Fig.1(3)Le pitture di Bologna del conte Carlo Cesare Malvasia furono edite sotto le Due Torri nel 1686 e per tale ragione sono state considerate la prima guida data alle stampe del patrimonio d’arte felsineo. Non tutti sanno però che l’autore di quel libro fondamentale fu anche canonico della Cattedrale bolognese di S.Pietro e nel contempo cultore d’occultismo alchemico: due cose apparentemente in antitesi fra loro che testimoniano l’esistenza di un clero felsineo “illuminato”, attratto cioè dagli studi alchemici e, come rimarcato da Maurizio Calvesi, Giuseppe Olmi e Paolo Prodi, disposto ad accettare “posizioni ideologiche anche antitetiche” alla “monolitica visione” scaturita dalle indicazioni del Concilio di Trento[1].


La passione per l’esoterismo portò Malvasia a scrivere un libro singolare, raramente ricordato: Aelia Lelia Crispis non nata resurgens in expositione legali (Bologna, 1683) (figg. 1-2). In esso l’erudito bolognese tratta di un’iscrizione scolpita su una lapide antica, ma non antichissima, del Museo civico archeologico di Bologna, il cui significato è ancora oggi molto dibattuto tra gli studiosi.

Fig.2(4) Anche Malvasia - come già aveva fatto Athanasius Kircher, e come fecero qualche secolo dopo Sir Walter Scott, Gérard de Narval e Carl Gustav Jung - tentò di risolvere l’“aenigma magnumdell’iscrizione che, secondo un’annosa quanto errata credenza, si riteneva ripetesse i versi di una perduta epigrafe romana[2], così tradotta dal canonico bolognese: “ELIA LELIA CRISPI IO MI CHIAMAI./Non fui mai uomo, donna o ermafrodito,/ putta giovane o vecchia, e non fui mai/ casta pudica o donna di partito./ Però tutto io fui: non fu a toccarmi ardito/ ferro, fame e velen che pur provai./ Nel ciel, nell’acque e non è in terra il sito/ del mio riposo, e ovunque io pur posai./ LUCIO AGATONE PRISCO: non consorte,/ non amante né erede e che non poi/ godé, si dolse o lagrimò sua sorte,/ questa mole o piramide o qual vuoi/ sepolcro eretto o non eretto in morte/ sa e non sa chi pose. (E’l saprem noi?)”.

La scritta misteriosa e il libro di Malvasia aiutano a comprendere il clima culturale che da oltre un secolo fioriva sotto le Due Torri e tra le mura di tutte le più importanti città d’Europa, dove filosofi, letterati, scienziati, artisti, dibattevano di astrologia, esoterismo, alchimia e filosofia naturale. Le prime due discipline erano retaggio di  antiche superstizioni, le altre costituivano il suolo fertile da cui prese avvio la nuova metodologia d’indagine scientifica; nonostante questa netta differenza, fu la loro unione sinergica ad ispirare sia a Bologna, sia in altri centri europei, novelle forme d’architettura, scultura e pittura che vennero utilizzate dagli artisti per celebrare i principali accadimenti religiosi, politici o sociali del tempo: ad esempio le esequie di Agostino Carracci, morto a Parma all’inizio del 1602, officiate in pompa magna nel gennaio dell’anno successivo nella chiesa bolognese di Santa Maria della Morte con la partecipazione degli amici pittori e del pubblico.

Fig.4(2) Gli apparati effimeri approntati per l’occasione andarono dispersi ma, fortunatamente, sono descritti con dovizia di particolari in un famoso resoconto di Benedetto Morello: Il funerale d’Agostin Carraccio fatto in Bologna sua patria da gl’Incamminati Accademici del Disegno, stampato dall’editore felsineo Vittorio Benacci nel 1603. Dalla sua lettura appare chiaramente, oltre alla volontà di magnificare le gesta del defunto, quella più impellente di glorificare l’Accademia degli Incamminati, fondata dai tre cugini Carracci a Bologna quasi vent’anni prima, che, come vedremo, evidentemente non era ancora stata accolta dall’establishment artistico felsineo, nonostante le importanti commissioni ricevute e i notevoli risultati raggiunti. Ludovico e Annibale, insieme ai loro scolari e sostenitori, con quella magniloquente cerimonia cercarono perciò di ottenere una maggiore considerazione in patria, nella speranza di entrare a far parte del Pantheon dei grandi pittori bolognesi: un traguardo ambito non ancora raggiunto dal gruppo carraccesco, almeno a giudicare dalla lettura di un’importante guida inedita coeva al Funerale d’Agostin Carraccio del 1603 (figg. 3-4).

