(1629) AGOSTINO SCILLA (1670)
MADONNA DEL ROSARIO
Madonna del Rosario, olio su tela, 300 × 200 cm
Valmontone, chiesa Collegiata di Santa Maria Assunta
A fronte di un promettente presente,
Valmontone può senza dubbio vantare un suo fiorente passato: lo testimoniano il possente
Palazzo Doria-Pamphilj e la Collegiata, gioiello dell'architettura barocca, opera insigne di Mattia De Rossi, il prediletto allievo del Bernini. Roma
semper docet ma, nel secolo XVII, non meno che in quello precedente, essa ha influenzato gioco-forza, specialmente in architettura e pittura, le produzioni artistiche del suo circondario.
La collegiata, dunque, si erge, come protetta, a lato del mastodontico edificio pamphiliano, emulo del palazzo Farnese. Ti ammicca da lontano, sia venendo da Roma sia da Frosinone, e, quando ti sei avvicinato e hai raggiunto il suo sagrato, essa pare circondarti nel concavo abbraccio della sua facciata
. Forse è solo un'illusione, ma la caratteristica di questo sacro edificio è quella dell'“accoglienza”, già promesso dall'ampio portico e che, entrando, cogli e avverti in un'immediata
elargizione di “familiarità”, ripetuta come un'eco dall'interno ellittico, letteralmente inondato di luce e in chiara simbiosi con l'ormai dominante stile barocco.
Capisci che sei entrato e accolto in una delle tante case del Padre e, volgendo intorno lo sguardo, scopri allora la magnificenza delle opere pittoriche che la adornano: vi posero mano celebri artisti. Tra questi, per ricordarlo tra i più eminenti, Agostino Scilla (1629-1700), messinese. È l'autore del quadro che decora, tra le otto presenti, la terza cappella, laterale destra, dedicata alla
Beatissima Vergine del Rosario.
Il pittore siciliano sconta l'oblio, insieme con tantissimi altri artisti nostrani, oscurato dalla fama (meritata) di quelli più grandi o, almeno, considerati tali. I manuali scolastici raramente ne fanno menzione e Scilla, nato esattamente due secoli dopo il suo celeberrimo concittadino Antonello, ha la sventura di vivere in contemporanea con artisti del calibro di Borromini (?1667), Pietro da Cortona (?1669), Bernini (?1680), e, guardando più in là, Vermeer (?1675), Murillo (?1682). La storia dell'arte più recente tende, però, a fare giustizia e, grazie soprattutto all'attenzione dispensata su questo particolare aspetto dal critico Vittorio Sgarbi, va scoprendo un nuovo, forse inatteso, atlante d'arte: pittori cosiddetti “minori” rifulgono di nuova
luce e la grazia, l'armonia della composizione formale, la preziosità cromatica, gli
elementi “vitali” – insomma – che fanno maestosa la pittura, tornano sorprendentemente a splendere per l'interesse degli studiosi e il diletto degli osservatori.
Agostino Scilla, tuttavia, al pari dei sommi Leonardo e Michelangelo, spaziosamente maestri nella
multitasking artistica (pittura, scultura, architettura), oltre alle sue precoci doti di pittore, fa tintinnare le chiavi di esperto in numismatica, archeologia, pratica alchemica e paleontologia. Ultimo
rinascimentale per il suo largo sguardo sulla natura e sul ruolo che vi gioca l'uomo con la sua intelligenza investigativa, e primo
illuminista per la sua ferma fede nella sola ragione che «
conosce la gran disparità che vi è tra quel che pensano gli huomini e quel ch'abbia saputo operare la Natura», il messinese, tra i primi sagaci e positivi osservatori delle cose naturali, individua proprio nei fossili la ragione che fa produrre un balzo in avanti alla paleontologia. Il risultato delle sue analisi, frutto di viaggi sulle coste di Sicilia e Calabria, ove si era intrattenuto non solo a operare come pittore ma anche a collezionare fossili marini, è il suo notevole trattato
“La vana speculazione disingannata dal senso”. In ritardo di un solo anno dopo Stenone (1638-1686), naturalista, geologo, anatomista danese e vescovo della Chiesa cattolica (beatificato il 23 ottobre 1988 da papa Giovanni Paolo II), ma senza averne conosciuta l'opera, Scilla rivendica con forza l'origine organica dei fossili.
