Giovanni Cardone Settembre 2022
Fino al 29 Gennaio 2023 si potrà ammirare al Masi Museo d’Arte della Svizzera Italiana – Lugano la mostra Una Raccolta d’Arte Moderna Italiana da Carlo Carrà, Massimo Campigli, Giacomo Manzù, Ottone Rosai, Scipione e Mario Sironi a cura di Cristina Sonderegger, questa mostra nasce da una collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia dove sono stati selezionati  trenta capolavori dell’arte moderna italiana . In una mia ricerca storiografica e scientifica sull’Arte Moderna Italiana apro il mio saggio dicendo: Alla metà del secondo decennio del XX secolo in tutta Europa, quasi in coincidenza cronologica con alcuni dei più trasgressivi movimenti dell’avanguardia, e per mano di artisti che di questi movimenti erano stati parte attiva, dal cubismo al dadaismo, dall’espressionismo al futurismo, soffiò il vento di un nuovo classicismo, annunciato da opere diventate simbolo di quell’inversione di linguaggio, o, meglio sarebbe dire, di quella conversione “al concreto, al semplice, al definitivo” di cui parlerà alcuni anni più tardi Margherita Sarfatti, la teorica del Novecento italiano. Partendo proprio dalla figura ella era una grande letterata è fu la prima donna in Europa ad occuparsi di critica d’arte, dimostrando versatilità e competenza. Tuttavia oggi viene comunemente ricordata soprattutto perché, pur provenendo da una famiglia ebrea, ella 1910 divenne l’amante di Benito Mussolini pianificandone la politica culturale fino alla svolta delle leggi razziali, quando per lei divenne opportuno espatriare. In realtà, per quanto contraddittoria, la vicenda umana e professionale della Sarfatti non merita le facili riduzioni. Come altri personaggi del suo tempo, la Margherita Grassini sembra attratta in modo ricorrente dai percorsi contrastati e fiammeggianti di passioni, sotto alcuni aspetti dimostra il suo impegno contro la discriminazione sessista, scrivendo e finanziando dei periodici femministi, sotto altri aspetti evidenzia una tendenza a misurarsi soprattutto con il modello di successo maschile, rappresentato prima dal padre, poi dal marito, da Mussolini e persino da alcuni artisti con cui in tempi diversi instaura una relazione sentimentale. Margherita si muove spesso su un crinale di improbabili equilibri che nel periodo di impegno socialista scrive sull’Avanti, e si batte per l’uguaglianza, tuttavia non riesce a rinunciare al lusso e ai privilegi di casta, tanto che di frequente viene criticata dalla sua stessa cerchia. Scrive sul periodico ‘Unione femminile’ e collabora fino al 1915 alla pubblicazione ‘La difesa delle donne lavoratrici’, frequenta la Kuliscioff, ma il suo emancipazionismo naufraga di fronte al mito dell’uomo-guida, dell’amour fou a cui immolarsi. Margherita si forma sugli scritti di John Ruskin, legge Marx, Turati e Anna Kuliscioff. Nel 1898 sposa giovanissima, a dispetto della famiglia, un avvocato socialista da cui avrà tre figli, lui che aveva tredici anni più di lei, imposta il matrimonio in modo libertario. Si impantana per quasi vent’anni nella relazione con Mussolini, anche lui sposato ma geloso al pari di lei. Animata da uno spiritualismo tormentato e segnato tra l’altro dal suicidio di una sorella Margherita esita tra la fede ebraica e il cattolicesimo, a cui si converte nel 1928. La Margherita Grassini Sarfatti  trasforma anche la propria visione politica, inizialmente affine al socialismo, in un convinto nazionalismo e progressivamente si coinvolge nell’avventura fascista. Appoggia il regime, ma discute con Mussolini a proposito dei gerarchi in ascesa, che lei considera volgari e pericolosi. Il rapporto con lui attraversa alti e bassi, finché si deteriora ed entra in piena crisi la Sarfatti fugge quando vengono approvate le leggi razziali e ritorna solo alla fine del conflitto mondiale, per trascorrere gli ultimi anni lontana dalla ribalta a cui era abituata. Gli scritti e le testimonianze concordano sulla poliedrica intelligenza di Margherita e sulla vastità della sua cultura, la Grassini cresce in una famiglia veneziana assai agiata e dispone di maestri eminenti, sensibile intenditrice d’arte, condivide con il marito Cesare il desiderio di una vita sociale più vivace perciò nel 1902 si trasferisce con lui a Milano, dove dà vita ad un salotto frequentato dai più promettenti artisti del momento e guida iniziative culturali importanti. Conosce quattro lingue e incontra personalità di fama dal futuro pontefice Pio X, alla regina Elena di Savoia, a Guglielmo Marconi, a Joséphine Baker e si circonda di numerosi artisti e letterati  tra cui Ada Negri, Fogazzaro, Marinetti, Shaw, Cocteau, D’Annunzio, Prezzolini, Palazzeschi, Panzini, scultori e pittori del calibro di : Adolfo Wildt, Arturo Martini,Sironi, Marussig, Carrà, Russolo, Boccioni e degli architetti Sant'Elia e Terragni. L’incontro anche sentimentale con il giovane Mussolini avviene nel 1912 su posizioni socialiste, da cui entrambi si allontanano in quanto interventisti per fondare Il Popolo d'Italia, ma la realtà della Prima Guerra Mondiale è durissima, nel 1918 muoiono al fronte anche ragazzi come il  figlio di Margherita in questa fase gli ideali di sacrificio e dedizione patriottica che avevano animato il figlio non vengono messi in discussione dalla Grassini, ma anzi diventano un riferimento consolatorio per lei, che in seguito pubblicherà un volume in versi dal titolo ‘ I vivi e l'ombra’, dedicato al figlio. Morto il marito nel 1924 Margherita accompagna in modo sempre più scoperto l’affermazione di Mussolini e del partito esperta organizzatrice di eventi, collabora al piano della marcia su Roma, agli scritti teorici del fascismo e in pieno regime assume anche incarichi istituzionali. Probabilmente la Grassini, forte della stima di cui gode già da tempo a livello internazionale per i suoi scritti, è convinta di poter guidare le scelte politico-culturali del regime e sottovaluta la progressione del clima antisemita. Infatti, sulla questione ebraica Mussolini cambia nel tempo la sua posizione, passando da una iniziale tolleranza all’assunzione piena del modello nazista. Anche rispetto alla donna che lo sostiene egli muta atteggiamento, pur apprezzandone la bellezza la definisce avara e sordida, secondo uno stereotipo collaudato dalla propaganda fascista nel descrivere gli ebrei. Eppure il duce ha ricevuto da Margherita grande sostegno economico oltre che morale. Anche il miglior biglietto di presentazione ai governi stranieri gli giunge dalla Sarfatti che nel 1926 la scrittrice pubblica ‘Dux’, la biografia mussoliniana che adula il capo e lo descrive vitale, spregiudicato, sensuale e aggressivo, energico portatore di ciò che viene indicato come spirito italico, con la sua consueta padronanza della scena, Margherita presenta il libro negli USA assicurandogli un enorme successo. Finché Mussolini è impegnato nella prima organizzazione dello Stato fascista, la Grassini ha notevole spazio probabilmente sono sue alcune parole chiave della propaganda fascista, come fascio e duce, è sua la mistica della romanità resuscitata dal fascismo, è lei a rendere credibile all’estero l’immagine del duce. Il desiderio mussoliniano di grandezza si arma della competenza di Margherita, che intende correggere il cattivo gusto dell’estetica fascista e assumere il ruolo di musa e mediatrice. Del resto Margherita è un’autorità nel campo dell’arte, e da sempre ama valorizzare i talenti orchestrandone la riuscita, incoraggia e protegge i giovani artisti con Umberto Boccioni ed Emilio Notte ha avuto anche brevi relazioni, persegue il disegno di una nuova società in cui l’arte sia sovrana. La sua visione mescola esaltazione spirituale e residui risorgimentali, spirito pedagogico e individualismo in questo quadro gli artisti sono determinanti per la costruzione del futuro. Tra le due guerre l’arte europea, accantonando l’impeto destabilizzante delle Avanguardie, è pronta a rivalutare il realismo classico, in Italia Margherita Grassini Sarfatti auspica appunto un ritorno al classicismo. Con entusiasmo dà corpo al suo progetto, che intende coniugare la modernità con la monumentalità del Rinascimento. Infatti, nel 1922 fonda il gruppo noto come Novecento, al quale inizialmente aderiscono sette pittori A. Funi, P. Marussig, L. Dudreville, E. Malerba, M. Sironi, U. Oppi e A. Bucci; alcuni di loro se ne allontanano presto per timore di essere strumentalizzati, ma il gruppo si ricostituisce nel 1926 con il nome di Novecento Italiano e raccoglie, data la protezione assicurata dal regime, un numero assai alto di adesioni. Nonostante le pressioni di chi vuole ridurre la cultura a semplice strumento di regime, per qualche tempo la Sarfatti riesce a mantenere questa iniziativa lontana dai toni più volgarmente propagandistici, tenendo fede alle motivazioni artistico culturali che la animano. Negli anni successivi la Grassini si interessa all’architettura razionalista, privilegiando progettisti volti al contemporaneo come Terragni, Figini, Michelucci e Pollini. Proprio al giovanissimo Terragni, di cui capisce e protegge il talento, Margherita commissiona il monumento funebre per il figlio Roberto, ignorando altri professionisti più in vista, ma non ugualmente radicali. Inoltre promuove la valorizzazione delle arti applicate con il fine di coniugare modernità e tradizione, rinnova la Biennale di Monza e istituisce la Triennale di Milano, facendovi costruire il Palazzo dell'Arte. Sebbene aspiri a raccogliere in Novecento l’intera ultima produzione artistica italiana, Margherita è comunque aperta a tutti i fenomeni emergenti e interessata alle differenze estetiche ma nel frattempo il Ministero della cultura si trasforma in un rissoso centro di potere, da cui le arrivano attacchi sempre più numerosi. Mentre all’estero le finalità artistiche di Novecento riscuotono grande successo, in Italia alla Sarfatti viene meno buona parte degli appoggi. L’emarginazione di questa lucida intellettuale coincide in architettura con l’adozione da parte del regime di un freddo e retorico stile littorio, ben lontano dalla sobrietà formale del razionalismo. Il tentativo grassiniano di dare al fascismo una piattaforma ideale ormai è diventato ingombrante, Margherita non concorda con le imprese coloniali, non approva l’intensificarsi dei rapporti con la Germania nazista, si scontra con l’ostilità di gerarchi avidi e senza scrupoli come Farinacci e Starace e nel contempo percepisce la perdita di interesse nei suoi confronti da parte di Mussolini. Nel 1938, di fronte al clima così mutato, la Sarfatti fugge all’estero; la sua famiglia invece vive in pieno le vicende del totalitarismo antisemita, tanto che una sorella Nella Grassini Errera rimarrà vittima del lager ad Auschwitz. Margherita soggiorna prima a Parigi dove frequenta tra gli altri Jean Cocteau, Colette e Alma Mahler e infine si stabilisce in Sud America, dato che il suo desiderio di essere accolta negli USA non ha trovato risposta. Ritorna in Italia alla fine della guerra e nel 1955 riesce a far stampare una autobiografia dal titolo ‘Acqua Passata’, dove il rapporto con Mussolini è quasi ignorato. Resta invece inedito a lungo il primo manoscritto delle sue memorie intitolato ‘Mea culpa’, pubblicato solo post mortem con il titolo My fault. Negli ultimi anni Margherita si isola nella sua villa di Cavallasca, vicino a Como, dove morirà nel 1961.  