Giovanni Cardone Novembre 2024
Fino al 2 Marzo 2025 si potrà ammirare ai Musei Reali di Torino – Sale Chiablese la mostra dedicata all’arte italiana dal 1950- 1970 La Grande Arte Italiana. Capolavori della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea a cura di Cristina Mazzantini e Luca Massimo Barbero. Questa è stata resa possibile e fortemente voluta da Mario Turetta. L’esposizione è stata prodotta da Musei Reali e Arthemisia con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. La mostra, oltre a sottolineare il trentennale rapporto che la soprintendente Palma Bucarelli ebbe con un gruppo eccezionale di artisti, mette in risalto la ricchezza delle collezioni del museo romano ed esalta i 21 artisti più rappresentativi che hanno animato una stagione senza precedenti nel panorama dell’arte moderna italiana. È la prima volta che un così cospicuo numero di opere realizzate dai grandi Maestri dell’arte italiana del secondo dopoguerra esce dalle sale della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma ed entra, come un corpus coerente e organizzato, tra quelle dei Musei Reali di Torino. Esse testimoniano pur nelle talvolta diametralmente opposte modalità espressive la vivace temperie culturale italiana maturatasi tra gli anni Cinquanta e Settanta, divisa tra le ancora laceranti ferite della guerra e l’entusiasmo necessario alla ‘ricostruzione’, a cui paratatticamente rispose l’arte contemporanea. Impossibile in questa occasione non sottolineare il ruolo centrale nel dibattito artistico avuto, durante quei decenni, dalla Galleria Nazionale e, di rimando, da Palma Bucarelli, oramai ‘leggendaria’ direttrice di quell’istituzione, che ne resse le fortune dal 1941 al 1975. Senza citare i vari, già largamente noti episodi, vale comunque la pena citare quelli avvenuti attorno alla congiuntura del 1959, particolarmente sintomatici rispetto all’ accesa controversia tra astrattisti e realisti che coinvolse il mondo artistico, politico e intellettuale italiano. In quell’anno, infatti, l’onorevole Umberto Terracini avviava un’interrogazione parlamentare per conoscere l’importo speso dalla Galleria Nazionale per assicurarsi il Grande sacco di Alberto Burri.
A queste provocazioni reiterate a Bucarelli anche nel 1971 quando un’altra interrogazione parlamentare interessò la Merda d’artista di Piero Manzoni la direttrice rispose con eleganza e intelligenza aprendo, nel marzo dello stesso anno, un convegno intitolato Rinnovamento delle arti in Italia e il contributo della Galleria Nazionale d’Arte Moderna che, invitando a parlare i più eminenti critici del tempo, pose il museo romano al centro di un dibattito fattivamente costruttivo in merito all’accesa querelle tra astrattisti e figurativi che la politica, invece, stava svuotando di significato. Questa ferrea volontà e convinzione verso le ragioni della contemporaneità portarono poi nel 1968 a inaugurare, da parte di Palma Bucarelli, uno degli allestimenti più noti della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che è ancora oggetto di studio da parte della museologia e che aveva nelle sale monografiche dedicate ad Alberto Burri, Lucio Fontana, Ettore Colla e Giuseppe Capogrossi uno dei suoi momenti principali. Questi artisti, infatti, furono in qualche modo i ‘campioni’ della modernità dell’arte italiana del secondo dopoguerra, punto di avvio di infiniti altri filoni di ricerca che, talvolta, arrivarono a confutare del tutto le tesi di partenza su astrazione e informale – motivo per cui proprio le loro opere aprono la presente esposizione. Ma come si è voluto dimostrare nell’articolazione di questa mostra, le collezioni della Galleria Nazionale e le sue politiche di acquisizione non si cristallizzarono con il 1968. Già l’anno successivo, infatti, con l’ingresso di Lux9 di Nicolas Schoffer e l’allestimento di ben quattro ambienti dedicati all’arte cinetica e programmatica nelle quali è impossibile non rilevare l’influenza di Giulio Carlo Argan, con il quale Bucarelli si confrontava fin dagli anni di studio la Galleria Nazionale provocò la reazione di artisti attivi nella Capitale, critici rispetto alle ricerche di matrice gestaltica come Mario Schifano, Giosetta Fioroni, Gastone Novelli, Mimmo Rotella, Tano Festa o Giulio Turcato. A questi artisti nella presente esposizione è dedicato ampio spazio, proprio a testimonianza di quel particolare milieu culturale capace di generare una ‘nuova mitologia’ dell’arte italiana -, come anche di Piero Dorazio e Luigi Boille che, platealmente, il 28 marzo 1968 rimuovevano le loro opere dalle pareti per donarle agli studenti di Valle Giulia accusando la Galleria Nazionale di voler nascondere “sotto un velo di apparente modernità […] un ordine che è sempre lo stesso”. Anche se in opposizione, però, quello con questa nuova generazione di artisti non fu una chiusura, bensì un dialogo Dorazio stesso, più tardi, ammise “che l’unico critico a quell’epoca che cercasse di capire l’importanza di quanto facevamo e dicevamo era Palma Bucarelli” che sapeva far propri i vocaboli più nuovi dell’arte e configurarsi come un vero e proprio laboratorio del contemporaneo. La Galleria Nazionale, prima di qualsiasi museo nazionale, fece infatti entrare nelle sue sale i quadri specchianti di Pistoletto, le corrosive critiche al potere costituito di Franco Angeli, le provocazioni di Piero Manzoni e, a meno di un anno dal suo tragico incidente in motocicletta, l’opera di Pino Pascali. Il suo lavoro chiude significativamente la presente mostra anche in virtù dell’essere stato un punto di avvio per quella situazione artistica che si riconobbe nella definizione di Arte Povera, che ebbe proprio qui, a Torino, un suo luogo d’elezione – con un’importante monografica grazie alla quale Bucarelli poté celebrare anche la capacità anti-museale che era riuscita a costruire all’interno della Galleria Nazionale, capace di smentire ed invalidare il “culto reverenziale dell’oggetto d’arte fatto per l’eternità”. Così, il percorso di questa mostra vuole consegnare al pubblico di oggi coloro che furono i Nuovi Maestri dell’arte moderna e contemporanea italiana, internazionalmente riconosciuti e capaci, attraverso la loro opera, di segnare profondamente il XX secolo. Una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Palma Bucarelli e sugli artisti del tempo apro il mio saggio dicendo : La vita di Palma Bucarelli è legata in modo imprescindibile alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nelle cui sale «aspetto pubblico e aspetto privato dell’esistenza trovavano per lei un’unione naturale» . Personaggio in vista nell’ambiente culturale e nella Roma mondana degli anni Cinquanta e Sessanta, Bucarelli ha saputo svolgere, con eleganza e tenacia, l’arduo compito di Direttrice di un museo da riportare in auge dopo anni di direzioni “nazionaliste”. Palma Bucarelli nasce il 16 marzo 1910 a Roma, dove i genitori, di origini siciliane, si erano traferiti in seguito al terremoto di Messina del 1908. Dopo un’infanzia all’insegna di spostamenti continui, a causa del lavoro del padre, inviato da una prefettura all’altra lungo tutta la penisola, nel 1921 la famiglia di Palma si ristabilisce definitivamente a Roma. Qui Bucarelli frequenta il Liceo Classico e, in seguito, l’Università di Lettere alla Sapienza. Assiste con interesse alle lezioni di Adolfo Venturi, fondamentali per la sua formazione, ma si laurea con il medievalista Pietro Toesca con una tesi sul manierista tosco-romano Francesco de’ Rossi detto Il Salviati, approfondendo gli affreschi sulle Storie di David a Palazzo Sacchetti. Il suo lavoro viene subito pubblicato e le consente l’accesso alla scuola di perfezionamento. Nel 1933, a soli ventitré anni, vince il concorso del Ministero per l’Educazione nazionale per nuovi ispettori alle Antichità e alle Belle Arti e viene assegnata alla Galleria Borghese, diretta da Aldo De Rinaldis. Tra i vincitori del concorso ci sono anche: Fernanda Wittgens, Bruno Molajoli, Guglielmo De Angelis d'Ossat, Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan, con il quale condividerà mezzo secolo di battaglie per l’arte contemporanea e per la Galleria, e una relazione, non solo intellettuale, che «lascerà un segno decisivo nella storia dell’arte e della critica italiana» . Questi giovani di talento si ritroveranno uniti, in seguito, nel compito di difendere e ricostruire il patrimonio culturale italiano durante e dopo la guerra. Nel 1936, nonostante l’ottimo lavoro svolto nella compilazione del catalogo delle opere e nella revisione di alcune attribuzioni, viene trasferita alla Soprintendenza alle Gallerie di Napoli. Dietro questo trasferimento si celano, molto probabilmente, motivazioni personali dovute a una certa rivalità, sul piano lavorativo e privato, tra Bucarelli e la moglie, e segretaria, del Direttore della Galleria Borghese. Malgrado la disposizione del ministero fu tanto improvvisa, quanto non gradita, l’ambiente culturale napoletano offrì a Palma la possibilità di partecipare ai salotti di Benedetto Croce a Palazzo Filomarino, e di entrare in contatto con gli intellettuali amici del filosofo. L’ambiente lavorativo non la soddisfa, si sente sottostimata e, quando può, fugge verso la sua amata Capri per rincuorarsi. Gli anni a Napoli coincidono con l’inizio della sua relazione, dapprima tenuta segreta sotto le sembianze di un rapporto amichevole, con il giornalista Paolo Monelli, più anziano di lei di circa vent’anni. «Un uomo estremamente affascinante ed elegante, un grande conversatore ed un profondo conoscitore della lingua italiana» , conosciuto durante una vacanza sullo Stelvio nel luglio 1936. Paolo, sempre premuroso nei suoi confronti, sapendo della situazione snervante che la metteva a dura prova, prima le regalò una Topolino con cui viaggiare tra Roma e Napoli e, successivamente riuscì a garantirle il ritorno a Roma, grazie alle sue conoscenze tra i vertici del fascismo. Difatti, fu una lettera di Monelli al ministro Bottai, il quale per promuovere la tutela dei beni artistici e del paesaggio aveva in programma un riordino delle soprintendenze, a sbloccare la situazione. Nella lettera Monelli sottolinea come l’ambiente napoletano non giovi a Palma né dal punto di vista della salute, sempre precaria a causa della malaria contratta da bambina nelle valli di Comacchio, né da quello degli studi, che aveva iniziato e portato avanti a Roma; inoltre «è una ragazza intelligentissima, che messa in condizioni di lavorare senza preoccupazioni può rendere moltissimo; è anche così carina che è dovunque un lustro per la sua classe, altrimenti così squallida d’aspetto». Nel 1937 viene dunque destinata alla soprintendenza alle gallerie e alle opere d’arte medievali e moderne del Lazio, dove si occupa delle schede per il catalogo generale e delle direzioni di alcuni restauri.
