Giovanni Cardone
 
Fino al 27 Aprile 2025 si potrà ammirare al Magazzino delle Idee Trieste la mostra dedicata alla Famiglia Wulz -  Fotografia Wulz. Trieste, la famiglia, l’atelier a cura di Antonio Giusa e Federica Muzzarelli. Organizzata dall’Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia, in collaborazione con la Fondazione Alinari di Firenze , l’esposizione presenta una selezione storica e critica dell’archivio dello Studio fotografico Wulz di Trieste (1868-1981), uno tra i più importanti complessi archivistici conservati oggi negli Archivi Alinari, divenuti patrimonio pubblico grazie all’acquisizione della Regione Toscana che li ha affidati alla Fondazione Alinari per la Fotografia. L’esposizione si inserisce nel palinsesto di “GO!2025&Friends”, il cartellone di eventi collegato al programma ufficiale di“GO!2025NovaGorica-GoriziaCapitaleeuropeadellaCultura”. Grazie alla selezione critica del patrimonio Alinari operata dai due curatori e alla presenza di altri materiali provenienti da istituzioni pubbliche, come la Wolfsoniana di Genova, il Museo Revoltella e i Civici Musei di Storia e Arte di Trieste, ma anche da collezioni private quali quelle della Libreria antiquaria Drogheria 28 di Trieste e la Collezione Sergio Vatta, con questa mostra si vogliono offrire nuovi spunti di riflessione e proporre letture nuove o aggiornate della produzione fotografica dei Wulz. Attraverso quasi trecento pezzi, tra stampe fotografiche, negativi, documenti e oggetti dell’archivio dello Studio fotografico Wulz, la mostra ci restituisce una Trieste per certi versi inedita, una città calata in un periodo storico cruciale per la sua evoluzione, quello che va dalla seconda metà dell’800 alla seconda del ‘900. In una ricerca storiografia e scientifica  sulla città  di Trieste e sulla famiglia Wulz apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che la città di Trieste fa parte geograficamente della regione dell’Adriatico settentrionale è una delle zone maggiormente interessanti per quanto riguarda lo studio del territorio e della distribuzione dei popoli. Essa, infatti, nella storia dell’uomo è sempre stata attraversata da diversi confini politici, il cui mutamento nei secoli ha raccontato, e condizionato, l’alterna evoluzione delle dinamiche umane, facendone il terreno di un confronto più o meno aspro fra popolazioni differenti per lingua, cultura e provenienza, che la storia nei secoli ha spinto fino a questo crocevia, facendo di esso uno snodo di primaria importanza in quanto limite orientale della diffusione dei popoli latini, confine meridionale dell’espansione dei popoli germanici e occidentale per i popoli slavi . Queste tre espansioni hanno scelto per differenti motivi queste direzioni: a un’antica presenza latina nella direttrice orientale si è andata sommando una penetrazione germanica in cerca di uno sbocco sul Mediterraneo, a cui si è aggiunta la manodopera agricola slava che, diffusa sul territorio, ha assunto nel tempo consapevolezza nazionale . La diffusione dei tre ceppi etnici su questo territorio non è mai riuscita a risolversi in maniera definitiva: se la penetrazione germanica è stata discontinua e periodica, l’elemento latino ha privilegiato l’occupazione delle città della costa mentre gli slavi, prevalentemente contadini, si sono sparpagliati nell’agro . Questa differente distribuzione dipende in ultima analisi da un diverso approccio culturale che avrebbe poi condizionato le tensioni per il controllo della regione se gli italiani sono portati a ritenere che la campagna segua il destino della città, viceversa gli slavi e i germanici considerano l’agro il vero centro del territorio. La situazione di Trieste, inoltre, è complicata dalla netta separazione fra l’entroterra e il litorale, causata dall’aspra conformazione orografica del Carso immediatamente alle spalle della città. Questa particolarità fu ad un tempo la causa e l’effetto dell’incapacità di affermazione, per un periodo significativo, da parte di un potere centrale in grado di imporre unità culturale e territoriale alla regione e di condizionare così sostanzialmente e definitivamente lo sviluppo umano. Al contrario l’assenza di una barriera naturale ben riconoscibile permise il continuo spostamento delle frontiere secondo le contingenze storiche.
 
 
In particolare durante le invasioni barbariche dell’alto medioevo questa regione si rivelò sostanzialmente inadatta a ricoprire il ruolo di limes militare che la geografia politica le attribuiva: fortificata con alti valli, fu violata ripetutamente nel V e VI secolo fino a costringere gli ultimi invasori, i Longobardi, a porre la propria linea difensiva su quello che diverrà il limes longobardicus, il limitare cioè fra la pianura friulana e le Prealpi Giulie. Questa linea amministrativa e militare è di grande significato perché rappresenterà da allora, almeno nella sua parte settentrionale, un confine etnico abbastanza netto fra i pop oli di diritto latino e gli sloveni e croati, i primi penetrati nella zona delle Prealpi Giulie al seguito dei Longobardi, i secondi importati nella penisola istriana dai bizantini come coloni. Questa sostanziale chiusura del confine agevolò, non appena se ne presentò l’occasione, una ritrovata centralità della zona costiera giuliana, che mantenne nei secoli la propria funzione di collegamento fra mondo germanico e mare Adriatico.