L’interesse per l’arte oppure per le ‘arti’ nasce precocemente  e si esprime compiutamente in occasione dell’Esposizione Internazionale di arti decorative e industriali moderne tenuta a Parigi nel 1925 e delle Biennali di Monza e poi le Triennali di Milano, occasioni cui ella partecipa direttamente. I suoi interventi in questi ambiti sono stati oggetto di studi specifici ad opera di storici delle rispettive discipline pur tuttavia, ho deciso di riportarle in questo saggio per meglio capire la sua figura di Critico d’Arte e di donna ed i vari movimenti artistici che hanno caratterizzato il primo novecento. Come non ricordare il “ritorno a Ingres“ di Picasso, con la serie dei piccoli disegni naturalistici e dei ritratti di Ambroise Vollard e di Max Jacob, dipinti dal pittore spagnolo verso il 1915, testimonianza di uno dei “ritorni” più celebri della storia dell’arte del ’900, o quello altrettanto significativo del pittore italiano Gino Severini, che nel 1916 dipinse “in una forma semplice che rammenta i nostri primitivi toscani” il Ritratto di Jeanne e La maternità? Ma quale fu la pittura che deviò il suo corso nel nuovo classico del ’900? Secondo Franz Roh, il teorico tedesco del realismo magico, tutta la migliore pittura europea, dal cubismo al futurismo, all’espressionismo, fu interessata da questo “ritorno all’ordine” e la maggior parte degli autori che avevano propugnato le tesi dell’avanguardia si ritrovarono verso la fine del secondo decennio del secolo a ripassare la lezione degli antichi maestri. Nell’elenco delle tendenze realiste comparse tra la fine dei secondi anni Dieci e i primi anni Venti, Roh cita il naturalismo di Derain, il purismo di Ozenfant e Janneret, il classicismo di Valori Plastici, la scuola di Rousseau, il verismo di Dix e Grosz, il nuovo linearismo di Beckmann e Hofer. All’origine di questa sorta neo figurativa, che attribuiva alla pittura una funzione ermeneutica della realtà profonda attraverso lo studio delle apparenze, stava l’idea del ritorno inteso non come reazione all’avanguardia, bensì come richiamo dell’antico e del classico alla contemporaneità. Scriveva nel 1988 a questo proposito Jean Clair, in un importante saggio dedicato al realismo magico, che il ritorno della pittura a schemi saldamente legati alla tradizione antica era da considerare “insito nella vita stessa delle forme”: “Non il ritorno automatico, passivo e nostalgico ai valori sicuri del passato, bensì l’espressione ansiosa, dopo il decennio frenetico che la storia dell’arte aveva attraversato fra il 1905 e il 1915, del bisogno di fondare l’arte del dipingere su basi più solide e più stabili”. Che non si fosse trattato di un “ritorno” inteso come restaurazione di uno stile antico, contrapposto al linguaggio delle avanguardie del primo Novecento, lo dimostra l’ampio dibattito critico, vivacissimo soprattutto in Italia e in Germania, attorno alla definizione della parola classico, da non intendersi, come spiegava il letterato italiano Massimo Bontempelli, come una determinazione di tempo, bensì come una categoria spirituale: “classica – scriveva infatti Bontempelli, profeta della ‘fine dell’avanguardia’ – è ogni opera d’arte che riesca ad uscire dal proprio e da ogni tempo”. I critici letterari che si occupano della produzione letteraria di Bontempelli, adoperano di solito il termine “realismo magico” per definire i tratti tipici del suo stile letterario. Comunque, occorre rendersi conto del fatto che nelle opere di Bontempelli possiamo individuare sia elementi tipici proprio per il realismo magico sia elementi che rivelano l’ispirazione da altre correnti letterarie. La produzione bontempelliana quindi non può essere definita nei limiti di un solito filone letterario, ma si tratta piuttosto di un risultato dell’influenza di vari movimenti letterari, artistici e filosofici del tempo. Siccome la presente tesi si occupa dei racconti di Bontempelli scritti negli anni ‘20 e ‘30, nei quali l’influsso del realismo magico sulla produzione dello scrittore prevale sulle altre tendenze, è opportuno soffermarsi proprio su questo argomento. Lo scopo di questo capitolo è perciò quello di provvedere uno sfondo teoretico necessario per poter affrontare l’opera letteraria dello scrittore. Si propone di definire il termine realismo magico e di individuare i tratti tipici di questo filone letterario, confrontandolo con altri filoni letterari che manifestano tratti simili. Inoltre, ci si concentra sulla concezione del realismo magico di Bontempelli, delineando i suoi concetti più significativi. Esaminando l’espressione “realismo magico”, si può notare che si tratta di una sorta di ossimoro che unisce due elementi semanticamente in contrasto - da una parte il sostantivo “realismo” che si riferisce a situazioni e ambienti reali, e dall’altra l’aggettivo “magico” che viene associato con il mondo fantastico e immaginario. Tra i tratti tipici del realismo letterario appartengono l’ambientazione precisa, i protagonisti comuni e la rappresentazione fedele della vita dei personaggi. Gli autori quindi cercano di raffigurare la realtà quotidiana, creando nei lettori la sensazione che raccontino fatti veri. Dal punto di vista della forma, la narrativa tende a seguire l’ordine degli avvenimenti senza sperimentazioni stilistiche o formali, facendo continuamente il riferimento al reale. Il termine “magico”, invece, viene spesso usato per riferirsi a eventi straordinari, soprannaturali e inverificabili. Così, nella narrazione si trovano temi e situazioni inconsueti che si intrecciano e si oppongono con gli schemi tradizionali usati nel realismo. Il termine “realismo magico” è quindi una sintesi di due termini opposti che costituiscono un legame tra il mondo reale e fantastico. In altre parole, si parla del realismo magico quando gli elementi magici appaiono in un contesto realistico. Il termine “realismo magico” è per la prima volta utilizzato nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh per descrivere lo stile particolare del gruppo dei pittori tedeschi appartenenti al movimento artistico “Nuova Oggettività”.  Gli artisti appartenenti a questo movimento cercano di esprimere l’orrore e il caos della guerra, ma i loro dipinti sono privi di ogni sentimentalità. Per di più, nella loro concezione della realtà sono notevolmente influenzati dal pittore italiano Giorgio De Chirico, esponente principale della corrente artistica che si chiama “La Pittura metafisica”. Tra i caratteri fondamentali della produzione di De Chirico appartengono per esempio le prospettive multiple, l’assenza dei personaggi umani, le scene che si svolgono nei posti isolati e l’atmosfera inquietante, tutto ciò suscita la sensazione di solitudine e straniamento. Dunque, i dipinti metafisici raffigurano oggetti ed eventi che fanno parte della realtà quotidiana, ma li presentano da prospettive diverse, creando una sensazione del mistero e della meraviglia. A differenza del realismo magico letterario, nella pittura non troviamo gli elementi magici o fantastici inquadrati esplicitamente nella rappresentazione della realtà, ma si tratta piuttosto di una visione del mondo attonita, come se la realtà fosse vista attraverso un obiettivo misterioso. Successivamente, il realismo magico è associato con il realismo insolito degli artisti come Ivan Albright, Paul Cadmus e George Tooker che fanno parte del gruppo di pittori americani attivi negli anni ‘40 e ’50. Quanti dipinti si potrebbero considerare delle vere e proprie opere che fanno parte di quel rinnovamento che, in opposizione ai linguaggi delle avanguardie, allo scorcio del secondo decennio del secolo tornarono a parlare l’antica lingua dei grandi maestri primitivi italiani, di Giotto, di Piero della Francesca e di Paolo Uccello, alcuni addirittura ritrovando nuove suggestioni nel mito delle culture arcaiche e primitive, così come magistralmente rilette da Picasso il volto più dionisiaco dell’arte contemporanea, in alcuni tra i suoi più incredibili dipinti degli anni Dieci, primo fra tutti Les demoiselles d’Avignon? Un sintetismo primitivo, che aveva appassionato anche il giovane Amedeo Modigliani, quando giunse a Parigi nel 1906, e aveva messo alla prova, suppergiù negli stessi anni, un po’ tutta l’avanguardia, da Apollinaire a Marie Laurencin, da Delaunay a Vlaminck, da Brancusi a Max Jacob, da Picasso a Max Weber, che nel culto delle antiche civiltà nere, ma soprattutto nell’opera incorrotta e