visse in un capanno sulle rive del Po e poi in un fienile grazie agli aiuti offerti dal Comune e dai compaesani e da ciò che gli inviava la madre adottiva” , si mantenne lavorando come manovale o come bracciante sulle rive del Po, dipingendo insegne e cartelloni, nonché come inserviente per piccole compagnie circensi che giungevano in paese in occasione delle fiere. In Italia condusse una vita nomade, spostandosi nei paesi della Bassa Reggiana, ospitato da contadini, o dimorando in capanne sulla riva del fiume. Il disegno, la pittura e la scultura, erano un sollievo per le sue ansie, le sue ossessioni, la sua solitudine. L’arte per Antonio Ligabue è stata una possibilità di riflessione sulla sua vita infelice e tragica che manifesta la sua sconvolgente genialità creativa. Il dramma della sua vita, l’infelicità, le contraddizioni della sua esistenza vengono ogni volta rappresentati nei suoi dipinti. Nell’arco della vita era soggetto a crisi depressive, si infliggeva con veemenza lesioni sul viso con particolare accanimento al naso, colpendolo ossessivamente con un sasso o contro un muro per avere la stessa identità dei suoi amici rapaci. Gli incontri con Ligabue non furono facili, era spesso scorbutico ed inavvicinabile, conosciuto come “Toni al mat”, “la pitur”. Tra i suoi amici c’erano vari pittori e scultori: Renato Marino Mazzacurati, Andrea Mozzali, Arnaldo Bartoli. Grazie a loro prese la scelta di dedicarsi alla pittura e alla scultura in modo più sistematico e acquisì una maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità artistiche, ma anche dei mezzi tecnici per esprimerle, facendosi prestare, anche con inganni colori, pennelli e tele, è diventato un artista stimato, spontaneo ed istintivo, l’arte del quale è stata creata tra la dignitosa povertà, incultura forzata, genialità e follia. L’arte di Antonio Ligabue è senz’altro un continuo procedere nel solco della costante ricerca. Iniziò a dedicarsi alla pittura negli anni Venti, grazie all’incontro con l’artista reggiano Mazzacurati. Nel suo linguaggio artistico sono presenti anche i riferimenti alle opere degli artisti che lo hanno preceduto. Grazie a Mazzacurati e Andrea Mozzali l’artista acquista stampe e pubblicazioni d'arte, delle opere di Van Gogh, di G. Klimt, dei fauves e degli espressionisti tedeschi, con cui alcuni suoi quadri presentano analogie estetiche e stilistiche. ‘La sua vasta iconografia prendeva spunti da film, documentari, giornali presi da osterie, dai volumi di Brehm “La vita degli animali”, consultava le stampe popolari e le figurine della biblioteca civica di Guastalla.’ A volte saliva nelle logge del cinema-teatro di Gualtieri, si appartava in un angolino buio a vedere film per approfondire la conoscenza degli animali feroci, delle savane, delle giungle equatoriali. Le prime esperienze artistiche del giovane pittore si svolgono in estrema solitudine, ma in modo sempre più efficace e risoluto. L’impegno da lui profuso nelle discipline figurative è fortemente orientato, sin da suoi inizi, a sperimentare un’esposizione di chiara tendenza psicologica attraverso gli aspetti, a volte deformati, del reale. “Alla fine degli anni Venti e negli anni Trenta, i dipinti hanno un impianto formale e semplice. I colori, si presentano diluiti e spenti a causa di un budget limitato, i contorni risultano sfumati, la definizione degli sfondi è sommaria, i dipinti dominanti sono gli autoritratti e gli animali, rappresentati inizialmente statici e di profilo.” Inoltre, come si nota nei dipinti, l’abbondano, le incertezze e le ingenuità schematiche nell’impianto grafico e nell’impostazione coloristica, sono avare di consistenza materica. Si sprigiona la forza espressiva dall’ordine primitivo e nello stesso momento un misterioso fascino estetico. Sin dal principio l’opera di Ligabue è viva e presente. Con il tempo nei suoi quadri, iniziano a trovare espressione, le sensazioni e i sentimenti che non riusciva a esprimere con le parole, che uscivano stentate dalla sua bocca, in una lingua che era un misto di svizzero-tedesco e dialetto della Bassa padana. Al di là delle evidenti analogie, si manifesta la necessità di evidenziare l’importanza della Svizzera nordorientale nella formazione umana e artistica del pittore. In molti dipinti di Ligabue gli spettatori riconoscono nel paesaggio che compare in secondo piano, San Gallo, con il suo villaggio e il suo campanile. La memoria dei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza accompagnerà per tutta la vita il pittore, così come la nostalgia per la Svizzera in lui non si attenuerà mai del tutto. I dettagli "elvetici" non si limitano al paesaggismo. Nei quadri sullo sfondo o come dettagli, si possono intravedere contadini con il costume appenzellese, e si intravedono la cattedrale di San Gallo, l’alto ponte ferroviario che conduce nella città, i castelli della valle del Reno. Lo sfondo nordico svizzero si mescola con quello della bassa Reggiana creando un paesaggio magico, attingendo alle immagini custodite nella memoria visiva: tutto ciò che cadeva sotto i suoi occhi veniva registrato, rielaborato e riutilizzato per creare scene dal forte potere evocativo. Nella sua mente i ricordi dell'infanzia, i paesaggi e gli episodi di vita reale contemporanei, le immagini di film, cartoline, libri assumevano una forma definita e tangibile e divenivano parte del suo patrimonio iconografico. Il pittore studiava gli animali che incontrava per la campagna: i grossi cavalli da tiro, i buoi con l’aratro, le capre, le galline, gli scarafaggi, e tutto il resto del mondo, animale e vegetale che lo circondavano e che una volta fissato nella sua mente non è stato più dimenticato. I campi di grano con i papaveri rossi, i canneti delle paludi, i cascinali, i tramonti sul fiume rinvieranno ai primi piani delle sue scene pittoriche. All’ambiente padano l’artista dedica spesso la parte centrale dei suoi dipinti, nello sfondo invece innesta  con tanto rispetto le immagini gotiche (ricche di guglie, campanili e cuspide) dei paesaggi elvetici. Tra le scene amate dal pittore vi sono le lotte tra belve feroci, dove prevale la vegetazione africana e giungle misteriose e tormentate che occupano interamente il quadro.