Il mare Adriatico stesso svolge da sempre una funzione di collegamento, tanto da poter essere considerato come un fiume di inusitata larghezza, che dalle Alpi orientali si getta nel bacino principale del Mediterraneo. Una via d’acqua che nel corso dei secoli le navi cariche di mercanzie provenienti dall’Oriente, hanno risalito fino al “limite di navigabilità”, alla ricerca di un approdo che avvicinasse il più possibile quelle contrade ai mercati del centro Europa. Di conseguenza, al vertice di questo bacino interno, lungo un arco di costa di circa 150 km., vi è sempre stato uno scalo  fosse esso Aquileia, Venezia, Trieste chiamato a svolgere un ruolo determinante nei traffici fra Europa e Levante. Dopo la dissoluzione della Repubblica Serenissima, Venezia passò nelle mani di Napoleone che istituì le Province Illiriche, con capoluogo a Lubiana: un territorio dai confini disegnati secondo ragioni di carattere militare, diviso in 7 Intendenze. Trieste diviene così il capoluogo dell’Intendenza dell’Istria che riunisce l’Istria ex veneta e il goriziano , ma la sua economia viene seriamente ridimensionata a causa della perdita delle concessioni e del blocco continentale voluto da Napoleone. Il breve periodo napoleonico rappresenta la prima unificazione amministrativa di tutto il territorio poi chiamato Venezia Giulia, imperniato intorno alla città di Trieste. Con il Congresso di Vienna (1815) Venezia torna in mano agli Asburgo che ottengono così il controllo su tutti e tre i porti principali dell’Alto Adriatico: Trieste, Venezia e Fiume. Attraverso i provvedimenti imperiali del XVIII secolo, che si inserirono in un contesto geopolitico positivo e ne favorirono gli sviluppi, la città di Trieste assunse così definitivamente il ruolo di località centrale dell’intera regione Giulia, divenendo formidabile polo di attrazione per tutti i territorii contermini. Dopo la parentesi napoleonica, infatti, lo sviluppo dell’emporio e del porto ripresero a gran velocità: la popolazione cittadina raggiunse rapidamente le 50.000 unità nel 1824 e poi addirittura le 80.000 nel 1840. Nacque allora la Società di Navigazione del Lloyd Triestino e le due grandi società di assicurazioni, Generali (1831) e Riunione Adriatica di Sicurtà (1838) mentre la città esplodeva sui colli circostanti e le infrastrutture portuali venivano radicalmente rinnovate con la fondazione del Porto Nuovo (1869, oggi Porto Vecchio) e del Molo V (1898). Ma il monopolio sul mare Adriatico  il «mare austriaco»  era destinato a durare pochi decenni: nel 1866 il neonato Regno d’Italia strappò con la III Guerra d’Indipendenza il Veneto all’Austria, ereditando la vocazione egemonica adriatica di Venezia e la conseguente tensione con l’Austria su una linea che ricalcava grossomodo lo storico confine che per secoli aveva contrapposto le due entità. Privata dei mercati italiani (che furono recuperati a Venezia grazie ai dazi doganali unici sul territorio italiano) e dello status di Porto Franco (ridotto dall’Imperatore nel 1891 al solo spazio portuale) la città giuliana subì un rallentamento nella crescita che tuttavia non le impedì di mantenere il proprio ruolo di porto centrale per l’Impero e per l’Europa intera e di sfruttare le vie commerciali aperte dal nuovo canale di Suez (1869) . L’avvento del nuovo secolo rappresentò il compimento del processo di sviluppo: la popolazione sfiorò la soglia dei 250.000 abitanti grazie alla concordia fra lo sviluppo industriale della città e la riorganizzazione del porto in chiave sia commerciale che di transito, attraverso la realizzazione di moderne infrastrutture come la ferrovia Transalpina, la stazione ferroviaria Campo Marzio e il contestuale rafforzamento della flotta delle principali famiglie di armatori , che permisero alla città di crescere  senza sosta fino allo scoppio della Grande Guerra, che avvenne nel periodo più florido della storia di Trieste.
La scintilla che diede fuoco a questo conflitto fu, com’è noto, proprio il tentativo austroungarico di rafforzare il proprio potere sulla sponda orientale del mare Adriatico, estendendo il dominio nella regione dei Balcani con l’idea di raggiungere l’affiancamento della terza corona (di Jugoslavia) alle due corone sulle quali si fondava l’Impero. Allo scoppio delle ostilità l’Italia che era un membro della Triplice Alleanza ma era svincolata dagli obblighi militari a causa del mancato rispetto di alcune clausole da parte austriaca intavolò trattative con Vienna per portare a casa un risultato soddisfacente che risolvesse a proprio favore la concorrenza regionale, compensando l’espansione austriaca nei Balcani con l’egemonia italiana sulla regione adriatica. Non ricevendo adeguate garanzie dall’Impero, per via dell’incompatibilità fra interessi nell’area, l’Italia ottenne dal le potenze della Triplice Intesa ampie garanzie di espansione sull’Adriatico, che furono raccolte nel Patto di Londra e che qualora attese ne avrebbero fatto una potenza egemonica su tutta l’area risolvendo definitivamente la convivenza territoriale della Venezia Giulia . Affascinante a riguardo la teoria espressa da Battisti, secondo il quale il crollo dell’Impero Austro-Ungarico fu causato proprio dall’ostinazione asburgica circa il possesso di Trieste: rifiutando qualunque proposta di accordo sulla città giuliana, Vienna causò l’ingresso dell’Italia nel conflitto, evento che avrebbe sconvolto i piani austriaci al punto da provocare la sconfitta degli Imperi centrali. Com’è noto, malgrado la vittoria della guerra le ambizioni italiane dovettero subire un brusco ridimensionamento. L’ingresso degli Stati Uniti d’America nel conflitto, infatti, rese obsoleto il Patto di Londra che Wilson volle rivedere completamente seguendo un criterio fondato sulla presunta riconoscibilità della demarcazione fra le nazionalità. L’Italia ricevette comunque compensazioni territoriali nella zona sufficienti a risolvere a suo favore l’annoso conflitto con la componente austriaca che uscì di scena; al posto di Vienna comparve però, presso il nuovo confine orientale d’Italia, il Regno federativo di Serbi, Croati e Sloveni, una nuova entità statale comprendente il territorio abitato «in modo compatto dalla nostra nazione dai tre nomi», che ereditò così la funzione antagonista dell’Austria nella regione. Ma il destino della Venezia Giulia era destinato a essere nuovamente stravolto dalla Seconda Guerra Mondiale, quando il colpo di stato jugoslavo del 1941 diede l’occasione all’Asse italo-tedesco di attaccare Belgrado. La guerra durò appena undici giorni e portò a un violento ritorno dell’influenza austro-tedesca, sparita da ventitré anni dalla penisola balcanica: a causa dell’alleanza con l’Italia, le autorità naziste non poterono subito riaffacciarsi sul mare Adriatico ma penetrarono nella penisola balcanica attraverso la Stiria e la Carinzia meridionale, storici possedimenti austriaci. L’Italia reagì occupando la Slovenia meridionale e seppur per pochi mesi parte della costa adriatica in Dalmazia, Montenegro, Albania e Grecia. Fu tuttavia un vantaggio effimero di cui l’Italia non poté godere a causa dell’infausto esito della situazione bellica. L’intera regione fu teatro di orrori e violenze senza precedenti: nel settembre 1943, dopo la dissoluzione delle strutture amministrative italiane, i partigiani jugoslavi dichiararono da Pisino il ricongiungimento dell’Istria alla madrepatria croata, ma dovettero indietreggiare di fronte alla rioccupazione da parte dell’esercito germanico. I tedeschi approfittarono della dissoluzione dell’apparato militare e statale italiano per inglobare l’intera Venezia Giulia nel proprio territorio nazionale (attraverso la costituzione dell’Adriatische Küstenland), introducendo le lingue slave negli atti pubblici e favorendo gli jugoslavi collaborazionisti ai danni degli italiani, seguendo in questo le politiche dell’Impero asburgico del secolo precedente. Nel maggio del 1945 le truppe jugoslave riconquistarono per prime la regione, precedendo gli angloamericani: il Maresciallo Josip Broz “Tito”, ben conscio della sua funzione strategica, aveva deciso di dare completa priorità alla conquista di Trieste, prediligendola alla stessa liberazione di Lubiana. Sotto l’occupazione jugoslava, la popolazione italiana della Venezia Giulia fu costretta a pagare il conto dell’italianizzazione fascista e dell’intera guerra, subendo una persecuzione molto violenta che assunse il carattere di una pulizia etnica. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta dell’asse italo-tedesco, la regione fu assegnata completamente al nuovo stato di Jugoslavia, eccetto una fascia di zona costiera intorno a Trieste occupata dagli angloamericani e dagli jugoslavi sulla quale avrebbe dovuto nascere il Territorio Libero di Trieste, uno stato cuscinetto sotto l’egida delle Nazioni Unite.