profondamente ingenua del Doganiere Rousseau, colsero l’esempio più alto del realizzarsi, nell’attualità della storia contemporanea, di una nuova, perfetta congiunzione di forma, verità e simbolo. E proprio a Rousseau va dato merito se rimase accesa nell’arte europea del XX secolo una fiamma di naïvetè arcaica ed innocente, capace di alimentare il cuore di molti artisti moderni, dai già citati Picasso, Derain, Max Weber, all’italiano Carlo Carrà, che per questa via, spenta la passione futurista e non ancora domata quella metafisica, ritroverà, verso il 1915, i caratteri distintivi di una “pittura dell’origine” sua propria, animata da suggestioni e motivi che richiameranno a nuova vita non solo la tradizione arcaica dei pittori primitivi del Trecento e Quattrocento ma anche la forza perduta del simbolo. In Carlo Carrà il ricordo della figurazione primitiva di Rousseau diventerà l’allegoria del Fanciullo prodigio, un dipinto del 1915, in cui si è voluto acutamente ravvisare una sorta di ritratto dell’Artista, di colui che attraverso la sofferenza dell’età adulta ha ritrovato la fanciullezza e nella fanciullezza ha riabbracciato il prodigio della Meraviglia, lo sguardo incontaminato della purezza. Nello spazio senza tempo, dove viaggia La carrozzella, dipinta da Carrà nel 1916 o nel primitivismo scarnificato ed enigmatico di I romantici, sempre del 1916, si compie la brevissima ma intensa stagione del primitivismo italiano, che volgerà da queste premesse, verso l’affermazione di quella che il grande critico e storico dell’arte tedesca Wilhelm Worringer, proprio riferendosi all’opera di Carrà, nel 1921 definì “la misura classica dell’arte europea”. Se per la maggior parte degli artisti europei il ritorno alla figurazione coincise con un atto di rinuncia dei postulati teorici e formali delle dottrine dell’avanguardia, ci fu anche chi, come il grande pittore italiano di origine greca Giorgio de Chirico, sulla strada del classico aveva da sempre indirizzato la propria ricerca. Il pittore greco dal volto d’Apollo, padre della Metafisica, aveva fatto la sua scelta fin dai tempi della giovinezza, quando, negli anni di Monaco, aveva adottato come suoi maestri ideali Bòcklin e Klinger, e aveva trovato conferma alla sua idea di moderno nella scultura antica e nelle regole dell’arte italiana del Rinascimento. Fedele ai propri convincimenti, che gli fecero abbracciare da subito la strada di una figurazione classica, de Chirico, fin dall’inizio attese alla vita segreta delle cose e tentò di rappresentarla nelle sue prime composizioni metafisiche, all’incirca a partire dal 1910, sebbene l’anno ufficiale di nascita della Metafisica va ricondotto dal 1917, quando nella città di Ferrara, lì giunti per diverse ragioni, si incontrarono e ne condivisero le formulazioni di poetica Carlo Carrà, il più giovane Filippo de Pisis, Alberto Savinio, fratello di de Chirico e lo stesso de Chirico, che alla metafisica aveva da tempo dedicato il suo cuore e la mente. Come dice lo stesso De Chirico dalle pagine di “Valori Plastici”: “Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile, ci vorrà tempo e fatica”, tuonava Giorgio de Chirico alla fine del 1919 sulle pagine di “Valori Plastici”, ad un anno dalla prima uscita della rivista diretta da Mario Broglio. Quel processo di “restaurazione” dei valori formali che si era avviato nelle arti figurative in tutta Europa nell’immediato primo dopoguerra trovò espressione in Italia in questa rivista, luogo di convergenza e di confronto delle forze più vive dell’arte e della critica di quegli anni. Sin dal primo numero ospitò sulle sue pagine i nomi più diversi di critici e artisti, provenienti da situazioni culturali talvolta contrastanti. Comune era però l’asserzione della crisi della modernità, così come era stata espressa nell’esperienza dell’avanguardia e la ricerca di uno stile e di un linguaggio che si esprimessero nell’ambito di regole formali eterne. Ciò si traduceva nella volontà di riaffermare la concezione dell’arte come esperienza della tradizione, specificamente quella italiana, e di propugnare come alternativa un rinnovato classicismo, talvolta invocato come “italianismo artistico” Questo clima intellettuale tipicamente italiano e l’intento di definire “il carattere dell’arte” distinguono il “clima di Valori Plastici” dalla generale tendenza del ritorno all’ordine che è diffusa negli stessi anni in tutta Europa. È datato aprile 1918 il frammento poetico Zeusi l’esploratore che Giorgio de Chirico invia a Broglio da Ferrara perché appaia sul primo fascicolo di “Valori Plastici”, la cui uscita verrà invece posticipata, per vari motivi, al mese di novembre. Il primo numero di “Valori Plastici” apre all’insegna della Metafisica, recando sul frontespizio l’Ovale delle apparizioni di Carrà del 1918. Si accrediterà così l’immagine di rivista ufficiale della Metafisica, presentandosi principalmente come tribuna di espressione di de Chirico e Savinio, anche se nella mente di Broglio non c’era un preciso programma, né l’intenzione di lanciare manifesti, quanto piuttosto quella di provocare un confronto all’interno di una situazione comune. Nello stesso periodo si pubblicava il volume Pittura metafisica di Carlo Carrà. Tra il 1918 e il 1919 si parlava perciò ancora di Metafisica, finalmente chiarificata dai primi scritti teorici pubblicati dagli artisti stessi, proprio mentre evolvevano verso nuovi approdi. Et quid amabo nisi quod aenigma est? era stato infatti il titolo da lui dato molti anni prima ad un famosissimo autoritratto, opera nella quale il suo volto appare segnato da una profonda inquietudine, quasi che la capacità di vedere oltre le apparenze, gli rivelasse tutte le pene della solitudine e della malinconia, proprie dell’uomo contemporaneo. Ogni Piazza d’Italia del resto sarà, nello stesso tempo, luce accecante e ombre inquietanti, visibile e invisibile che si rincorrono, presente e passato che si congiungono. Se per i futuristi la relazione tra lo spazio e gli oggetti fu azione allo stato puro, per i pittori metafisici divenne luogo della rivelazione magica della vita nascosta delle cose: gli oggetti, pur rimanendo riconoscibili, persero ogni legame di contiguità e di logica concatenazione con lo spazio che li circondava o con gli altri oggetti disposti nello stesso spazio. Ne furono prove superbe le rarissime nature morte metafisiche di Giorgio Morandi che alla metafisica giunse più tardi, accompagnato oltre che dalla lezione di Carrà, da un ripensamento in guisa di una assoluta rarefazione delle cose nello spazio della lezione di Cézanne e la serie più nota delle Piazze d’Italia di de Chirico appunto, come la celebre Matinée angoissante, dipinta nel 1912, che ci rivela lo spettro dell’enigma in una Torino assolata, con il lungo porticato in ombra che corre a perdita d’occhio sulla sinistra e che incrocia in primo piano la sagoma cupa di un treno che passa, ricordo improvviso del padre e della terra natale. “La pittura di de Chirico scrisse Soffici sulla rivista “Lacerba” nel 1914 non è pittura nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni. Per mezzo di fughe quasi infinite d’archi e di facciate, di grandi linee dirette, di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei, egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, d’immobilità di stasi, che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo della nostra anima quasi addormentata. Giorgio de Chirico esprime come nessuno l’ha mai fatto “la melanconia patetica di una fine di bella giornata in qualche antica città italiana, dove in fondo a una piazza solitaria, oltre lo scenario delle logge, dei porticati e dei monumenti del passato, si muove sbuffando un treno, staziona il camion di un grande magazzino, o fuma una ciminiera altissima nel cielo senza nuvole”. Alla Metafisica successe il tempo del mito e dell’allegoria: negli anni Venti, la pittura di de Chirico, con la quale ebbe interessanti assonanze quella dell’amatissimo fratello Alberto Savinio, più interessato però alla rappresentazione onirica e surreale della realtà che all’indecifrabilità dell’enigma, si volgerà alla rilettura dei grandi Maestri del passato. La perfezione tecnica e la misura di Raffello, Tiziano, Dosso Dossi, Poussin (e negli anni Trenta soprattutto Rubens, Fragonard, Delacroix) gli fecero comprendere come raggiungere il folle sogno dell’immortalità, senza per questo rinunciare alla seduzione dell’enigma, cui si confacevano le sembianze dei manichini gladiatori, copia dei dioscuri omerici che compaiono nei suoi quadri verso il 1926, o gli archeologi ermafroditi, con il torace e il ventre ingombro di colonne, templi, alberi e quanto d’altro la sua fervida fantasia e lo stato di sogno gli suggerivano. Gino Severini anticipa tutti. Già nel 1916 aveva affermato la propria indipendenza dal futurismo, approdando alle sue prime composizioni classiche, una scelta che troverà fondamento teorico nel testo pubblicato a Parigi del 1921. È in anticipo anche sulle scelte d’altri grandi pittori del tempo, come per esempio Pablo Picasso, che solo nel 1917 porterà a conclusione, grazie anche al viaggio in Italia, quel processo pur iniziato nel ’15 di trasformazione della sua pittura in direzione neoclassica. Con Severini è forse Carlo Carrà l’artista italiano che meglio rappresenta il passaggio del guado tra avanguardia, Realismo magico, Novecento e per certi aspetti antinovecento. La sua pittura attraversò e fu protagonista di tutte le principali tappe dell’arte italiana del primo ’900, dal futurismo al primitivismo, all’avventura metafisica, all’approdo alle poetiche della nuova figurazione di Novecento, alla sublimazione dell’opposizione al regime nelle sequenze dei paesaggi dipinti negli anni estremi della dittatura. “Mutare una direzione in arte – ebbe a scrivere a questo proposito in La mia vita – non significa rinnegare tutto il passato, bensì allargarlo