Infatti nell’esauriente libretto, intitolato Compendio della nobilissima città di Bologna in cui sonovi posti…alcune altre particolari cose come di pitture, scultura, & altro”, scritto più di ottant’anni prima delle pitture di Bologna di Malvasia, non v’è traccia dei Carracci, né degli artisti loro contemporanei, citati probabilmente sotto la generica definizione di altri “eccellentissimi pittori”. Questa sorta di “baedeker” (misura cm 14,3 x 9,2 ed ha 38 pagine) fu compilato dall’eclettico Giuseppe Rosaccio e venne stampato a Bologna da quello stesso Vittorio Benacci, il già ricordato editore del Funerale d’Agostin Carraccio.


fig.3(2)Il randagio Rosaccio, nativo di Pordenone, fu anche medico, filosofo, astrologo, storico, geografo, cosmografo di formazione tolemaica e, soprattutto, editore raffinato; grazie alle sue pubblicazioni, egli godette di una certa notorietà nei decenni a cavallo tra Cinque e Seicento. Nel citato compendio di Bologna, Rosaccio ricordò numerosi pittori nati od operosi sotto le Due Torri, suddividendoli in “antichi” e “moderni”: tra i primi, Girolamo da Treviso, Filippino Lippi, Guido Aspertini, Parmigianino, Tommaso Laureti, Pellegrino Tibaldi, Lorenzo Costa, Francesco Francia, Raffaello, Pietro Perugino, Paolo Veronese, ecc. Nel secondo gruppo, quello dei moderni, sono ricordati soltanto Orazio Sammacchini, Bagnacavallo Junior, Lorenzo Sabatini, Prospero Fontana; ma non fece parola dei Carracci, dei loro coetanei e, tantomeno, degli estremi onori tributati ad Agostino. Da ciò consegue che se il caravaggismo vero e proprio, come ha rilevato Claudio Strinati, fu un fenomeno incominciato dopo la morte di Caravaggio, parallelamente
il carraccismo iniziò probabilmente dopo la scomparsa di Agostino Carracci.

E’ stato scritto molto riguardo alla celebrazione delle esequie del maestro bolognese, tuttavia è necessario rimarcare alcune altre cose essenziali. Innanzitutto l’allestimento funebre fu una complessa commistione di simboli sacri ed alchemici, esaltati attraverso il linguaggio della poesia e delle arti figurative; va però rilevato che i richiami all’antico sistema filosofico occulto furono di gran lunga superiori a quelli religiosi: per fare un solo esempio, basti ricordare che il motto “Mors terminus mortis, perennis vitae principium”, scritto da Benedetto Morello in memoria dell’amico pittore, è attinente al fondamento alchemico della distruzione creativa, secondo cui ogni mutazione presuppone una morte ed una resurrezione. Dunque, sia le esequie di Agostino Carracci, sia il libro di Malvasia Aelia Lelia Crispis, testimoniano l’esistenza di una complessa mescolanza di filosofia, scienza ed arte, ispiratrice di una produzione figurativa limitata, destinata alla ristretta cerchia di eletti in grado di capirla, purtroppo andata quasi totalmente distrutta poiché illustratrice di teorie prossime all’eresia, quando addirittura non vi incappava apertamente.

Fig.5(3) Tra le opere sopravvissute restano quelle che, almeno in apparenza, sembravano trattare temi lontani dalle pericolose dispute religiose: ad esempio l’Amore vincitore di Michelangelo Merisi da Caravaggio (fig. 5), interpretato tradizionalmente quale figurazione del motto virgiliano Omnia vincit amor, in realtà si presta anche ad altre letture assai complesse in cui si intrecciano religione, umanesimo e scienze occulte[3].
 