Nel dicembre 1939 avviene però il suo ultimo e definitivo trasferimento: è nominata unica ispettrice di ruolo presso la soprintendenza alla Galleria Nazionale Moderna, allora diretta da Roberto Papini. Sono anni difficili per la Galleria, sulla quale il regime fascista riesce ad allungare le mani organizzando mostre di partito che sfuggono dal controllo sia di Papini che della Bucarelli. I loro rapporti, inizialmente buoni, si complicano e le loro visioni dell’arte risultano essere opposte portando inevitabilmente allo scontro tra i due: Palma vorrebbe partecipare alle commissioni per gli acquisti alla Biennale, e soprattutto aggiornare la raccolta ancora orientata prevalentemente sull’Ottocento; Papini non le lascia invece molto spazio, fino a quando venne chiamato alle armi nel 1940. Durante la sua assenza Bucarelli si prende alcune libertà nell’acquistare opere che testimoniano l’arte più attuale, ad esempio il Ritratto del maestro Busoni di Boccioni e il David bronzeo di Mirko Basaldella; tali libertà non saranno gradite particolarmente dal direttore al suo rientro, ma, nello stesso tempo, salteranno subito all’occhio durante la mostra degli ultimi acquisti nel gennaio 1941. Dopo una non proprio nascosta lotta sul piano intellettuale e burocratico, Papini viene trasferito all’Università di Firenze. Bucarelli diventa perciò direttrice della Galleria, senza un vero e proprio passaggio di consegna ufficiale che fa sì che la sua nomina rimanga, ancora oggi dopo i suoi trentacinque anni di servizio, un mistero. Il suo arrivo in Galleria, già abbastanza burrascoso, coincide con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Il ministro Bottai richiede a tutti i soprintendenti dei dettagliati rapporti, corredati di fotografie, per accertarsi che le opere siano al sicuro; così, anche Bucarelli deve pensare a come proteggere il patrimonio della sua Galleria. Decide di trasferire tutto il possibile a Palazzo Farnese di Caprarola, luogo delle sue villeggiature estive da bambina. Dirige i lavori di imballaggio e spostamento di circa trecento opere, dalle più grandi, come Il Voto di Michetti, alle più fragili, come le sculture di Medardo Rosso, redigendo minuziosi inventari e seguendo da vicinissimo i lavori. «Tra il 5 ottobre ’41 e il 26 giugno ’43, Bucarelli si sposta di continuo tra Roma e Caprarola, per vigilare sulla collezione e prelevare le opere più piccole, da esporre nelle mostre che la Galleria continua a organizzare» , anche per controbilanciare quelle allestite dal regime, il quale occupa ancora la maggior parte delle sale. A Valle Giulia rimangono solo le opere intrasportabili, come l’imponente Ettore e Lica di Canova, protette da impalcature in legno e sacchi di sabbia. Roma è bombardata e con lo sbarco degli alleati in Sicilia la guerra si sposta anche sulle alture. Molte delle opere ricoverate in luoghi creduti fino ad allora sicuri ora corrono il rischio di essere trovate, saccheggiate o danneggiate. Palma Bucarelli, come molti altri dei soprintendenti italiani che hanno nascosto il patrimonio che è stato loro assegnato, si trova a dover eseguire un nuovo trasferimento: questa volta le opere partono, di notte, sfidando i bombardamenti, alla volta di Castel Sant’Angelo. Papa Pio XII ha esteso le misure adottate per archivi capitolari e biblioteche ecclesiastiche a tutte le opere d’arte, le quali trovano dunque posto in territorio neutrale sotto la protezione delle autorità vaticane. Durante la guerra Bucarelli è “fuori servizio” poiché ha rifiutato l’ordine del regime di andare a Padova; non riceve lo stipendio, ma si reca ugualmente tutti i giorni in Galleria distribuendo di nascosto volantini antifascisti stampati di notte con Monelli ed altri colleghi nella redazione del «Messaggero». Il 5 giugno 1944 gli americani entrano a Roma, la città viene liberata. La nuova Direttrice desidera mostrare al più presto il lavoro svolto negli ultimi anni e la «volontà più viva di opporre al rumore dei cannoni quello della cultura, benché si tratta di una cultura che deve lottare a lungo per essere legittimata» . Perciò, anche con l’obiettivo di far conoscere agli alleati e al mondo la più recente arte italiana, nonostante la guerra non sia del tutto terminata, inaugura il 10 dicembre 1944 l’Esposizione d’arte contemporanea 1944-45. Recupera circa undici sale ed espone duecento opere delle tendenze più avanzate della collezione: accanto ai lavori di Boldini, Martini, Carrà, Rosso, Casorati, Morandi, Sironi e Mafai, figura la linea più innovativa di Afro, Birolli, Leoncillo, Scialoja, Scipione e Mirko. La rassegna non è completa poiché molte opere straniere si trovano a Ca’ Pesaro, per volontà della precedente direzione, mentre opere italiane sono rimaste in via preventiva al MoMA di New York, dove si trovavano in occasione dell’Esposizione Universale del ‘39 prima che iniziasse la guerra, e dove rimarranno fino al ‘45; ma, nonostante la scelta audace e le numerose polemiche, l’esposizione che «doveva essere il fallimento di Palma fu invece il suo trionfo. Essa aveva fatto da sola una rivoluzione o per meglio dire l’aveva consacrata» . Ora può dare inizio alla riforma che ha in mente. Con l’aiuto di Argan e di Lionello Venturi, Palma Bucarelli trasformerà il museo di Valle Giulia da semplice contenitore di opere a centro di cultura internazionale; provvisto di biblioteca, archivi e di un ricco calendario di conferenze, attività didattiche, realizzate spesso di domenica mattina per permettere a studenti e lavoratori di partecipare, ed esposizioni con l’obiettivo di colmare il ritardo culturale del pubblico italiano e ad avvicinarlo all’arte contemporanea, in vista delle grandi mostre in progetto per il futuro. I primi anni di attività della nuova direttrice sono all’insegna della ricostruzione del tessuto dell’arte contemporanea in Italia, per fare ordine sulla situazione artistica attuale e, come fu anche per le prime Biennali del dopoguerra, per aggiornare culturalmente un pubblico rimasto isolato a causa dell’autarchia fascista. Ciò fu possibile grazie al progetto di Palma di rendere la Galleria un’istituzione spiccatamente didattica, ma anche un “museo militante” al fianco dei giovani artisti, come dimostra istituendo premi di incoraggiamento e ospitando le mostre annuali dell’Art Club. Nata a Roma nel 1945 dalla collaborazione del pittore polacco Joseph Jarema con Gino Severini e l’exfuturista Enrico Prampolini, l’Art Club fu un’associazione artistica con sede in Via Margutta con l’intento di promuovere il meglio dell’avanguardia e supportare i più giovani