fino a compenetrarlo con un altro concetto estetico. Scoprire nuovi rapporti ignoti, aprire meglio gli occhi per comprendere una somma maggiore di realtà”. Passata brillantemente la prova metafisica, in cui realizzò quadri dominati dall’inquietudine ma anche opere di più complessa fattezza nate dall’ambiguità come la natura morta metafisica superò la fase critica del passaggio tra il sogno visionario metafisico e la concretezza del realismo di Novecento, tra il ’19 e il ’21, dipingendo alcune delle più radiose rappresentazioni della storia dell’arte europea del ’900. I dipinti Le figlie di Loth, L’attesa, Il Pino sul mare, esercizi di umiltà e grandezza insieme, mostrarono nella restaurazione del candore arcaico ispirato dalla pittura dei grandi Primitivi italiani, la continuità della tradizione, che allo spirito del tempo presente portava dal passato i doni della Meraviglia, della Scoperta e dello Stupore, di una pittura, insomma, che era nello stesso tempo etica ed estetica. Negli anni successivi Carrà riportò la sua pittura dentro un alveo di più forte naturalismo, dando vita ad una serie di mirabili paesaggi con figure o semplici marine raffiguranti il litorale toscano, che rappresentarono anche in età tarda, tra la fine degli anni Venti e i Trenta, il permanere nella sua ricerca di caratteri di magico realismo, coniugati non più alla rarefazione narrativa del suo antico primitivismo o della parentesi metafisica, ma piuttosto alla riscoperta di una nuova mitologia del quotidiano, ancora ricca d’incanto e di sorpresa, nella quale azioni e cose, nel permanere nell’atmosfera di un misterioso incanto, assurgevano al ruolo di nuovi riti. La ricomparsa in epoca tarda di una riflessione sulla pittura di paesaggio, impegnò Carrà nell’esecuzione quasi ossessiva di opere in cui luce e atmosfera davano spazio a quella voce antinovecentista, che fu di molti artisti contrari al regime, che proprio nella rinascita di temi molto ortodossi della pittura, come il paesaggio, seppero attendere negli anni più bui del fascismo all’esercizio etico del mestiere. La Metafisica rappresentò un episodio straordinario dell’arte italiana, ma limitato nel tempo. I suoi protagonisti, in primo luogo de Chirico, ma è il caso anche di Carrà, de Pisis, Morandi, Savinio, alle soglie degli anni Venti erano già consapevoli che questo capitolo intenso ma breve della loro ricerca stava volgendo alla fine e la loro pittura era già in ascolto di nuove suggestioni, attratta più fortemente e più compiutamente da un esercizio formale e di composizione che superava, in direzione di una ritrovata classicità, la separazione dell’enigma metafisico. Peraltro la pittura metafisica contribuì con la sua poetica di rarefazione formale, di visionaria percezione della realtà, di straniante relazione tra i luoghi e le cose, a preparare un fertile terreno per quegli artisti che alla pittura dell’avanguardia avevano dato poca retta, o per brevissimo tempo ne avevano condiviso la poetica come Mario Sironi, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Felice Casorati, Virgilio Guidi, Antonio Donghi, Piero Marussig, Arturo Martini, artisti tutti già attivi sulla scena dell’arte nazionale nei secondi anni Dieci. Costoro, ignorando il clamore futurista in quel torno di tempo ancora acceso nei toni, e certo più interessati al richiamo della storia, erano pronti a scrivere il nuovo capitolo della pittura italiana postbellica, che dalla storia e dalla riflessione sul passato voleva trarre originale energia creativa. Il loro intento fu quello di far rivivere la tradizione antica nell’attualità del tempo presente, di ridare fiato alla ricerca dell’origine e dell’identità, di promuovere in un clima culturale dove la tendenza neopurista vinceva le ultime resistenze dell’avanguardia, una ricognizione sui repertori antichi per farne nuova fonte d’ispirazione. Tra gli interpreti più originali della traduzione metafisica in testi di puro arcaismo magico fu senza dubbio il piemontese Felice Casorati, autore di alcune tra le più toccanti e misteriose composizioni di quegli anni “di mezzo”, tra il ’20 e il ’23, anni sospesi tra la vocazione all’incanto del realismo magico e la più solida partita di Novecento. Casorati non visse il travaglio dei molti cambiamenti di stile, che aveva accompagnato la maturazione per esempio dell’opera di Carrà: il suo abbandono alla figurazione composta e tradizionale fu una scelta di antica data e risaliva ancora ai primi anni Dieci, quando nel 1907 fu accettato tra gli espositori della Biennale di Venezia e poi, tra il 1913 e il 1920, fatta salva la parentesi della guerra, partecipò sempre a Venezia alle rassegne di Ca’ Pesaro. Dunque non di ritorno ma piuttosto di continuità nella cifra classica si deve parlare per questo grande autore, che nella casa-studio di via Mazzini a Torino, accoglieva come discepoli giovani artisti come Gigi Chessa, Francesco Menzio, Carlo Levi, tutti protagonisti di quel momento d’oro della vita torinese, all’incirca verso il 1923, in cui le aspettative di un’arte nuova vennero a coincidere con la poetica del realismo magico. Ma quale antico, quale classico fu invocato da questi artisti sopravissuti alla tragica, lunga parentesi della prima guerra mondiale, che cambiò le sorti e il volto del vecchio continente, aprendo la strada a nuovi nefasti destini, nei primi anni Venti, anni ancora innocenti, celati sotto le spoglie dell’utopia socialista? Non bastò all’inizio richiamare a nuova vita la gloriosa storia che aveva fatto grande l’Italia artistica del Rinascimento: i più, Carlo Carrà in testa, vollero spingersi ancora oltre, fino alle nude pendici rocciose del Monte sacro dipinto da Giotto, per recuperare all’arte contemporanea l’essenzialità narrativa della lezione esemplare di verità ed etica dei Primitivi italiani, da Giotto a Masaccio a Paolo Uccello. Modelli che divennero esempi di riflessione per la nuova poetica del realismo magico, dove proprio il silenzio magico di Giotto fu la parola d’ordine che non fece perdere la rotta nella notte buia dell’ideologia, il silenzio delle parole mute, dei luoghi senza tempo, di vite immobili e sospese, l’unica vita possibile per chi non volle misurarsi o confondersi con la retorica di Stato. La magica e immota segretezza che pervase di sé gli oggetti della pittura italiana ed europea degli anni Venti, fu espressione di valori contrari a quelli delle avanguardie, sia nell’ambito pittorico che in quello afferente il significato dell’opera d’arte, che rispose a una nuova visione dell’oggetto acquistava il valore assoluto di “simbolo profondo per contrastare l’eterno flusso mediante qualche cosa che persiste”. È questa una definizione di poetica che attribuiva alle cose animate e inanimate della pittura una funzione escatologica, vicina al pensiero di Nietzsche e Schopenhauer e in evidente contrapposizione con la filosofia bergsoniana dello slancio vitale. Lo spirito del realismo magico, cresciuto e nutrito tra il 1918 e il 1922 grazie al dibattito teorico aperto dalle pagine della rivista “Valori Plastici” diretta da Mario Broglio rivista cui contribuirono le intelligenze più vive dell’arte del tempo, da de Chirico, a Carrà, a Savinio all’incirca verso il 1923 confluì e per certi aspetti si saldò con i caratteri più austeri e composti di Novecento, che non fu un vero e proprio movimento, come del resto non lo era stato il realismo magico, ma più semplicemente una tendenza di stile. L’eterogeneità del lavoro dei pittori, che oggi si indicano come novecentisti, non consentì infatti di elaborare una poetica comune, anche se furono condivisi alcuni caratteri distintivi di uno stile che fece ricorso alla figurazione, alla fedeltà ai canoni di un naturalismo idealizzante, ad una composizione sommaria, non descrittiva, ma vigorosa nella ritrovata plastica dei volumi, ad atmosfere sospese che accoglievano forti suggestioni del realismo magico. Iconografia e caratteri stilistici di questa nuova figurazione traevano esempio da modelli del mondo classico per eccellenza, ma anche da quello già ricordato dei Primitivi italiani e soprattutto dalla lunga stagione rinascimentale e dalla sua rinascita in età neoclassica, da artisti della tempra di Ingres, ma anche dalla pittura dei fiamminghi e degli etruschi, un soggetto quest’ultimo che trovò compiuta celebrazione nell’opera di Massimo Campigli. I temi più diffusi furono il ritratto, la natura morta e l’allegoria, porta aperta tra la realtà apparente e la verità profonda delle cose. L’allegoria apparve nelle sue molteplici sembianze, da quella mitica a quella biblica, da quella implicita, celata dietro l’apparente realismo delle cose rappresentate, a quella esplicita rivolta alla poesia sommessa e raccolta del quotidiano, a quella, infine, allusiva legata ad un repertorio iconografico di simboli che riflettevano le grandi problematiche della vita e della morte, del tempo, del sacro. Novecento nacque nel 1922 da un raggruppamento di sette artisti, Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi, che si presentarono riuniti sotto quest’etichetta nel 1923 alla mostra tenutasi nella Galleria Pesaro di Milano, con gli auspici di Mussolini e la presentazione della giornalista, critica d’arte Margherita Sarfatti. Nel 1924 il gruppo “Sei pittori del Novecento” (Oppi si era isolato) si presenta alla Biennale di Venezia con un testo della Sarfatti in catalogo: scopo della mostra, così come delle esposizioni che seguiranno, alcune di grande rilievo come quelle del 1926 e del 1929, fu quello di ridare alla pittura italiana, un primato nell’ambito della ricerca artistica europea. Margherita Sarfatti, teorica del gruppo, lavorò con fede e passione per ricondurre ad unità di stile e d’intenti il lavoro dei migliori artisti italiani dell’epoca, anche allo scopo di rifondare una tradizione pittorica italiana moderna. Tenace e volitiva Margherita Sarfatti difese