Ligabue dipingendo l’animale feroce imitava il verso, con tale viscerale trasporto da intimorire tutti coloro che si trovassero nelle vicinanze. Erano urla impressionanti, a loro volta intercalate da gemiti angosciosi sollecitati dal suo subconscio, che lo induceva in quel momento a vivere un rapporto di autoidentificazione col soggetto stesso. Spesso modellava l’animale dipinto. Concentrato al massimo nella sua ispirazione creativa, impastava la creta con la bocca, quasi si trattasse della consacrazione di un rito arcaico, misto alla volontà di misurarsi in un rapporto fetale. “Possiamo contrastare come l’artista abbia vissuto in prima persona il dramma del proprio io e si sia immedesimato nell’iconografia animale per riversarvi le proprie sensazioni e i propri sentimenti.” Si evidenzia la grande capacità creativa del pittore con tecnica attenta e considerazione delle regole veriste, anche grazie alla puntigliosa ricerca analitica. Nei dipinti si nota l’ottimo equilibrio tra forma e colore secondo criteri estetici. Durante gli ultimi dieci anni di vita  l’artista mostra nettamente una nuova impostazione stilistica che viene esercitata tramite una generale sintetizzazione delle norme grafiche e coloristiche. Scompaiono i caldi e grumosi piani materici, i dati inerenti allo stile di carattere espressionista. Lo svolgimento scenico, oltre a esser proposto in una forma decisamente vigorosa nei suoi aspetti estetici, è spesso interessato da uno sconvolgente senso di alta drammaticità. Tra 1961 e il 1962 Ligabue spesso parlava di Cesarina e nel corso dell’estate del 1961 dipinse un grande ritratto di Cesarina e in seguito altri che poi le regalò. “Con la vendita dei miei quadri la posso mantenere bene… molto bene…- e voglio che non le manchi niente…. E che mangi…. mangi…mangi…. mangi…. Poverina…”. Quest’ultima fase artistica termina nel novembre del 1962, quando il grande artista mentre era all’apice della maturità creativa, viene irrimediabilmente colpito dalla paralisi. Le prime recensioni critiche-biografiche sull’artista gualtierese erano espresse con entusiasmo e lungimiranza da Morandi e Bartolini nel primo servizio televisivo di Sandro Volta dal titolo “Le bestie feroci di Toni Ligabue”, nel 1931 e nel 1941 sull’allora periodico di attualità, politica, letteraria e artistica, “Documento Arte” dal titolo Leggenda di Ligabue. Luigi Bartolini nell’articolo dal titolo “Amo la pittura idiota ma non detesto Tiziano” dedicato a Ligabue ha scritto: “intanto, nel quadro che io ho visto (e che è un quadro di media proporzione misurando un metro per settanta) prego di osservare per prima cosa come è stato dipinto il cavallo. Anche Cesetti dipinge bene i cavalli, anche la pittura figlia dell’antico Oriente dipinse o grafi benissimo i suoi cavallini. Anche quelli dell’”Aurora” di Guido Reni sono cavalloni belli, quantunque appaiano troppo pasciuti di troppo biada. Lo sappiamo: non pochi sono gli artisti che hanno ottimamente saputo dipingere dei cavalli. Ma osservate il cavallo di Ligabue. Un cavallo eguale a questo non era mai apparso nella storia dell’arte. Il suo occhio è anelante. Ilare è stato il suo più recente nitrito. Serba, figurata nell’occhio, la gioia di nitrire al vento delle biade. La sua storia (amore verso il padrone, biada poca, fatica molta ma libera, contentezza per la prossimità della stalla) è nella narrazione di Ligabue compiuta mediante linee e colori”. Duole dire che questo e altri autorevoli giudizi rilasciati ai primordi della pittura di Ligabue rimasero per tanti anni inascoltati. Ricevere una valutazione a Ligabue non piaceva, bastava dare un giudizio negativo al suo dipinto o scultura che lui le distruggeva. Sergio Negri esplicita che questo gesto debba essere considerato: “come un esplicito atto di protesta nei confronti di una società indifferente e ostile alle sue esternazioni pittoriche”, ed un simbolo di “dignità artistica”. Ligabue è conscio della sua arte, conscio della sua grandezza pittorica; ed è drammatico che potrà godere della sua fama solamente sul finire della sua vita, sapeva e sentiva di essere un grande artista. Nel corso della sua vita ebbe il ruolo di artista incompreso, era consapevole della scarsa preparazione artistica dei cittadini di Gualtieri e non lì incolpava del suo insuccesso, era convinto che alla sua morte i suoi quadri “varano molti soldi”. Le previsioni dell’artista si rivelarono corrette e negli ultimi anni della sua carriera ebbe vari riconoscimenti. Per Ligabue fu fondamentale nel 1959 l’incontro con un documentarista di Roma, Raffaele Andreassi. Girò su Ligabue il documentario: “lo specchio, la tigre e la pianura” grazie al quale vinse l’orso d’oro al premio di Berlino. La conoscenza con Andreassi si rivelò utile a Ligabue nel 1961, quando alla Barcaccia di Roma il documentarista organizzò una mostra monografica su Ligabue con l’aiuto dei suoi colleghi. Per far presenziare il pittore hanno dovuto ‘promettergli che il presidente della repubblica gli regalasse una medaglia d’oro’. Gli organizzatori mantennero la parola ma invece del presidente della repubblica, la medaglia, gliela diede Giorgio de Chirico.  De Chirico rimase entusiasta della mostra ed ebbe modo di congratularsi con il pittore’. Ovviamente questa mostra ebbe un enorme successo, venne attirata l’attenzione della stampa che fece conoscere l’artista in tutta Italia. Il pittore durante la realizzazione di tutti i suoi dipinti fa un profondo viaggio di introspezione psicologica alla ricerca di sé, si creava determinati stati per entrare nel processo artistico. Martinoni, mira ad allargare lo spettro delle conoscenze su Ligabue “a cominciare da quello delle preoccupazioni nazionalistiche, o peggio provinciali, di chi si ostina a identificare la patria di origine con la patria culturale”. A Sangallo Ligabue viene definito “il Van Gogh svizzero" durante una mostra monografica del 2019 al museum im Langerhans di San Gallo. Il critico e storico dell’arte Vittorio Sgarbi presentando una recente esposizione a Mosca dedicata a Ligabue definisce il rapporto dell’artista con il suo tempo. Durante un’intervista all’Expo Milano del 2015 dichiarò: “il modo di dipingere di Ligabue esemplifica perfettamente il rapporto originario tra artista e realtà. Infatti, i dipinti di Ligabue sono frutto della sua immaginazione. I suoi animali e la natura che li circonda sono la realtà filtrata dalla sua individualità.” Quindi, nel periodo in cui le avanguardie distruggevano la figurazione, nelle sue opere Ligabue recupera la vera essenza dell’artista. Non a caso, come sulle pareti delle grotte preistoriche, sono gli animali ad essere i soggetti preferiti da Antonio Ligabue. Secondo Sergio Negri in: “Antonio Ligabue, Catalogo generale dei dipinti” la produzione di Ligabue può essere divisa in tre periodi. Il primo periodo, 1928-1939, “Per quanto riguarda la determinazione dell’esatta datazione di partenza del primo periodo dei tre cicli artistici non è stato possibile risalire alle primissime esercitazioni figurative, eseguite dal pittore in modo saltuario al suo arrivo in Italia. Non è da escludere l’ipotesi secondo cui l’artista, inappagato da quei primi saltuari approcci con l’arte, distruggesse il tutto, eliminando ogni traccia. Di questa produzione non è rimasto nulla che possa comprovarne i risvolti estetici e i dati cronologici. Nelle opere tarde di primo periodo si individua una “notevole incertezza grafica e coloristica” . L’impostazione dei quadri è semplice spesso limitata ad un'unica immagine