In questo clima culturale operarono i pressappoco coetanei Agostino Carracci, Hendrick Goltzius ed anche Michelangelo Merisi, più giovane di quasi una generazione. Non sappiamo se i tre ebbero modo di incontrarsi, ma anche se ciò non fosse avvenuto è molto probabile che avessero sentito parlare l’uno dell’altro, un’eventualità che può facilitare la comprensione delle ragioni per cui alcune delle loro opere manifestano analogie singolari, difficilmente imputabili al caso.

Fig.6(3)Cominciamo da Agostino che, intorno al 1585, inventò, disegnò ed incise la mai avvenuta Predicazione di S.Francesco a Quito (figg. 6-7), in Ecuador, cioè in una delle prime diocesi del Nuovo Mondo[4].
Nella iniziale stesura a penna si vede chiaramente una canestra di frutta, posta al centro tra due putti, che scomparve nella versione a stampa definitiva, inserita nel De Origine Seraphicae Religionis Franciscane, edito a Roma nel 1587. La cesta schizzata richiama alla mente la più nota “fiscella” (figg.8-9) eseguita all’incirca una quindicina di anni dopo da Caravaggio e per quanto è dato sapere essa costituisce forse un unicum nella storia dell’arte grafica cinquecentesca, sicché tale nota distintiva induce a formulare alcune riflessioni.

Fig.8(2)Innanzitutto andrà chiarito che la minore notorietà di quel particolare disegnato rispetto alla fiscella dipinta in “assolo” dal Merisi e la distanza di tempo tra l’esecuzione delle due canestre, rendono difficoltoso ipotizzare un loro rapporto di filiazione diretta; mentre è più verosimile che entrambe siano invenzioni spuntate dall’humus culturale di quel periodo, cioè frutto della svolta innovativa dell’arte italiana, tradottasi in una “potente e per certo nuova attenzione per il dato naturale”[5].
 
Fig.9(1)Di conseguenza il loro probabile significato teologico comune potrebbe essere conforme con quanto rimarcato da Calvesi: “spesso le nature morte di fiori o di frutti, soprattutto prima che diventassero un ‘genere’ decorativo, si rivestivano di significati sacri, simbolici delle virtù o altre volte…dei frutti della redenzione”[6].

Fig.10(2)Agostino comunque non si limitò a disegnare, ma dipinse anche ceste di vimini (fig. 10), come si può vedere nell’Ultima cena del Prado (cm 172 x 237) o nell’altra versione più piccola e con varianti della Pinacoteca Nazionale di Ferrara (olio su rame di cm 26,5 x 47,5); in entrambi i casi egli esibì due analoghi rivoluzionari brani di natura morta (figg. 11-12) con sgabelli, otri, brocche e bicchieri di vetro, novelle invenzioni compositive che vengono generalmente liquidate come ritorni ai modelli veneti del Tintoretto, anziché per quello che sono, cioè frutti dello sperimentalismo pittorico già rimarcato da Renato Roli, fondato sul programmatico desiderio di sondare “ogni campo del reale, da…ricondurre alle norme interne di un’armonia depurata di ogni sentimentale indugio”[7].

Fig.12(1)

Fig.11(2)Sui vetri di Agostino, al pari di quelli dipinti da Caravaggio nel Suonatore di Liuto di S.Pietroburgo, nel cosiddetto Bacco degli Uffizi e nella Cena in Emmaus di Londra (figg. 11-13), la luce, che analogamente piove dall’alto e da sinistra, accende le stesse trasparenze cristalline esaltate dalla vicinanza di campiture di colore bianco: quelle di un canovaccio, nei quadri di Agostino, quelle di uno spartito, di un vestito o di una tovaglia, in quelli del Merisi.
E’ opportuno notare che le due brocche d’acqua dipinte dal “Carraccio” furono raffigurate vicino a dei bicchieri di vino bianco, come quella realizzata dal maestro milanese nella Cena in Emmaus: ciò molto probabilmente perché il colore biondo della bevanda accentua per contrasto la trasparenza dell’acqua delle ampolle; è poi curioso rilevare come le parole lusinghiere scritte da Giovanni Baglione per la fiasca di fiori dipinta nel Suonatore di liuto di S.Pietroburgo (1595-1596 ca.), si adattino anche a quelle di Agostino: una caraffa piena d’acqua che “dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente si scorgeva con altri ripercotimenti di quella camera dentro l’acqua”[8].