i caratteri di “italianità” dell’arte contemporanea, cui però non pose mai veti né vincoli, accogliendo nel suo gruppo le più disparate inclinazioni, purché rivolte all’identico progetto di sostegno e valorizzazione dell’arte nazionale. E proprio in quella direzione, di un’arte profondamente italiana, capace di rappresentare il nuovo sentimento degli artisti, attenti ad un’interpretazione in chiave contemporanea della tradizione passata, ma anche di un’arte coincidente con i nuovi valori dettati dal regime si pose la delicatissima questione del rapporto arte e politica. È delicatissimo il compito di valutare criticamente, alla luce della storia tragica del Ventennio fascista, il significato di quella affinità tra l’interesse degli artisti per i Maestri Antichi e quell’identica passione espressa dalla dittatura, che in Italia proprio sulla pittura degli Antichi costruì gran parte del proprio repertorio di simboli e vaneggiamenti, di glorie e d’eroi, mostrando nella retorica della citazione il limite della propria politica conservatrice. I rapporti tra la poetica di Novecento e il regime di Mussolini, che a Novecento diede il proprio appoggio ufficiale nel 1923 in occasione della prima mostra del movimento alla Galleria Pesaro di Milano e nel 1926 alla mostra Il Novecento Italiano sempre a Milano, è un capitolo complesso della storia artistica dell’Italia fascista tra gli anni Venti e i Trenta. E la complessità derivò proprio dall’ambiguità della relazione tra l’immaginario dell’ideologia fascista, che nella sua febbrile attività di propaganda rispolverò molti dei vecchi miti dell’Italia antica, attualizzandoli in una veste retorica e conservatrice, e la poetica autenticamente originale di quel ritorno all’ordine, che dopo l’euforia dell’avanguardia, aveva ristabilito il valore dello stile come idea, della regola come metodo di conoscenza, del classico come origine e attualità. Negli anni Trenta il disperdersi all’interno della poetica di Novecento del silenzio e dell’aura incantata del realismo magico, che lasciò il posto ad un realismo sempre più concreto e assertore di valori ideologici funzionali al fascismo, fu manifesta espressione della fine dell’autonomia dell’arte. La perdita del sogno e del principio di verità favorirono l’avvento di un nuovo corso della pittura italiana, forzatamente epico e monumentale, per molti aspetti anche glorioso nei risultati, soprattutto là dove si misurò con le grandi dimensioni degli affreschi murali di propaganda. Mario Sironi fu tra i molti che si ritrovarono a dover fare i conti con le grandi committenze pubbliche, destinate a celebrare i sogni di gloria del regime, i suoi luoghi comuni, le sue virtù.
Avvezzo ad una straordinaria e colta frequentazione dei repertori classici, frammista ad una pressoché unica capacità di governare con il suo gesto creativo la tettonica degli spazi delle grandi composizioni, il suo contributo emerse per qualità e altezza dei risultati pittorici, certo non secondi a quell’autentica vocazione magico realista, che nel corso degli anni Venti, nelle sue misteriose composizioni, come per esempio nel superbo dipinto del 1924 L’allieva, aveva offerto uno dei più significativi contributi del XX secolo alla rappresentazione della tragica melanconia dell’uomo contemporaneo. Per molti altri, invece, la concessione ad una pericolosa adulazione, trasformò il gesto creativo in una pedissequa propaganda, di segno dunque contrario ai principi di un’arte realmente libera. Non fu sempre facile nel turbinio degli eventi dell’arte del Ventennio riconoscere e distinguere la moralità dell’esercizio autentico dell’arte dall’acquiescenza al potere. Ciò avvenne principalmente per due motivi: da un lato per il fatto che in Italia la questione culturale non diventò mai una bandiera in prima linea della propaganda politica, a tutto vantaggio della circolazione delle idee dell’arte, anche di quelle non propriamente in linea con il gusto del regime, dall’altro lato perché anche là dove, come in Novecento, i temi della pittura coincisero con i nuovi miti del potere politico, questo fatto, come sopra si è ampiamente scritto, non fu se non in casi eccezionali tacciabile di consapevole connivenza ideologica. Va peraltro rilevato che l’organizzazione delle attività culturali sul territorio nazionale aveva creato nel settore artistico uno strumento molto avanzato di controllo, costituito da una rete capillare di premi e di mostre “sindacali” provinciali e regionali, i cui migliori esponenti confluivano nelle grandi manifestazioni nazionali. A queste mostre, è inutile dire, posizioni contrarie al regime non furono naturalmente ammesse, mentre furono ammesse, forse perché non riconosciute come antitetiche alla politica culturale del fascismo, molte opere che oggi si possono definire “di resistenza”, opere nelle quali gli artisti, contrari al gusto dominante di Novecento, e contrari soprattutto all’idea di un’arte di regime, manifestarono il loro disagio con una fuga nelle più svariate direzioni, dal facile ripristino della poetica del paesaggio postimpressionista, all’espressionismo di toni accesi della Scuola romana, all’astrazione geometrica dei pittori milanesi attivi attorno alla galleria del Milione di Milano, al chiarismo promosso dal critico Edoardo Persico, al Gruppo dei Sei di Torino sostenuto dal critico Lionello Venturi. In questo modo si assicurò alla vita culturale del Paese un passaggio sufficientemente ampio attraverso le more del fascismo, che solo alla fine degli anni Trenta, poco prima dello scoppio della guerra, rafforzò le proprie difese contro l’opposizione culturale, che inconsapevolmente era stata nutrita e cresciuta al suo stesso interno nel corso degli anni precedenti. Negli anni Trenta, nel clima di generale dispersione delle regole e degli indirizzi di stile, che avevano governato il fronte dell’arte novecentista, emerse dunque alla superficie, pur celata da un’apparente, innocua diversità, la fronda di chi non era stato solidale all’idea del ritorno all’ordine e aveva battuto altre strade. Molti di questi artisti trovarono ragioni comuni in una pittura calata in una sorta d’esistenzialismo capace di slanci lirici della materia e del colore, inimmaginabili per la sobria plastica di Novecento, o, ancora, sospinti verso il racconto di una visione tragica e angosciosa della realtà, cosa anche questa severamente bandita dalle serene, placide composizioni del vigoroso classicismo di Novecento. Tra i molti artisti impegnati nella battaglia per la sopravvivenza di quella voce antiformalista e anticlassica, Mario Mafai e Renato Guttuso rappresentano gli estremi di una ricerca, che per vie diverse coltivò l’identica tensione di ansia e di verità. Da un lato ci fu l’avventura della scuola di via Cavour a Roma, culla della cosiddetta Scuola romana, che ebbe come principali protagonisti tra il 1927 e il 1930 Mario Mafai, la moglie Antonietta Raphäel, e l’amico intimo Scipione. La loro storia, che iniziò con il comune apprendistato presso la Scuola libera di nudo a Roma nel 1925, si intrecciò naturalmente con quella “ufficiale”, scandagliò le possibilità dell’arcaismo, della metafisica, del classicismo, per approdare infine, in dialettica con Novecento e non come radicale opposizione, ad una pittura del tutto originale, intrisa di emozionalità dove il colore riconquistò una forte carica espressiva, aiutato dal ricorso ad un tonalismo romantico che soprattutto in Scipione e Mafai corroborava la forma di una nuova capacità evocativa, non più descrittiva e analitica ma sommaria ed enunciativa. La fine precoce di Scipione, morto nel 1933, e l’allontanamento dall’Italia di Mafai e della moglie Antonietta Raphäel, chiuse un capitolo brevissimo ma intenso dell’arte italiana, la cui eredità fu accolta e interpretata da altri artisti romani impegnati in percorsi alternativi alle strettoie del classicismo, come Cagli, Capogrossi, Melli, Ziveri. Protagonista del gruppo milanese ‘Corrente’, costituito da oltre una decina di artisti riunitisi nel 1938 attorno alla rivista “Vita giovanile”, fondata dal pittore Ernesto Treccani, fu invece il giovane Renato Guttuso, un’artista che salirà agli onori delle cronache internazionali dell’arte nell’immediato dopoguerra, per il suo rigoroso impegno culturale nella vita politica dell’Italia postfascista. Già sul finire degli anni Trenta Guttuso aveva fatto la sua scelta, proprio nella direzione anticlassica battuta da ‘Corrente’, che alla tradizione mediterranea e rinascimentale oppose una visione tutta europea, sorretta da una riflessione critica su quanto la pittura d’oltralpe aveva prodotto nella scia dell’anticlassicismo, dunque basata sul riesame dell’opera di Van Gogh, Ensor, Munch, gli espressionisti tedeschi e soprattutto di Picasso, sulla cui lezione si imposterà il lavoro di gran parte della pittura italiana alla fine della seconda guerra mondiale. Nel gruppo di ‘Corrente’ Guttuso rappresentò l’anima anti-lirica per eccellenza, che si opponeva a quel filone più incline all’espressività del colore che della forma, bene interpretato da Renato Birolli. La pittura di Guttuso fu inizialmente orientata in senso fortemente espressionista, sfuggendo ad ogni sospetto di classicità: il suo tragitto partiva da rappresentazioni nelle quali forma e colore, nell’esasperazione delle linee e dei toni, si mescolavano sulla tela come parti indistinguibili di una realtà nella quale, forse solo in misura pari alle visionarie tele di Scipione, si coagulava la ribellione alle regole e alla misura di Novecento. Agli inizi degli anni Quaranta – già dal 1937 Guttuso risiede stabilmente a Roma dove è vicino anche all’ambiente della cosiddetta Scuola romana – il suo espressionismo cede gli accenti più forti ad una più sobria figurazione, come nel caso di Figura, tavolo e balcone  del 1942 e Donna alla finestra del 1942, opere nelle quali già si misura la sua vocazione per un realismo capace di accendere “una nuova sensibilità estetica, che andava di pari passo con una nuova coscienza sociale, che da un generico ribellismo antiborghese arrivava alla progressiva consapevolezza antifascista”.  