centrale. Ligabue non padroneggia ancora con sicurezza i materiali artistici, le figure non hanno ancora la plasticità e la matericità che caratterizzano i suoi quadri dal secondo periodo in poi. I colori usati per dipingere da Ligabue sono diluiti con l’acquaragia, al fine di renderli più morbidi e fluidi durante la stesura sulla tela. Molto meglio in questi casi l’uso dell’olio di lino cotto, probabilmente l’artista ancora non era a conoscenza o forse non poteva permetterselo. La tavola cromatica usata dal pittore in questo periodo è composta da ‘varie tonalità di verdi, bruni, giallo cromo, il blu cobalto, è stato rilevato l’uso di terre naturali’. Tutto manipolato per ottenere una “soffusa atmosfera cromatica” . La soggettistica più ricorrente è riferita al mondo animale e alla vita che girava intorno all’artista. Ligabue spesso si dimostrerà preoccupato di rappresentare non solo la visione figurativa nei suoi aspetti formalistici, ma anche i caratteri morali e ambientali in essa contenuti. I contorni del soggetto raffigurato appaiono del tutto sfumati, senza alcun accenno di segno scuro che lo circoscriva. L’immagine stessa è fissa e centralizzata, i valori prospettici inesistenti. La produzione artistica della fase iniziale di Ligabue è quasi totalmente rivolta alla pittura raramente a disegni a inchiostro; pochissime le sculture in creta. I dipinti, non molto numerosi in questi anni – senza considerare quelli andati dispersi naturalmente - sono eseguiti su tavolette di legno o compensato dalle dimensioni non particolarmente grandi di formato medio-piccolo. In qualche rara occasione il pittore farà uso di tele, precedentemente dipinte da Mazzacurati e Bartoli. Le tavole di compensato sulle quale Ligabue ha dipinto sino al 1948-1949 circa venivano recuperate presso il deposito degli scarti della più grande fabbrica della zona a due passi dall’abitazione di Andrea Mozzali. Poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale si esaurisce il primo ciclo creativo di Ligabue che potrà essere definito come il periodo di incertezze delle primissime ingenue esercitazioni e della formazione di una morale d’artista che sancirà i suoi orientamenti futuri. Secondo periodo individuato da Sergio Negri va dal 1939 al 1952. Le caratteristiche principali del secondo periodo si contraddistinguono dalle precedenti mediante alcune precise inclinazioni tecniche. Ora la connotazione estetica si sviluppa su piani diametralmente opposti e assume valori altamente qualificanti sia nella coloristica sia nella complessa elaborazione delle forme. Fra i diversi moduli espressivi caratterizzanti la nuova impostazione stilistica, in cui secondo i canoni veristi viene osservata una rappresentazione obiettiva di tutta la realtà anche nei suoi aspetti più umili, il vero protagonista di un’eccellente fantastica stagione figurativa è senz’altro colore. I dipinti di Ligabue in questo periodo sono caratterizzati da pennellate materiche, fino ad arrivare ad un “bassorilievo cromatico”.  L’artista valorizza la stesura degli innumerevoli piani tonali. Si nota un equilibrio di tutto l’impianto grafico, impasto coloristico grasso e corposo, le scene rappresentate hanno un aspetto di rara piacevolezza pittorica. Nella tavolozza ai colori inizialmente adottati si aggiungono il blu di Prussia, la terra di Kassel e il rosso carminio, nel 1949 a incidere le prime lastre in zinco; questi a loro volta, mescolati agli altri già in uso e a seconda delle esigenze creative del momento, si apriranno a quel fantastico repertorio di accordi cromatici che caratterizzeranno la seconda fase artistica. In questo periodo Ligabue orientato verso l’approfondimento dei valori introspettivi, oltre beninteso a quelli estetici, ampiamente ravvisabili nelle parti esteriori delle stesse forme raffigurate. Un’altra particolarità rilevata in questo periodo è l’uso del disegno d’insieme tracciato sulla tavola a carboncino prima di procedere a dipingere. Acquisendo maggiore sicurezza nel suo lavoro creativo, allargando la tavolozza cromatica. Ligabue inizia ad esprimere su tela il dramma della sua esistenza attraverso la natura degli animali. Prima di rappresentare qualsiasi animale si guardava allo specchio che teneva sempre accanto al suo cavalletto, per immedesimarsi al meglio negli animali o in sé stesso, dipingendo animali in lotta oppure animali feroci, ne imitava il verso ma con tale viscerale trasporto da intimorire tutti coloro che si trovassero nelle vicinanze. Erano urla impressionanti, a loro volta intercalate da gemiti angosciosi sollecitati dal suo subconscio che lo induceva in quel momento a vivere un rapporto di auto identificazione col soggetto stesso. Proprio attraverso l’uso di significativi contenuti, che sfuggono alla normale percezione del tatto, il pittore si avvale delle facoltà espressive, dopo essersi liberamente guardato dentro, nel più profondo dell’animo. Sono tipiche di questi anni intense scene di violenza e di lotta rappresentate da animali feroci in atteggiamenti aggressivi, al solito pervase da un unico messaggio contestuale, intriso di rabbia, dolore e armonia plastica. Dal 1948 al 1952 circa l’artista userà quasi sempre come supporto per i suoi dipinti tavole di faesite reperite dal falegname di Gualtieri. La qualità artistica non viene mai a mancare, appare una gradevole espressività grafica, a sua volta notevolmente suffragata dagli schemi iconografici con straordinaria potenza espressiva e somiglianza fisica dei suoi oggetti. Il terzo e ultimo periodo creativo va dal 1952 al 1962. Tale periodo è definito dai critici d’arte come il più breve, ma è il più proficuo periodo per Ligabue. La maggior parte tra i mille dipinti catalogati da Sergio Negri risalgono a questo periodo. L’artista in quegli anni conobbe il suo più grande successo, e a causa del quale si ritrovo a dover dipingere quadri su commissione. Ligabue, compì vari viaggi dagli imprenditori italiani, alloggiando nelle loro ville, dove poteva lavorare indisturbato. Con il successo il lavoro raddoppiò e Ligabue per finire in tempi prestabiliti si trovò a dipingere un quadro al giorno, dipingendo male deliberatamente. Se il cliente non entrava nelle sue simpatie lui si rifiutava di fare un buon lavoro. In effetti l’attenzione del pittore sarà concentrata d’ora in poi sui valori della forza espressiva, che inequivocabilmente si proporrà come la tematica artistica. Il soggetto quindi, ormai predominante sull’intero campo visivo, viene circoscritto da un vigoroso segno nero per evidenziarne al massimo le fattezze anatomiche, che oltretutto si proporranno sempre tese e nervosamente incise. Nel campo della coloristica si assiste a una graduale riduzione della scaletta dei toni, per favorire una più sobria ed efficace visione figurativa. I colori più frequentemente usati in questa ultima fase sono le terre di Siena, rossa e naturale. Il bruno Van Dyck, i gialli, di cromo, di limone, blu di Prussia, rosso carmino e il bianco di zinco. Tra dipinti molti autoritratti e la soggettistica rivolta al mondo animale. Dopo 1959 e sino alla fine della sua attività lavorativa Ligabue si servirà esclusivamente di tele del tipo commerciale, intelaiate e preparate, che acquistava regolarmente nei negozi specializzati. Solo in un’occasione, nella primavera del 1962, ritorna all’uso della faesite, quando dipinge Il serpentario, quadro di grandi dimensioni, a cui lavora quasi ininterrottamente per quaranta giorni, durante i quali spesso ascolta da un vecchio grammofono la Quinta sinfonia di Beethoven.