Nel 1954, in seguito a una violenta crisi diplomatica e ai gravi incidenti del novembre 1953, il Memorandum di Londra stabilì la spartizione del territorio fra Italia e Jugoslavia e il confine venne a delinearsi quale ancora oggi risulta. La grande novità dell’assetto geografico politico del secondo dopoguerra fu poi che la cosiddetta cortina di ferro venne a calare proprio su questo storico confine, rendendolo non più una frontiera fra potenze regionali ma parte di un più vasto confine di carattere mondiale, sostanzialmente impermeabile. La Guerra Fredda fece sentire in questa zona il suo peso, dividendo villaggi ed economie che nei secoli avevano sempre gravitato attorno agli stessi poli, e che si trovarono ora a ridosso di una frontiera invalicabile, sorvegliata, tra due mondi contrapposti. Il tentativo jugoslavo di divincolarsi dall’abbraccio sovietico non si risolse mai, infatti, in un’adesione al blocco occidentale, e così non permise il venir meno della cesura della regione Giulia, che rimarrà divisa in due parti tra loro contrapposte fino alle guerre balcaniche. Nel campo fotografico la famiglia Wulz  attraverso le loro foto cercarono di descrivere Trieste quando nel 1851 la madre, quando Giuseppe ha solo otto anni, da sola - se avvaloriamo l'ipotesi di Italo Zannier si trasferisce a Trieste. I motivi di questo abbandono del luogo natio sono sconosciuti . Le ipotesi possono essere varie. Tale data supposta dallo studioso viene smentita nella trascrizione  nel Register copulatorum, Tomo III dell'atto di matrimonio di Giuseppe, che ne attesta la residenza a Trieste da ben 17 anni e 5 mesi, siamo nell'agosto 1873 quindi  il suo arrivo a Trieste è avvenuto allora nel 1855 all'età di 12 anni. Si può ritenere che la donna avesse difficoltà a mantenere se stessa e il figlio al paese Cave del Predil, per cui decide di trovare nel ricco porto adriatico un lavoro anche se umile, una prassi che si instaura nel tempo. Infatti molte donne provenienti dalla Carnia venivano assunte da famiglie abbienti per la collaborazione domestica, e forse anche Clara trova un lavoro e un punto d'appoggio e un sostegno per se stessa e il figlio da una lontana parente a Trieste. Non si sa nulla sulla sua scolarizzazione e sulla sua formazione professionale primaria, sino a quando il suo nome compare associato allo studio fotografico di Wilhelm Friedrich Engel, dapprima come giovane apprendista - sin dal 1860, secondo Zannier - e, una volta formato, nel 1866 viene assunto come aiutante insieme a Luigi Boccalini. Ricordiamo che l'anno 1859 segna un momento di grande importanza per il maestro Engel, in quanto scioglie il suo rapporto con il Lloyd austriaco e nel 1860 si mette in proprio aprendo uno studio in via dei Forni 892, mantenendo una notevole clientela e di conseguenza avvalendosi dello staff di fotografi da lui formato. La presenza nello studio Engel del giovinetto Giuseppe è data da una lastra negativa, segnalata nel fondo Castellazzi conservato presso l'Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, firmata Wulz e contrassegnata dal numero A 22. Si tratta di una veduta del Castello di Miramare databile 1860. Dal 1859 l'arciduca Massimiliano abita nel Castelletto per seguire i lavori del castello non ancora ultimato quella che sarà la sua amata dimora. La vegetazione del parco nello scatto è molto rada come non l'abbiamo mai vista neanche nelle future vedute di Wulz stesso e di altri fotografi. Uno scatto che è rimasto inedito e che Giuseppe Wulz non presenterà mai negli anni successivi, forse perché non più in possesso del negativo . Importante è fare il confronto con il punto di vista scelto che caratterizza molte fotografie precedenti e successive anche di altri fotografi. Il 18 ottobre 1874 nasce il primo figlio, Carlo, negli anni seguiranno altri tre maschi Vittorio, Guglielmo, Antonio. In breve si fa conoscere al punto che un'impegnativa richiesta gli viene rivolta dal direttore Carlo Kunz.  del Civico museo d'antichità per un servizio sull'Orto lapidario che eseguirà negli anni 1875-1876. Si tratta di ben sette dozzine di fotogrammi che serviranno al direttore per pubblicizzare le collezioni archeologiche del museo da poco inaugurato esposte sul Colle di San Giusto. La Direzione del Museo chiama alla prova anche altri famosi fotografi attivi in città, Carlo Rieger  ed Enrico Seebold, come attestano le date delle donazioni dei loro servizi, rispettivamente dell'ottico Maurizio Silbermann nell'ottobre del 1875 e dello stesso Seebold nel luglio 1876. La scelta privilegia Wulz che ottiene l'incarico ed esegue il lavoro con impegno. Nel 1876 si rivolge all'Inclito Magistrato per ottenere la licenza di fotografo, inviando la richiesta il 20 aprile 1876. Si tratta di un documento ufficiale in cui dichiara l'indirizzo dello studio in Corso n. 9 al quarto piano e i soggetti che interessano oggetto delle sue riprese fotografiche, i paesaggi.  "Il sottoscritto Giuseppe Wulz nato a Tarvis nella Carintia addì 18 Marzo 1843. Cittadino austriaco e pertinente a questo Comune si pregia di insinuare colla presente a mente e per gli effetti delle vigenti disposizioni di legge a questa Inclita Carica, che egli eserciterà l'industria fotografica, coltivando specialmente il ramo di paesaggi con studio fotografico In via S. Nicolò [corretto in] Corso n. 9 4. piano. Ciò stante fa rispettosa istanza presso codest'Inclito Magistrato: perché si compiaccia per ogni conseguente effetto di legge prendere adeguata notizia dell'anzidetto facendogli in pari tempo con graziosa sollecitudine pervenire la prescritta Licenza. Trieste 20 Aprile 1876   [Firma] Giuseppe Wulz” Evidentemente le licenze dovevano periodicamente essere rinnovate, in quanto il magistrato esercitava un controllo sulle corrette procedure e sulle eventuali inosservanze. La produzione di Giuseppe è continua, sistematica, non interrotta da particolari esperimenti. Colpisce, come già segnala Italo Zannier, che lo studio non ha bisogno della pubblicità sui periodici o della partecipazione alle varie esposizioni dove si conquistano preziose medaglie. Giuseppe gradatamente con schiva modestia raggiunge il ruolo di prestigioso professionista, accurato, perfezionista, attento ai dettagli. Osa definire il suo atelier agli inizi del