Giovanni Cardone Luglio 2022
Fino al 23 Ottobre 2022 si potrà ammirare presso Cà Pesaro Galleria Internazionale D’Arte Moderna di Venezia la mostra Afro 1950 -1970 Dall’Italia All’America e Ritorno From Italy To America And Back a cura di Elisabetta Barisoni e Edith Devaney. In collaborazione con Fondazione Archivio Afro e con la Direzione scientifica di Gabriella Belli. In occasione della Biennale rinviata di un anno a causa della pandemia, Ca’ Pesaro vuole ripartire dalle proprie collezioni e dalla pittura, con la voce di uno dei maestri dell’arte italiana del secondo dopoguerra, Afro Basaldella. Riconosciuto come figura centrale dell’astrattismo internazionale, Afro parte prima da Venezia e poi da Roma per portare la sua ricerca negli Stati Uniti, diventando ben presto l’artista italiano più conosciuto e apprezzato dal collezionismo americano. Grazie alla collaborazione con l’Archivio Afro e l’arrivo di alcuni importanti prestiti nazionali e internazionali, Ca’ Pesaro rende omaggio ad un autore ben rappresentato nelle proprie collezioni e intende riportare nuova luce sull’intenso rapporto che, nei fervidi anni Cinquanta, si è instaurato tra l’arte italiana e quella americana che viveva il nascere dell’espressionismo astratto e dell’action painting. Come afferma il Sindaco di Venezia Luigi Brugnaro : Siamo arrivati alla quinta edizione di MUVE Contemporaneo, la proposta della Fondazione Musei Civici di Venezia dedicata alla produzione del nostro presente, in un vero dialogo tra le nostre sedi e collezioni museali in laguna e terraferma.
Fin dalla sua nascita, MUVE Contemporaneo ha avuto in Ca’ Pesaro - Galleria Internazionale d’Arte Moderna un naturale centro propulsore e attrattore delle espressioni artistiche che dal secolo scorso fino ai giorni nostri si articolano secondo diversi linguaggi visivi. La Galleria di Ca’ Pesaro apre così la nuova stagione espositiva ripartendo dalle proprie collezioni e dalla pittura, con la voce di uno dei maestri dell’arte italiana del secondo dopoguerra, Afro Basaldella. Un artista riconosciuto come figura centrale dell’astrattismo internazionale e che porta, prima a Venezia e poi a Roma, la sua ricerca negli Stati Uniti, diventando ben presto l’italiano più conosciuto e apprezzato dal collezionismo americano. Grazie alla collaborazione con la Fondazione Archivio Afro e all’arrivo di alcuni importanti prestiti nazionali e internazionali, Ca’ Pesaro rende omaggio a un autore ben rappresentato nelle proprie collezioni e intende riportare nuova luce sull’intenso rapporto che, nei fervidi anni Cinquanta, si è instaurato tra l’arte italiana e quella americana, che viveva il nascere dell’Espressionismo Astratto e dell’Action Painting. Venezia, ponte tra culture, popoli e tradizioni, continua ad essere luogo d’arte e avanguardia e, anche con questa mostra, consolida, raccontando il presente, la sua volontà di creare un legame tra il passato e il futuro. Mentre dichiara Maria Cristina Cribaudi Presidente Fondazione Musei Civici di Venezia : In “Afro 1950–1970. Dall’Italia all’America e ritorno” i capolavori di pittura affiancati ad alcuni selezionati disegni e a preziosi materiali d’archivio presentano gli anni cruciali della produzione di Afro, che diventa un grande racconto, poetico e potente, intimo e allo stesso tempo universale, ambientato laddove la memoria e la storia si arricchiscono di umanità e grandezza evocativa, sostenute da una tecnica altissima e da un inesauribile amore per la pittura. Insieme ad Afro sono esposti a Ca’ Pesaro i “compagni di viaggio” che hanno contribuito al crescere delle relazioni tra Italia e America al punto di vista culturale: il maestro ideale per tutta la generazione Arshile Gorky e poi Giuseppe Santomaso, Alberto Burri, Willem de Kooning, Toti Scialoja, Alexander Calder, tra gli altri.