Un approfondimento che merita di essere accennato riguarda l’evoluzione della firma dell’artista. Durante il primo e il secondo periodo la firma di Ligabue si ripropone sia nei disegni che nelle incisioni, completa di nome e cognome in chiave gotica. Nei dipinti del secondo periodo appare la sola iniziale del nome mentre il cognome per esteso, trasformato dall’artista in Ligabùn secondo i caratteri grafici nordici ai quali si affiderà per tutto il corso della sua vita. Per quanto riguarda i dipinti di piccole e saltuariamente anche di grandi dimensioni sono siglati con solamente l’iniziale del nome e del cognome, ma si possono trovare opere firmate per esteso sul retro del 20 dipinto. Nella seconda fase, a differenza della prima, tutte le opere erano complete di firma, in rari casi accompagnata dalla data. L’artista per siglare le sue opere era solito usare il colore rosso; se ne era temporaneamente sprovvisto ricorreva all’ocra gialla o alla terra di Siena. Secondo Sergio Negri in Antonio Ligabue, il catalogo generale dei dipinti la firma in determinate occasioni eserciti una duplice funzione. La presenza della firma dell’autore per quanto riguarda le incisioni e i disegni a matita e a inchiostro non deve intendersi unicamente come autorevole legittimazione dell’opera da parte dell’autore, ma come un ‘pregevole apporto decorativistico a tutta la conformazione grafica’. Riguardo al terzo periodo riguardo le incisioni e i disegni la firma in uso è la stessa del secondo periodo, alcuni disegni però insieme alla firma saranno accompagnati da un’originale nomenclatura indicante nome e caratteristica del soggetto ritratto. Ligabue con il suo talento naturale per molto tempo era sconosciuto e inizialmente fu etichettato come pittore Naïf. Il padre dell’arte naif europea, Anatole Jakovsky, non volle includerlo nel firmamento naif dichiarando che Ligabue: “Resterà uno dei grandi enigmi del nostro tempo”. All’inizio del suo percorso artistico i dipinti potevano favorire un accostamento alla naïveté, ma nei periodi successivi il pittore si esprime in modo differente con una grande indiscussa genialità creativa dominata e guidata dal sentimento. Come diceva Max Pol Fouchet “i pittori Naïf sono privi di qualunque preparazione artistica e di ogni movente estetico, essi si esprimono con figurazione dettate unicamente da sollecitazioni emotive realizzando dei veri i propri racconti per immagini caratterizzati dal brillante cromatismo, dalla freschezza e dalla spontaneità dell’osservazione, dall’interpretazione istintiva e spesso fantastica della realtà”. Nelle prime esperienze creative di Ligabue si nota l’analogia con l’arte primitiva che con quella popolare o candida ma nel 1965 Renato Marino Mazzacurati definisce l’artista “non pittore, Naïf ma grande artista espressionista”. “Ligabue è senz’altro un pittore dalle origini primitivistiche che non appena si trova sottoposto agli stimoli del suo istinto creativo, nonché a quelli di una proficua preparazione autodidattica, approda, dopo un ampio percorso di ricerche e sperimentazione estetiche, nelle contorte sfere dell’introspezione e quindi dell’espressionismo.”Chiarito che, nonostante le superficiali definizioni in voga negli anni sessanta, Antonio Ligabue non è un Naïf (e di questo oramai tutti gli esperti sono d’accordo) negando un’associazione troppo diretta fra arte e follia, Sergio Negri insiste sul fatto che Ligabue non è neppure un primitivo, cioè un artista privo di educazione, di cultura e una proficua preparazione autodidattica ha un suo stile unico e inconfondibile che si esprime in maggior parte nei autoritratti ed i dipinti degli animali. Anche avendo origini primitive nel suo ampio percorso di ricerca e sperimentazione estetica si appoggiano all’ istinto creativo, sviluppa una profonda introspezione ed il suo stile originale espressionistico. L’artista nei suoi dipinti, specialmente negli autoritratti, ricorre volutamente alla sintesi quindi alla deformazione di canoni figurativi, perché convinto d’infondere al soggetto proposto una maggiore carica espressiva e nello stesso tempo spingersi verso la sua verità interiore. Negli ultimi dieci anni dal 1952 al 1962 il pittore lavorava di getto senza un abbozzo preliminare, portava sul dipinto un puro sentimento. La pittura di Ligabue diventa una costante ricerca introspettiva, dove l’inizio può ricordare l’arte naïve ma, con la maturazione inizia ad esprimersi con “genialità creativa”, dove il sentimento ha un ruolo centrale. Del resto, l’espressionismo non è da intendersi come un vero movimento ispirato e sostenuto da un determinato gruppo di artisti. Si tratta piuttosto di una tendenza specificamente romantica, perciò incline alla malinconia e alle suggestioni fantastiche, entro cui si muovono in modo indipendente i suoi adepti, che raramente troviamo interessati alle condizioni sociali e intellettuali della loro epoca, ma che fanno della pittura il vero e unico mezzo per persistere in un egoistico viaggio introspettivo.