Fig.13(2)

La rivalità tra i Carracci e Caravaggio è nota agli studi e risalta chiaramente anche in alcuni brani della Felsina pittrice, in cui sono riportati i giudizi negativi di Ludovico e Annibale riguardanti un non meglio specificato quadro del Merisi visto a Bologna, riassumibili nelle parole di disapprovazione del più anziano di loro: “poco di buono… ubbidienza troppo fedele al naturale; senza decoro, con poca grazia, minor intelligenza”, rintuzzate da quelle non meno arroganti di Annibale che, in presenza del ventenne Guido Reni, aggiunse di sapere lui come “vincere e mortificare” Caravaggio; più diplomatico fu Agostino che, mentre era a Roma, richiesto di un parere su una Giuditta del maestro milanese, si limitò a dichiarare “non so dir altro… se non che ella è troppo naturale[9].

Fig.14(1) Ovviamente Caravaggio contraccambiò l’ostilità dei tre cugini autoproclamatisi “Accademici del Disegno” e, pur riconoscendo ad Annibale la qualifica di “valentuomo” - cosa che dichiarò soprattutto per umiliare Giovanni Baglione, a cui negò lo stesso aggettivo -, a detta delle fonti non perse occasione per manifestare la sua insofferenza nei confronti delle accademie e dei più tradizionali procedimenti esecutivi basati, come quello carraccesco, sull’uso del disegno.
 
Questa antipatia per i Carracci e per l’esercizio della grafica raggiunse il culmine quando il Merisi dipinse (figg. 14-15) unglobo stellato…di stelle d’oro” - cioè il simbolo dell’impresa degli Incamminati Accademici del Disegno, tale e quale è ripetutamente descritto e illustrato da Benedetto Morello nel  Funerale di Agostin Carraccio -, proprio sotto la natica destra dell’Amore vincitore di Berlino[10].

Fig_15Eppure, schermaglie tra colleghi a parte, il totale rifiuto degli uni nei confronti delle invenzioni dell’altro e viceversa, potrebbe essere smentito da due caraffe coi fiori che verosimilmente furono realizzate da Agostino e rassomigliano curiosamente a quella eseguita da Caravaggio nel Suonatore di liuto ora in Russia.

La prima di esse si trova impressa sul lato destro di una stampa den
ominata “Quis evadet” (fig.16), la cui invenzione è attribuita da tempo all’incisore di Bologna; la stampa fu citata per la prima volta da Adam von Bartsch in uno dei paragrafi dedicati a Goltzius, in cui lo studioso descrisse un’allegoria col fanciullo seduto sul teschio impegnato a fare bolle di sapone segnata HGoltzius excud. - tratta da un’incisione di Agostino Carracci più piccola, molto rara e (e aggiungiamo ora dispersa) -, eseguita da un anonimo allievo di Goltzius sotto la sua guida, con la scritta Quis evadet e nella didascalia sottostante Memento brevis ecc.; il perduto prototipo inciso da Agostino non fu però ricordato da Bartsch nel successivo elenco della sua produzione grafica[11].Fig_16

Quis Evadet”, cioè chi scappa, è ispirata ad una sentenza latina derivata da una frase del letterato e militare reatino Marco Terenzio Varrone, scritta in apertura della prima parte del Rerum Rusticarum Libri Tres: “quod, ut dicitur, si est homo bulla, eo magis senex” (“per sé, come si dice, l’uomo è una bolla, tanto più se è un uomo vecchio”); il motto fu ripreso dal siriano Luciano di Samosta nei suoi Dialoghi dei morti: “Hai veduto le bollicine che si levano nell’acqua sotto la cascata di un torrente? Così è la vita degli uomini”[12].

In tempi più recenti Diane De Grazia ha pubblicato un foglio raffigurante il “Quis evadet” probabilmente pressoché identico a quello inventato da Agostino (fig. 17), assegnandolo giustamente ad un anonimo artista italiano poiché la tecnica, per quanto simile a quella del Carracci dell’ultimo tempo, non convince completamente. Nel contempo la studiosa ha avanzato l’ipotesi che la mancata citazione di Quis evadet tra le opere grafiche del bolognese forse sottintendeva una ricusazione attributiva di Bartsch.