E' una nuova
rivoluzione copernicana o – più correttamente –
galileiana, che ben pochi, però, sanno vedere, allucinati come sono dal credere nell'origine
sassosa dei fossili ovvero nella loro formazione da
semi sospesi nell'atmosfera o ancora nella
naturale tendenza delle rocce a generare
, in forza di una
vis plastica, né più né meno meri
scherzi di natura (lusus naturae). Le conchiglie e gli altri resti marini, inverosimilmente sparsi a tutta prima su monti e colline, erano finalmente collocati nella teca della corretta visione scientifica, residui pietrificati d'origine organica dell'evoluzione naturale (con buona pace per chi verrà, per esempio per Darwin).
Agostino Scilla è, però, da ricordare, per la sua straordinaria “presenza” nella Collegiata di Valmontone come autore del dipinto
Beatissima Vergine del Rosario.
Si cambia scenario. Dalle dorate arenarie di Sicilia e Calabria, ove Scilla aveva genialmente impiegato la sua naturale attitudine a osservare le cose “secondo natura” – corretto il riferimento a Galileo, Spinoza e Leibniz – si passa alla marmorea nitidezza delle navate ecclesiali da far “vivere”, possibilmente, con immortali opere d'arte. Sovviene, in questo caso, almeno per la cappella in parola, l'opera a dir poco magnifica di Scilla. Il dipinto appare subito imponente e per le dimensioni e per l'“apertura” verso una visione che accomuna terra e cielo, umanità e divinità. La Vergine, assisa in trono con il divino Bambino sulle ginocchia, appare sotto le tre dominanti specie (o “titoli”) della “Madonna in trono” (
sedes sapientiae), della “Vergine della tenerezza” (lo dice la sua mano sinistra amorevolmente posata sulla spalla del Piccolo, che sgambetta e che, tutto compunto, pare già compreso nell'evento miracoloso cui sta assistendo) e, infine e soprattutto, della “Madonna che addita la via” ovvero che “istruisce” (e lo fa depositando il rosario nella mano di San Domenico).
L'immagine s'inserisce nella sequela infinita che dal secolo XIII, cioè dalla nascita della leggenda a suo modo aurea della consegna, da parte della Vergine, delle tre corone del Rosario (in seguito unificate in una sola) a San Domenico di Guzmán (1170-1221), per combattere l'eresia albigese (o catara), ha sempre guardato alla Madonna del Rosario come ad una sicura áncora per contrastare e vincere le avversità della vita quotidiana e non solo. Infatti, dopo Poitiers (732), la vittoria nella battaglia di Lepanto (1571) della flotta cristiana contro quella musulmana fu attribuita dal papa San Pio V, domenicano, all'intervento divino, soprattutto sollecitato dalle preghiere rivolte alla Madonna del santo Rosario. Il papa, infatti, prima della partenza della Lega Santa aveva benedetto l'unico stendardo autorizzato a sventolare sull'ammiraglia Real: rappresentava, su fondo rosso, il Crocifisso fra Pietro e Paolo, sotto la scritta “In hoc signo vinces” accanto all'immagine della Madonna con la scritta “Succurre miseris”. Alle prime avvisaglie di guerra e ai primi attacchi delle galere turche, i marinai si univano in una sola preghiera, quella appunto del Rosario, e i prigionieri legati ai remi ritmavano il tempo con le decine dei misteri.
Si può, dunque, arguire che, dietro la tradizione che ha reso celebre la preghiera nella forma del
Rosario, sia nel culto religioso che nella espressione pittorica della
Vergine del Rosario, vi siano anche tracce di ragione storica.
Ad Agostino Scilla, tuttavia, interessa soprattutto produrre un'opera luminosamente attraente (lui che di Caravaggio aveva studiato presso la scuola di Andrea Sacchi a Roma) e satura di doviziosa risonanza pittorica; e non importa se con il secondo personaggio raffigurato sulla tela, San Pietro Martire (1206-1252), egli vuole rivaleggiare con chi assegnava il primato della “consegna” del rosario a San Domenico. V'è, infatti, nel dipinto, tra i simboli che caratterizzano il personaggio alla destra di chi guarda, oltre a quelli del martirio (la palma e una spaventosa mannaia), una corona dentata, che il santo tiene stretta insieme con un libro nella sua mano sinistra, corona dentata che allude con tutta probabilità alle tradizionali tre corone che componevano il S. Rosario con i suoi quindici misteri, salterio che viene oggi recitato nella formula di una sola corona.
