Giovanni Cardone Febbraio 2023
Fino al 2 Luglio 2023 si potrà ammirare al Masi Museo d’Arte della Svizzera Italiana – Lugano la mostra dedicata al fotografo Werner Bischof dal titolo Unseen Colour a cura di Ludovica Introini e Francesca Bernasconi con Marco Bischof.  Questa esposizione è nata da un  progetto voluto dal MASI Lugano e Werner Bischof Estate in collaborazione con Fotostiftung Schweiz, Winterthur. In una mostra di opere inedite di uno dei più grandi maestri del reportage e della fotografia del Novecento, attraverso circa 100 stampe digitali a colori da negativi originali dal 1939 agli anni ’50 restaurati per l’occasione, viene esplorata per la prima volta in modo completo l’opera a colori del fotografo svizzero. MASI- Museo d’Arte della Svizzera Italiana intende mettere in luce un aspetto nuovo e meno conosciuto del lavoro di Bischof, ampliando e approfondendo la conoscenza e l’idea che abbiamo di questa importante figura di fotografo. In un momento storico in cui la fotografia a colori godeva di scarsa considerazione ed era relegata alla dimensione pubblicitaria, emerge infatti come Bischof avesse invece colto le potenzialità del colore come mezzo espressivo, rendendolo parte fondamentale del suo processo creativo. Il percorso della mostra si propone come un libero viaggio a colori attraverso i mondi visitati e vissuti da Bischof e copre tutto l’arco della sua carriera, in un’alternanza di immagini inedite ottenute dall’utilizzo di tre diverse macchine fotografiche: una Rolleiflex, dai particolari negativi quadrati, un’agile Leica, dal formato tascabile, e una Devin Tri-Color Camera, macchina ingombrante, che utilizzava il sistema della tricromia, ma garantiva una resa del colore di alta qualità. Il nucleo di immagini scattate con questa macchina è reso fruibile al pubblico per la prima volta grazie alla scoperta e alle relative indagini sulle lastre di vetro originali da parte del figlio dell’artista, Marco Bischof, che dirige l’archivio intitolato al padre. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura Werner Bischof  apro il mio saggio dicendo : Non posso  iniziare la discussione sul fotogiornalismo e l'etica dell'immagine ad esso connessa, se non facciamo innanzitutto una premessa riguardo ciò che è alla base del processo di rappresentazione della realtà attraverso le immagini. Il presupposto di tale riproduzione è costituito ovviamente dalla fotografia. L'etimologia della parola fotografia deriva dalla lingua greca; due parole: φως (phos) e γραφ?ς (graphis) riassumono letteralmente la funzione di questa pratica artistica, ovvero scrivere (grafia) con la luce (fotos). L'invenzione della fotografia fu incoraggiata da diversi fattori, alcuni di carattere storico e sociale, altri più prettamente tecnici. Il primo di questi fu la “memoria dello sguardo”, che si era radicata nella coscienza delle persone di pari passo con il linguaggio. Italo Zannier scrive a tal proposito che «La memoria dell'uomo ha sempre cercato garanzie nei segni, sonori tattili grafici, promuovendo una sequenza di processi, che hanno impegnato unitariamente l'evolversi della nostra cultura per quanto riguarda l'immagine, si è passati a poco a poco, dai disegni delle caverne sino alla fotografia, una tecnica meccanica che realizza immagini talmente ricche di informazioni da costituire una seconda realtà ». In seconda istanza si tratta di fattori figurativi e in un certo senso pratici. Il principio ottico su cui si basa la fotografia è la camera obscura, e fin dal Rinascimento era utilizzata dagli artisti per poter disegnare in modo prospettico più agevolmente e con precisione. Essi in sostanza avevano la possibilità di “ricalcare” su carta l'immagine che, capovolta, veniva proiettata su una lastra di vetro. Si ritiene che i primi studi su tale fenomeno vennero condotti addirittura da Aristotele, il quale osservò che la luce, passando attraverso un piccolissimo foro, proiettava un'immagine circolare. Fu però lo studioso arabo Alhazen Ibn Al-Haitha che a ridosso dell'anno Mille descrisse questo fenomeno ottico, assegnandogli il nome di camera obscura. Da quel momento, successive implementazioni tecniche, quali l'applicazione di lenti convesse e dispositivi per ridurre le aberrazioni, consentirono di ottenere una migliore qualità e definizione dell'immagine riflessa. Il percorso che portava all'invenzione