Nella scheda pur det
Fig_17tagliata della De Grazia tuttavia non sono considerati altri elementi importanti: in primis la stampa di Quis Evadet ricordata da Bartsch come rielaborazione del perduto originale carraccesco, reca l’iscrizione HGoltius excudit, ossia stampò, non fecit o faciebat  che indica il nome dell’autore, pertanto non era una sua invenzione[13]; secondariamente l’incisione pubblicata dalla De Grazia è in controparte, rispetto a quella marcata HGoltzius, poiché il puttino usa la mano sinistra per tenere la cannuccia, quindi anch’essa è una derivazione, probabilmente assai fedele di quella scomparsa inventata da Agostino; inoltre le due terzine presenti in quest’ultima, poste sotto il motto “Quis Evadet”, sono in italiano anziché in latino e rassomigliano ad altre analoghe, composte verosimilmente dal “Carraccio” e pubblicate a margine di sue incisioni; va infine rilevato che la scritta Gioseppe Rosatio formis (alias Giuseppe Rosaccio forma), visibile alla base del foglio testé citato, indica il già menzionato autore della guida di Bologna, il proprietario delle lastre e il padrone della bottega dove si vendevano le stampe tirate da quelle matrici.

Fig_18E’ opportuno rimarcare che il poliedrico editore, durante uno dei soggiorni lagunari, lavorò con Giacomo Franco (anch’egli incisore, calcografo e stampatore), con cui pubblicò il Viaggio da Venetia a Costantinopoli (1598). Franco, a sua volta, aveva realizzato undici stampe per la prima versione illustrata della Gerusalemme liberata del Tasso che comprendeva anche dieci tavole di Agostino Carracc: riassumendo, Rosaccio conosceva Franco, che aveva lavorato per un decennio con Agostino; come se ciò non bastasse, Rosaccio e Agostino Carracci operarono entrambi anche a Bologna, mentre, insieme a Franco, lavorarono periodicamente altre volte a Venezia all’incirca negli stessi anni, dove esercitarono l’arte di stampatori. Tirando le somme, è poco probabile che Rosaccio non conoscesse il maestro bolognese, la cui abilità incisoria era assai nota in laguna come nel resto d’Europa poiché aveva ottimamente inciso le opere più significative di Tiziano, Tintoretto e Veronese; tali circostanze avrebbero potuto influire favorevolmente sulla scelta di Agostino per realizzare la singolare allegoria “Quis Evadet”, di cui la De Grazia ha reso nota una replica in controparte, convalidando l’attribuzione di Bartsch. 

Esiste inoltre un inedito dipinto che manifesta legami espliciti con l’incisione Quis evadet” (figg.17-18), e non di meno con l’erudizione alchemico-esoterica di fine Cinquecento. Si tratta di una tela di cm 97 x 82,5, qui attribuita al maestro di Bologna, che riproduce un’altra allegoria ispirata al medesimo motto latino, cioè un puttino seminudo, analogamente sgambettante ma con una diversa postura, intento a fare le bolle con una cannuccia tenuta appropriatamente con la destra, mentre con la sinistra regge una ciotola col sapone disciolto, invece della conchiglia presente nelle stampe già citate. Anche il teschio su cui il bambino siede è differente da quelli incisi, poiché non essendo appoggiato su un osso e non mostrando macabri rimasugli di capigliatura, risulta essere meno truce, potremmo dire più naturale.

Pure le volut
Fig_19e di fumo sono diverse: anziché scaturire da un’urna funeraria escono da un comune vaso di terracotta, mentre le volute del mantello svolazzante sono più ampie, ma parimenti spezzettate; tuttavia è sul lato sinistro che, nonostante le ingiurie del tempo, si scorge ancora quanto resta di un brano notevole di natura morta (figg. 19-18), cioè una caraffa con dei fiori che rassomiglia singolarmente a quella dipinta da Caravaggio nel Suonatore di liuto di San Pietroburgo (1596/1597 circa): sia i boccioli della nostra tela che quelli del Merisi  sono sostenuti da una formidabile immediatezza sensoriale a cui si somma la felice istantaneità della disposizione floreale apparentemente fortuita; tali caratteristiche non comuni richiamano nuovamente alla memoria quanto scritto da Baglione per la caraffa coi fiori di San Pietroburgo, ugualmente adattabile all’inedita tela: “vivo e vero il tutto parea, con una caraffa de fiori pieno d’acqua che dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente si scorgeva con altri ripercotimenti di quella camera dentro l’acqua”.