Novecento Studio d'arte fotografica G. Wulz e dichiara “Conoscenza di forme. Precisione arte moderna. Ingrandimenti di massima perfezione. Riproduzione da fotografie anche vecchie o guaste. Lo studio è aperto tutto il giorno anche le domeniche e feste. Si fotografa con qualunque tempo. Le negative vengono conservate per ulteriori ordinazioni”. Nei quasi cinquant'anni di lavoro esegue migliaia di negativi in studio e d'aprés nature, non si sottrae alle mode nel senso che, accetta quanto viene richiesto, ritratti su carte de visite, o in formato cabinet, vedute nei grandi formati in bianco e nero e colorate, servizi in formato stereoscopia: una produzione che lascia il segno. Costante è la collaborazione con i musei o con i privati collezionisti per la riproduzione di opere d'arte, in quanto la fotografia è uno strumento che arricchisce le schede scientifiche, si inserisce negli album dei ricchi collezionisti, documenta il quadro che viene venduto dagli atelier d'arte. Nelle conferenze tenute nel 1905 e nel 1907 da vari esperti all'Università del popolo si utilizzano i “diapositivi” che diventano un corredo di grande richiamo e che preludono ai nostri PPT. Un esempio per tutti: Piero Sticotti, conservatore dei musei può presentare e illustrare la preziosa collezione di disegni del Tiepolo acquistata da Giuseppe Sartorio nel 1893 ormai entrata far parte del patrimonio museale cittadino per donazione. L'occasione è unica, per la prima volta queste opere d'arte vengono mostrate e spiegate a un pubblico ampio tutte insieme . Cessa la propria attività nello studio a fine giugno del 1914 passando le consegne al figlio maggiore Carlo che già dal 1900 a 26 anni ha incominciato a imporre la propria presenza. Muore il 14 marzo del 1918. In seguito figlia e nipote d’arte discendente da una centenaria dinastia di fotografi triestini, nel 1928, Wanda Wulz, appena venticinquenne, si ritrova a dirigere lo studio di famiglia con il supporto della sorella minore Marion, inaugurando una lunga carriera di ritrattista d’atelier intervallata da una breve eppure importantissima parentesi avanguardista. A ben vedere, l’exploit che la consacrerà come unica donna fotografa futurista italiana conferendole i riconoscimenti della critica internazionale, soprattutto grazie al celeberrimo Io + gatto, si inserisce in una parabola artistica e personale già in piena evoluzione, la quale non poteva essere altrimenti se non libera e appassionata. Appartiene alla produzione degli anni Trenta una serie di prove fotografiche di carattere più intimo e privato, volte a sperimentare e autenticare un’identità femminile emancipata e in linea con il carattere della nascente, moderna, new woman. In questa sede si intende approfondire questa sorta di «archivio personale» di immagini prodotte da Wulz, le quali la indurranno ad interfacciarsi con le potenzialità più concettuali del mezzo, rivelandone un esempio magistrale di approccio fotografico primo novecentesco al femminile. Interessanti e sintomatici tributi giovanili nell’ambito dell’autoritratto  passando dall’essere oggetto (dei ritratti che le dedicava il padre)1 a soggetto della rappresentazione , del travestimento e della mini-performance fotografica: si tratta di immagini che stimolano soprattutto una prospettiva concettuale e proto-comportamentista. Sono lavori che coinvolgeranno e includeranno in prima persona anche la sorella Marion, infatti sarà lei a scattare una buona parte di queste fotografie: si potrebbe pensare alla passione ereditaria per il ritratto di famiglia che interessò l’intera dinastia dei Wulz, tuttavia lo spirito e le modalità espressive risulteranno stavolta assai diverse . Attraverso una serie di scatti, Wanda Wulz comporrà una sorta di manifesto della sua emancipata identità femminile con un inedito atteggiamento performativo da compiaciuta transformer. Ciò malgrado i tempi ancora precoci, molto in anticipo sulla grande ondata della performance, del travestitismo e del travestimento fotografico degli anni Sessanta e Settanta, interpretata principalmente da Urs Lüthi e Luigi Ontani come da tanti altri artisti e artiste sulla stessa linea, comunque debitori e debitrici della celeberrima Rrose Sélavy di Marcel Duchamp del 1921 (Naldi, 2003). Inoltre la famiglia Wulz comprende adesso gli amatissimi gatti (Mucincina, destinata alla maggiore notorietà , Pippo e Plunci) oltre all’affezionata amica e complice creativa Anita Pittoni (artista, stilista, designer e donna di lettere triestina) la quale sarà protagonista di alcuni dei progetti fotografici che ci interessano, direttamente tramite la sua presenza fisica o le sue creazioni di moda (Cammarata, 1999). Si evidenzia da subito la natura peculiare e intima, addirittura domestica, delle opere; per questo caratterizzate da una più ampia libertà espressiva e da un’atmosfera giocosa e disimpegnata rispetto a certi altri lavori d’atelier. Infatti  e ciò vale in questo caso specifico come in linea generale è plausibile che sia proprio la relativa mancanza di pressione dall’esterno, o dai canoni artistici istituzionali, a favorire l’emergere di una purissima concettualità fotografica .È d’obbligo fare un’ultima considerazione preliminare: tale slancio esibizionistico si rivelerà in parte propedeutico all’esplosiva esperienza avanguardista di Wanda con il Futurismo, per poi sostanzialmente spegnersi tra le ordinarie mansioni dello studio. Senza nulla togliere all’importanza di questo circuito extra intrapreso da Wulz, se ne deve riconoscere il carattere transitorio  d’eccezione che conferma la regola  concentrandosi nell’arco di una serie esclusiva di operazioni giovanili, altamente rivelatorie. Wulz manterrà, per il restante cinquantennio di attività, lo status ufficiale di fotografa di un atelier predestinato a divenire ultracentenario. La questione però non rischia di apparire meno affascinante, tanto più che certe interessanti sfumature, come quello spontaneo, divertito e passeggero mettersi in gioco dinanzi all’apparecchio fotografico, possono fornire un’autentica chiave di lettura dell’artista, e della donna, Wanda Wulz. Un ritratto in particolare apre la serie agendo come significativa anticamera dei lavori che seguiranno, nella misura in cui il suo impatto psicologico è tanto