Desidero esprimere il mio più vivo ringraziamento al Consiglio di Amministrazione della Fondazione Musei Civici di Venezia, al Direttore Gabriella Belli e alle curatrici del progetto, Edith Devaney ed Elisabetta Barisoni, Responsabile di Ca’ Pesaro. Infine, il mio sincero grazie allo staff dei Musei Civici, alla Fondazione Archivio Afro, a BNLBNP Paribas, a Magonza, ai musei prestatori, ai collezionisti e a tutti quanti hanno collaborato e reso possibile la realizzazione di questa mostra, che ci auguriamo riscontri nel pubblico e nei visitatori dei prossimi mesi la stessa passione e il medesimo entusiasmo che abbiamo vissuto noi vedendola concretizzarsi. Attraverso quarta cinque capolavori affiancati ad alcuni selezionati disegni e a preziosi materiali d’archivio, la Galleria Internazionale d’Arte Moderna intende presentare gli anni cruciali della produzione di Afro, quando l’artista è a stretto contatto con il mondo americano e porta a compimento la sua capacità di sviluppare un linguaggio sempre personale, che unisce l’intima assimilazione della pittura veneziana e del colore tonale alle riflessioni sul cubismo sintetico e sull’astrattismo. L’opera di Afro diventa così, nelle sale monumentali del secondo piano di Ca’ Pesaro, un grande racconto, poetico e potente, intimo e allo stesso tempo universale, ambientato laddove la memoria e la Storia si arricchiscono di umanità e grandezza evocativa, sostenute da una tecnica altissima e da un inesauribile amore per la pittura.
La mostra include anche una piccola ma preziosa selezione delle opere di artisti legati alla vita e alla produzione di Afro negli anni della maturità, come Matta e Scialoja, insieme ai contatti con la scena artistica americana, tra cui il legame spirituale, a distanza di tempo, con Arshile Gorky e il rapporto di amicizia stretto con Willem De Kooning. Nel delineare la sua biografia possiamo dire che : Afro Libio Basaldella nasce a Udine nel 1912. Nel '28, appena sedicenne, espone insieme ai fratelli Dino e Mirko alla prima ed unica Mostra della Scuola Friulana d'Avanguardia. Nel 1930, grazie ad una borsa di studio offerta dalla Fondazione Artistica Marangoni di Udine, Afro ha l'opportunità di recarsi a Roma in compagnia del fratello Dino e di entrare in contatto con l'ambiente artistico della capitale. Dal '31 inizia a partecipare alle diverse Mostre Sindacali e nel '33 espone alla Galleria del Milione di Milano, insieme ai friulani Bosisio, Pittino e Taiuti; successivamente Afro si trasferisce a Roma. Nel ‘35 partecipa alla Quadriennale di Roma, e nel ’36 alla Biennale di Venezia; dove esporrà anche nel ’40 e nel ’42. Dopo l'esperienza della Scuola Romana, la realizzazione di diverse opere di pittura murale ed il temporaneo avvicinamento al Neocubismo, nel 1949 partecipa alla mostra XXth Century Italian Art al MoMa e l’anno successivo Afro si reca negli Stati Uniti ed inizia la ventennale collaborazione con la Catherine Viviano Gallery a New York. Il differente clima culturale ed i molteplici movimenti artistici americani di quell'epoca, rimarranno impressi nella memoria dell’artista e verranno rielaborati in seguito in maniera del tutto personale. Nel ’52 aderisce al gruppo degli Otto, con i quali prende parte alla XXVI Biennale. Nel 1955 è presente alla prima edizione di Documenta a Kassel, alla Quadriennale ed alla Mostra itinerante negli USA: The New Decade: 22 European Painters and Sculptors. Ormai Afro ha raggiunto consensi e fama soprattutto a livello internazionale e nel 1956 ottiene il premio come miglior pittore italiano alla Biennale di Venezia. Nel 1958, prende parte, insieme ad Appel, Arp, Calder, Matta, Mirò, Moore, Picasso e Tamayo, alla decorazione della nuova sede del palazzo dell'UNESCO a Parigi dipingendo Il Giardino della Speranza. Gli anni 1959-‘60 vedono ancora Afro impegnato a livello internazionale: è invitato a II. Documenta a Kassel, è vincitore del premio a Pittsburgh e del premio per l'Italia al Solomon R. Guggenheim di New York. Nel 1961 J. J. Sweeney, curatore del Guggenheim Museum di New York, gli dedica una splendida monografia. Tra le personali di questi anni ricordiamo: Cambridge, al Massachusetts Institute of Tecnology nel ‘60; Parigi, alla Galerie de France e Milano, alla Galleria Blu nel ‘61. Poi, tra il ’64 ed il ’65, ancora in Europa: alla Galerie im Erker di St. Gallen, alla Räber di Lucerna, alla Günter Franke di Monaco di Baviera e nel 1969-’70 la vasta antologica curata da B. Krimmel al Kunsthalle di Darmstadt, alla Nationalgalerie di Berlino, e in seguito al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Dopo la morte del fratello Mirko, avvenuta nel 1969, Afro subisce alterne vicende di salute. Gli anni ’70 sono caratterizzati dall’intensificarsi dell’opera grafica e da un diradarsi dell’attività pittorica ed espositiva. Muore a Zurigo nel 1976. L’anno successivo viene pubblicata la monografia curata da C. Brandi. Nel 1978 la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma gli rende un prestigioso omaggio allestendo una ricca e documentata retrospettiva a cura di B. Mantura. Nei decenni successivi mostre personali e collettive, studi approfonditi da parte di storici e critici dell’arte mantengono vivo consolidando il lavoro del maestro e contribuiscono alla diffusione della sua opera sia a livello nazionale che internazionale. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Afro apro il mio saggio dicendo :