Ma si lasci pure credere che sia stato San Domenico il “primatista” nella consegna del Rosario da parte della Vergine. Resta che tutto il dipinto appare come un tributo di omaggio alla confraternita dei “mantellati”. I domenicani, infatti, nei personaggi raffigurati di San Domenico, San Pietro martire e Santa Caterina, che appare in secondo piano, riempiono tutta la scena con gli angeli festosamente convenuti per accompagnare la discesa della Vergine nella sua “missione” terrena e - si può pensare - come prediletti compagni di gioco del bambino Gesù.
Altri due particolari non possono non attirare l'attenzione dell'osservatore: il giglio che tiene in mano uno dei due angioletti al centro, a terra, tra San Domenico e San Pietro martire; e il cane che, nell'angolo in basso a sinistra, inaspettatamente e misteriosamente entra in scena. Il giglio, che è così spesso presente nelle rappresentazioni d'arte sacra e che solitamente, nella tradizione biblica, è simbolo di elezione, di scelta dell'essere amato, qui, nelle mani del putto, non è tanto sinonimo di purezza e innocenza quanto d'invito a cedere, a lasciarsi andare alla volontà divina.
Il cane. Non si giustificherebbe la comparsa di quest'animale in un “teatro” così solennemente trascendentale. Entra in scena di corsa, suscitando l'interesse d'uno di quei due angioletti (il più vispo?), che, scorgendolo per primo lo addita al suo compagnetto, il quale, a sua volta, sorride divertito. La grande pittura si lascia andare, talora, a tratteggiare questi “siparietti” per vivacizzare il contesto, nulla d'altronde sottraendo alla compiutezza dell'opera.
Degli attributi riconosciuti a Scilla si è omesso di indicarne uno che lo farebbe anche esoterista: ogni sua produzione, ogni suo dipinto (si pensi al famoso
I quattro filosofi) celerebbe un significato recondito. In questo caso, vi sarebbe da pensare che il cane, con una torcia accesa in bocca, già visto come simbolo della lotta contro gli eretici albigesi, non sia altro (se l'interpretazione non è velleitaria) che la sua… firma. Sì, infatti, c'è da tener presente che «
come si annota in moltissime vite di asceti orientali, il “monastero” sarebbe stato pensato quale efficace antidoto contro la presenza diabolica del mostro mitologico di Cane. Infatti, questo è il significato della parola “scilla”, e “cane” è, fra l'altro, il termine consueto con cui nei testi ascetici orientali si indica il diavolo» (Domenico Minuto,
I monasteri greci tra Reggio e Scilla, Laruffa, 1998). Agostino Scilla, in altre parole, avrebbe “giocato” con questi sottintesi e, capovolgendone a mo' di contrappasso i significati, avrebbe assegnato al cane, cioè a sé stesso, un valore positivo. Non sarebbe il gatto del Lotto, che, nella sua
Annunciazione, aggroppandosi, fugge spaventato all'apparire dell'Annunciante. Il cane, in questa
Beatissima Vergine del Rosario, non esce ma irrompe nella scena, portatore di luce.
Questo suo dipinto va compreso tra le ultime opere di Scilla. Appare allora come il suo testamento pittorico: barocco certamente sì il suo stile. Il barocco è nell'aria respirata all'epoca dagli artisti, ma, in questo caso, non si tratta di uno stile ridondante; lo si potrebbe dire “classico” nella sua misurata composizione formale, mai scaduto nel manierismo di comodo, ma sempre ispirato all'“alto sentire” di uno sguardo filosofico e umano. È quanto Agostino Scilla deve, tra l'altro, a suo padre, filosofo e dottore ed è quanto emerge nella sua numerosa produzione pittorica, cui volentieri si rimandano quanti ne desiderino approfondire gli aspetti.
Novembre 2018 Luigi Musacchio