intenso quanto spoglia e asettica risulta la composizione. Semplicemente, Wanda rivolge uno sguardo impavido e granitico verso lo spettatore, seduta di tre quarti su di un’anonima seggiola. È Marion a scattare la foto, eppure pare di poter già condensare quegli spectrum, operator e spectator fissati da Roland Barthes (1980) in un unico soggetto o ruolo: il ritratto funziona da auto-rappresentazione della stessa Wanda (spectrum e operator) che con fierezza palesa a sé e al mondo (spectator) la sua affermata identità. Che poi lo scatto sia materialmente affidato a Marion, non disturba né indebolisce questa interpretazione, considerata la grande intimità familiare e l’affinità artistica tra le due donne. Trattasi dunque di un “Ecce Donna”, crudo e consapevole. Se, come ci suggerisce Alberto Boatto (2005), «ritrarsi equivale sempre a raggiungere e a presentare un’identità “Io sono questo”», Wulz si immortalerà con il mezzo fotografico in varie vesti e quindi in diversi “Io”, mostrando tutte le Wanda che le consentono di esibire la sua identità femminile: moderna, libera e anticonformista, con un pizzico di ironia e senso ludico. Tecnicamente ancora non si discute di autoritratti, ma, considerato lo stretto legame affettivo e artistico che esiste tra di loro, Marion diviene una facile proiezione di Wanda allo scatto: è probabilmente la maggiore e più audace delle sorelle Wulz a scegliere la messinscena, le pose e i costumi di questi autentici tableaux vivants. Secondo Stefano Ferrari (2008) ciò che in generale caratterizza la fruizione di un autoritratto è «solo e unicamente il sapere (il credere) che sia un autoritratto» : e qui vi è motivo di crederlo, nonostante sia Marion a fotografare e non Wanda. Del resto, tale atteggiamento non fa che inserire a pieno titolo la fotografa triestina nella squadra dei grandi artisti performer e transformer che hanno sfruttato la fotografia per le loro ricerche estetiche: dalla pioniera Contessa di Castiglione a Duchamp, fino ad Ontani, Cindy Sherman ecc. «Neppure loro hanno scattato quelle immagini che nessuno si sognerebbe di considerare lavoro altrui». Così, già nel 1930, Wulz provò a svincolarsi dalla routine della vita quotidiana e dell’atelier per interpretare giocosamente altri ruoli, travestendosi davanti all’obiettivo. Su questo registro, Wanda potrebbe collocarsi tra quelle donne artiste che tra fine Ottocento e inizi Novecento, con la loro volontà di rivalsa sia fisica che intellettuale, « arrivarono per prime a cogliere il suggerimento alla pensabilità del recupero del corpo, del travestimento e della performance immaginaria, che la fotografia rende possibili» (Muzzarelli, 2007): pensiamo a Julia Margaret Cameron, la quale allestì i suoi fantasiosi scenari travestendo parenti, amici e domestici, alla Contessa di Castiglione, a Yevonde Cumbers o a Claude Cahun. La fotografa si mostra all’obiettivo in tenuta da motociclista in un’immagine indubbiamente elegante e curatissima anche a livello formale: la ripresa è ravvicinata a mezzo busto e dai morbidi toni glaciali spicca il nero lucido della vistosa mascherina da moto che nasconde metà viso, la testa è coperta dal tipico copricapo sportivo. Volendo andare oltre la lettura formale del lavoro, sarebbe innanzitutto interessante riprendere alcune considerazioni di Cristina Giorcelli (2001) sulla dialettica tra abito «come vestiario, ma anche come atteggiamento mentale e comportamentale, come modalità linguistica e retorica»  e identità. Abbigliata nei panni di motociclista, Wanda illustra con decisione la sua personalità dinamica, emancipata e, a ben vedere, già futurista; la fotografa sceglie infatti di impersonare al femminile una figura moderna, notoriamente molto cara al Futurismo e al suo leader Filippo Tommaso Marinetti. Il motociclista divenne presto soggetto dei dipinti di Gerardo Dottori, Fortunato Depero e Mario Sironi, e fu più volte elogiato negli scritti marinettiani come un eroe della nuova epoca della velocità, insieme allo chauffeur al volante di un’automobile da corsa oppure all’aviatore. Un centauro contemporaneo, che era tutt’uno con la sua cavalcatura meccanica: «Le motociclette sono divine» recitava il manifesto futurista La nuova religione morale della velocità pubblicato nel 1916. Tornando a Wulz, dopo la dichiarazione fotografica di un aspetto “virilmente” avanguardistico della propria identità, sarà la volta di esibirne un altro apparentemente antitetico, ma in realtà del tutto confacente con le caratteristiche della new woman a lei appartenenti. Si tratta di uno scatto in cui Wanda, ripresa ancora in primo piano, indossa un’appariscente parrucca settecentesca e fissa languidamente lo spettatore con aria da vamp retrò, dietro un ventaglio di piume nere . È superbo il netto contrasto tonale bianco/nero, candido il volto, la capigliatura e la cornice quadrata dell’immagine in cui è inscritta la circonferenza che contiene il ritratto; qui lo sfondo diventa nero, assorbendo il piumaggio dell’accessorio. Questo tipo di impianto fotografico ricorda quello degli antichi formati dagherrotipici con preziose cornici di forma ovale o circolare, ma in questo caso è l’intera opera a evocare un’atmosfera lontana e un’epoca passata. Grazie al travestimento suffragato dalla fotografia, ora Wulz recita la parte di un’aristocratica dama settecentesca. Ignoriamo se fosse a conoscenza delle analoghe messinscene narcisistiche della Contessa di Castiglione, in costumi pomposi e atteggiamenti ammiccanti, oppure delle contemporanee e altrettanto eccentriche dee mitologiche di Madame Yevonde (e il rimando alla fotografa inglese è significativo anche per quel che riguarda l’attenzione formale verso la costruzione delle immagini). In merito alle immagini fotografiche che propongono una femminilità dirompente, caricata con trucchi e feticci vari. La seduzione del travestimento e la fuga in un mondo parallelo in tempi o luoghi lontani e mitici rese possibili tramite la finzione e l’oggettivazione fotografica, continueranno ad affascinare Wulz. È notoriamente riconosciuto il potenziale specifico della fotografia di attribuire immediata veridicità pure alla più sfacciata delle recite, permettendo così a chiunque lo desideri di immortalarsi nel senso letterale del termine in una