Potrebbe sembrare oziosa la ragione per cui abbiamo pensato forse, di mutare la datazione tradizionale del periodo artistico più recente , che parte in genere dal secondo dopoguerra, cioè dal 1945: considerando quindi gli anni delle guerra quasi una coda , o una logica conseguenza degli sviluppi del decennio precedente, se non, quasi, un’interruzione nel flusso degli eventi artistici. Se in parte sono vere tutte e tre queste cose , è anche vero che per ragioni magari contingenti, il periodo bellico, più ancora della vittoria finale americana, è stato quello che ha determinato lo spostamento della capitale internazionale dell’arte da Parigi a New York ed ha rappresentato un importante momento di incubazione di esperienze che sono esplose nel periodo immediatamente successivo, come la grande fase internazionale dell’ Informale. In questo periodo siamo nei primi anni quaranta dove un gruppo di artisti e fotografi europei andarono in esilio in America ed in particolar modo a New York . Da tante fotografie dell’epoca si evince che erano di nazionalità francese iniziando dal capo storico del Surrealismo Andrè Breton , gli artisti Masson , Tanguy , Ernest, Duchamp e Matta tra loro è presente anche Piet Mondrian che avrebbe vissuto gli ultimi anni nella città di New York lascandovi l’eredità della sua complessa speculazione sullo spazio e sulla superficie pittorica. Inoltre erano tornati in America anche come emigranti altri esponenti della cultura surrel-dada , oppure astratta e costruttovista , come Man Ray, Laslò Monholy – Nagy, e Hans Hofmann, un artista tedesco sottovalutato ma che la sua influenza fu determinante per la nuova generazione degli artisti americani. Altri artisti arrivarono in America come l’armeno Gorky e l’olandase De Koorning ma nel contempo molti di loro furono influenzati anche da Mirò, Picasso ed arrivarono anche gli echi di Kandiskij. Ecco perché nasce il dripping grazie al giovane Pollock, egli fu influenzato in parte dai colori di Marx Ernest. Bisognerà attendere il 1947 prima che questo procedimento diventi per lui abituale, con le dirompenti conseguenze che lo hanno reso celebre .Scriveva così Edward Hopper nel 1933, momento cardine per l’evoluzione dell’arte negli Stati Uniti d’America. Infatti proprio quell’anno si vide come vincitore alle elezioni presidenziali Franklin Delano Roosevelt, che rimase in carica per ben quattro mandati consecutivi, fino alla sua morte nel 1945. Roosevelt salì al potere nel momento più buio della storia americana, ovvero negli anni della Depressione, a seguito del crollo della Borsa di Wall Street. Al fine di risollevare le sorti del paese, il Presidente attuò tra il 1933 e il 1937 una politica di riforme socioeconomiche, il New Deal, che toccò i vari settori del sistema compreso quello artistico, agendo indirettamente insieme con altri fattori culturali sulla formazione di quella corrente che sarebbe sfociata poi nell’Espressionismo Astratto. La citazione di Edward Hopper richiama una tematica largamente discussa nella prima metà del XX secolo, cioè la ricerca “dell’americanità”, di una specificità che autonomizzasse l’arte americana da quella europea, nei confronti della quale aveva “a lungo sofferto di un complesso di inferiorità”, e ribaltasse le relazioni di influenza all’interno del mondo dell’arte. Questo percorso introspettivo prese piede con maggiore forza in seguito all’International Exhibition of Modern Art. L’esposizione, meglio nota con il nome di Armory Show, fu organizzata nel 1913 da un gruppo di studenti newyorkesi (Walt Kuhn, Walter Pach e Arthur B. Davies insieme a una ventina di altri artisti) che si riunirono dietro l’acronimo di AAPS, Association of American Painters and Sculptors, per mettere in evidenza i lavori di alcuni artisti contemporanei americani, sfruttando come richiamo per il pubblico le opere di pittori europei di fama internazionale. La mostra collezionò infatti un altissimo numero di visitatori anche se i riflettori rimasero principalmente puntati sull’arte del vecchio continente. Come sostiene Pola, comunque, l’obiettivo principale era quello di avviare un processo di sprovincializzazione dell’ambiente artistico americano verso una direzione internazionale, ponendo la questione della possibilità di realizzare un’arte moderna nazionale a partire dall’esperienza diretta con quella europea. Di fatto, la risposta dei circoli artistici e critico-letterari non tardò ad arrivare e si manifestò attraverso esiti differenti a partire dagli anni Venti. Tra i primi a proporre una soluzione al problema dell’americanità e della reintroduzione di opere “native” all’interno del sistema artistico, fu Alfred Stieglitz, come dichiarano le sue parole in una lettera a Paul Rosenfeld del 1923.