della fotografia era, però, ancora lungo. Un'accelerazione di questo processo avvenne solo tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, e coincise con un fattore sociale decisivo: l'ascesa della nuova borghesia. Far parte della classe borghese significava anche riprendere tradizioni, usi e stili di vita dell'aristocrazia. Fra questi, la consuetudine del ritratto di famiglia, un vero e proprio status symbol. Gli appartenenti alla nuova classe sociale però, a differenza dei nobili, si caratterizzano per la parsimonia nelle proprie scelte, e quindi anche le opere figurative dovranno essere a buon mercato e facilmente riproducibili per una più ampia diffusione. Parallelamente a questo fenomeno aumenta, anche in campo editoriale, la richiesta di libri e periodici illustrati. Il passo fondamentale da compiere, perché si potesse avviare e diffondere la pratica fotografica, restava la combinazione dei fenomeni ottici già scoperti e studiati fino a quel momento, con particolari fenomeni chimici che consentissero alle immagini di restare impresse su un supporto materiale. La storia del Novecento resta impressa negli occhi dei contemporanei soprattutto per l'incredibile mole di testimonianze fotografiche che ci sono giunte, dalle prime stampe sui giornali, agli episodi delle due guerre mondiali, dei sistemi totalitari e dei conflitti minori, dalle immagini degli orrori dei lager nazisti che tanto sconvolsero la piccola Susan, ai più recenti accadimenti in scenari di guerra, e non solo. La Grande Guerra rappresentò il banco di prova ideale per la messa in opera delle innovazioni tecniche e la pratica del mezzo fotografico. Non a caso, il periodo immediatamente successivo, quello dei totalitarismi europei tra le due guerre mondiali, è attualmente considerato l'epoca d'oro del fotogiornalismo, caratterizzata da ricchezza nella ricerca teorica, nuovo ruolo della fotografia come azione di denuncia sociale, sostegno (a volte eccessivo, che sfociava in propaganda) della professione da parte dei governi. Fu il momento in cui vennero messi sul mercato nuovi apparecchi fotografici, portatili, necessari per scattare fotografie istantanee: la fotografia assume i connotati della casualità, passano in secondo piano le foto di posa, la composizione è istintiva piuttosto che studiata accuratamente, nell'immaginario collettivo fotografare diventa l'atto decisivo per fissare su carta la realtà di tutti i giorni, le fotografie diventano fatti da tramandare alla storia. Herbert Shiller sintetizza con queste parole il nuovo status della fotografia nel mondo dell'informazione: «La capacità della macchina fotografica di rappresentare la realtà, apparentemente senza l'intervento umano, divenne uno standard di credibilità  l'aura scientifica attorno al mezzo rendeva obbiettivo anche il campo nel quale veniva usato: il giornalismo». Il fotografo di inizio Ventesimo secolo ha raggiunto ormai una consapevolezza matura dei mezzi a propria disposizione e della capacità di raccontare le vicende politiche, storiche e sociali tramite immagini scattate da apparecchi fotografici sempre più leggeri, maneggevoli ed efficaci. Ciò che distingue il fotoreporter da un qualsiasi altro operatore fotografico sta in quella abilità, prontezza e temerarietà nel saper cogliere istanti di vita vissuta, condensandoli in immagini spesso insolite, ma significative. L'abilità decisiva sta nel cogliere l'attimo preciso in cui far scattare l'otturatore della macchina fotografica per poter catturare quell'accadimento che solo un secondo dopo potrebbe essere perduto. Certamente Werner  Bischof é uno dei protagonisti della fotografia del ‘900,un maestro del reportage che ha raccontato come pochi la magia e la bellezza degli angoli più lontani del mondo:  dall’India al Giappone, dalla Corea all’Indocina fino ad arrivare a Panama, in Cile e in Perù.  Fu il primo fotografo ad entrar a far parte della Magnum Photosnel 1949, appena dopo i suoi fondatori. Nato a Zurigo nel 1916, si avvicina ben presto all'amore per la fotografia tanto da frequentare da adolescente la scuola d'arte della sua città. Uno dei suoi professori fu Hans Finsler, maestro dell'oggettività, che avrà particolare influenza nei suoi primi anni. Le sue prime foto sono prettamente formative, Bischof immortalava nature morte e panorami, temi agli antipodi rispetto a quelli che tratterà in seguito.