pluralità di ruoli, di vite o di identità. Allora il travestimento da effimero, precario, si tramuta grazie al medium fotografico «in volontà di potenza» (Naldi, 2003), o di onnipotenza. Wanda proseguirà col registrare le sfaccettature della propria femminilità aggiungendo una nuova fascinazione esotica. Il riferimento è a due scatti che possono leggersi quasi come un dittico, giacché in ciascuno di essi è ritratta una delle sorelle Wulz (quindi stavolta sarà presente anche Marion in posa e travestita di fronte all’obiettivo) agghindata in succinte vesti all’egiziana. Ovviamente la forte attrazione o repulsione  nei confronti delle lontane culture esotiche con i loro indigeni, è un sentimento comune sempre esistito (con fasi più o meno intense) in tutto il mondo occidentale, e ne danno buona testimonianza la letteratura e le arti visive. Poi, grazie alla nascita della fotografia, durante le spedizioni coloniali di fine Ottocento, si poterono finalmente soddisfare in modo agevole non solo le curiosità e le pruderie occidentali, ma anche quella volontà scientifica e antropologica di studiare e classificare etnie e popoli stranieri (Muzzarelli, 2004). Wanda e Marion si inseriscono in una tradizione culturale e artistica ben consolidata, giacché recitare con l’ausilio della fotografia la parte di personaggi esotici o mitologici sarà molto ricorrente tra gli artisti e non solo: si pensi ancora alla Contessa di Castiglione come Regina d’Etruria, alle divine di Madame Yevonde o allo stesso Ontani, strenuo appassionato della mistica India. Sulla stessa giocosa lezione micro-performativa avviata dai committenti di Disderi, è anche un piccolo e divertente frammento di immagine rilevato da chi scrive all’interno dell’Archivio Studio fotografico Wulz, dove Marion ritrae Wanda la strega, con i denti di buccia d’arancia. Datato 1930, mostra Wulz coi capelli scompigliati, bocca e sopracciglia truccate, bucce d’arancia a mo’ di denti affilati, mani e viso contratti come in un frame da film horror grottesco. Un’altra serie di immagini appartenenti a questo particolare corpus di lavori fotografici presenterà un ancora più accentuato apporto comportamentista, addirittura da Body Art avanti lettera. Quattro scatti in sequenza, quasi dei fotogrammi estratti da una pellicola cinematografica, riprenderanno Wanda Wulz mentre esegue una specie di danza tribale . Questa serialità, con l’intenzione di documentare le varie tappe di ciò che accade di fronte all’obiettivo, risulta già un’operazione estetica di rilievo. La fotografa-modella (a scattare è ancora Marion) si esibisce con indosso un originale completo Zingaresco disegnato dall’amica Anita Pittoni: l’abito composto da due pezzi, gonna e reggiseno a fascia, è totalmente realizzato in juta colorata lavorata all’uncinetto. In proposito è doveroso ricordare quanto il peculiare utilizzo tessile, effettuato da Pittoni, di materiali rigidi e resistenti quali la canapa e la juta combinati con le fibre più morbide di lana e seta, sia stato apprezzato all’interno del circuito artistico nazionale contemporaneo, nonché dalla politica autarchica fascista. Anton Giulio Bragaglia  promotore di una Casa d’Arte a Roma elogerà più volte il lavoro della disegnatrice e artigiana triestina, coinvolgendola in numerose esposizioni o nella preparazione scenotecnica di vari spettacoli teatrali, e menzionandola tra gli iniziatori della moderna scenografia italiana insieme ai futuristi Enrico Prampolini e Depero. Proprio a detta di Prampolini, la canapa sarebbe perfetta per interpretare i disegni più moderni (Cammarata, 1999); operazione che Pittoni svolgerà già dal 1930 secondo decise linee avanguardiste (déco, cubo-futuriste, costruttiviste e astrattiste). Dunque, Anita verrà presto e prima di Wanda a contatto con il fronte futurista italiano, magari introducendo lei stessa a quel clima e a quella forma mentis l’amica fotografa. «Un connubio di moda e avanguardia» sarà allora definito da Federica Muzzarelli, il felice sodalizio tra Pittoni e le sorelle Wulz. È importante evidenziare che l’anno in cui venivano realizzate le performances fotografiche in costume gitano era il 1937, perciò Wanda aveva già consumato la sua esperienza con il Futurismo (datata 1932) ed era ormai totalmente in possesso di un certo bagaglio esperienziale e artistico. Sappiamo che il binomio performance-Futurismo suffragato dal principio Arte-Vita che Marinetti teorizzò nei suoi manifesti fu un aspetto fondante e fondamentale del movimento: ne furono esempio lampante le tumultuose “serate futuriste”, gli stessi eventi espositivi, o gli happening del Teatro di varietà e del Teatro futurista sintetico. Colui che poi deciderà effettivamente di registrare con la fotografia una vigorosa attività performativa, risponde al nome di Depero, punta di diamante del Secondo Futurismo, con i suoi Autoritratto con pugno e Autoritratto con smorfia: autentiche prove di Body Art già negli anni Dieci del Novecento, tanto il corpo e la sua gestualità sono posti in evidenza (Fabbri, 2006). Incamerando tale complessivo clima esperienziale d’avanguardia, anche in quanto a espressività corporea, Wanda Wulz, con fiori tra i capelli, propone all’obiettivo della sorella il suo corpo semiscoperto e in movimento, nella gestualità libera e sensuale della danza ovvero «la disciplina che ricorda più da vicino la performance e meglio ancora la Body Art» (Fabbri, 2006). Infine è interessante il fatto che  come diverrà tipico di molte operazioni di Arte Concettuale pure in campo fotografico nella serie di immagini in questione non esista alcun impegno formale da parte delle fotografe, anzi, si lasci intravedere persino l’intelaiatura del pannello bianco retrostante, di solito invisibile nella costruzione della finzione fotografica. Tutta l’attenzione è rivolta al gesto, all’espressione corporea disinvolta e divertita di una donna che palesa platealmente il proprio spirito libero e creativo. «L’autoritratto ci consegna ogni volta, espresso in forma visiva, una sorta di spaccato autobiografico, un frammento di confessione» (Boatto, 2005). Mediante l’Autoritratto allo specchio del 1932 , Wanda Wulz esprime tutta la fierezza, e il fascino, di una donna libera sulla via della completa realizzazione personale e artistica.