Le opere, originariamente provenienti da importanti e storiche collezioni d’arte italiana, sono oggi in deposito a lungo termine presso Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Venezia. Ad eccezione delle opere di Scipione, le cui accese cromie e le audaci prospettive anticipano le ricerche della seconda metà del XX secolo, tutte le altre sono accomunate dalla sintesi e dall’essenzialità formale che hanno contraddistinto la pittura e la scultura non solo in Italia, ma in tutta Europa nei decenni 1920-1950. La condivisione di alcune esperienze artistiche fondamentali delle avanguardie del primo ventennio del secolo scorso accomuna tutti gli artisti in mostra, prima dell’adesione ai principi del “Ritorno all’ordine” che ha contraddistinto il gruppo del Novecento italiano di cui Margherita Sarfatti in primis è stata promotrice e teorica. Campigli e Carrà collaborano alla rivista “Lacerba” alla cui cerchia è vicino anche Rosai; Carrà e Rosai aderiscono al Movimento futurista a cui è vicino questa volta Campigli; Campigli, Carrà e Sironi appartengono e/o partecipano alle mostre del gruppo del Novecento italiano; infine Campigli e Carrà sottoscrivono il Manifesto della pittura murale di Sironi. Seguono invece traiettorie più indipendenti Manzù e Scipione. L’allestimento della mostra segue un ordinamento delle opere per autore – ad eccezione delle sculture di Manzù che occupano ambienti distinti – ed è caratterizzato da alcuni capolavori i quali documentano scelte stilistiche e tematiche fondamentali nel percorso dei singoli artisti oppure vantano una storia collezionistica ed espositiva di rilievo. Sono esempi significativi in tal senso Le amazzoni, La figlia del carceriere e Donna ingioiellata di Campigli, Casine sul Sesia e Mattino sul mare di Carrà, Giocatori di toppa e Venditore ambulante di Rosai, Ragazza sulla sedia e Cardinale di Manzù, La cortigiana romana e la serie dedicata al Cardinal Decano di Scipione, nonché Il bevitore e Pandora di Sironi che aprono idealmente il percorso espositivio. Il visitatore è comunque invitato a scegliere liberamente il proprio itinerario attraverso le sale espositive. Massimo Campigli, Le amazzoni, 1928 Nell’estate del 1928, durante una visita al museo di Villa Giulia a Roma, Campigli scopre il valore dell’arte etrusca, una folgorazione che lo porta ad avviare una sensibile ridefinizione stilistica. È questa la particolare occasione in cui dipinge Le amazzoni, opera governata da un sofisticato gioco di corrispondenze, diventata nel tempo uno dei quadri più noti e identificativi dell’artista. In esso colpiscono la solidità delle figure, immobili in uno spazio senza orizzonte e sbalzate dal fondo come in un altorilievo, e il nudo in secondo piano, che ricorda un idolo collassato a terra. Il primo proprietario del dipinto è stato il poeta e critico Raffaele Carrieri, con cui Campigli intrattiene un importante scambio personale, tanto da diventare il suo esegeta di riferimento. , La figlia del carceriere (La carceriera), 1929 La formidabile attenzione di Campigli per la figura femminile si è tradotta in schemi compositivi ripetuti e subito identificabili, dando vita ad un repertorio che suppone però quasi sempre la subalternità rispetto a un invisibile occhio maschile. In La figlia del carceriere l’eccezione è lampante: la donna, in questo caso, esercita un ruolo attivo, addirittura aggressivo. Casta e imprigionata nella veste in cui è blindata dalle spalle ai piedi, incede scortata da un cane lupo. Alle sue spalle un busto maschile accresce il mistero della scena: si tratta probabilmente della proiezione mentale dell’evaso a cui la donna sta dando la caccia. Più che ricordare un affresco millenario come spesso succede nei dipinti di Campigli, l’uso energico di spatola e pennello conferisce alla scena un’atmosfera vaporosa. Tipica delle composizioni campigliane è invece la presenza sullo sfondo di frammenti architettonici. , Donne con ombrello (Figure), 1932 La sintesi in chiave geometrica maturata da Campigli dopo il ritorno da Parigi nel 1931 è documentata da Donne con ombrello, dove le tre figure femminili si compattano attorno all’asse centrale del quadro sino a nascondersi reciprocamente. L’ombrello, leitmotiv dell’intero vocabolario figurativo campigliano, trova una perfetta collocazione spaziale in questa scena calibrata da simmetrie e corrispondenze formali. In questo dipinto Campigli ha preferito il pennello alla più usuale spatola, con effetti di trasparenza del colore e una stesura più mossa della materia pittorica. Appartenuto all’avvocato bresciano Pietro Feroldi, il dipinto fu esposto nel 1933 presso la Galleria Il Milione di Milano alla mostra intitolata La protesta del collezionista, operazione allestita con l’intento di scuotere i collezionisti locali il cui gusto era ritenuto essere ancora troppo orientato verso l’arte dell’Ottocento. Donna ingioiellata, 1942 L’opera nasce in una stagione in cui il busto femminile dai tratti semplificati e ritratto frontalmente era pressoché diventato la sigla dell’arte campigliana. Il soggetto figura tra i più congeniali al pittore: si poteva indagare nei suoi puri valori formali, con inflessioni più o meno arcaizzanti e con combinazioni tra fisionomie e accessori sempre diverse. Il quadro in mostra spicca per l’esuberanza dei gioielli che agghindano la donna e la deliberata inespressività della fanciulla sembra esaltare il suo corredo di preziosi. Donna velata, 1946 Donna velata è tra i suoi quadri più significativi del decennio. Il tono ieratico combinato alla graziosità del volto, la verticalizzazione del corpo in un formato desueto per l’artista e la ricercata tessitura pittorica ne fanno un lavoro di sicura suggestione. Come ebbe a dichiarare l’artista nel 1941: “Le donne nei miei quadri hanno forma di anfore, di clessidre, di ghitarre. Io cerco di rappresentare la donna nel suo archetipo, nelle sue costanti, nella sua forma di ieri e di sempre. Perciò la faccio stretta in un rigido busto”. Di questo dipinto, transitato nella collezione milanese di Federico Balzarotti, esiste una versione molto simile dello stesso anno, donata al Museo d’arte contemporanea dell’Università di San Paolo del Brasile dall’industriale Francisco Matarazzo Sobrinho e acquistato forse su consiglio di Margherita Sarfatti, emigrata in Sud America negli anni della seconda Guerra Mondiale. Carlo Carrà, Marina a Moneglia, 1921 Una veduta essenziale, dai volumi compatti e dai colori screziati: così appare Marina a Moneglia, la tela dipinta da Carrà durante il soggiorno ligure dell’estate 1921. L’artista costruisce un’immagine in cui la chiarezza del disegno e la profondità dei colori evocano una dimensione insieme concreta e indefinibile. È un punto fermo nella maturazione dell’artista, il primo esempio in cui, dopo l’esperienza futurista e quella metafisica, egli si misura con una scena di natura per restituirne i valori luminosi e atmosferici. Ricordando quel periodo, nel 1940 Carrà scrive: “Trascorsa l’estate del 1921 a Moneglia, vi dipinsi alcune marine in un silenzioso raccoglimento, cercando di conferire alle immagini una costruzione armonica di forme, colore e luce, tenendo altresì conto di certe esigenze compositive dei motivi scelti che io consideravo essenziali alla vitalità del quadro”. Il primo proprietario della tela è stato l’avvocato milanese e presidente dell’Accademia di Brera Rino Valdameri, mentre è stata esposta per la prima volta nel 1925 alla Biennale di Roma. Paese lacustre, 1922 Carlo Carrà, Tramonto sul lago, 1922 Durante gli anni venti Carrà si cimenta con figure umane di ispirazione epica. Ciò che tuttavia lo interessa maggiormente è il tema paesistico. Non è tanto attratto dalle vedute urbane, reputate troppo dense di implicazioni esistenziali, quanto da scenari silenziosi immersi nella vegetazione e che traduce sulla tela preoccupandosi che appaiano sempre identificabili. Paese lacustre e il coevo Tramonto sul lago appartengono al ciclo realizzato nel 1922 a Belgirate, sul Lago Maggiore e si scostano dagli esiti più noti del decennio per una stesura pittorica vibrante e per un tono spiccatamente lirico. In effetti il 1922 coincide con uno dei periodi più intensi e travagliati della ricerca carraiana. La ventina di tele riferibili a questo anno danno conto di un’ansia sperimentale che spinge l’artista a impegnarsi su fronti espressivi diversi. Al “realismo mitico” di una decina di opere connotate da una sintesi formale arcaizzante, si contrappone un gruppo di paesaggi dove emerge una maggiore attenzione al dato reale e una resa meno intellettualistica. Entrambe le opere sono state parte delle collezioni di Rino Valdameri e Pietro Feroldi. , Casine sul Sesia, 1924 Nel 1924 Carrà trascorre l’estate e parte dell’autunno in Valsesia, nell’alto Piemonte, cimentandosi per la prima volta con il paesaggio montano. Prende forma così un ciclo di oltre venti dipinti incentrato sul rapporto tra architettura e vegetazione di cui Casine sul Sesia è uno tra i più rappresentativi. Carrà riduce il paesaggio ai suoi elementi costitutivi così da suggerire un’immagine ideale, quasi archetipica, ma dalla forte tensione ritmica, resa da due soli motivi: i profili arrotondati delle montagne e della vegetazione e i solidi delle abitazioni. Lo stesso anno in cui realizza questo paesaggio, scrive: “Vi sono due maniere di intendere la pittura di paese. La prima consiste nel rendere fedelmente il contorno di un certo raggruppamento di alberi, di monti, di acque, di case. Questo metodo, che diremmo verista, non esclude l’idealizzazione nello scegliere la posizione più caratteristica, quella che meglio esprime l’ora e il tempo. La