ponendosi come luogo di incontro tra artisti di nazionalità, oltre che di generazioni, diverse. Data la sintonia di propositi, la Direttrice apre loro le porte della Galleria ospitando, tra le altre, la mostra Arte astratta e concreta in Italia nel 1951, a riprova di come Palma si stesse schierando, non solo dalla parte degli artisti più giovani, ma anche dalla parte della pittura non figurativa in quella che sarà la disputa tra astrattisti e realisti che caratterizzerà tutti gli anni ’50. Per quanto riguarda l’aspetto educativo del museo, fondamentale è l’intervento di Lionello Venturi, tornato in Italia nel 1945 dall’esilio in America per aver rifiutato di giurare fedeltà al fascismo. Venturi vede subito nella Bucarelli una possibile alleata nella lotta per l’affermazione dell’“arte nuova”; ne ammira il coraggio e la determinazione, ma nello stesso tempo «prova affetto anche per quella donna pallida e nervosa che gli crea qualche preoccupazione: gli sembra troppo assorbita da un compito più grande di lei» . Così, con l’appoggio e la collaborazione di Venturi e Argan, Palma crea un denso programma all’insegna di: mostre, documentari, cicli di conferenze tenute dai più importanti critici e intellettuali del tempo, attività didattiche, collaborazioni con scuole e Università, che si succedono dal 1945 al 1952 fino ad assumere carattere stabile e continuo. Esemplare è la mostra del 1946 sui maestri francesi dell’Impressionismo, nella quale erano esposte riproduzioni in stampa dei capolavori di Manet, Monet, Degas e alcune opere originali dalla collezione personale di Venturi. Nel 1952 Bucarelli si trasferisce nell’appartamento della Galleria per organizzare meglio il proprio lavoro e «per poter dare dei ricevimenti in un salone spazioso, quando veniva qualche personalità» , ne diede uno «per Cocteau, uno per Dalì, un altro per Calder c’era tutto il mondo intellettuale della capitale e Monelli si sfogava a fare i suoi famosi cocktail» . Nello stesso anno si tiene la prima delle mostre monografiche che porteranno la Galleria al centro del panorama culturale italiano e, nel contempo, all’interno del circuito museale internazionale: la retrospettiva di Alberto Savinio, a solo un mese dalla morte dell’artista. L’amicizia con il pittore era piuttosto intensa, come la sfumatura particolare del carattere di Palma che Savinio aveva colto nel ritrarla: «L’accentuazione che ne fa non è certo esteticamente lusinghiera, è però acuta: i capelli sembrano un groviglio di spine, il volto è di rapace, ma è un tratto estremamente espressivo» . Il dipinto, considerato quasi “premonitore” della durezza che le costerà il ruolo di direttrice, aveva il suo posto d’onore nello studio tra i ritratti con cui i grandi pittori, amici di Palma, la omaggiarono. Non altrettanto sereno era invece il rapporto con il fratello Giorgio De Chirico, il quale non condivideva l’orientamento filo-astrattista della Bucarelli, soprannominandola persino “l’amazzone delle croste”, e criticava la sua gestione della Galleria mettendo in dubbio la sua competenza e l’attenzione negli acquisti. Nel 1953 è il turno di Picasso, la prima grande mostra personale in Italia, l’unica dedicata ad un artista vivente in Galleria. Negli anni a seguire Bucarelli incrementa notevolmente l’attività espositiva, sfruttando anche il successo mondano della Roma anni Cinquanta, presenta le retrospettive dei più importanti maestri sia italiani che internazionali: Scipione, Gino Rossi ,Mondrian , con allestimento di Carlo Scarpa; Pollock. Kandinskij , Hans Richter,Le Corbusier, Modigliani, Malevi? ,Henry Moore , Enrico Prampolini , Mark Rothko , Pino Pascali ,Paul Klee , Ettore Colla , Piero Manzoni , Giacomo Balla , Giorgio Morandi ,Giuseppe Capogrossi. Alle mostre monografiche alterna esposizioni delle migliori opere di arte italiana contemporanea nei più grandi musei all’estero e, in sede, mostre collettive da collezioni pubbliche o private, italiane e internazionali, tra le quali: Pittori moderni della collezione Cavellini (1957); Capolavori del Museo Guggenheim di New York (1958); Il gruppo De Stijl–l’arte olandese (1960-‘61); Bauhaus (1961). Tenendosi in contatto con i colleghi stranieri, con i quali condivideva i programmi espositivi, Palma riesce a contenere i costi facendo circolare le grandi mostre per l’Europa, dividendo quindi le spese fra i vari musei interessati. È evidente dunque come le esposizioni che si succedono in Galleria fino al 1975 «rappresentano la volontà della Bucarelli di sancire il moderno e di aggiornare e rilanciare il ruolo propositivo e critico della Galleria» ma, mentre i lavori di Picasso e di Pollock mettono d’accordo gli astrattisti e i più irremovibili dei figurativi, come Guttuso e Trombadori, altre esposizioni scatenano grossi scandali, alzando polveroni di polemiche da parte di critici, giornalisti, ma soprattutto politici. Infatti, per difendere la sua scelta di realizzare un museo indirizzato alla documentazione dell’arte più attuale, Bucarelli si trova spesso al centro di critiche e accuse riguardo alle sue “tendenze astrattiste” che, secondo il parere di giornalisti e artisti, per la maggior parte di sinistra e accaniti sostenitori del realismo, si riflettono sulla gestione della Galleria e delle esposizioni, penalizzando le correnti figurative e gli artisti italiani e causando lo sperpero di denaro pubblico per l’acquisto di opere di dubbio valore. Nel 1959 il critico Virgilio Guzzi, ostinato “nemico” di Palma, fa scoppiare lo scandalo dei falsi Modigliani. Guzzi visita la mostra dedicata all’artista prima dell’inaugurazione e individua due falsi, costringendo così Bucarelli a rimuoverli dalle pareti per evitare inconvenienti. Ma le polemiche arrivano comunque, poiché i dipinti erano presenti nel catalogo ufficiale curato dal critico Nello Ponente e ormai già stampato. Così, accusata di essersi affidata a persone non qualificate per la costruzione di una mostra così importante, e di non aver riconosciuto i falsi, Palma si difende in modo diplomatico: la stampa era arrivata ad allestimento non concluso, dunque i quadri dovevano essere ancora controllati; inoltre i due presunti falsi provenivano da «due stimate galleria di Zurigo e Parigi e hanno partecipato a rassegne importanti» . In ogni modo Guzzi ottiene l’effetto contrario di quello desiderato: le polemiche fecero grande pubblicità alla mostra, che registrò un notevole successo. Nel 1959 scoppia anche il “caso Burri”, a causa dell’esposizione in Galleria del Grande Sacco , che mette d’accordo, nel dissenso, politici di destra e di sinistra.