A soli 20 anni apre il suo studio fotografico di moda ma dovette rinunciarci ben presto per entrare a far parte dell'esercito svizzero nel 1939. Una volta ritornato a casa apre un piccolo laboratorio fotografico che gli permetterà di svolgere diversi lavori su commissione, specialmente di moda. Tentò anche la strada della pittura ma non ebbe il tempo di sperimentare molto dato che l'Esercito Svizzero lo richiamò per altri due anni. Non ebbe la reale coscienza di ciò che stava accadendo tanto da fotografare spesso i paesaggi che lo circondavano, finendo col pubblicarne qualcuno sulla rivista Du nel 1942. Tutto cambia quando Werner Bischof ebbe modo di viaggiare in diversi Paesi e guardare concretamente le ferite e il disastro di popoli piegati, decimati, sconfitti dal conflitto. Questo schiaffo emotivo fu il perno centrale della sua vita. L'inizio fu nella Germania post-nazista, ridotta in rovine e in povertà. Werner Bischof toccò con mano il peso martoriante della Seconda Guerra Mondiale, spostandosi in bicicletta di città in città. Inizialmente deve essere stato molto difficile passare da oggetti inanimati a soggetti reali ma il fotografo non si spaventò, ricordandosi che doveva solo aggiungere delle persone. Per fortuna, Bischof aveva un talento naturale nel fotografare le persone rendendo un "umanista" a tutti gli effetti. Per quanto riguarda la sua rapida scalata alla fotografia di reportage, il motivo era molto semplice. Al tempo non c'era l'impatto mediatico di oggi e i giornali erano letteralmente affamati di storie e fotografie. Paradossalmente era più semplice venir pubblicati ma le foto di Bischof si differenziavano nettamente da quelle degli altri. La sua sensibilità influenzava notevolmente le foto pur non intaccandone il realismo. Il fotografo vedeva l'America come "brutale ed egoista", responsabile della morte di migliaia di persone e, ancora peggio, della rovina di un intero continente. Werner Bischof ritenne opportuno documentare la rinascita europea dallo spettro della sconfitta e ci riuscì in soli 9 anni. Il fotografo ritrarrà spesso bambini e adolescenti, vero riflesso delle condizione sociale e degli effetti devastanti di un fenomeno. Una delle sue foto tedesche più toccanti è sicuramente quella della mamma che allatta il suo bambino. In questo semplice gesto naturale si nasconde tutto l'attaccamento di una generazione che stringe i denti per farsi forza, per andare avanti e per permettere ai propri figli di crescere nel pieno delle proprie facoltà, lasciandosi alle spalle quel clima di morte. Dopo la Germania toccò alla Francia e ai Paesi Bassi, accompagnato da Emil Schultness. La sua conversione a fotoreporter non fu solo interiore perché diverse agenzie cominciarono a notare le fotografie di quel giovane. La stessa rivista Du lo inviò in diverse città per documentarne le condizioni così come l'associazione Schweitzer Spende ne commissionò un servizio in Grecia dove c’era un clima di morte. In breve tempo Werner Bischof comincia a farsi una fama come fotografo documentarista e viene chiamato dalla famosa rivista Life in occasione delle Olimpiadi invernali di Sankt Moritz, le sue foto compariranno sulla rivista l'anno successivo. Intanto la sua missione di viaggiare negli Stati post-bellici continua e visita l'Europa dell'est e la Finlandia. Proprio a Budapest venne scattata la fotografia "A train of the Red Cross, transporting children to Switzerland" con protagonista la piccola Jurika, una bimba ungherese in procinto di partire per la Svizzera. Il fotografo non è sul treno ma sulla banchina, il suo obiettivo è fisso sul finestrino dove 3 bambini guardano qualcuno in lontananza. Jurika è quella che maggiormente si fa notare, con un cartello al collo e la paura negli occhi. Lo sguardo è perso e l'osservatore si chiede sinceramente che fine abbia fatto quella bambina e quale destino abbiano subito tutti gli orfani di guerra costretti ad andare via dal loro Paese. La risposta Bischof non la conosce ma è l'artefice di questo meraviglioso scatto, così toccante ed empatico. Il 1949 è un anno importante per il fotografo per due motivi: sposa Rosellina Mandel in Inghilterra ed entra a far parte di un'agenzia che scriverà la storia del documentario, ovviamente la Magnum Photos. Werner Bischof è in buona compagnia, l'agenzia riunisce i migliori sulla piazza come Robert Capa, David Seymour, Henri Cartier-Bresson e molti altri. L'agenzia è agli albori ma il successo non tarda ad arrivare grazie all'immenso talento dei suoi fotografi.