seconda maniera è di fare di un paesaggio un poema pieno di spazio e di sogno, dove gli elementi naturali sono accessori. Qui l’arte è più difficile, in quanto più ambiziosa”. Chiaramente Carrà si identifica nella seconda opzione: sa bene che in pittura il naturalismo può avvicinarsi pericolosamente a un gusto ottocentesco con il quale non vuole assolutamente confondersi. La composizione semplificata, la solidità volumetrica e la parsimonia cromatica che contraddistinguono i paesaggi di questa serie sono stati letti da numerosi interpreti degli anni trenta-quaranta come esempi tra i più alti di quella pittura che, senza regredire all’impressionismo, ha voluto rispondere agli eccessi delle avanguardie appellandosi anche ai valori formali del passato artistico del paese. , Mattino sul mare, 1928 Realizzato nel 1928 a Forte dei Marmi, dove l’artista trascorreva le estati da qualche anno, il dipinto ritrae un paesaggio marino immerso in una luce cristallina semplificato al punto da diventare un’immagine archetipica. Carrà osserva il paesaggio con aria quasi stupita, come se lo vedesse per la prima volta, e ne cerca l’enigma nascosto facendo appello a un armamentario visivo di ispirazione metafisica. La figura umana, seppure fortemente allusa, non è ammessa: la sua incursione romperebbe l’equilibrio di rapporti tra geometria e colore, tra disegno architettonico e sintesi cromatica. Il senso di isolamento che avvolge ogni elemento è superato grazie alla ripetizione di una forma triangolare riconoscibile nel palo coi fili, nel cavalletto aperto e nella coppia di velieri che concorre a conferire unità alla composizione. Carrà ricorre alla spatola per dipingere il cielo imitando la consistenza calcinosa e un po’ consunta della pittura murale tanto amata del Trecento. Un anno dopo la sua realizzazione l’opera viene esposta alla mostra 21 artistes du Novecento italien allestita presso la Galerie Moos di Ginevra.Giacomo Manzù, Ragazza sulla sedia (Bambina sulla sedia), 1949 Sin dagli esordi, il tema della preadolescente nuda e seduta rivestì per Manzù un valore speciale, al punto da diventare, insieme a quello del Cardinale, soggetto identificativo della sua intera ricerca. Dinnanzi a questa scultura a grandezza naturale, l’osservatore viene irretito dalla resa oggettiva, in alcuni brani mimetica, al punto da farla assomigliare a un calco dal vivo. Confrontandosi con il più accademico dei temi – la modella in posa per l’artista – Manzù ne estrae la dimensione metafisica e atemporale per trasformarlo in un esercizio di purezza lineare. Rispetto alla prima versione del 1947 acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino e alle successive, la scultura in mostra presenta in particolare un diverso trattamento della superficie: né levigata e specchiante come la versione torinese, né scabrosa come le riedizioni della metà degli anni cinquanta. Inoltre variano le modanature della seggiola, che pur conservando una linea essenziale, riceve una lieve inclinazione all’indietro, tale da conferire all’insieme un effetto quasi slanciato.  David, 1950 A distanza di oltre un decennio, Manzù torna su un vertice della sua prima maturità che gli aveva garantito ampie soddisfazioni ed era stato risolutivo nel consolidarne la fama. L’esito è questo David, un bronzetto che ripete, pur con alcune differenze, le invenzioni del più noto omonimo lavoro del 1938. Di questa figura patetica ma carica di energia, colpisce la posa rannicchiata con le spalle portate in avanti, le braccia esili fra le ginocchia mentre la testa si flette di lato come per ascoltare qualcosa. Rispetto ad altre note raffigurazioni dello stesso soggetto, la scelta espressiva di Manzù è prettamente antieroica.  Cardinale, 1952 In tarda maturità Manzù dichiarò di essere stato folgorato dall’immagine cardinalizia nel 1934, in occasione di una cerimonia in San Pietro presieduta dal pontefice: “Li vedevo come tante statue, una serie di cubi allineati e l’impulso di creare nella scultura una mia visione di quella realtà ineffabile fu irresistibile”. Si data ai primissimi anni cinquanta l’avvio di un ciclo nel quale l’artista risolve il tema cardinalizio in figure dal linearismo raffinato, sigillate entro profili taglienti, imperturbabili, ma drammatizzate dal trattamento delle superfici. La figura, contraddistinta da forme bloccate e da un trattamento semplificato, non vuole essere un ritratto, bensì si erige a immagine emblematica, dove, in questo caso, il raccoglimento e l’impenetrabilità sono accentuati dalle palpebre abbassate. Nonostante un tema di così esplicita iconografia cattolica, quello dei cardinali si è sempre sottratto a intenzioni celebrative e in molti hanno voluto leggere nella ieraticità e nella freddezza espressiva un richiamo alle non facili vicissitudini che hanno spesso accompagnato le commesse eseguite da Manzù per edifici di culto. Ottone Rosai, I giocatori di toppa, 1920 Il rimpatrio fiorentino nel maggio 1919 dopo la smobilitazione dal fronte bellico coincide per Rosai con la ricerca di un linguaggio affrancato dalle avanguardie e dai tratti stilistici finalmente autonomi. Il soggetto privilegiato è una certa umanità ai margini dell’esistenza, indagata eludendo ogni forma di psicologismo o di critica sociale. I giocatori di toppa emerge come un documento fondante della poetica rosaiana, l’archetipo che sarebbe stato oggetto di repliche e varianti realizzate sino alla fine della carriera, chiusasi nel 1957 con la morte del pittore. Un gruppo di sei figure sedute a terra è osservato dall’alto da una coppia di passaggio. L’abbigliamento rustico e l’espressione imbronciata dei pochi profili visibili sono gli unici attribuiti di questi personaggi di strada. Su una contenuta superficie, Rosai ha saputo concentrare una grande intensità pittorica accresciuta non da ultimo dalla cura con cui ha lavorato il colore, steso per sottili strati e lisciato con la spatola. Il primo proprietario dell’opera, esposta in occasione della personale di Palazzo Capponi, è stato Giorgio Castelfranco, protettore e promotore di De Chirico, figura che giocò un ruolo importante nella tutela del patrimonio artistico italiano durante e subito dopo la seconda Guerra Mondiale.  Mio padre (Il babbo), 1920 Questo piccolo dipinto costituisce un punto fermo della prima maturità rosaiana. La svolta purista intrapresa attorno al 1919, infatti, trova qui uno degli esiti più efficaci e si associa a motivi autobiografici di grande rilievo. Lo sguardo di Rosai, impietoso quando descrive tipi umani dalle fisionomie grottesche, assume toni indulgenti quando invece si cimenta col genere del ritratto, specialmente quello dei familiari. In un ambiente austero, Rosai dipinge suo padre seduto a tavola. L’incarnato terreo, le profonde occhiaie e le spalle gravate dalla stanchezza, esprimono in modo poco mediato un’esistenza dimessa. La tavola poveramente imbandita accresce la desolazione di una scena priva di ogni elemento accessorio. Qui è latente il richiamo a Cézanne, presente con ventotto tele alla Biennale di Venezia del 1920 e al centro di numerose riflessioni critiche, tra cui quelle di Soffici, riportate sulla stampa italiana. Una figura maschile, baffuta, di profilo, seduta al tavolo con le spalle curve inevitabilmente ricorda i Joueurs de cartes dell’artista francese. Il primo proprietario del dipinto, opera alla quale l’artista era molto legato per ragioni affettive, è stato l’avvocato bresciano Pietro Feroldi.  Venditore ambulante (Pandiramerinaio), 1921 Senza stravolgere gli stilemi ormai consolidati, attorno al 1921 Rosai introduce alcune sensibili varianti di ordine formale e pittorico. Diversamente dal passato, il dipinto è lavorato velocemente con una materia magra e trasparente, molto diversa da quella distribuita a strati con la spatola. Nei profili sfumati e nelle continue variazioni luminose dello sfondo si può inoltre leggere un anticipo di quelle stesure lanuginose condotte con il pennello scarico che ancora oggi rendono così identificabile la tecnica della sua maturità. La professione di questo caratteristico personaggio rosaiano è svelato dal titolo Pandiramerinaio con cui venne pubblicato nel catalogo di Alessandro Volta del 1931: si tratta di un venditore di pan di ramerino, un dolce tipico toscano del periodo pasquale. Nella sua critica ad una mostra collettiva a Milano, Carrà riserva su “L’Ambrosiano” un breve commento lusinghiero all’opera: “Tra le cose più belle di questa mostra abbondante e riuscita un Venditore ambulante di Ottone Rosai”. Il primo proprietario dell’opera è stato l’editore fiorentino Attilio Vallecchi, tra gli acquirenti più generosi di Rosai che nel tempo ha riunito una raccolta composta quasi unicamente da suoi capolavori.  Donna allo specchio, 1922 Pochissime donne compongono la galleria umana di Ottone Rosai. Per soggetto e intimità della scena, ma anche per linguaggio pittorico, questo olio su cartone riferibile al 1922 sembra fare storia a sé: in nessun altro esempio Rosai ha infatti tentato – e raggiunto – un così efficace esercizio di astrazione sul corpo umano. Ancora in sottoveste, una donna è intenta ad acconciarsi la capigliatura. Il corpo, dai volumi sintetici, possiede l’evidenza plastica di un oggetto lavorato al tornio, mentre ogni dettaglio è bandito dalla composizione. Rosai sceglie la via della spersonalizzazione e dell’economia dei mezzi formali per trasformare un gesto banale e quotidiano in un’esperienza visiva di particolare fascino. Questa iconografia dell’immobilità è da ricondurre allo studio dell’opera di Georges Seurat, scoperto dal pubblico italiano in occasione della Biennale veneziana del 1920. Il dialogo con la ricerca di Seurat è riconoscibile nella scelta del tema e della rappresentazione della figura in piedi e di profilo, nel ricorso a cambi di luce repentini o ancora nella sinuosità di natiche e seni delimitati da contorni sfumati. Il primo proprietario dell’opera è stato anche in questo caso Attilio Vallecchi.  Paesaggio, 1923 Per tutta la sua carriera, Rosai ha alternato scene in ambienti chiusi e fumosi a vedute della campagna toscana dominata da borghi e poderi. Dagli esordi decadentisti al realismo del dopoguerra attraverso la parentesi futurista, il paesaggio rurale è stato indagato con la stessa tensione espressiva che permea le sue scene d’interno. In questo lavoro è potente il contrasto tra la massiva presenza delle architetture, il cui nitore dei profili è rinforzato da linee a matita tracciate con la riga, e la vegetazione, descritta invece con pennellate vaporose e impressioniste. Caseggiati e natura, risolti con chiavi pittoriche così dissonanti, sono uniformati da una luce di tramonto che avvolge l’intero paesaggio. Ancora una volta il peso della lezione di Cézanne si fa sentire, ma si percepisce anche una vaga atmosfera metafisica che rafforza l’idea che l’artista non abbia voluto dipingere unicamente uno scorcio paesaggistico della campagna toscana colto dal vero. Scipione, Cavallo infuriato (Il cavallino), 1929 Nella ricerca di Scipione l’immagine del cavallo ricorre con assiduità: mai come nel suo caso si tratta di una figura allusiva, indice di uno stato interiore tormentato e spesso foriera di sinistri presagi.