Nonostante le opere di Burri siano già state esposte in Galleria, nelle collettive di arte astratta e concreta e nelle mostre annuali dell’Art Club, questa volta la polemica arriva fino in Parlamento. L’onorevole Umberto Terracini, esponente del P.C.I., presenta infatti un’ingiunzione parlamentare chiedendo quale fosse la cifra pagata «per assicurarsi la proprietà della vecchia, sporca e sdrucita tela da imballaggio messa in cornice da tale Alberto Burri» L’opera di Burri, già riconosciuto ed apprezzato come uno dei più originali artisti del momento dalla critica internazionale e da musei del calibro del MoMA del Guggenheim di New York, era esposta in quanto prestito dell’artista; nel 1964 verrà donata, insieme ad altre, per poterla presentale a alla Biennale di quell’anno nella sezione “Musei d’oggi” tra le più recenti acquisizioni della Galleria. Dunque lo Stato non pagò affatto per un’opera, all’epoca, valutata ben due milioni di lire; tanta polemica fu nuovamente sintomo di uno scandalo, non del pubblico, ma di una classe dirigente con una mentalità ancora poco aperta all’arte più innovativa. Tra il 1955 e il 1956, invece, tornano in Galleria, ad arricchire la collezione internazionale, le opere acquistate dallo Stato alle Biennali di Venezia dal 1909 agli anni Trenta. Tali opere, per una convenzione firmata nel 1934 dall’allora direttore Roberto Papini, erano state spostate da Roma alla Galleria Nazionale d’arte Moderna di Venezia. Secondo i criteri dell’epoca fascista, infatti, la Galleria veneziana di Ca’ Pesaro si prestava meglio ad ospitare opere venete e straniere, dato il carattere internazionale della città di Venezia; mentre nella Galleria di Roma era più opportuno esporre le opere dei maestri italiani, non veneti. Perciò la Direttrice richiede le opere in quanto cedute per criteri “nazionalistici” lontani ed estranei al suo concetto di museo moderno, nel quale si percepisce ancora la mancata rappresentanza dei movimenti internazionali. Tuttavia, il gruppo di lavori che arrivano da Ca’ Pesaro è consistente, ma non eccellente; fatta eccezione per Le tre età di Klimt e un dipinto di Utrillo. Nel 1960 viene stanziato un fondo speciale di 500 milioni di lire, da spendere in tre anni per gli acquisti della Galleria Nazionale. Con tale somma Bucarelli decide di acquistare, sotto consiglio e supporto di Argan, Arlesiana di Van Gogh, Ninfee rosa di Monet, Nudo sdraiato di Modigliani presso la Galleria Malborough di Londra; e un particolare acquerello di Cezanne, dipinto su entrambi i lati intitolati rispettivamente Sentiero tra le rocce e Paesaggio con lago, valutato con attenzione da Venturi e acquistato per 20 milioni di lire. Nonostante Bucarelli sia riuscita ad ottenere opere di artisti di notevolissima importanza, di cui la Galleria risultava manchevole, alla mostra delle recenti acquisizioni del 1962 non mancheranno le solite critiche che le contestano di aver utilizzato male il denaro messo a sua disposizione, acquistando opere minori e datate e concentrando troppo la sua attenzione sulle opere degli stranieri. Inoltre viene accusata di aver trattato solo con la Galleria Malborough, quando in realtà risultava l’unica disposta ad attendere i tempi della burocrazia italiana. A causa di queste aspre polemiche l’operato della Bucarelli è nuovamente messo in cattiva luce, e il Ministero decide di destinare ad altro i 200 milioni ancora non spesi. Nel 1961 muore Venturi, sconvolgendo le vite della Bucarelli e di Argan. L’affinità tra i due si andava consolidando dai tempi del ricovero della Bucarelli a Losanna nel 1959, in seguito agli svenimenti e alle crisi di emicrania durante le interviste nello studio di Fautrier a Parigi. Il vuoto lasciato dalla morte del professore li avvicina ancor di più, sia professionalmente che nella vita, malgrado molte voci li considerino protagonisti di una sorta di “lobby dell’arte”, con interessi anche economici. Palma è ormai una donna di grande successo, ma «è la sua parte privata e più umana a restare incompiuta. In quel momento di fragilità fisica e psicologica dovuta a eccesso di lavoro e al ritmo serrato di mostre e polemiche, Argan arriva giusto in tempo» . Dopo la morte di Venturi affrontano «l’onore e il rischio della prima linea» per portare avanti l’eredità del grande critico, «guidare la sua scuola, mantenere l’armonia tra i suoi allievi e sostenerli con giustizia, e proseguire la sua battaglia per l’arte moderna» , di cui Argan considera Bucarelli “la vera eroina”. Palma romperà il silenzio riguardo la loro, fino a quel momento solo presunta, relazione solo nel 1997 durante un’intervista al Giornale. Negli anni Sessanta Palma Bucarelli è all’apice della sua attività e, al tempo stesso, al principio della sua fase discendente sia sul piano fisico, dopo il ricovero nella clinica di Losanna, sia su quello umano e intellettuale. È un periodo difficile per Palma, già da qualche tempo le sue precarie condizioni di salute e il lato più fragile della sua personalità, celati dietro una corazza di donna autorevole ed autoritaria, dietro a «un pessimo carattere, che qualcuno definisce addirittura infernale» , stentano a rimanere nascosti. Grazie agli incoraggiamenti e alla complicità intellettuale di Argan, Palma porta a termine la monografia su Fautrier, pubblicata nel 1960 con prefazione di Ungaretti. Il volume è il frutto di un duro lavoro e di lunghi e intensi incontri con l’artista, durante i quali «cominciano a sciogliersi in un momento tutti i “grumi” di quell’anno intenso che non le ha dato tregua, prima con le polemiche sull’astrattismo e sui falsi di Modigliani, poi con le interrogazioni parlamentari per aver esposto il Grande Sacco di Burri» sarà forse «l’esperienza che ha più inciso nella sua avventura di storica dell’arte. In fondo con Fautrier Palma ha scoperto parti di sé stessa che non aveva mai esplorato prima» . Nello stesso anno, poco prima dell’uscita dello scritto, il “maestro dell’informale” vince ex aequo con Hartung il Gran premio per la pittura della Biennale, alla quale era stato invitato e presentato in catalogo, suscitando non poche polemiche e perplessità, dalla stessa Bucarelli. Il 1961 è l’anno del viaggio negli Stati Uniti, dove tiene conferenze alla Colombia University e all’Istituto Italiano di cultura di New York; visita musei e collezioni private; intrattiene importanti colloqui con artisti e personalità della cultura americana, come la vedova Tanguy, Hans Richter e Walter Gropius, con il quale parla di un possibile progetto di ampliamento della Galleria che poi sarà assegnato a Luigi Cosenza.
Nel 1962 esce la monografia di Giacometti per la collana di Editalia Maestri del XX secolo; anche lo scultore dei “colossi in miniatura” viene presentato nello stesso anno alla Biennale dalla Bucarelli, vincendo il Gran premio per la scultura. Il 27 giugno 1963, con rito civile celebrato in casa e per pochi intimi, Palma sposa Paolo Monelli; «è malato. La sua prima moglie è morta: nulla impedisce più alla Bucarelli di sposare quello che comunque considera l’uomo della sua vita» . Nel 1964 superano il concorso due nuovi collaboratori per Bucarelli: Dario Durbé e Giorgio De Marchis. Qualcosa sta nel frattempo cambiando nel panorama dell’arte: il 1964 è l’anno dello scandalo alla Biennale della Pop Art americana, che Bucarelli non ama, ma che segna in definitiva lo spostamento del centro dell’interesse artistico dall’Europa agli Stati Uniti; a Roma gli artisti di Piazza del Popolo danno vita a una declinazione tutta italiana dell’arte Pop, ma, nonostante vedano nella Galleria Nazionale un punto di riferimento istituzionale, saranno le gallerie, come La Tartaruga, L’Attico e La Salita, a seguire l’evoluzione dei nuovi giovani artisti; alla fine dei Sessanta inizia a delinearsi quella che Germano Celant chiamerà Arte Povera segnando il passaggio dell’arte contemporanea ad una nuova generazione di critici. La morte di Pascali nell’estate del 1968 sembra segnare la fine di un lungo periodo di creatività artistica e culturale, e con la retrospettiva dell’artista nel 1969 si «chiude il capitolo dei momenti migliori della Galleria, cui seguiranno del ’72 e nel ’74 quella di Manzoni e Capogrossi» . Pascali muore tragicamente, poco più che trentenne, in un incidente il 30 agosto 1968. Nello stesso anno Palma lo aveva presentato alla Biennale, la stessa a cui l’artista si ribella aderendo alle manifestazioni di protesta che animarono quella particolare edizione. Nonostante la morte improvvisa Pascali vince il Gran premio per la scultura. Seppure turbata dal drammatico avvenimento, la Direttrice organizza subito una mostra per omaggiare il giovane artista che ha sempre sostenuto, evitando anche la dispersione delle sue opere, molte delle quali saranno donate successivamente alla Galleria dai genitori di Pascali. Nel 1971 Palma viene messa nuovamente a dura prova dall’ennesima interrogazione parlamentare, questa volta presentata dal deputato democristiano Guido Bernardi durante la grande retrospettiva di Manzoni tenutasi in Galleria nel 1971. Curata da Germano Celant e progettata in un momento di inquietudine e cortei che animavano tutta Italia, l’esposizione sembra essere «una provocazione perfetta, in sintonia con i tempi, intonata agli ideali della gioventù ribelle. Manzoni, morto a trent’anni, la sua giovinezza l’ha bruciata nell’ideale dell’arte». Bernardi, però, non riesce a percepire l’aspetto dissacrante dell’opera di Manzoni