Fotografo, direttore della rivista «Camera Work» e sostenitore (in anticipo anche rispetto all’Armory Show) della diffusione dell’arte europea fino al 1917, anno della chiusura della sua Galleria 291, Stieglitz si dedicò nella seconda parte della sua vita a promuovere un ristretto gruppo di artisti americani. Nel 1925 fu invitato alle Gallerie Anderson, in onore del ventesimo anniversario della nascita della Galleria 291, a curare una delle più grandi mostre di arte americana che contò centocinquantanove opere tra collage, quadri, acquerelli, objet trouvé e fotografie. In Seven Americans figuravano i lavori di Georgia O’Keeffe, Marsden Hartley, John Marin, Arthur Dove, Charles Demuth, Paul Strand e Stieglitz stesso. Sia l’esposizione del 1925 sia l’attività delle sue successive gallerie, The Intimate Gallery dal 1925 al 1929 poi chiamata An American Place dal 1929 al 1946, erano improntate alla definizione di una nuova via alla modernità. Questa, nonostante trovasse ancora il punto di partenza nell’avanguardia del vecchio continente, avrebbe dovuto proporre connotati prettamente americani legati alla rappresentazione delle città statunitensi, in particolare di New York che stava diventando sempre più l’icona del progresso tecnologico e urbano. Venivano così elevati a emblemi i suoi ponti, le sue luci, le sue strade e i suoi grattacieli, come in Radiator Building - Night, New York di Georgia O’Keeffe. Parallelamente al circolo di Stieglitz, negli anni Venti e successivamente negli anni Trenta, nacquero altre correnti che presero le mosse dalla precedente Ashcan School6 e che si spinsero in una direzione realista: tra queste vi erano il Realismo Sociale e il Regionalismo, comunemente racchiusi sotto il nome di Scena Americana. Prima di procedere nella spiegazione di queste due correnti e della loro presa di posizione nei confronti della ricerca di una specificità artistica americana, è imprescindibile la necessità di recuperare i fatti storici che contribuirono al loro sviluppo. Come già accennato all’inizio del saggio il 24 ottobre del 1929, il cosiddetto “martedì nero”, la Borsa di New York subì un drastico crollo. La crisi che ne seguì, come riferisce Mattick, giunse inattesa agli americani e fu in realtà la conseguenza irrisolta della crisi economica che aveva preceduto la Prima Guerra Mondiale, la quale aveva solo permesso di sviarla per il periodo della sua durata. L’esito della guerra decretò la sconfitta dei paesi dell’Europa centrale e la conseguente attribuzione all’America della “carica” di “paese guida del capitalismo nella riorganizzazione della struttura internazionale del potere. L’America da debitore qual era divenne creditore e l’affermazione del suo dominio economico mutò tutte le relazioni internazionali esistenti”. La sua espansione ebbe però una battuta d’arresto nel 1929, quando anch’essa risentì delle condizioni postbelliche. La Grande Depressione fu la più lunga, profonda e diffusa depressione del XX secolo e negli Stati Uniti, nel 1932, si contavano ben 15 milioni di disoccupati. La popolazione non attribuì la colpa al sistema capitalistico ma alla sua cattiva amministrazione da parte del governo Hoover e indirizzò le sue speranze in un nuovo governo che potesse combattere la crisi con più energia. Fu così, che alle elezioni del 1932, Franklin Delano Roosevelt, esponente del partito democratico, promettendo “a new deal for the American people”, fu nominato Presidente degli Stati Uniti d’America. Emblematico il suo discorso inaugurale per fare luce sullo stato di emergenza in cui versava il paese e sul suo atteggiamento ottimista teso a creare un consenso popolare. Il grande potere a cui si riferiva Roosevelt era potere esecutivo per poter attuare una serie di riforme socioeconomiche il New Deal, che si realizzarono in due fasi distinte da obiettivi diversi la prima era tesa a far ripartire l’economia mentre la seconda, a partire dal 1936, a fornire tutela ai disoccupati, agli anziani e a chiunque si trovasse in stato di necessità. In questo drammatico panorama, la fine della Grande Guerra e la Grande Depressione contribuirono ad accelerare l’allontanamento di un gruppo di artisti dalle astrazioni dell’arte moderna Europea, percorrendo quella strada già avviata da tempo nella definizione di un’arte propriamente americana. I pittori della cosiddetta Scena Americana non appartenevano ad un unico movimento organizzato ma