Alcuni dei grandi espressionisti, come Soutine, Kirchner, Meidner, Heckel Kokoschka, Van Gogh, Munch, hanno analizzato sé stessi dipingendo decine e decine di autoritratti cogliendo i caratteri morali e spirituali scattando la molla dell’autoidentificazione. Sergio Negri definendo lo stile pittorico di Ligabue cita un grande storico dell’arte Alain Bois: “è impossibile dare una definizione semplice e chiara del termine ‘espressionismo’. Dopo aver cambiato più volte di significato, dopo essere stato riferito a opere molto diverse. A quelle di Munch come a quelle di Grosz, oggi questo termine si applica a un numero  considerevole di opere che sembrano avere assai poco in comune da un punto di vista formale. Quel che unirebbe queste opere molto differenti, secondo la classificazione più corrente, sarebbe il loro ‘stato d’animo’, il loro “senso”; “Come gli impressionisti affermavano la necessità di ‘rappresentare’ sentimenti. La genialità dei lavori, la bellezza delle opere di Ligabue, non sta solo nella tecnica, ma anche nel messaggio che le opere portano al pubblico che viene considerato come persone “normali”, ma questo pubblico non è ancora pronto per capire i messaggi ricevuti. L’arte nella maggior parte dei casi viene creata da persone che soffrono, quelle che noi consideriamo malate mentalmente. Loro ci lanciano un messaggio, che noi dobbiamo interpretare. In conclusione, l’evoluzione formalistica insita nella produzione pittorica di Ligabue, maturata fra i tormentati itinerari introspettivi, battute da grandi maestri espressionisti, ha portato la sua arte nel filone artistico espressivo della pittura italo-europeo. La prossimità di arte e follia, un tema da sempre attuale negli uomini, è stato dibattuto fin dall’ antichità. Gli studiosi da tempo hanno notato una stretta relazione tra la follia e la genialità nel lavoro artistico. Secondo alcuni è possibile che il decorso della psicopatologia della personalità geniale possa riflettersi nei mutamenti cronologici delle sue opere dal punto di vista stilistico e tematico, in veste di disturbo, inibizione o corroborante dell’attività creativa. Il mondo dell’arte diviene la rappresentazione del mondo interiore in cui l’artista si dibatte tra sanità e follia, mostrandone di volta in volta il decorso. La bizzarria dei poeti e dei drammaturghi era già stata commentata da Platone, che aveva caratterizzato la “mania” come esaltazione dell’anima, “dono degli dèi che permetterebbe all’artista e al poeta di realizzare le loro opere”. “Tutto ciò che è grande è accaduto nel delirio”  scrisse nel Fedro. Aristotele aveva associato creatività e malinconia. Come scrisse Alfredo Accantino nel suo libro “Outsiders. Storie di artisti geniali che non troverete nei manuali di storia dell’arte”: “le opere sono sempre influenzate dalla vita. È inevitabile. Perchè anche gli artisti, come ognuno di noi, proiettano nelle loro creazioni sogni desideri e paure. Diventano maturi, amano, invecchiano magari male. Le opere sono sempre figlie di queste storie. Questo è il senso di Outsider. ...perchè hanno dovuto condividere l’arte con la malattia. Del corpo o dell’anima. O di tutti e due. Talvolta”. La stravaganza di inventori, scienziati, artisti e scrittori è universalmente nota. Ma non è solo la gente comune a percepire eccentrici gli individui creativi, spesso sono loro stessi a sentirsi diversi. Nella nosografia psicologica oggi la categoria diagnostica che più si avvicina ai soggetti creativi e agli artisti è la personalità schizotipica, caratterizzata dalla credenza nel pensiero magico e nel paranormale, da fantasticherie esuberanti, sfumate dispercezioni uditive e visive, anedonia e ritiro sociale, e spunti paranoidei.  Questi soggetti possono fare discorsi insoliti, avere abbigliamenti strani ed esprimere reazioni emotive inappropriate. Spesso, si tratta di persone altamente dotate di talento, con ottima intelligenza e memoria. Alla base della relazione genialitàfollia ci sarebbe un ridotto livello di funzionamento dei filtri cognitivi che nel cervello frenano e selezionano la quantità di stimoli afferenti che arrivano alla conoscenza consapevole. Un allentamento parziale e solo transitorio di tale meccanismo selettivo può determinare la personalità schizotipica e la possibilità dei colpi di genio (scintille creative). Un maggior deficit dell’inibizione filtrante sarebbe invece alla base della schizofrenia con veri i propri deliri, allucinazioni psicotiche, vitalizzate e strutturate come se il cervello crollasse per un sovraccarico di informazioni in arrivo che ostacola la normale classificazione e interpretazione di ciò che i sensi raccolgono e che frammenta il rapporto con la realtà. La maggior parte delle persone che soffrono però di psicosi e schizofrenia non produce idee e opere ritenute geniali, vi è sofferenza, inibizione e immiserimento ideativo. Le opere in caso possono essere interessanti ma non sono opere d’arte. Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi di una malattia, è al di là dell’opposizione tra normale ed anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia di una conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita.  Per numerosi ricercatori un altro capitolo della psicopatologia ritenuto contiguo all’arte è il disturbo bipolare, o psicosi maniaco-depressiva, che è caratterizzato da oscillazioni del tono dell’umore. Sarebbero le fasi iniziali della psicosi maniacale depressiva, quando il tono dell’umore è discretamente euforico, elevato e il soggetto è fiducioso, ispirato in preda a un “sacro fuoco”, che la produzione creativa può esprimersi compiutamente. Si può essere grandi artisti senza essere bipolari; la malattia mentale può semplicemente agire da catalizzatore per l’artista stimolando, anche se la creatività esiste a prescindere dalla malattia. Anche le emozioni sono diventate oggetto di studio per le scienze cognitive e la psicologia collegando il mondo emotivo con le opere d’arte. Secondo studiosi l’attività creativa rappresenta uno strumento per regolare le proprie emozioni e riportare a uno stato d’equilibrio. Sigmund Freud considerava l’attività creativa come il frutto di sublimazione e Karl Gustav Jung stimava istinto creativo come fonte di spiritualità e della produzione di simboli. “Lotto con tutta la mia energia per rendermi padrone del mio mestiere, dicendomi che, se ci riesco, sarà questo il miglior parafulmine contro il mio male. Il mio pennello scorre tra le mie dita come se fosse un archetto di violino. Ora riuscirò a fondere quegli ori, e quei toni di fiori, il primo venuto non riesce a farlo, ci vuole tutta l’energia di un individuo. Per arrivare a questo giallo stridente che ho raggiunto questa estate ho avuto bisogno di un po' di esaltazione. Van Gogh nel 1899 scrisse: “Non nego la follia artistica di tutti noi e non dico che, sopra tutto io, non sono un pazzo vero e proprio, tuttavia bisogna prendere una decisione, tenendo conto delle malattie del nostro tempo. In fondo è anche giusto che avendo vissuto per degli anni in salute relativamente buona, presto o tardi ne abbiamo anche noi la nostra parte. Per conto mio non avrei scelto la follia se si fosse trattato di scegliere, ma quando si ha una faccenda del genere è una malattia come altra”.