nei confronti della società dei consumi e di un mercato dell’arte in cui si compra “a scatola chiusa”, ma vede solo il contenuto scandaloso delle celebri scatolette di Merda d’artista o “m...d’artista”, come i giornali dell’epoca si limitavano a scrivere facendo sorridere Palma. L’invettiva, rafforzata dagli articoli di Trombadori, anche se decisamente grottesca e scurrile, risulta in realtà estenuante per Palma, la quale, attaccata direttamente sulle sue posizioni a pochi anni dalla fine del mandato, risponde lamentando l’ignoranza di molti parlamentari sulle pagine di Panorama che le costeranno una querela. Argan corre in suo soccorso, promuovendo una campagna a favore della Galleria: scrive lettere a vari politici e direttamente al ministro Riccardi Misasi; riunisce docenti universitari, critici e artisti che firmano e inviano alla stampa un documento in difesa della direttrice; le suggerisce come muoversi. Il caso verrà archiviato nel 1974 e Bucarelli prosciolta poiché non era stato speso denaro pubblico per esporre le opere, date in prestito (e in seguito anche donate) dalla madre dell’artista e dai collezionisti, inoltre fu riconosciuta alla Galleria la legittimità della mostra. Ancora una volta una questione artistica diventa politica, dimostrando la debolezza culturale della classe dirigente di un’epoca «dominata da un forte “idealismo”, “accademismo” per cui l’essere concreti si scontrava inevitabilmente con l’astrazione dei curatori-ricercatori». Il mandato della Bucarelli sta per giungere al termine, ma, anche in questi ultimi anni non mancherà di spingere il suo museo sul fronte dell’avanguardia, come testimoniano le quattro sale allestite con i lavori, in gran parte acquistati alle Biennali veneziane, di arte cinetica di: Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Günter Uecker, Julio Le Parc, Rafael Soto e Nicholas Schöffer. Tra dicembre del 1974 e febbraio del 1975, un’ultima grande mostra: la retrospettiva di Giuseppe Capogrossi. «È una pagina di storia dell’arte, che lei dedica alla sua generazione», oltre che una rassegna completa dell’opera di un grande amico; a partire dai dipinti ancora figurativi che pur, ammette lei stessa nel catalogo, l’artista avrebbe preferito non vedere esposti con le sue successive creazioni non figurative nelle quali aveva «trovato la libertà, la felicità, la pienezza del proprio essere, l’espressione diretta del proprio esistere» . Il 16 marzo 1975 Palma Bucarelli compie 65 anni e lascia, per raggiunti limiti di età, il suo ruolo di soprintendente, ma non la Galleria. Nell’aprile dello stesso anno il presidente della Repubblica Giovanni Leone le conferisce l’onorificenza di Grand’Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica. Rimarrà nel suo appartamento a Valle Giulia, ufficialmente per seguire i lavori dell’ampliamento dell’ala Cosenza, fino alla morte di Monelli nel 1983, quando sarà costretta al trasloco nella casa in via Ximenes, nella quale giungerà solo negli anni Novanta dopo una parentesi di ricovero in una clinica napoletana e di permanenza presso la sorella Anna. Nella sua nuova abitazione, con l’aiuto di Lorenzo Cantatore e Luciana Bergamini, si occupa del riordino della sua eredità: l’archivio personale, che donerà interamente all’Archivio Centrale dello Stato; la biblioteca, che cederà all’ Academia di San Luca; i celebri abiti da sera confezionati per lei da grandi stilisti dell’epoca, dalle sorelle Fontana a Schubert, che troveranno posto nel museo Boncompagni Ludovisi. Sempre con la collaborazione di Cantatore nel 1997 pubblica il suo diario del periodo di guerra 1944. Cronaca di sei mesi. Infine, nel 1998, poco prima di morire, Palma dona la sua personale collezione al museo. Cinquantotto opere, prevalentemente omaggi diretti degli stessi artisti, tra cui: i famosi ritratti che di lei fecero Savinio, Turcato e Mazzacurati; cinque, tra acqueforti e acquerelli di Giorgio Morandi; cinque opere di Fautrier; due sculture in ferro e un bassorilievo di Mastroianni; e ancora opere di: Capogrossi, Scipione, Mafai, Pirandello, Scialoja, Dorazio, Rotella, Consagra, Prampolini, Hartung, Tapies, Twombly, Kandinskij, Christo, Manzù, De Pisis, Vedova, Pascali. Con il “legato Bucarelli” la sua presenza torna a farsi sentire in Galleria, diventando ufficialmente parte del patrimonio del museo. Muore il 25 luglio 1998 per un tumore al pancreas, tre giorni dopo si svolge il funerale nella chiesa di Santa Maria del Popolo tra i capolavori di Annibale Carracci e Caravaggio; così, «famosa come una diva del cinema e discussa come un uomo politico» Palma Bucarelli «saluta Roma entrando dalla porta del Popolo, l’antica porta Flaminia, dalla quale era solita arrivare» . Il percorso espositivo mette bene in evidenza le origini di quello che fu un vero e proprio “movimento artistico tellurico”. “È un percorso intenso, – dichiara Luca Massimo Barbero – e, in più sale, è un vero corpo a corpo fra i “nuovi maestri” dell’arte italiana del dopoguerra, della quale si esplorano qui le radici e, per la prima volta, è possibile confrontarli al di fuori della collezione della GNAM. Per l'arte italiana si tratta dei protagonisti germinali, oggi identificati come gli interpreti internazionali dell'allora contemporaneità.” L’esposizione, suddivisa in dodici sale, si sviluppa in un avvincente percorso che propone confronti e dialoghi intercorsi negli anni del secondo dopoguerra tra gli artisti italiani più importanti, divenuti ormai irrinunciabile riferimento nel panorama artistico internazionale. La mostra si apre con due lavori simbolici, uno di Ettore Colla Rilievo con bulloni del ‘58-59 e un altro di Pino Pascali L’arco di Ulisse del ’68; prosegue con una sala di capolavori di Capogrossi, tra cui una monumentale Superficie del 1963. Nella sala successiva viene indagato il tema della materia, elemento di ricerca fondamentale degli anni ’50, mettendo in dialogo due Concetti spaziali-Buchi di Lucio Fontana, tra cui uno del 1949, con lo straordinario “Gobbo” del 1950 di Alberto Burri, rare opere di Ettore Colla, opere germinali di Mimmo Rotella e la ricerca astratta di Bice Lazzari. Due sale mettono poi a confronto due maestri dell’astrazione: Afro e Piero Dorazio, maestri che nel secondo dopoguerra contribuirono al successo dell’arte italiana negli Stati Uniti. Il “cardine della mostra”, è il confronto tra due protagonisti indiscussi: Lucio Fontana e Alberto Burri; 11 emblematiche opere entrano in dialogo e, in particolare, si stabilisce un inedito accostamento tra il Concetto spaziale. Teatrino del 1965 del primo e il Nero cretto G5 del 1975 del secondo. Il fermento artistico e creativo che si sviluppò a Roma tra gli anni ’50 e ‘60 è rappresentato in mostra da un enorme décollage di Mimmo Rotella del 1957 e, via via, dalle opere storiche di Giosetta Fioroni, Carla Accardi, Giulio Turcato, Gastone Novelli, Toti Scialoja, Sergio Lombardo, Tano Festa. Un ulteriore inedito confronto si sviluppa tra un intenso monocromo nero di Franco Angeli e alcuni importanti Achrome di Piero Manzoni. A testimoniare poi l’importanza della Contemporaneità, un’altra sala dedicata all’ormai iconico quadro specchiante I visitatori del 1968 di Michelangelo Pistoletto e un’ulteriore alle celebri “Cancellature” di Emilio Isgrò. Il percorso prosegue con un emozionante dialogo tra alcune significative opere di Mario Schifano (tra cui Incidente D662 del 1963) e altrettanto straordinari lavori di Pino Pascali (come Primo piano labbra del ’64). Quest’ultimo, dissacrante artista concettuale, è il protagonista assoluto dell’ultima sala dell’esposizione, che presenta capolavori come Ricostruzione del dinosauro del 1966 e i Bachi da setola del 1968.
La mostra è suddivisa in dodici sezioni :
Prima sezione – Capogrossi
Se durante gli anni Trenta la pittura di Giuseppe Capogrossi si inscriveva a pieno titolo nell’alveo della pittura figurativa, a partire dal 1948 e con la sua grande rivelazione pubblica nel 1950 attraverso una personale dell’artista presso la Galleria del Secolo di Roma in cui queste opere furono svelate il pittore romano abbracciò definitivamente le ragioni dell’arte astratta. Ciò che contraddistingue l’opera di Capogrossi dall’approccio materico di Alberto Burri e dall’idea spaziale di Lucio Fontana fu la scoperta del suo caratteristico ‘segno’ che, definito talvolta dalla critica come un pettine o una forchetta, egli fu capace di modulare in infinite combinazioni. Senza mai tradirlo, infatti, il ‘vocabolo’, la singola ‘lettera’ da lui trovata, venne elaborata in tutte le maniere possibili. Ingrandendola, riducendola, stilizzandola, deformandola e mettendola in costante relazione con lo sfondo e la superfice pittorica. La novità radicale della pittura di Capogrossi lo fece ben presto assurgere al ruolo di grande protagonista internazionale dell’arte astratta. Dopo essersi fatto conoscere attraverso una serie di fondamentali mostre, dal 1958, infatti, il pittore romano veniva rappresentato negli Stati Uniti da Leo Castelli – il grande gallerista che promosse l’opera di Andy Warhol, Lichtestein e Rauschenberg – e, nello stesso anno, per interessamento diretto di Palma Bucarelli la GNAM acquistava Superfice 207 e, l’anno successivo, Superfice 335 - riunite entrambe in questa occasione - formando il primo nucleo di opere di Capogrossi del museo romano; accresciuto nel corso degli anni fino a divenire una delle più significative raccolte di opere di Capogrossi.