condividevano la stessa tendenza, come suggerisce il nome, alla rappresentazione realista in contrapposizione all’astrattismo europeo dell’America di quel periodo, variando, a seconda della corrente specifica, nell’interpretazione e nel sentimento che volevano suscitare. Mentre il Realismo Sociale ritraeva le condizioni precarie delle classi impoverite dalla crisi, fornendo un’immagine critica e per niente trionfante degli Stati Uniti, il Regionalismo nelle sue rappresentazioni della campagna del Midwest “assumeva un carattere positivo, più rassicurante e speranzoso, proponendo ameni paesaggi rurali popolati da contadini operosi”. L’obiettivo fondamentale del Regionalismo, i cui esponenti principali erano Grant Wood, John Stuart Curry e Thomas Hart Benton, era dunque quello di ritornare alle radici agresti del Paese, come espresse con tali parole quest’ultimo. La fama e la notorietà acquisita tramite la rivista comincia a produrre dei risultati a livello di riconoscimento istituzionale: nel gennaio del 1950 il MoMA acquista Number , uno dei dipinti più recenti di Pollock, mentre nel giugno dello stesso anno il pittore partecipa alla XXV Biennale di Venezia, per conto del Padiglione degli Stati Uniti, con ben tre quadri nel periodo concomitante alla Biennale, inoltre, viene organizzata un’esposizione personale di Pollock dove il pittore viene rappresentato da una ventina di dipinti presso il Museo Correr di Venezia, prima, e la Galleria d’Arte del Naviglio a Milano, poi. Tra il luglio e l’agosto 1950 il fotografo Hans Namuth ottiene di poter effettuare un servizio fotografico su Pollock, oltre a spezzoni di filmati girati soprattutto durante il lavoro del pittore. Alla fine dell’anno, inoltre, Pollock espone tre dipinti alla Sideny Janis Gallery non recensita da Greenberg, per mezzo dell’organizzazione di Leo Castelli, e un mese più tardi, presso la galleria di Betty Parson si tiene la quarta personale del pittore. Anche in questo caso Greenberg non redige alcuna recensione, anche se, stando al resoconto di Naifeh e Smith, il critico avrebbe dichiarato di aver detto a Pollock che pensava che questo sarebbe stato “his best show ever”, ma di aver anche aggiunto: “but I also said I didn’t think it was going to sell”. Infatti, nonostante la visibilità e le esposizioni, sempre più diffuse e frequenti, la rispondenza del mercato alle opere di Pollock sembra non trovare riscontro: in quasi tutte le esposizioni americane non vengono venduti che pochi dipinti. Le ragioni possono essere molteplici, e vanno dall’incapacità di apprezzare l’autentica arte americana da parte dei collezionisti, come sostiene Greenberg, a considerazioni assolutamente più immediate. Le difficoltà economiche aggravano la salute di Pollock, che sfoga nell’alcolismo anche l’emarginazione che comincia a subire da parte degli altri artisti astratti americani: l’appoggio di un critico come Clement Greenberg, e la serie di circostanze che assicurano a Pollock una discreta fama, diventano presto dei motivi di gelosia da parte dei colleghi del pittore. Un sentimento di invidia sembra infatti percorrere le parole dello scultore Philip Pavia quando afferma che “when Greenberg is on a favorite, everyone else goes down in the drain”, oppure in quelle del pittore Paul Brach, quando sostiene: “Jackson’s promotion was our demotion. The myth of the great artist somehow diminished the rest of us. He was the sun an we were the black hole” . Tali ostilità denunciano i primi sintomi già un paio di anni prima, quando, nel 1948, Robert Motherwell, William Baziotes e Mark Rothko fondano una scuola nominata Subjects of the Artists, in cui i partecipanti intendono ribadire l’importanza del soggetto, in opposizione alle teorie formaliste e astratte che Greenberg andava propugnando. Verso la fine dell’anno successivo, poco tempo dopo l’articolo su Pollock pubblicato da Life, una ventina di artisti si accordano per creare un fondo con cui affittare un appartamento, che diventa noto con il nome di The Club: tra i membri si annoverano Willem de Kooning, Franz Kline, Milto Resnik, Philip Pavia, Conrad Marca-Relli, Giorgio Cavallon e altri. Anche in questo contesto il comune denominatore è il contrasto con le teorie greenberghiane, che puntano a ridurre la portata dell’arte astratta a una mera constatazione della piattezza e dell’esistenza dei mezzi, arrivando ad escludere qualsiasi soggetto, che recasse con