 
 
Se ad aprire il testo è stato quel lavoro che “credevamo” di poter fruire come un autoritratto di Wanda benché a scattare dietro l’obiettivo ci fosse in realtà Marion , nel caso attuale, noi spettatori “sappiamo” trattarsi di un autentico autoritratto. A qualificarlo esplicitamente interviene la precisa titolazione nonché il mezzo profilo sfocato della fotografa che compare sull’angolo superiore sinistro dell’immagine, lasciando il restante ampio campo visivo al chiaro e diretto riflesso speculare del suo volto. Vi è qui la ferma intenzione di auto-effigiarsi autonomamente specchiandosi. Narcisa ora più che mai, Wulz decide di non delegare più neppure la sorella e avverte l’esigenza di ritrarsi in solitaria accostandosi a uno strumento altamente rivelatore come lo specchio, congelando l’immagine riflessa tramite quell’altro specchio, però dotato di memoria, che è l’occhio fotografico. Nel primo scatto del 1930 Wanda delineava il piglio forte e coraggioso della donna e dell’artista giovane, da poco al comando della prestigiosa azienda di famiglia in seguito alla morte del padre. Nell’autoritratto del 1932, la fotografa avvolta nella penombra afferma la sua immagine con rinnovato orgoglio e le sopracciglia aggrottate in uno sguardo di sfida. Questo sarà un anno cruciale per Wulz poiché in aprile si verificheranno gli importanti incontri con Marinetti e la grande Mostra Fotografica Futurista a Trieste, alla quale lei parteciperà guadagnandosi gli elogi della critica e del leader del Futurismo: per Wanda è l’occasione d’oro che la consegnerà al successo internazionale come unica donna fotografa futurista italiana. L’opera del 1932, dunque, assume i connotati della tipologia dell’«autoritratto come monumento» teorizzata da Stefano Ferrari: «prevale l’elemento dell’intenzionalità  legata a una situazione contingente e particolare,  quando l’autoritratto segna effettivamente le tappe cruciali nella vita dell’individuo» (2008). Ciò spiegherebbe il perché di una tale, nuova, esigenza auto-rappresentativa (in questo determinato frangente) e perfino l’essenza stessa di una mimica facciale così caricata. A ridosso dell’esperienza futurista, Wanda decide di impugnare effettivamente l’apparecchio fotografico per autoritrarsi, compiendo un gesto e una dichiarazione forte: si mostra come Fotografa e come Futurista. Trattiene i capelli con un “emblematico” foulard a toppe asimmetriche e sfodera uno sguardo già avanguardista, affine alle rinomate espressioni seriose di Marinetti davanti all’obiettivo fotografico. Chi scrive ha avuto modo di individuare, tra le stampe fotografiche dell’Archivio Studio fotografico Wulz, solo un altro paio di autoritratti: due belle immagini, dai toni chiari e delicati, rispettivamente datate 1932 e 1936. Nella prima, Wanda si mostra dentro una cornice ovale, seduta dando le spalle a una grande specchiera in legno che riflette il suo profilo sorridente; la fotografa rivolge lo sguardo direttamente all’obiettivo, sono graziosi e raffinati sia la posa che l’abito lungo con ricami e maniche a sbuffo, sistemato morbidamente su tutta la seduta. Lo scatto del 1936 appare più dinamico: Wulz si riprende di scorcio in primo piano, indossa un fazzoletto scuro in testa, sorride e indirizza lo sguardo fuori camera. Si tratta in entrambi i casi di immagini curatissime sotto il profilo formale, è chiaro infatti che in questi lavori la fotografa intenda privilegiare questo aspetto. Citando ancora Ferrari, si aggiunga inoltre che esistono «l’autoritratto esplicito, che l’autore stesso definisce tale, e la semplice autoproiezione» (2008): quest’ultimo meccanismo andrebbe al di là della più generica pulsione autobiografica ovvero quel bisogno dell’artista di inserire nella propria opera consciamente o meno – elementi o figure che raccontino il suo mondo e la sua storia privata. Talvolta si usa « il termine autoritratto riferendosi proprio a opere specifiche (alcune e non altre), le quali da un punto di vista figurativo non hanno nulla dell’autoritratto» (Ferrari, 2008). In quegli anni così attivi creativamente, tra traguardi avanguardistici e desideri di autoaffermazione artistica e identitaria, le sorelle Wulz iniziarono a ritrarre con una certa frequenza anche gli amati gatti di casa, Mucincina, Pippo e Plunci, che diventarono i soggetti di fresche e affettuose immagini da album di famiglia. Pure questi scatti, inclusi a buon diritto in quello che abbiamo definito “archivio privato” di Wulz, sono carichi di una valenza concettuale non indifferente a prescindere da quella meramente affettiva. Entrambe le sorelle si dedicarono ai ritratti delle bestiole contestualizzandoli in un’atmosfera molto intima, tra le stanze della casa mentre giocano o viene preparato loro il cibo18. Ma il più delle volte fu Marion a fotografare queste scene familiari, soprattutto perché spesso insieme ai gatti è ritratta Wanda: si percepisce l’affiatato legame esistente tra quest’ultima e i suoi animali. Alcune immagini sono molto intense e ben studiate a livello formale, nella composizione e nella scelta della luce che crea ombre lunghe e suggestive, come nel Ritratto di Wanda con la gatta Mucincina, appoggiata a un tavolo. In primo piano un piccolo vaso con fiori del 1932: qui è interessante notare la pelliccia chiara indossata da Wulz che, abbracciando il felino, sembra fondersi e mimetizzarsi con il suo stesso manto. In un’altra immagine del 1930, sempre scattata da Marion, Wanda è ritratta sorridente accanto al gatto Plunci. Invece, una fotografia di Mucincina in posa con i suoi cuccioli, viene indicata da Elvio Guagnini e Italo Zannier (1989) come opera di Wanda e Marion insieme. Opera esclusivamente della