Umberto Galimberti nella prefazione del libro Genio e follia di Jaspers, uno dei grandi protagonisti della cultura del Novecento, scrive: “...la filosofia resta accanto all’arte come espressione sintomatologica della condizione umana. Sin-tomo è parola greca che vuol dire co-incidenza. In questi studi Jaspers vuole capire perché, nelle loro espressioni più alte, arte e follia coincidono, perché accadono insieme”. “Solo i folli abitati dal dio ne sono capaci, e allora qui, e non altrove, si scorge il nesso tra follia e creazione artistica, naturalmente con il sacrificio dell’artista che, con la sua catastrofe biografica, segnala la condizione, a tutti comune, che è la vita come assenza di protezione, da cui noi ci difendiamo non oltrepassando il recinto chiuso della nostra ragione, che abbiamo inventato come rimedio all’angoscia.”  Come spiega il psichiatra nel suo lavoro, apparso per la prima volta nel 1922 in una raccolta di iscritti sulla psichiatria applicata, vuole porre il problema dei limiti della comprensibilità del vivere e dell’agire umano. “Ogni fatto, compresi quelli della vita spirituale, porta in sé un elemento che resta incomprensibile. Qui, trattandosi della malattia mentale, questo fatto si individua con maggior nitidezza nel paragone empirico, ma non per tanto lo si penetra. L’esistenziale appare solo se si esaminano i dati particolari, se si articolano i problemi e si avvicinano e si confrontano gli elementi differenti. Solo così potevo raggiungere il fine che mi ero posto: non conoscenze definitive che d’un solo colpo “svelano il trucco”, ma semplicemente una conoscenza che ci permetta di giungere nel punto da cui sia possibile percepire i veri enigmi e prenderne coscienza”. Karl Jaspers nel libro Genio e Follia ha anche scritto “Gli psichiatri sono spesso stati troppo leggeri nei loro giudizi di valore. É molto pericoloso qualificare con troppa fretta qualcosa come “incomprensibile”, “quindi è folle chiamare qualcosa vuoto, triviale, ricercato, confuso. Queste definizioni possono sembrare azzeccate, ma sarà sempre di maggior interesse mettere in luce un lato positivo, mostrare ciò che comprensibile, compiuto, efficace, perchè non si può avanzare nella ricerca che a questa condizione, mentre il giudizio negativo non fa che sopprimere il problema”. Dilthei nei Canti della notte parlò delle crisi di Holderling e paragonò le differenti versioni della stessa poesia a seguito delle suddette crisi.
 
Possiamo fare un paragone con Antonio Ligabue “Come scese su di lui l’ombra del crepuscolo, gli eroi e gli dèi cominciarono ad osservare dimensioni enormi e forme fantastiche. E il suo linguaggio giunge nella forza delle metafore fino alla stranezza e all’eccentricità. C’è un caratteristico miscuglio di fatti patologici insieme al sentimento del genio lirico per un nuovo stile”. “...una particolare indipendenza ed energia nelle immagini”. “… tutta la sua evoluzione poetica urgeva verso la totale liberazione del ritmo interiore del sentimento dalle forme metriche chiuse; quest’ ultimo passo però fu compiuto da lui sul limitare la follia”. Karl Jasper afferma “...la nostra epoca è affascinata dall’esotismo, dalla novità dalla stranezza, dal ritorno al primitivo, s’entusiasma per l’arte orientale, per l’arte dei neri e per disegni dei bambini. ...è come se una fonte ultima dell’esistenza si aprisse per un istante, come se i recessi più profondi della vita venissero alla luce. É un’esperienza che non ci porta ad accogliere l’estraneo, ma ci spinge a trasformarlo in una figura a nostra misura. Ci tocca nel profondo, ma non è il nostro mondo; da lei viene un’interrogazione radicale, un appello che investe la nostra esistenza; il suo effetto è benefico, ci trasforma. Oggi le fondamenta della nostra esistenza vacillano. Il nostro tempo ci esorta a rimettere tutto in questione e ci spinge verso un rapporto più immediato con la vita. La nostra cultura si è aperta alle cose più estranee, basta che appaiano autentiche e votate.” La cultura oggigiorno ha bisogno di dare l’action alla massa, che ha la continua necessità di essere stupita per distrarsi dalla quotidianità e dalla noia della loro vita. “Nutriti come siamo di una cultura altamente intellettuale, posseduti da una volontà di chiarezza illimitata, riconosciamo l’autencità di questa profondità in cui l’io si distrugge, la coscienza della presenza divina solo ai malati di mente? Viviamo in un’epoca di imitazioni ed i artifizi, in cui tutto viene fatto in vista di un rendimento, in cui la vita è una mascherata, un tempo in cui l’uomo non perde mai di vista ciò che è, in cui la semplice stessa è voluta e l’ebbrezza dionisiaca fittizia come l’arte che la esprime, arte di cui l’artistica è troppo consapevole, e compiaciuto d’esserlo. In una simile epoca, è forse la follia la condizione di ogni autencità in campi in cui, in tempi meno incoerenti, si sarebbe stati capaci di espressioni autentiche anche senza essa? Assistiamo forse a una danza forsennata per giungere a qualcosa che si perde nel grido, nel gesto, nella violenza, nel narcisismo in una piattezza, in una sciocca ricerca del primitivo fino a una dichiarata ostilità verso la cultura? E questo qualcosa non si manifesta invece con profonda e sincera autenticità solo nei veri schizofrenici. Il difficile carattere di Antonio Ligabue, chiuso, poco socievole, con disturbi dell’umore e con il comportamento instabile. Nel momento in cui, i disturbi si trasformano in crisi, la vita diventa molto difficile per l’artista e neanche l’attività creativa li dona sollievo. Alla fine, la follia prende possesso della ragione, le azioni elementari della vita quotidiana diventano una lotta per la sopravvivenza. Allo stesso momento la mente e la memoria appaiono intatte o rimangono capaci di osservazioni profonde con una percezione straordinaria di armonia tra le forme e i colori. Grazie alla sua fantastica mano che aveva saputo creare tanti capolavori e all’attività pittorica costante, le produzioni artistiche diventano sempre più toccanti. Il 14 luglio del 1937 Ligabue viene ricoverato per la prima volta all’istituto psichiatrico san Lazzaro di Reggio Emilia, per essere dimesso e rimandato a Gualtieri il 3 dicembre dello stesso anno. L’internamento è dovuto al carattere irascibile e violento del pittore e ai suoi atti autolesionismo. Proprio in questo periodo verranno a manifestare nella realtà pittorica di Ligabue valori cromatici ed espressione. Il 23 marzo del 1940 il secondo internamento di Ligabue presso l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia. Il ricovero è dovuto, secondo il medico condotto di Gualtieri, a psicosi maniacodepressiva. Il pittore, nei momenti di maggiore irrequietezza, aveva preso l’abitudine di percuotersi il naso o la tempia destra con sassi appuntiti, producendosi delle profonde lacerazioni. Nel maggio del 1941 l’amico pittore e scultore Andrea Mozzali di Guastalla si assume l’impegno presso la direzione del manicomio di “seguire” e ospitare Ligabue a casa propria, riuscendo così a riportarlo all’insperata libertà. A questi anni il pittore autodidatta di tendenza espressionista e avvicina alla sua virtù creativa rappresentando nell’arte il dolente dramma della propria esistenza attraverso la configurazione dell’aggressività animale, della forza espressiva e rigorosità plastica. Il 13 febbraio 1945 Ligabue rompe una bottiglia di vino sulla testa di un soldato tedesco, provocandoli il ricovero all’ospedale di Gualtieri.