sé una qualche valenza semantica. Non è così immediato tracciare i contorni di questa sorta di contrapposizione, dal momento che i rapporti professionali, oltreché personali, tra i frequentatori dei vari ambienti dell’arte newyorkese risultano molto ramificati e diversificati. Senza voler proporre uno scenario dai contorni netti o radicali, dunque, è comunque importante considerare come, a partire dalla metà del 1950, le posizioni pro o contro Greenberg sembrano stigmatizzarsi in una dicotomia che prevede il critico e Pollock da una parte, e De Kooning coi propri seguaci dall’altra. Nel giugno del ’50, infatti, De Kooning suggerisce alla direzione del Black Mountain College, presso il quale tiene frequentemente delle lezioni, di offrire a Greenberg la possibilità di proporre un corso agli studenti: il critico imposta gli incontri dei due corsi affidatigli sul tema dell’arte moderna in generale da una parte, e sulla metodologia della critica d’arte sulla scorta del pensiero kantiano, dall’altra. Il filo conduttore del discorso greenberghiano è, prevedibilmente, l’opera di Jackson Pollock, proposta alla luce delle categorie formaliste che notoriamente il critico sostiene; in occasione di quest’incontri, Greenberg arriva ad affermare che, nonostante la genialità di De Kooning, Pollock si sarebbe dimostrato l’artista storicamente più importante dell’epoca. Pochi mesi più tardi De Kooning, invitato a tenere una conferenza presso il MoMA in occasione di un seminario dal titolo What abstract art means to me, prorompe in un attacco alle posizioni di Greenberg, pur non facendone mai il nome; il pittore arriva a proporre una concezione per così dire “inclusiva” dell’arte, che comprendesse tutto ciò che l’artista decida di inserirci, perfino la figura, la forma, e, quindi, il contenuto: il riferimento a Greenberg è estremamente esplicito. E’ a partire da questo confronto indiretto che la diceria negli ambienti artistici di New York suggerisce della presenza dei due schieramenti, in cui il primo vede l’aggregarsi di artisti e critici attorno a De Kooning, mentre il secondo si identifica nell’asse Greenberg – Pollock in realtà definire questa situazione in termini di vera e propria contraddizione forse risulterebbe fuorviante, tanto che De Kooning “deos not seem himself to have been governed by a sense of rivalry”, mentre Greenberg, nel 1953, indica una serie di artisti come migliori esempi della qualità dell’arte americana, e tra questi figura anche De Kooning e molti artisti che a lui si ispirano. Nell’esasperazione dell’identificazione di due poli in seno all’arte astratta americana, potrebbe invece giocare un ruolo significativo la posizione di altri critici, che prendono parte alla vicenda. Negli stessi anni in cui Greenberg esalta Pollock, indicandolo come il miglior pittore della propria epoca, parte degli altri astrattisti si raccolgono attorno alla figura di De Kooning, che da alcuni viene visto come il legittimo rappresentante dell’America, cui viene scippato il titolo da Pollock. Comincia allora a formarsi l’idea di una compagine se non omogenea, quanto meno relativa a un’istanza artistica comune. Già a partire dagli anni ’30 esiste un gruppo, gli American Abstract Artists, che riconosce nell’arte astratta una comune caratteristica del proprio operato. Nel corso del decennio successivo, però, a parte l’insieme iniziale di artisti, vengono ad aggiungersi una serie di personalità, in linea di massima più giovani, che assorbono l’eredità dei primi e la trasformano in qualcosa di nuovo. La consapevolezza della nascita di una sorta di corrente si concretizza già nel 1946 l’anno in cui Greenberg visita per la prima volta di persona lo studio di Pollock , quando Robert Coates propone la definizione di Abstract Expressionism, riferita ad un gruppo di artisti newyorkesi che si vanno distinguendo per il carattere astratto dei dipinti, al quale si aggiunge però anche l’emotività istintiva, tradotta in pennellate corpose e materiche . Nel mese di settembre del 1949, presso la galleria di Sam Kootz si tiene la mostra The intrasubjectives, alla quale partecipano, oltre a Pollock, Baziotes, Gorky, Morris Graves, Hofmann, De Kooning, Motherwell, Ad Reinhardt, Rothko, Tobey e Walker Tomin: negli esponenti del mondo artistico newyorkese la compagine dell’espressionismo astratto comincia ad acquisire dei volti piuttosto definiti e delle caratteristiche comuni.