Seconda sezione – Gli Anni Cinquanta. Materia, meccanismo e astrazione
L’utilizzo di materiali non convenzionali alla pratica della pittura accademica, di riciclo, poveri o industriali innerva l’espressione artistica di tutti gli autori espositi in questa sala; coinvolti da quel clima di rinascita e ricostruzione che, pur tra le ancora aperte ferite della Seconda Guerra Mondiale, in Italia avviò un dialogo tra cultura umanistica e conoscenza tecnica, negli stessi anni promossa dal ‘poeta ingegnere’ Leonardo Sinisgalli tra le pagine de “La civiltà delle macchine”. È attraverso questa chiave che è dunque possibili leggere opere come gli ‘ingranaggi’ realizzati da Capogrossi in Superficie 456 e Genesi di Ettore Colla, nella quale l’utilizzo di scarti industriali evoca la possibilità di fondere armonicamente arte e industria, sottolineando il ruolo centrale della tecnologia nella società moderna. L’utilizzo di materiali poveri e industriali animò anche l’opera di Alberto Burri che assieme a Colla, Capogrossi e Mario Ballocco fondò nel 1950 il Gruppo Origine, tra le più significative esperienze dell’informale italiano. In Burri, tuttavia, l’utilizzo di sacchi di juta, plastiche, catrami e metalli diveniva lo ‘schermo’ su cui riflettere la drammatica condizione esistenziale dell’uomo. Ricerca, quella materica, che innervò anche il lavoro di Bice Lazzari durante il suo periodo informale, utilizzando assieme alla pittura a olio materiali quali la calce o la polvere di cemento (Superficie LSR 4) per consegnare a questi ultimi nuova dignità estetica e ottenere– come dichiarato dall’artista stessa “una vibrazione di luce dalla quale non potevo rinunciare”. Infine, Mimmo Rotella la cui ricerca prima che negli anni Sessanta iniziasse a comprendere anche la figura, dando un significato nuovo alla sua poetica attraverso le sue opere più famose – si mosse interamente nell’alveo della materia, e della quale la GNAM conserva alcuni fondamentali episodi. Nel suo caso, però, essa veniva presa direttamente dal vissuto quotidiano attraverso il ‘rito della lacerazione dei manifesti pubblicitari’ che, nelle sue più estreme conseguenze – visibili, ad esempio, in opere come Astratto. Lo Spirito di Dharma -, gli permetteva di ottenere quella che egli definiva “una patina gialla o giallastra”, una “geografia da diluvio” che non si affidava all’estetica “ma all’imprevisto, agli stessi umori della materia”.
Terza sezione – Afro Basaldella
Afro Basaldella fu una figura cruciale per intendere il rapporto tra la pittura italiana e il contesto dell’arte contemporanea internazionale. Già nel 1950, infatti, Afro si trovava a New York per collaborare, grazie all’intercessione dell’amico Corrado Cagli, con la Catherine Viviano Gallery, passando da una pittura neocubista a quella astratta proprio grazie all’incontro, negli Stati Uniti, con l’Espressionismo astratto americano, dal quale apprese gli automatismi legati alla gestualità della pittura. Ma la pittura di Afro rimase sensibilmente europea poiché, definita come espressione del ‘lirismo astratto’, in essa persisteva un vago ricordo dell’immagine, mai descritta, ma sempre evocata; spesso nei suggestivi titoli che l’artista diede alle sue opere. All’inizio coinvolta da valori luministici e tonali, ottenuti attraverso virtuosistiche velature (Ombra bruciata), nel corso degli anni Sessanta Afro accentua la componente gestuale (Il castello), per giungere, nel corso del decennio successivo, agli esiti ultimi della sua pittura in opere come il Grande ocra, dove le diverse tonalità sono racchiuse in campiture nette, come fossero tarsie. Una riappropriazione dell’istanza costruttivista dove il gesto, che precedentemente era stato liberatorio, diviene ora trattenuto e controllato.
Quarta sezione – Piero Dorazio
Nel secondo dopoguerra, in Italia, si sviluppò un intenso dibattito tra arte figurativa e astratta. Da un lato i figurativi, legati a una tradizione realista e impegnata politicamente come Renato Guttuso e il gruppo Corrente. Dall’altro gli astrattisti, concentrati su un'arte più concettuale e internazionale che cercava di superare i limiti della rappresentazione realistica ed esplorare nuove dimensioni spaziali e formali. Piero Dorazio fu uno dei protagonisti più attivi all’interno di questo dibattito. Dopo una breve parentesi nel gruppo Arte Sociale e la frequentazione dello studio di Guttuso, infatti, già nel 1947 l’artista romano figurava tra i primi firmatari, assieme a Giulio Turcato e Carla Accardi, del gruppo Forma 1; il quale si proponeva di conciliare l'astrattismo con l'impegno politico attraverso una sintesi tra ricerca formale e valori sociali. A questa fondamentale esperienza seguì, nel 1950, l’apertura della libreria-galleria L’Age d’Or, che, unendosi nel 1951 al Gruppo Origine, diede vita a una serie di iniziative volte – come esplicitato da loro stessi - a “educare l’uomo moderno, attraverso il mondo visivo dei suoi giorni, alla coscienza della sua natura nel proprio tempo”. Parallela alla vicenda biografica di Dorazio si mosse, chiaramente, anche la sua maturazione artistica. Natura morta del 1947, ad esempio, riflette in maniera esatta gli esordi astratti del pittore, ancora in qualche modo ancorato – specialmente nel titolo – a un’idea di soggetto che, però, viene sublimato in una serie di linee e forme astratte. Quasi all’opposto Phantazo – realizzata del resto venticinque anni più tardi (1972) - il cui titolo perde ogni attinenza a una realtà tangibile per richiamare un’idea di visione, immaginazione e apparizione. È, anche nella forma, un quadro molto differente da quelli realizzati durante gli esordi astratti di Dorazio, composto da vivide fasce di colore che, intersecandosi, creano una trama che sembra emergere e dissolversi simultaneamente, affidandosi completamente a stesure nette di colore puro.
Quinta sezione – Alberto Burri/Lucio Fontana
Sebbene Alberto Burri e Lucio Fontana abbiano condiviso entrambi l’ambizione di rompere con la tradizione artistica precedente, essi paiono a tratti diametralmente opposti nella loro poetica. Se Burri indagò la realtà della materia, per Fontana essa rappresentò solamente un mezzo utile per proiettare l’opera verso una diversa dimensione spaziale. Ciò fu certamente dovuto a una diversa sensibilità e visione del mondo - legata all’intima compassione per la sofferenza umana quella di Burri, proiettata ottimisticamente verso il futuro e intenta ad esplorare nuove dimensioni spaziali quella di Fontana – che può trovare parziale risposta nelle diverse biografie dei due artisti. Nato in Argentina, Lucio Fontana compie i suoi studi in Italia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Artista già rivoluzionario e di fama, tra il 1940 e il 1947 egli fece andò temporaneamente in Argentina, da dove ritornò portando con sé il noto Manifesto Blanco testo ove erano stati postulati, ancora in nuce, i precetti della successiva rivoluzione spazialista – assieme a nuove, sorprendenti idee. Nel 1949, infatti, Fontana stupì il pubblico presentando il suo primo ambiente spaziale, una concrezione di oggetti informali resi fluorescenti dall’uso di lampade di Wood che fu come dichiarato dall’artista – “il primo tentativo di liberarsi da una forma plastica statica”. Parallelamente agli ambienti, egli andò elaborando la serie dei Buchi, una ricerca radicale che, iniziata quell’anno, come visibile nel Concetto spaziale del 1959 esposto in questa sala lo accompagnò per un lungo periodo. L’atto di bucare la tela, come dichiarato da Fontana, rappresentava “la scoperta del cosmo e una dimensione nuova. È l’infinito, allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita.” Tuttavia, osservando opere come Concetto spaziale del 1957, composto da concrezioni di sabbia e polvere di vetro, o le Nature, poste al centro di questa sala, in Fontana non mancò un ragionamento attorno alla materia. Eppure, essa non fu mai tragica ed esistenziale come in Burri, ma attiva e vitalistica. Nelle Nature, inoltre, è possibile vedere in maniera chiara il ‘gesto’ dell’artista: il buco e il taglio. E se dell’atto di bucare si è già data spiegazione, affascinante pare il fatto che il taglio compaia simultaneamente, nel 1959, sia nelle Nature, sia nelle Attese, la serie certamente più nota di Fontana. Esse, val tuttavia la pena sottolineare, furono introdotte dall’artista nel suo corpus di opere solo quando egli aveva oramai sessant’anni, rappresentando l’esito ultimo di una ricerca decennale che ispirò in maniera profonda tutta una serie di giovani artisti che ne tributarono l’esplicito debito. Nato a Città di Castello, la formazione di Alberto Burri fu totalmente aliena a quella artistica, essendosi egli laureato in Medicina. La scelta di dedicarsi alla pittura avvenne solo più tardi durante circostanze drammatiche; ovvero la sua prigionia – durata ben 18 mesi - presso il campo di prigionia di Hereford (Texas), dove si trovava a seguito della cattura in Africa settentrionale da parte delle Forze Alleate. Rientrato in Italia nel 1946, la prima mostra personale di Burri si tenne nel luglio 1947 presso la galleria La Margherita di Roma, dove espose opere ancora figurative e vagamente tonali. Le ragioni dell’astratto furono abbracciate da lui in maniera radicale solo nel 1948 in opere dove gradualmente la materia cominciava a prendere il sopravvento sull’organizzazione formale della composizione. Da lì in avanti, Burri si addentrò sempre di più nella comprensione delle possibilità espressive della materia attraverso l’uso come visibile nelle opere qui riunite - di legni, ferri, juta, catrami e ritrovati moderni come le plastiche, il cellotex o materiali vinilici, sui quali l’artista interviene tormentandoli e lasciandovi tracce e segni che, la critica, ha spesso accostato alla sua carriera medica definendole come lacerature, saturazioni o cauterizzazioni. Egli conobbe immediata comprensione della sua poetica, non solo in Italia, ma a livello internazionale già nel 1953. Quell’anno veniva invitato a tenere una serie di mostre tra Chicago e New York, fino ad essere presente assieme ad Afro e Capogrossi – unici altri italiani - a The new decade. 22 European painters and sculptors, fondamentale esposizione organizzata nel 1955 al MoMA per la quale l’artista rilasciò una delle rare dichiarazioni in merito alla sua poetica: “Le parole non mi aiutano quando cerco di parlare della mia pittura. È una presenza irriducibile che rifiuta di essere convertita in qualsiasi altra forma di espressione. È una presenza al tempo stesso imminente e attiva. È questo il suo significato: esistere per significare ed esistere per dipingere. […] la pittura per me è una libertà raggiunta, costantemente consolidata, custodita vigorosamente per trarne il potere di dipingere di più”.