Sua moglie Rosellina è svizzera ma ha lavorato come assistente sociale a Rimini ed è proprio in Italia che la incontra. In questo periodo Bischof diventa padre del figlio Marco e comincia a collaborare anche con il Picture Post e l'Observer, non tralasciando mai i suoi viaggi e toccando Italia e l'Islanda. In Italia girerà diverse città, da Rimini a Napoli, soffermandosi perlopiù sulle popolazioni rurali e sui tanti bambini che giocavano e ridevano pur possedendo il nulla. 
In Italia, in un territorio fatto di polvere e macerie, Werner Bischof incontrerà un popolo vivo. Tra i panni stesi, le bancarelle e le tradizionali abitudini, c'è un'umanità che non ha subito alcuna scalfittura e va avanti con fierezza e gioia. Questa breccia speranzosa risolleverà l'animo del fotografo che, proprio in questa terra, scatterà alcune delle sue foto più belle.
Il successo e la popolarità arrivano intorno al 1952, Werner Bischof viene spedito dalla Magnum in India per documentare la terribile carestia in Bihar. Gli scatti sono inquietanti, il fotografo si ritrova a fotografare bambini denutriti, madri alla disperata ricerca di cibo, corpi scheletrici riversi sul terreno. Questa disperazione alienante è un terribile colpo per Bischof che ormai è troppo addentrato per tornare indietro. Anni prima suo padre, uno svizzero benestante, rivela tutta la sua delusione per quel figlio che aveva abbandonato la perfezione del suo Paese per una vita da sbandato, in giro per il mondo a fotografare morte e distruzione. Suo figlio gli risponderà con una richiesta di perdono. Werner Bischof chiese scusa per ciò che stava facendo, per l'impossibilità di tornare indietro a fotografare scarpe e bei vestiti. Chiese scusa perché non poteva essere un perfetto svizzero.  Chiese scusa perché era un essere umano. Questo suo "sentire" gli altri è la perfetta sintesi della sua vita. Una vita breve ma intensa. Dal 1951 al 1953 viaggiò tra Corea, Giappone ed Estremo Oriente per realizzare un reportage sulla guerra (nei primi due casi) e un servizio sulla società maschile. La cosa che risalta all'occhio è la pienezza della sua vita in un ristretto arco temporale. Werner Bischof era sempre sul campo, nonostante la stanchezza. 
Una delle sue foto più belle è sicuramente quella scattata a Okinawa "Sopravvissuto ad Hiroshima". Il soggetto è ripreso di spalle, la visuale è dannatamente vicina e sembra quasi di sentire l'odore dell'uomo, la schiena nuda è una tela di cicatrici e bruciature. Il risultato è un quadro impressionante in cui la pelle sembra quasi essere diventata cuoio. La bomba sganciata a Hiroshima ha ucciso milioni di persone ma ha avuto conseguenze disastrose anche su persone che, al momento del fatto, si trovavano a centinaia di chilometri di distanza. Una foto sconvolgente e cruda che ben contrasta con un'altra della stessa serie. Ne "I monaci di Shinto" il fotografo si allontana dai soggetti che appaiono quasi inverosimili nelle loro vesti bianche, in fila indiana. La sequenza è ritmica e la luce illumina delicatamente la scena, rivelando un toccante movimento quotidiano. 