La formazione del Club, al di là della controversa posizione nei confronti di Pollock, non fa che avvalorare l’idea di un gruppo che, sebbene non arrivando ad autodefinirsi in senso univoco, rispecchia un più ampio senso di affermazione per l’arte americana rispetto a quella europea, che andava crescendo in maniera sempre più palpabile. Nella primavera del 1950 il Metropolitan Museum comincia ad approntare la mostra che si sarebbe dovuta tenere l’anno successivo, col titolo American Painting 1900 – 1950, la cui commissione manifesta l’intenzione di escludere una parte delle tendenze astratte che si sono manifestate nei decenni di pertinenza dell’esposizione. Diciotto artisti, tra i qual Gottlieb, Newman, Rothko, Still, Motherwell, Baziotes, De Kooning, Reinhardt, Smith, e Pollock redigono una lettera di protesta nei confronti dell’amministrazione del museo; a poche settimane dall’inaugurazione della mostra del dicembre 1950 la rivista Life pubblica un articolo che racconta la protesta dei diciotto artisti, che identifica collettivamente col termine “The Irascibles”. Oltre alle istanze polemiche di cui l’iniziativa si costituisce, dunque, si tratta di un’ulteriore occasione in cui i mass media diffondono l’immagine di una compagine se non artisticamente del tutto omogenea, quanto meno orientata nei confronti dei medesimi intenti. In questo contesto pervaso dai fermenti del riconoscimento dell’espressionismo astratto come prima manifestazione artistica di rilievo in ambito americano di contrapposizione, reale o presunta che sia, tra Pollock e De Kooning, trova una diretta corrispondenza con la diatriba che si accende nel 1952 tra Harold Rosenberg e Greenberg, proprio a proposito del valore e del significato dell’astrattismo cosiddetto espressionista. Nel numero di dicembre del 1952 di Art News, infatti, Rosenberg pubblica un articolo in cui conia un nuovo termine per indicare la compagine degli artisti astratti americani, che egli identifica come “The American Action Painters”. Il rapporto tra Rosenberg e Greenberg comincia diversi anni prima, quando i due si conoscono e diventano perfino amici, all’interno degli ambienti degli intellettuali di sinistra che gravitano attorno alla redazione della Partisan Review81. Dopo la rottura a causa della critica di Greenberg ai quadri dipinti dall’amico, e i dissapori dovuti a disguidi lavorativi, i due non cercano più alcun riavvicinamento. Nell’articolo del 1952 Rosenberg si inserisce, però, nell’ambito che maggiormente tocca l’ex amico, e i termini con cui prende le distanze dalle posizioni di quest’ultimo segnano una svolta nelle carriere di entrambi. Secondo Rosenberg, infatti, l’aspetto più significativo della pittura degli espressionisti astratti non riguarda tanto le istanze formali che Greenberg propone, quanto piuttosto la novità che essa comporta, cioè una concezione dell’opera d’arte in termini radicalmente nuovi. Per Rosenberg la tela viene ad essere un’”arena” dove l’artista combatte le proprie battaglie interiori, di cui lascia un’inevitabile traccia tramite il colore; il critico, in sostanza, pone l’accento non tanto sul risultato concreto del fare artistico, la tela dipinta, quanto piuttosto sull’importanza del gesto che produce il risultato, dell’azione che ne è l’origine. L’Action Painting si configura dunque come una novità assoluta nel panorama dell’arte internazionale, che ben si presta ad essere connotato come originariamente americano. La differenza rispetto alle tesi greenberghiane è lampante, dove non viene più dato rilievo alla forma, alla struttura compositiva, tutta concentrata nel risultato dell’azione, cioè il quadro o la scultura, bensì si manifesta un rinnovato interesse nei confronti dell’interiorità dell’artista, che troverebbe l’unico possibile mezzo espressivo nella pratica pittorica o scultorea. Torna nuovamente a profilarsi il contenuto, dunque, inteso non più come coincidente con la qualità estetica, come in Greenberg, bensì, nel caso di Rosenberg, con le sensazioni e le emozioni degli artisti, che diventano l’oggetto dell’opera d’arte. Laddove Greenberg fonda l’autorevolezza e la qualità dell’arte americana sulla scorta della conoscenza e dello studio delle Avanguardie europee, Rosenberg imposta il proprio ragionamento in termini di novità del tutto radicali rispetto a quanto realizzato in precedenza: in questo modo Rosenberg sovverte i criteri impostati da Greenberg, e addirittura esautora una qualsiasi dichiarazione di superiorità di un’opera rispetto ad un’altra, sulla base delle sole considerazioni estetiche. Gli scritti di Rosenberg, che, tra l’altro, nutre negli anni un profondo risentimento nei confronti del collega, esplode in un clima, se non di contrapposizione, quanto meno di fioritura di proposte alternative rispetto alla posizione greenberghiana, e solleva delle reazioni che per lo più si risolvono in un’approvazione magari non per condivisione, ma quanto meno per interesse: “Mostly they liked it because it wasn’t Greenberg”84; “Finally someone had challenged Pope Clement; a gate-crasher had confronted ‘the bloody concierge’ of avant-garde art”. Ciò che comincia a profilarsi è il “coraggio” da parte di Rosenberg di sfidare Greenberg, e molti artisti vedono nel primo la possibilità di conferire quello che a parer loro è stato rubato a De Kooning, vale a dire il riconoscimento del gradino più alto del podio. Nella tradizione, infatti, il nome di De Kooning è inscindibilmente legato a quello di Rosenberg, che viene visto come il critico di riferimento del pittore: in realtà, però, l’associazione risulta legata forse più a una diceria che a fatti