Sesta sezione – Mimmo Rotella, Giosetta Fioroni, Sergio Lombardo, Tano Festa
Nella Roma tra gli anni Cinquanta e Sessanta - coinvolta dall’entusiasmo del boom economico, la ‘dolce vita’ di Via Veneto e le colossali produzioni di Cinecittà - all’interno del suo vivace ambiente artistico e culturale iniziò a concretizzarsi attorno ad alcuni giovani artisti quello che Giorgio De Marchis, tra i primi critici ad accorgersi del fenomeno, definì “un particolare modo di procedere basato sul prelievo e sulla manipolazione quasi oggettuale di immagini tratte o trovate nel contesto culturale che ci circonda, riconoscendo in esso un carattere di realtà formulata linguisticamente […] per recuperare la possibilità di una comunicazione visuale oggettiva”. Grande bacino di queste immagini tratte o trovate nel contesto culturale che ci circonda erano in quegli anni i nuovi media e l’attualità filtrata dalla televisione, dal cinema, dai rotocalchi e dai quotidiani; sistemi di comunicazione che andarono a definire una ‘nuova mitologia’ che modificò radicalmente gli immaginari collettivi. Ciò venne percepito in maniera acuta e repentina da artisti come Giosetta Fioroni citando cinema, televisione e moda, e da Sergio Lombardo e Tano Festa integrando fotografia e attualità quale nuovo diffuso media all’interno della loro pratica pittorica. Infine, Mimmo Rotella già osservato precedentemente per la sua componente materica che contestualmente al suo ingresso assieme a Yves Klein tra la compagine dei Nouveaux Réalistes, immetteva nella sua opera la figura. Era, però, una ‘figura’ tratta direttamente dai muri, strappata dalle réclame e dalle locandine cinematografiche (Mitologia 3; Senza titolo) poiché – dichiarava l’artista – lo strappo era “la sola compensazione, l’unico modo di protestare contro una società che ha perduto il gusto del cambiamento e delle trasformazione favolose”.
Settima sezione – Carla Accardi
Le opere qui esposte testimoniano la carriera pittorica di Carla Accardi, dai suoi avvii incentrati sulla riduzione cromatica e segnica di Composizione del 1950, fino all’automatismo di Un filo d’erba del 1964, nella quale il ‘segno’ indagato precedentemente non viene rinnegato, ma diventa auto generativo. Questa maturazione, del resto, segue le vicende biografiche di Accardi. Nata a Trapani e diplomatasi all’Accademia di Palermo, Accardi nel 1947 fonda il Gruppo Forma 1 - assieme, tra gli altri, a Piero Dorazio, Giulio Turcato e Antonio Sanfilippo, che sposa nel 1949 - proclamandosi “formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano inconciliabili”, in un particolare periodo storico nel quale il PCI dichiarava la sua aperta avversione verso l’astrattismo perché sentito come un’arte elitaria e distante dalla realtà sociale e politica del proletariato. La vicenda biografica di Accardi, del resto, fu segnata a lungo dall’impegno politico, figurando, ad esempio, tra le fondatrici, assieme a Elvira Banotti e Carla Lonzi, del gruppo Rivolta Femminile, tra i primi collettivi femministi organizzati e coordinati in Italia. Per via della sua centralità, Accardi è divenuta negli ultimi decenni una figura centrale per comprendere il percorso artistico del secondo dopoguerra. La sua opera, infatti, ha attraversato con coerenza tutte le esperienze dell'arte contemporanea. Abbandonato il gruppo Forma1, a partire dagli anni Cinquanta entra in contatto con il gruppo milanese del Movimento Arte Concreta, opponendosi all'astrazione lirica a favore di un orientamento strutturalista e geometrico, mentre nella seconda metà degli anni Sessanta Accardi si avvicina all'Arte Povera e, recentemente, il suo lavoro è stato celebrato con grandi mostre antologiche che ne hanno riaffermato l'importanza storica e artistica.
Ottava sezione – Gastone Novelli, Giulio Turcato, Toti Scialoja
I confronti presenti in questa sala mostrano artisti che ridefinirono, pur in continuità con le ricerche precedenti, i confini dell’astrazione attraverso maniere talvolta inaspettate, aprendo al contempo a ciò che elaboreranno le più giovani generazioni di cui questi artisti furono maestri. Valga, come esempio, il caso di Toti Scialoja insegnante presso l’Accademia di Belle Arti di Roma a figure quali Carlo Battaglia, Mario Ceroli, Pino Pascali e Jannis Kounellis, che spesso lo hanno ricordato come importante guida per il loro percorso artistico. Nella sua attività pittorica, Scialoja fu interessato dal rapporto tra automatismo e gestualità; con possibili interessanti riscontri all’interno della sua opera poetica. Ma se in Scialoja pittura e scrittura rimasero sempre distinte, nell’opera di Gastone Novelli , invece, queste si fondevano tra loro (Poetry Reading tour). Tra i più importanti esponenti italiani di un nuovo modo di intendere l’arte visiva, Novelli faceva collimare nella sua pittura scritte e segni che non erano né figurativi, né puramente astratti, ponendosi come ponte tra realtà e immaginato. Infine, Giulio Turcato, esponente prima del Gruppo Forma 1 e, successivamente del Gruppo degli Otto - di cui rappresentò probabilmente l’anima più sperimentale fu interessato a portare avanti le ricerche espressive date alla pittura con la scoperta dei nuovi materiali non convenzionali, spesso oggetti quotidiani, abituali e consueti, giungendo a nuovi inaspettati esiti. Se opere come Composizione con tranquillanti e Ricordo di New York integrano nella tela farmaci, carta copiativa e polveri, in Composizione (Superficie lunare) Turcato interviene anche sulla superficie che doveva accogliere la pittura, evocando il suolo del satellite attraverso una stesura minima di acrilico su di un materiale industriale come la gommapiuma.
Nona sezione – Franco Angeli a confronto con Piero Manzoni
“Mi incuriosivano i Catrami [di Burri], con il loro nero su nero e m’interrogai spesso sulla possibilità di lavorare su un unico colore: scoprii in tal modo che anche un quadro monocromo non è poi di un «solo colore» ma al contrario può avere una superficie dinamica, movimentata da variazioni, trasparenze, se la stesura è data in modi differenti”. Così si esprimeva Franco Angeli (Roma, 14 maggio 1935 – Roma, 12 novembre 1988) pensando a un momento germinale e d’esordio della sua produzione pittorica, di cui fanno parte lavori come Elementi negativi – qui esposto in mostra -, Indifferenza o Disumano; opere esistenziali che, come esplicitato dall’artista stesso, pescavano a piene mani dalla lezione materica della pittura dell’epoca. Eppure, la possibilità di lavorare su un unico colore di queste tele non può essere sottovalutata nella sua volontà di indagare l’opera anche in quanto meccanismo di percezione, poiché quest’opera, come gli Achrome di Piero Manzoni con i quali è posta in dialogo, si distanzia da una mera scelta monocromatica in favore di un’assenza di colore proiettando l’opera verso la sua reificazione. Non appare certamente un caso, infatti, se Disumano fu riprodotta tra le pagine di “Azimuth” – rivista fondata da Enrico Castellani e Piero Manzoni che fu testimonianza e punto di avvio di alcune delle più radicali scelte dell’arte contemporanea italiana - quale testimonianza di amicizia tra questi artisti e di una circolarità di idee che univa Roma a Milano e le indagini di questi giovani pittori al panorama internazionale. Morto a soli ventinove anni, la figura di Piero Manzoni fu non solo in diretto contatto con le più avanzate esperienze europee, ma fu una tra le figure più rivoluzionarie dell’arte italiana. Di ciò si accorse immediatamente Palma Bucarelli che, nel 1968, scriveva alla madre dell’artista scomparso per poter far entrare alla GNAM i quattro Achrome qui esposti, espressione – come dichiarato dalla direttrice all’allora Ministro dell’Istruzione – di “uno dei più dotati artisti delle nostre giovani generazioni, già ben noto come esponente della più vivace avanguardia e la cui scomparsa è stata una grande perdita per l’arte italiana”. Avveduta e fine, del resto, fu la scelta da parte di Bucarelli di concentrarsi proprio sugli Achrome, uno dei momenti fondamentali nella poetica di Piero Manzoni. Essi sono una serie di opere realizzate a partire dal 1957, caratterizzate dall’assenza totale di colore e dall’uso di materiali semplici come caolino, gesso, tela grezza, fibra di vetro, e cotone. Queste superfici monocrome e lasciate neutre si concentrano sulla materia stessa, un intervento concettuale dell’artista per esprimere la loro natura artificiale. Essi rappresentano il tentativo di Manzoni di eliminare qualsiasi espressione soggettiva, gesto o significato imposto dall’artista, per lasciare spazio alla pura presenza del materiale. Il termine Achrome significa appunto ‘senza colore’ e suggerisce una riflessione sull’arte come oggetto autonomo, che esiste al di là di qualsiasi simbolismo o interpretazione emotiva. In questo modo Manzoni propone una radicale messa in discussione dei tradizionali canoni estetici e concettuali dell’arte, portando all’estremo la riduzione formale e concettuale.