Ci informa Sergio Negri: “La produzione pittorica degli ultimi dieci anni è senz’altro la più copiosa. Poco meno della metà dei circa novecento o mille dipinti”. “In questa fase è riscontrabile una non comune discontinuità del livello qualitativo; a differenza della fase precedente in cui oscillazioni di questo tipo avevano solo un carattere episodico. Può accadere, infatti, che a veri propri capolavori si alternino opere dagli scadenti contenuti estetici, in cui però non vengono mai del tutto a mancare gli schemi coloristici e soprattutto la forza espressiva, che rimane pressoché inalterata e si concretizzerà sempre più come la caratteristica fondamentale di questo terzo e ultimo periodo”.  “In questo periodo Ligabue secondo contratti stipulati con alcuni membri del mondo imprenditoriale di Reggio Emilia, Brescia, Verona e Guastalla, si isolò per lunghi periodi presso le case dei singoli committenti al fine di realizzare tutte le opere con essi concordate, spesso di grandi dimensioni”. “L’artista, che ormai conosce i segreti del mestiere, si esprime con una rapidità sorprendente, tanto da riuscire a dipingere un quadro di medie proporzioni in un solo giorno o poco più, seppure con i risultati non sempre lusinghieri. In effetti l’eccesiva velocità nel portare a termine un dipinto, specialmente se di carattere figurativo, e la mancanza necessaria concentrazione psicologica possono determinare nell’opera di qualsiasi pittore notevoli, anche se non costanti, squilibri compositivi.” Per alcuni clienti che non godevano della sua simpatia, Ligabue eseguiva dipinti appositamente mediocri per sghignazzarne poi soddisfatto alle loro spalle. In verità ciò avveniva negli ultimi tempi quando l’artista si sentiva circuito per scopi lucrosi. Diceva che certe persone gli volevano “mungere i quadri” con l’intento di venderli e ricavarne vantaggi economici. Dalla lettura di tutta la storia clinica ed essenziale di Antonio Ligabue si può rispondere alla domanda: “Era pazzo?”, dicendo che “Toni” no, non era matto, non era uno psicotico, perché riassumeva in sé una personalità schizotipica, un disturbo bipolare, e una prepotente ricchezza emozionale, fattori spesso determinanti della genialità secondo i più recenti studi di neuro-estetica. Antonio Ligabue è stato un’artista straordinario perché “attraverso la sua percezione sensibile e onirica delle esperienze ed emozioni universali l’arte ritorna istinto primordiale e trasforma la semplicità della sua espressione in emblematico, forte e complesso carisma”. Di fronte ai combattimenti tra animali, alla lotta per la sopravvivenza, agli scontri ferini carichi di inusitata energia – temi che Ligabue ha ripetuto con ossessiva continuità come metafore della sua storia umana e artistica. Il dipinto I tacchini è rappresentativo del primo periodo. Ligabue influenzato da uno stato d’animo piuttosto complesso, divide l’opera in due parti ben precise. Nel primo piano, al disotto della linea dell’orizzonte, egli inserisce gli elementi naturali dell’ambiente Padano in cui vive; nella seconda parte i paesaggi dell’infanzia trascorsa negli indimenticabili villaggi svizzeri. La scelta del soggetto non è casuale, ma sempre condizionata dal momento psichico in cui vive l’artista. Nei rari periodi di tranquillità interiore ricorono con prevalenza le dolci scene agresti. Gli animali dal carattere sereno e tranquillo vengono rappresentati con velato candore, in modo poetico e idilliaco, anche se traspare dalla profondità dei loro sguardi la tristezza di un animo rassegnato e sottomesso. I soggetti rappresentati potrebbero veicolare il messaggio dell’irrequietezza dell’autore; essi, infatti, nonostante siano rappresentati in atteggiamenti aggressivi, sono coinvolti nel momento del corteggiamento, in cui il tacchino cerca di accoppiarsi per riprodursi. Tale messaggio potrebbe raffigurare l’attrazione latente che l’artista prova per il sesso femminile, ma che non riesce a esprimere in maniera concreta. Ogni immagine di Ligabue è sempre viva e ricca di pathos. Il periodo della creazione del quadro corrisponde con il primo ricovero di Ligabue all’ospedale di san lazzaro, in questo quadro infatti predomina una coloristica accesa, intense tonalità, dove predomina 33 una violenza contenuta ed equilibrata. In questo quadro si vedono gli influssi della scuola romana, come Scipione e Mafai a cui guarda Ligabue nel periodo del ricovero su suggerimento di Mazzacurati. La composizione appare semplice, con un’immagine centrale e una pianura come sfondo. Gli schemi cromatici sono di buona consistenza i valori materici e plastici sono concreti. La coloristica è soffusa e tenue, il pittore adotta ancora il metodo di diluire i colori con l’acquaragia. In questo dipinto Ligabue si serve di un disegno di fondo che gli permette di avere una prima visualizzazione dell’impianto grafico. Possiamo notare una formazione della coscienza d’artista, riesce con temi semplice ad entrare nella mente dello spettatore.