documentati. Stando, infatti, a quanto riportato nell’articolo di Art News, questo legame non sembra essere sostenuto da una base teorica forte: paradossalmente le osservazioni di Rosenberg sembrano derivare direttamente dal modo di lavorare di Pollock, in cui il pittore viene mostrato come se agisse in maniera automatica, inconscia, lasciando che sia il colore a disporsi secondo la superficie. Al contrario il metodo di De Kooning risulta molto più mediato e riflessivo, dal momento che il pittore frappone una certa quantità di tempo tra l’ideazione e la realizzazione del dipinto. E infatti nella ricostruzione operata da Rubenfeld, pare che Greenberg abbia raccontato di una sera, ad un party, in cui la moglie di De Kooning lo avrebbe confermato nel proprio sospetto, secondo cui il nome del pittore non si trovava nemmeno nella lista di Rosenberg, anche se nell’intero suo articolo non compare alcun nome di artista. Profondo o non verificato che sia il legame tra Rosenberg e De Kooning, di vero resta il fatto che il critico non apprezzasse il lavoro di Pollock, il che rende ancora più paradossale le posizioni assunte da Rosenberg nello scritto che lo consacra alla notorietà nel mondo dell’arte. Dunque effettivo o costruito che fosse, il fronte Rosenberg –De Kooning si costituisce come l’alternativa a Greenberg attorno alla quale si aggregano tutta una serie di artisti e critici, il cui li fattore catalizzante rimane un radicato sentimento anti – greenberghiano: un certo effetto questo atteggiamento lo ottiene, tanto che Art News diventa l’organo di stampa più accreditato negli ambienti artistici newyorkesi, e la carriera di De Kooning conosce un considerevole sviluppo. Greenberg, dal canto proprio, in un primo momento non risponde alla provocazione di Rosenberg, quasi la ritenesse del tutto irrisoria, al punto da non meritare nemmeno una sua reazione. Si tratta, tuttavia, soltanto di una questione di tempo: tre anni più tardi, nel 1953, Greenberg dichiara la propria visione dell’arte del momento, esemplificandola nell’articolo dal titolo America-type Painting . In questo scritto il critico accenna alla conoscenza della definizione di action painting data da Rosenberg, che nomina solamente all’inizio, e che dichiara di non condividere, come d’altronde nemmeno la definizione di “espressionismo astratto” coniata da Coates. Nel corso del testo, però, Greenberg usa costantemente la seconda espressione invece della prima, perfino al posto di quella da lui stesso proposta di American- Type Painting . L’intero scritto si configura come la confutazione di quanto sostenuto da Rosenberg: Greenberg vi ribadisce la validità e la continuità con la tradizione, dalla quale riprende ancora una volta i fondamenti del proprio formalismo; in un secondo momento passa poi a una lista di nomi e cognomi di artisti (a differenza dell’anonimato perpetrato da Rosenberg), dei quali propone una breve analisi in chiave, naturalmente, estetica, e tra questi annovera, tra gli altri, sia De Kooning che Pollock. Svariati anni più tardi, la reazione di Greenberg scende a toni più espliciti e provocatori rispetto al testo del ’53, come quando, in un articolo dal titolo How art writing earns its bad name del 1962, il critico si scaglia apertamente contro Rosenberg, che accusa di “misinterpretation”, citando, oltre tutto, il titolo del suo celebre articolo in maniera non corretta. Greenberg, riprendendo quanto esposto da Rosenberg, sottolinea come l’analisi del collega, rendendo irrilevante il risultato del fare artistico, dipinto o scultura che sia, arrivi a negare la loro qualifica in quanto arte. L’aspetto più interessante dello scritto, tuttavia, fa la propria comparsa più avanti, dove Greenberg riporta un racconto riferito da Pollock in persona, che dimostrerebbe la vera origine delle concezioni di Rosenberg a proposito dell’espressionismo astratto: “Pollock told me, very sheepishly, that some of the main ideas of the ‘action painting’ article came from a half-drunken conversation he had had with Mr. Rosenberg on a trip”. Altro paradosso, dunque: le idee di Rosenberg sarebbero state suggerite da Pollock, artista che il critico non stimava, e che nell’immaginario collettivo si opponeva a De Kooning, unanimemente considerato vicino a Rosenberg, ma all’atto pratico del tutto lontano dalle sue teorie. L’intricato ordito di tale scenario è indiscutibile, ma rimane il dubbio sulla ragione che potrebbe aver spinto Greenberg a rendere pubblica questa storia solo molti anni dopo l’articolo in questione, e, oltretutto, perfino dopo la morte di Pollock. La teoria di Rosenberg riscontra un notevole successo, a discapito della fama di Greenberg, che comincia a registrare le prime incertezze proprio nel corso degli anni ’50: per la prima volta egli viene sfidato in maniera programmata e sistematica, e vengono impostati i presupposti sui quali si basa la critica a lui rivolta in una fase successiva. Prova ne è in un certo senso il fatto che come definizione nell’uso comune si sia consolidato il ricorso alla formula di Espressionismo Astratto, alle volte di Action painting, ma molto raramente di “Painterly Abtraction”, proposta da Greenberg come alternativa: sembra ancora una volta paradossale il fatto che il critico venga associato costantemente a una corrente artistica, alla quale pare non sia riuscito ad attribuire il nome che riteneva più adatto.
Cà Pesaro Galleria Internazionale D’Arte Moderna di Venezia
Afro 1950 -1970 Dall’Italia All’America e Ritorno From Italy To America And Back
dal 21 Aprile 2022 al 23 Ottobre 2022
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Lunedì Chiuso