Decima sezione – Michelangelo Pistoletto
Tra gli esponenti più noti dell’Arte Povera, biellese di origine e legato intimamente nelle sue vicende espositive e artistiche alla città di Torino, Michelangelo Pistoletto è universalmente conosciuto per i suoi Quadri specchianti. Meno note, invece, le origini di questa fondamentale serie di opere, che ebbero la loro genesi quando l’artista, durante la seconda metà degli anni Cinquanta, ancora aiutava il padre nella sua attività di restauro e sperimentava varie tecniche pittoriche. Impegnato a produrre una serie di autoritratti a cui, insistentemente, cercava di dare uno sfondo anonimo e uniforme, nel 1961, dopo aver steso sulla tela uno spesso strato di vernice sotto ad uno sfondo nero, si accorse di come esso riflettesse l’ambiente circostante anziché risultare opaco, dando vita alla serie di autoritratti conosciuta con il nome di Presente. Fu così che Pistoletto avviò una riflessione sulla differenza tra l’immagine immutabile della rappresentazione pittorica e quella, invece, in costante mutamento che apparteneva alla realtà. “La conclusione” – spiega l’artista stesso “è stata la sovrapposizione del quadro allo specchio: la pittura si sovrappone e aderisce all’immagine della realtà […] l’invadenza fisica del quadro nell’ambiente del reale, portando con sé le rappresentazioni dello specchio, mi permette di introdurmi tra gli elementi scomposti della figurazione”. In questa sede sono esposti due fondamentali ‘pezzi’ della serie dei Quadri specchianti. I visitatori in particolare, entrato nelle collezioni della GNAM nel 1969, - oltre a differenziarsi da Un giovanotto per il fatto che le due figure sono realizzate su velina dipinta a olio, anziché essere una semplice stampa fotografica – venne ideato proprio per gli spazi della Galleria Nazionale. I due visitatori, la superfice specchiante su cui si riflettevano le opere della GNAM e l’osservatore, che guardava sé stesso tramite lo ‘specchio’ che è l’opera di Pistoletto, infatti, apriva a riflessioni sulle relazioni tra l’opera, il museo e la sua fruizione.
Undicesima sezione – Mario Schifano, Pino Pascali
“Erano gli anni dell’Informale…O uno andava nelle strade e guardava i cartelloni pubblicitari, o andava nelle gallerie a vedere i quadri informali. Stranamente” – raccontava Mario Schifano “per me e altri pittori era quello che si trovava all’esterno delle gallerie che ci solleticava”. Dopo le prime sperimentazioni di carattere informale, infatti, Mario Schifano – figura che, più di altre, fu destinata a segnare un fondamentale cambio di passo per la pittura italiana – arrivò nei primi anni Sessanta a formulare i Monocromi, nel suo caso una declinazione del tutto personale alla tendenza all’azzeramento pittorico che caratterizzava molte ricerche di quegli anni. I monocromi di Schifano erano sempre delineati da un sottile tratto nero dagli angoli smussati, evocazione di uno schermo cinematografico o televisivo; uno spazio vuoto, pronto ad accogliere nel periodo immediatamente successivo lettere, numeri, immagini e scritte pubblicitarie, in un ulteriore riavvicinamento della pittura ai segni della vita moderna. Queste, tuttavia, entrarono nello ‘schermo’ di Schifano solamente dopo il suo primo viaggio a New York nel 1962, momento fondamentale per la sua carriera grazie all’esperienza diretta con quella temperie culturale e un’attenzione nuova rispetto ai nuovi media. In Incidente D662, ad esempio, la raffigurazione viene depurata da qualsiasi pathos o dramma, richiamando la distanza emotiva che i mass media introducono quando trattano notizie drammatiche, riducendole a semplici immagini ripetute e consumate. Distanza e alienazione che coinvolgono anche Paesaggio versione anemica con smalto e anima, evocazione di un paesaggio che appare distante e poco vitale, ‘anemico’ proprio perché filtrato, già riprodotto e visto, messa in discussione la relazione dell'individuo con l'ambiente circostante. Negli stessi anni, a Roma, prendeva forma la breve e folgorante carriera artistica di Pino Pascali, a cui è dedicata interamente la sala successiva. In questo ambiente, però, le opere di Schifano sono poste a dialogo con Primo piano labbra dell’artista pugliese, rimando anch’esse al nuovo mondo massmediale, all’aggressività, in questo caso, delle pubblicità rivolte al pubblico femminile che, in quegli anni, cominciavano a puntare sull’eros attraverso l’uso del primo piano cinematografico e l’occhio televisivo. Anticipando ricerche di poco successive espresse, ad esempio, nel Cavalletto o nell’Arco di Ulisse entrambi del 1968 Pascali non affrontava qui solo il tema della trasformazione dei corpi in oggetti di consumo, ricercando allo stesso tempo l’elemento atavico, archetipico e ancestrale che, come una sineddoche, doveva descrivere il tutto attraverso l’uso di una singola parte.
Dodicesima sezione – Pino Pascali
L’opera di Pino Pascali, giunta sulla scena italiana con forza dirompente, trovò tra le mura della GNAM immediata comprensione attraverso la prima retrospettiva dedicata all’artista nel 1969, l’anno successivo alla sua tragica scomparsa a soli trentatré anni. Oltre a questo, però, attraverso la sua opera Pascali riuscì ad unire idealmente Roma e Torino. Dopo essersi cimentato con successo come scenografo e pubblicitario – alcuni suoi memorabili spot andarono in onda su Carosello -, le prime due mostre personali dell’artista furono: quella tenuta nel 1965 presso la galleria romana La Tartaruga, le cui opere esposte - tra cui Ruderi sul prato e Labbra in questa occasione in mostra - Cesare Brandi poneva in catalogo “alla fine dell’Informale e all’esplosione della Pop Art”; e, l’anno successivo, quella allestita presso Galleria Sperone di Torino, nella quale l’artista presentò la fondamentale serie delle Armi, “oggetti dati in proprio” – li definì il già citato Brandi – “estratti dal flusso dell’utensilità”. La ricerca di Pascali, tuttavia, andò ben oltre la ricerca oggettuale, approcciando un gioco ambiguo tra arte, rappresentazione e natura. È il caso, ad esempio, dei Bachi da setola, una delle più note sculture di Pascali. In essa l’artista indagava il rapporto tra natura e realtà industriale rappresentando, attraverso materiali artificiali e seriali, figure animali. Il gioco ambiguo ottenuto attraverso i materiali, del resto, è presente anche nel titolo, finemente ironico nel voler confondere ancor di più l’osservatore non mettendolo in grado di comprendere se l’artista avesse voluto interpretare la natura attraverso il materiale acrilico, o se sia invece il materiale industriale a essere sublimato nell’essere vivente. Gioco ambiguo, quello di Pascali, portato a estreme conseguenze nella Ricostruzione del dinosauro, dove la trasformazione di materiali quali la tela grezza trattata a vinavil e caolino in forme organiche diviene, in realtà, ‘ricordo fossile’ di queste ultime, avviando un articolato percorso concettuale che rendeva ancora più sottile la differenza tra le due categorie. Non solo la natura, però, interessò l’orizzonte di Pascali. Opere come il Cavalletto, L’arco di Ulisse o il Cesto, ad esempio, traslano l’attenzione dall’elemento naturale a quello mitico e arcaico, ricostruendolo attraverso l’uso di supporti industriali come la lana d’acciaio e materiali acrilici. Ciò avvicina in qualche modo Pascali all’Arte Povera, situazione artistica a cui l’artista effettivamente prese parte figurando nella prima mostra del movimento che conobbe la propria consacrazione pubblica nella famosa esposizione intitolata Conceptual art Arte povera Land art tenutasi, nel 1970, presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino.
Musei Reali di Torino – Sale Chiablese
1950- 1970 La Grande Arte Italiana. Capolavori della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
dal 19 Ottobre 2024 al 2 Marzo 2025
dal Martedì alla Domenica 9.30 alle ore 19.30
Lunedì Chiuso