Ovviamente c'è spazio anche per i ritratti più piacevoli e, nella terra delle geishe, Werner Bischof troverà diversi volti gradevoli in donne giapponesi. Il 1954 è l'ultimo anno di Bischof. Il fotoreporter visiterà il Messico, Lima, Cile e Perù. Proprio in quest'ultima siglerà una delle sue foto più iconiche: il bambino peruviano che suona il flauto a Cuzco. Poche settimane dopo, Werner Bischof morirà a seguito di un incidente automobilistico nelle Ande. La sua auto cadrà in un burrone, portando via uno dei Maestri della fotografia del Novecento. Una leggenda metropolitana vuole che la foto di Cuzco sia la sua ultima ma non si sa quanto sia veritiera. Ciò che si sa è che il fotografo partì subito alla volta dell'Amazzonia e potrebbe aver scattato altre foto andate perse. Il bambino peruviano che suona il flauto accompagna dolcemente la morte di Bischof e chi osserva la foto ha quasi l'impressione di sentire le note in lontananza e il passo scoordinato del fanciullo. Soli pochi giorni dopo verrà alla luce Daniel, il suo secondo figlio. Il pensiero di Werner Bischof è racchiuso in quella famosa lettera scritta al padre ma non solo. Quando qualcuno osava chiamarlo fotoreporter storceva il naso, era infastidito da quel termine così professionale e poco umano. Addirittura si ritrovò a scattare una foto-denuncia in Corea, riprendendo un gruppo di fotoreporter che si spintonavano alla ricerca dello scatto migliore. Un covo di avvoltoi che lui osservava come strani animali rinchiusi in uno zoo. Quello che faceva Bischof non era "cercare" lo scatto ma fermare un momento. Il suo obiettivo scattava in sincrono con il suo sguardo attento e l'immediatezza delle sue foto sono state la chiave del suo successo.
 
Nonostante la ritrosia nel definirsi fotoreporter accettò subito l'invito della Magnum Photos.
In seguito alla morte, ci fu una rapida riscoperta dei suoi lavori e una consacrazione meritata del nome di Werner Bischof. Molte sue foto sono ancora oggi nascoste in archivi di tutto il mondo, come piccole tracce lasciate dal fotografo ai posteri. Suo figlio Marco ha seguito le orme del padre e cura diverse esposizione paterne. Ultimamente si è addentrato in uno speciale progetto di reportage per seguire le orme del padre in Perù, ripercorrendo le sue tappe e cercando una pallida ombra della sua aura speciale.
Il percorso espositivo della mostra è così suddiviso :
La presentazione delle opere in mostra segue un andamento ordinato in base alle tre macchine fotografiche utilizzate da Werner Bischof. Apre il percorso la sezione con le immagini scattate dalla Devin Tri-Color camera, che accompagna il fotografo svizzero fin dagli inizi della sua carriera. Nature morte, studi di luce, composizioni astratte e anche scatti di moda dei primi anni ’40 rivelano il Bischof attento e curioso sperimentatore dopo la formazione alla Kunstgewerbeschule di Zurigo con Hans Finsler, pioniere della “Neue Sachlichkeit” (Nuova Oggettività). L’afflato sperimentale verrà presto spento in Bischof dall’esperienza della seconda guerra mondiale, quando sente l’urgenza di uscire dallo studio per fotografare la realtà. Sono questi gli anni in cui inizia a documentare l’Europa postbellica per la prestigiosa rivista svizzera “Du”. In mostra è presente una delle fotografie più celebri e discusse del fotografo, quella che ritrae un bambino di Roermond, nei Paesi Bassi, con il volto disseminato dalle cicatrici causate dall’esplosione di una mina giocattolo. Pubblicata a colori come copertina nel numero del maggio 1946 della rivista, l’immagine provocherà accese reazioni di sdegno. Fotografie a colori di Berlino, Colonia e Dresda e altre città in rovina, realizzate nel ’46, restituiscono invece un’atmosfera di sospensione, grazie alle inquadrature studiate, in forte contrasto con i dettagli e i colori vividi. È soprattutto nel nucleo di