primogenita Wulz è il ritratto ravvicinato di Mucincina titolato Gatto meno io, cioè lo scatto utilizzato per la sovrimpressione del celebre Io + gatto presentato alla mostra futurista triestina. A questo lavoro è d’obbligo affiancare l’Autoritratto che Wanda si scatta per poter finalmente compiere quell’originale fusione: l’ombra sfumata sul volto in primo piano, attorniato dal collo di pelliccia che favorirà la metamorfosi, mostra un sorriso malizioso e uno sguardo penetrante e sensuale, già felino. Secondo Ferrari, l’esito fotografico di Io + gatto rappresenta anche « un’identificazione di tipo proiettivo con l’animale: una proiezione e una condensazione che  trovano una precisa corrispondenza figurativa» (2008). L’opinione di chi scrive è che si possa attribuire alle immagini sopra descritte di carattere, per così dire, domestico e privato  i requisiti di quegli autoritratti definiti di genere proiettivo, citati poc’anzi. Proprio come il campo di grano, il volo di corvi o la stanza da letto di Vincent Van Gogh, che rappresentano quasi fisicamente la realtà e la psichicità dell’artista, una sua proiezione pittorica; e non meno degli adorati animali spesso dipinti da Antonio Ligabue, con i quali egli pare oltremodo identificarsi pure a livello fisiognomico nei suoi autoritratti. Così, queste immagini di Wulz, in cui si manifesta lo stretto rapporto con i suoi felini, finirebbero col raccontare di lei stessa, rappresentandola anche nelle numerose immagini in cui vengono ritratti soltanto i gatti. Tutto ciò sfocerà poi nel coronamento della condensazione vera e propria di Io + gatto . Sarà il felice epilogo di un intenso processo creativo e identitario nonché un significativo traguardo per Wanda Wulz come artista-fotografa e come donna; che ne confermerà l’indubbio rilievo autoriale nel contesto storico-artistico e fotografico della prima metà del Novecento. «Poiché il lavoro creativo dischiude la sola strada che consenta la totale affermazione della propria personalità» (Boatto, 2005). Ma Fotografia Wulz è anche una storia familiare, un viaggio attraverso diverse generazioni vissute nel cuore del loro atelier,un cammino che va dalle sperimentazioni di Giuseppe Wulz a quelle delle sorelle Wanda e Marion, che con il loro lavoro sono diventate protagoniste dell’avanguardia artistica del Novecento, promuovendo anche l’affermazione sociale delle donne. Nella mostra i visitatori possono ammirare anche opere inedite,che ripercorrono i tre periodi artistici della famiglia Wulz. Il primo è quello degli esordi e dei primi successi di Giuseppe Wulz, dalla sua formazione nello studio Engel (attorno al 1865) all’apertura dell’ultimo Atelier nel 1891 in Palazzo Hierschel, al civico 19 dell’attuale Corso Italia a Trieste. In questi anni, Giuseppe segue da una parte gli stilemi del ritratto tipici del romanticismo fotografico e dimostra, dall’altra, un’attitudine per la realizzazione di vedute, soprattutto dall’alto, delle colline che circondano la città. Il secondo periodo prende il via nel 1891 ed è caratterizzato da un consolidamento dell’attività tra Giuseppe e il figlio Carlo,il quale proseguirà poi in modo autonomo, a causa delle condizioni di salute del padre. Carlo si dedica alla sperimentazione di nuove tecniche e sia per una dimensione collettiva, realizzando, al di fuori o all’interno dello studio, ritratti di gruppo delle categorie sociali emergenti. In parallelo con l’impegno politico irredentista, suo e dei fratelli Vittorio e Antonio il primo, di professione medico con laurea a Graz mentre il secondo, musicista, driver di cavalli e commerciante che poi si stabilirà a Vienna l’Atelier Wulz diventa la meta di un mondo artistico e culturale triestino che si rapporta con la famiglia al di là delle necessità di ripresa, sviluppo e stampa delle fotografie. Fuori dallo studio, Carlo documenta lo sviluppo industriale del periodo precedente alla Prima guerra mondiale. Il terzo periodo, infine, inizia dopo la morte di Carlo Wulz, nel 1928, e si protrae fino alla chiusura dell’attività da parte delle sorelle Wanda e MarionWulz nel 1981. Proseguendo la tradizione del ritratto e del ritratto famigliare, Wanda e Marion Wulz ci hanno lasciato, oltre a un’importante produzione professionale di atelier e alla documentazione dei giorni della Liberazione di Trieste immortalati da Marion, un’originale esperienza del fotografico con cui hanno raccontato la loro vita autonoma e orgogliosa, il loro essere donne attive e consapevoli, e il loro interesse per una liberazione del corpo e del gesto tipici di quella fase di aspettative e desideri di modernità. Questo scambio culturale arricchisce ulteriormente il loro lavoro, rendendo le opere della famiglia Wulz un importante punto di riferimento per la fotografia triestina e non solo. Le immagini delle due sorelle possono essere lette come l’occasione di visualizzare concretamente i progressivi mutamenti dell’identità delle donne,che nei primi decenni del Novecento intrapresero una delle fasi più importanti del loro percorso di emancipazione e indipendenza. Consacrata unica donna fotografa del Futurismo italiano nella mostra organizzata nel 1932 a Trieste, Wanda ha goduto di una giusta fama mondiale concentrata sull’icona di Io + Gatto, di cui sono esposte le lastre negative originali. La mostra è accompagnata da un catalogo bilingue edito da Silvana editoriale, la mostra avrà anche una serie di eventi d’approfondimento.
 
 
Magazzino delle Idee Trieste
 
Fotografia Wulz. Trieste, la famiglia, l’atelier
 
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
 
Lunedì Chiuso 
 
Marion-Wulz-Wanda-Wulz-Trieste-ca.-1930
 
Fotografia Wulz, exhibition view, foto Omar Breda