Fig.20(1)

Oltre al legame con l’invenzione incisa assegnata al Carracci da Bartsch, a sostegno dell’attribuzione ad Agostino concorrono altri fattori importanti: le lampanti conformità con gli stilemi del medesimo rivoluzionario pittore bolognese e quelle di altri maestri felsinei della generazione precedente con i quali egli intrattenne rapporti di lavoro. Si considerino ad esempio le consonanze con un disegno di Lorenzo Sabatini (figg. 18, 20, 21) raffigurante l’Immacolata concezione  (Ottawa, National Gallery of Canada) e quelle con la relativa stampa bulinata proprio da Agostino (siglata in basso a destra “Aug. Car.f.” e “Lau.Sab”.

Nei due putti tratteggiati sulla carta e in quello dipinto risaltano ugualmente - oltre ad echi raffaelleschi - le medesime forme dell’inguine e del ventre e la postura delle gambe a compasso, Fig_21causa dell’equilibrio precario del fanciullo sgambettante. Coincidenze che vengono confermate dal confronto tra la tela con altre opere grafiche e pittoriche di Agostino: il disegno con la Madonna col Bambino (Oxford, Ashmolean Museum) (figg. 24, 22, 25) e i numerosi rassomiglianti amorini affrescati nel Glauco e Scilla di Palazzo Farnese a Roma.

Si tratta di brani di consumato naturalismo che vennero prodotti, come nel caso
Fig_23del dipinto con “Quis evadet”, da un vivace osservatore del mondo quale era Agostino Carracci, che potrebbe avere eseguito l’opera forse a Roma, intorno al 1600.
Anche stavolta sarà necessaria cautela nell’ipotizzare un’eventuale rapporto diretto tra le fiasche coi fiori, è però opportuno ripetere che esse probabilmente non furono invenzio
ni solitarie ma la conseguenza del novello orientamento dell’arte italiana verso una nuova e forte attenzione per il dato naturale, mentre andrà ribadito il loro probabile contenuto teologico comune, in conformità con la già citata teoria di Calvesi.
Fig.22(3)

 Note:

[1] M.Calvesi, Caravaggio, catalogo della mostra, a cura di C.Strinati, Milano, 2010, p.87; G.Olmi- P.Prodi, “Gabriele Paleotti, Ulisse Aldrovandi e la cultura a Bologna nel secondo Cinquecento”, in Nell’età del Correggio e dei Carracci, catalogo della mostra, Bologna, 1986, p. 213.

[2] C.G.Jung, “Mysterium coniunctionis. Gli opposti psichici nell’Alchimia”, in Opere, XIV/1, a cura di M.A.Massimello, Torino, 1989, pp. 58-78; G.Susini, “Breve referto d’una autopsia epigrafica su Aelia Laelia Crispis”, in Aelia Laelia. Il mistero della Pietra di Bologna, a cura di N.Muschitiello, Bologna, 2000, p. 233.

[3] E.Negro-N.Roio, Caravaggio e caravaggeschi in Emilia, Modena, 2013, pp. 74-85, 94-108.

[4] D.De Grazia, Le stampe dei Carracci con i disegni, le incisioni, le copie e i dipinti connessi, Bologna, 1984, pp.135-137, 138, cat. nn. 131-131a, figg.158-158a.

[5] Olmi-Prodi, cit., 1986, p. 228.

[6] Calvesi, cit., 2010, p.87.

[7] R.Roli, I disegni italiani del Seicento. Scuole emiliana, toscana, romana, marchigiana, e umbra, Treviso, 1969. p.XX.

[8]  G.Baglione, Le vite de’ pittori scultori et architetti. Dal pontificato di Gregorio XIII del 1572. In fino a’ tempi di papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma, 1646, p.136.

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