Trasmettendo emozioni dirette. Lui era un animale che dipinge. Si può vedere anche in questo semplice e a prima vista innocuo scenario una tensione della sopravvivenza. Nel quadro si può vedere la manualità di Ligabue, non usava solamente i pennelli ma le dita e le mani e addirittura le unghie, per abbellirlo ha inciso il prato facendo intravedere il fondo giallo dando al quadro la sua tipica armonia cromatica. Un’altra particolarità che può essere notata è il cielo, il cielo di ‘ i tacchini’ non è sereno ma porta tempesta. Un’altra caratteristica del primo periodo era la definizione con una linea di contorno dei suoi personaggi.  Antonio Ligabue dipingeva con impasti di colore ad olio su lastre di faesite, sistemate da lui, di dimensioni medie. Nel quadro è presente la firma dell’artista. La firma non compare spesso in questo primo periodo la sua presenza può essere interpretata come dimostrazione di un’acquisita consapevolezza professionale. Il contesto naturale inoltre è un tipico paesaggio della pianura padana. Sullo sfondo è presente una stalla, la stessa stalla di Gualtieri dove Toni ha vissuto per un periodo della sua vita. L’aquila con volpe 1949-1950  è stata dipinta da Ligabue presso il ricovero di mendicità, dove il grande ed efficace risultato compositivo viene a essere condizionato dal profondo tormento interiore. Il pittore, che ha inteso immortalare le fasi finali di una lotta all’ultimo sangue, non si è lasciato andare a eccesive raffigurazioni ambientali. Egli ha volutamente lasciato spoglio e indefinito il paesaggio circostante dopo l’unico accenno al piccolo campanile di una chiesa che, lontana sullo sfondo, sembra quasi voler rimarcare gli alti valori della fede cristiana. Il cielo appare agitato e travolto da un cupo turbinio di colori. Mentre il resto figura completato da vigorose campiture gialle, verdi e brune, in un’essenzialità austera, nell’intento di lasciare ogni predominanza alla tragedia e al dramma, che si sta consumando nel primo piano. L’atmosfera tragica e misteriosa coinvolge ogni centimetro della superficie pittorica in una perfetta simbiosi di contenuti estetici e psicologici. La grande aquila che troneggia ad ali dispiegate in una fantastica armonia architettonica, mentre i suoi poderosi artigli sono affossati nella preda, assume, attraverso l’aspetto possente e la fierezza dello sguardo, la regalità del condottiero antico quando intuisce di avere ormai vinto la battaglia. Diversamente la volpe, irrigidita e tesa in un disperato tentativo di salvezza. Sembra emettere dalla bocca vistosamente spalancata un tragico, lacerante “grido” di dolore e di rabbia che risuona per tutta la valle. Due animali si affrontano lottando nel dipinto. Una grande aquila atterra dall’alto sulla schiena di una volpe. Il rapace affonda gli artigli sulla schiena e sul collo dell’animale tenendo l’equilibrio con le ampie ali piegate verso il cielo. L’aquila seduta trionfalmente sul corpo della preda consapevole della vittoria. La sua testa inoltre è coronata dalle piume sollevate che la rendono minacciosa. Anche lo sguardo è profondo e deciso. La volpe invece si dibatte in basso e cerca di liberarsi. Con uno scatto ruota la parte anteriore del corpo e tenta di mordere il suo aggressore. La scena si svolge tra grandi zolle di terra e fili d’erba. In primo piano compare anche uno scorpione mentre a destra, in alto vola una farfalla cavolaia. Sul fondo infine è disteso un tranquillo paesaggio di pianura con un paesino bianco, probabilmente Gualtieri. Solo 35 il cielo sottolinea la drammaticità della scena con il colore intenso del tramonto. Antonio Ligabue interpretò gli animali soggetti dei suoi dipinti con una grande empatia. L’artista, infatti, si avvicinava alla loro apparenza anche fisicamente cercando di riprodurre la loro mimica. Ligabue si identificava così quasi come uno sciamano a tranquilli animali da cortile o a pericolose bestie feroci. La lotta per la vita è spesso rappresentata con durezza e violenza nei suoi dipinti. I teatri nei quali si svolgono questi drammi naturali sono però spesso sereni paesaggi di campagna. Si coglie infatti una contrapposizione tra la brutalità della scena in primo piano e il paesaggio che si distende intorno. Pare così di sentire i versi prodotti dagli animali durante l’aggressione in primo piano contro il silenzio della campagna padana. La scena rappresenta la ferocia della natura ma anche la bellezza degli animali che combattono contro il destino e il fato. La volpe non ha scampo ma potrebbe sopraffare l’aquila. La sua fine non è certa, tuttavia il destino che segna la vita di animali e uomini sembra non lasciare dubbi sulla conclusione della lotta. Il professore emerito di letteratura italiana all’università di San Gallo, Renato Martinoni insiste molto sull’importanza della scuola di Marbach e dei metodi innovativi della pedagogia curativa che nel primo Novecento conosce importanti sviluppi nell’Europa del nord.
 Ancora oggi gli allievi dell’istituto di Marbach, dove fu ricoverato Antonio Ligabue nel 1913, dividono l’impegno scolastico fra l’apprendimento in classe e il lavoro all’aperto, a stretto contatto con la natura e con gli animali, usano l’arte come terapia, disegnando, scolpendo la pietra, impratichendosi delle tecniche creative. I docenti e i medici che seguono i ragazzi insistono sulle loro abilità nel disegnare. Nel periodo che l’artista passò a Marbach gli insegnanti seguirono e cercarono di appoggiare la sua abilità nel disegnare gli animali. Segno di un’attitudine innata che, accompagnata da una formazione scolastica all’avanguardia per i tempi, hanno lasciato dei semi che presto germinarono. Purtroppo, le opere di Ligabue realizzate negli istituti non sono state conservate. Come detto sopra i due temi principali della pittura di Antonio Ligabue sono gli animali e gli autoritratti, e devono molto all’esperienza maturata dall’artista nei suoi primi anni di reclusione all’ospedale per malati mentali. Come ricorda Martinoni, d’altronde, "la figura e l’opera di un artista è fatta di aspetti 'intrinseci' e allo stesso tempo di elementi più 'esterni' o 'complementari', ma non per questo meno profondi, che lasciano comunque meglio intendere certe implicazioni e certe dinamiche". I preziosi frammenti che questo saggio recupera dalle nebbie di un passato mai approfondito con tanta documentata devozione promettono di aprire squarci di luce sull’"impenetrabile mistero" che avvolge la genesi dell’arte di Antonio Ligabue. L’esposizione si snoda attraverso 8 sale in un corpus di 71 dipinti, 8 sculture e 13 disegni ed è la prima realizzata con la Fondazione Augusto Agosta Tota per Antonio Ligabue, a quasi un anno dalla scomparsa di Augusto Agosta Tota, che dell’artista fu amico, promotore e studioso. Le opere provengono da collezioni private, dai celebri autoritratti alla Testa di tigre del 1953 e Leopardo del 1955, dal Motociclista del 1954, alla Traversata della Siberia del 1959; dalle sculture Leone e Leonessa del 1935, a Pantera del 1938, Leonessa accucciata del 1940, fino al Busto di Gorilla del 1956; dai disegni con figure di animali all’Autoritratto a matita del 1955. Accompagna la mostra il catalogo edito da BesideBooks, con testo critico di Giovanni Faccenda, e testi di Simona e Cinzia Agosta Tota, Francesca Biagioli, Samantha Patorno e Manlio Polzella.
 
Società Promotrice delle Belle Arti di Torino
Ligabue
dal 26 Gennaio 2024 al 26 Maggio 2024
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Lunedì Chiuso