fotografie scattate in Europa in quegli stessi anni che si apprezza in particolare l’esplosione cromatica. Grazie all’uso sapiente e mirato del colore, Bischof si dimostra infatti capace di rompere la staticità imposta dai limiti dell’ingombrante Devin Tri-Color, che necessitava di cavalletto e luce intensa. È questo il caso dei ritratti di genere della popolazione rurale italiana, in cui la fissità immobile da cartolina è evitata grazie al colore, che diventa elemento essenziale della composizione. È nei lavori di medio formato realizzati tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 con la Rolleiflex 6×6 che si manifesta l’essenza artistica della fotografia a colori di Bischof. Era, questa, la macchina che gli offriva le migliori possibilità di composizione. Dalle fotografie che raccontano l’Europa più diversa – dalla Sardegna alla Polonia – fino alle testimonianze del lungo viaggio che nel 1951 lo porterà in Asia, il colore si fa qui veicolo di stati d’animo. L’uso espressivo del colore aiuta Bischof ad esprimere l’anima della cultura orientale soprattutto nelle immagini realizzate in Giappone; affascinato dalla bellezza spirituale dell’isola, qui egli vivrà un momento culminante della sua carriera, alla ricerca di un approccio più profondo. Oltre a diversi scatti realizzati a Kyoto, questa esperienza è restituita anche nella sezione introduttiva della mostra dal prezioso libro Japon, che alterna immagini in bianco e nero e a colori. Curato in ogni dettaglio dall’artista, il volume vinse il premio Nadar nel 1955. Su tutt’altro registro si muovono invece le fotografie, realizzate con la piccola e agile Leica nel 1953 durante il viaggio negli Stati Uniti. Lo sguardo di Bischof sembra divertirsi a cogliere riflessi, dettagli audaci, giochi di luce e colore nei frammenti delle architetture urbane. Il calore dei luoghi e della gente dell’America Centrale risalta in scatti vivaci, dai forti contrasti cromatici. La Leica è compagna perfetta anche nel viaggio verso il Perù: qui Bischof rimane colpito dalla cultura Inca, dalle macchie di luce e colore sulle antiche mura e architetture in rovina, da cui si aprono squarci e “finestre” con punti di vista sempre nuovi da immortalare. Durante quello che il fotografo aveva definito “il grande viaggio”, la sua vita verrà bruscamente interrotta in un tragico incidente sulle Ande, nel maggio 1954. Tra i tanti interrogativi sulla sua opera, rimane aperto anche quello sul colore e sul ruolo che avrebbe ancora potuto giocare per un così talentuoso artista della fotografia. In occasione della mostra verrà pubblicato un catalogo edito da Scheidegger & Spiess e Edizioni Casagrande in italiano, inglese e tedesco, con testi di Tobia Bezzola, Clara Bouveresse, Luc Debraine e Peter Pfrunder.
Biografia di Werner Bischof 
Si forma alla Kunstgewerbeschule (Scuola di arti applicate) di Zurigo con Hans Finsler e nel 1936 apre il suo primo studio fotografico, lavorando in parallelo per agenzie pubblicitarie e di moda. L’esperienza nell’esercito svizzero durante la seconda guerra mondiale cambia radicalmente il suo approccio alla fotografia: per la rivista svizzera Du percorre l’Europa alla scoperta dei luoghi distrutti dalla guerra, mentre nel 1949 entra a far parte della celebre agenzia Magnum. Realizza reportage da diversi luoghi in Oriente, tra cui India, Corea, Indocina e Giappone, lavorando anche per riviste come Life e Paris Match. Dopo il viaggio che lo porta dagli Stati Uniti al Perù attraverso il Messico, perde la vita in un tragico incidente d’auto sulle Ande all’età di 38 anni.
 
Masi Museo d’Arte della Svizzera Italiana – Lugano
Werner Bischof - Unseen Colour
dal 12 Febbraio 2023 al 4 Luglio 2023
dal Martedì al Venerdì dalle ore 11.00 alle ore 18.00
Giovedì dalle ore dalle ore 11.00 alle ore 20.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Lunedì Chiuso