Cavallo infuriato si inserisce in un momento decisivo della maturazione stilistica del suo autore: l’artista venticinquenne ha da poco abbandonato una pittura di gusto arcaizzante dai volumi saldi e ben torniti per abbracciare un nuovo corso segnato da una vena espressionista di fatto ancora sconosciuta in Italia. Alla fine del decennio Scipione precisa l’energia visionaria che sarà alla base del suo lavoro futuro, lontana dalle dominanti ricerche estetiche allineate a un gusto classicista: le sue figure sono spesso irrazionali, dai profili nervosi e definite da una tavolozza caliginosa a garantire alle scene un sicuro impatto emotivo.  Bozzetto per il ritratto del Cardinal Decano, 1930 L’artista dà inizio nel 1930 al ciclo di lavori che raffigura il Cardinale Vincenzo Vannutelli. Per impegno, soggetto e dimensioni, il ritratto del Cardinale (oggi conservato alla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma), di cui viene presentato in mostra il bozzetto, rappresenta l’opera più ambiziosa di Scipione e a essa la critica ha sempre riconosciuto un valore centrale nella breve carriera dell’artista. Il dipinto nasce infatti come spontaneo atto di omaggio nei confronti dell’autorità del Decano e, più in generale, si inserisce nel solco di quei lavori che attestano il fascino di Scipione verso gli emblemi della romanità cattolica e barocca. Scipione desume l’acutezza di osservazione e il cromatismo acceso dai noti ritratti di ecclesiastici di Velázquez e Tiziano, ma è nella pittura di El Greco autore del ritratto del Cardinal Fernando Niño Guevara, oggi al Metropolitan Museum of Art di New York, considerato uno dei più noti dipinti cardinalizi della storia dell’arte – che egli ritrova quell’equilibrio tra ricerca formale e intensità spirituale a cui ambisce anche la sua arte.  Studio per il Cardinal Decano, 1930 È una delle opere più intense dell’artista, tanto più impressionante se si osserva l’economia di mezzi con cui è ottenuta. Per una volta egli sacrifica il consueto apparato simbolico per concentrarsi sul soggetto e sulla sua resa pittorica. È un lavoro di cui è intuibile la velocità d’esecuzione e dove il colore liquido, intonato su cromie sulfuree, subisce improvvisi rialzi luminosi all’altezza della fronte e del naso. L’artista dà prova di confrontarsi con la pittura seicentesca dei tenebrosi, di cui aggiorna la lezione mediante una pennellata sprezzante e compendiaria. Manca in questo ritratto, rispetto ad altri, ogni riferimento alla posizione del soggetto nella gerarchia ecclesiastica ed è assente tutto l’apparato simbolico di cui sono normalmente intrise le composizioni di Scipione. Scipione, La cortigiana romana, 1930 Se esiste un’opera che meglio di altre riassume l’itinerario artistico di Scipione questa è La cortigiana romana. La provocatoria commistione di soggetti sacri e profani, uno spirito caustico che confina con il grottesco, una ricerca stilistica di ispirazione anticlassica comunque attenta ai valori della tradizione e la dedizione assoluta alla propria città d’adozione sono gli ingredienti alla base del dipinto realizzato nel 1930 che nel contempo definiscono la poetica di un’intera vicenda pittorica. La donna mostra un piglio a dir poco stralunato: tutto in lei sembra eccessivo e spinge a identificarla come una lavoratrice del sesso. Alle sue spalle si apre una geografia di eccezionale suggestione: uno squarcio della Roma imperiale e barocca nel quale si riconoscono la Colonna Traiana, le chiese di Santa Maria di Loreto e del Santissimo Nome di Maria. Interprete di una Roma cattolica e popolaresca, Scipione dà vita ad un’immagine enigmatica, in cui sembra instaurare un’analogia tra la donna e la Capitale, unite simbolicamente dalla decadenza e dal malcostume, da cui egli stesso, in costante dilemma tra desiderio di intemperanza e di redenzione, è attratto. Mario Sironi, Paesaggio urbano con figure, 1922-1924 Nei primi anni venti Sironi introduce varianti significative nel ciclo dei paesaggi urbani avviato nel 1919 dopo il suo trasferimento da Roma a Milano. Tali differenze riguardano l’inquadratura della scena, che dalla frontalità riceve uno scarto laterale, la sopraelevazione del punto di vista e la materia pittorica, che pur mantenendosi densa e compatta assume stesure meno grumose. La novità più significativa risiede però nell’introduzione di un inedito tipo di umanità e l’ingrandimento delle figure rispetto all’ambiente retrostante. Il primo proprietario dell’opera è stato Filippo Anfuso, noto politico tra i fedelissimi di Mussolini, diplomatico e ambasciatore italiano in Germania durante il periodo fascista, titolare di un’importante collezione d’arte che spaziava dal Seicento al contemporaneo. Il bevitore, 1923-1924 I vertici classicisti di Sironi raggiunti a metà anni venti sono anticipati dal tentativo di conciliare la solidità novecentista con soluzioni formali memori delle avanguardie di inizio secolo. Di questa fase sperimentale Il bevitore è l’esempio più significativo. Il tema ha scandito spesso la ricerca di Sironi: essa emerge in qualche tempera e collage futurista, nei disegni della stagione metafisica, poi tra anni venti e trenta in sintonia con una personale interpretazione dell’espressionismo europeo e infine nel dopoguerra attraverso una pittura dalla violenta carica gestuale. Se i suoi architetti, ingegneri, scultori e poi, negli anni trenta, gli atleti, aratori e contadini esprimono un’umanità superiore, epica e vigorosa, i bevitori incarnano una condizione situata ai margini dell’esistenza, emblemi del disagio patito nella vita metropolitana e del quale era vittima, a tratti, anche lo stesso Sironi. A periodi estremamente prolifici seguivano ciclicamente fasi segnate dalla depressione e dalla crisi creativa. L’opera è governata da un equilibrio formale calibratissimo, dalla rinuncia a qualsiasi dettaglio a favore di un’unità volumetrica e di una gamma cromatica estremamente ridotta. Fino al 1950 l’opera ha fatto parte della collezione di Margherita Sarfatti.  Pandora (Il mito di Pandora), 1924 (con riprese successive) Il corpo di donna affiancato a un vaso panciuto è un topos della pittura italiana del “Ritorno all’ordine”, specie in ambito novecentista. Con la sua solida presenza fisica dalle morbide sinuosità, il vaso ha rappresentato l’oggetto ideale da affiancare a una presenza umana ed è diventato l’emblema di una riconquistata classicità mediterranea. In Pandora Sironi congela il potenziale gradiente erotico del nudo femminile in una figura dal tono archeologizzante, dal volto severo e inespressivo, plasticamente tornita e non meno salda della statua al suo fianco con la quale intrattiene un muto dialogo. L’oscura e sobria architettura di questo interno è interrotta dall’apertura disegnata da una finestra ad arco che si apre alle spalle del nudo femminile su un paesaggio che non manca di ricordare quelli primordiali di Leonardo. Malgrado il dipinto segni, per impegno ed esiti, una tappa importante nella sua prima maturità, non se ne trova traccia nella biografia sironiana fino al 1944, quando viene riprodotto nella monografia edita da Giampiero Giani, il primo proprietario dell’opera. Paesaggio urbano con gasometro (Periferia), 1943-1944 Il crollo del regime, oltre a sancire la sconfitta dei suoi ideali politici, segna per Sironi l’interruzione di un progetto estetico fondato sul primato della pittura murale e il ritorno al quadro tradizionale. Il definitivo riassestarsi sul genere della pittura da cavalletto coincide col recupero dei temi elaborati oltre un ventennio prima, come le vedute urbane e le composizioni metafisiche. Paesaggio urbano con gasometro è un esempio eccellente di questa stagione, destinata però, almeno per quanto riguarda le periferie milanesi, ad interrompersi già a metà del decennio per riaffiorare in seguito solo episodicamente. Rispetto ai paesaggi urbani dei primi anni venti, contraddistinti da una prospettiva rialzata, quelli successivi sono caratterizzati da un allineamento degli edifici su un orizzonte ribassato. E se in passato le murature, le pareti e le finestre erano disegnate tramite tasselli di colore ben definiti, ora i contorni appaiono sfaldati e la stesura del colore raggiunge una densità materica nuova. Tutto concorre ad intensificare la carica drammatica e l’atmosfera desolante della rappresentazione.  Periferia (Paesaggio urbano), 1944 Nell’arco di pochi anni Sironi passa dall’essere uno degli artisti più rappresentativi e operosi della sua epoca a uno dei più discussi. E per quasi vent’anni sceglie la strada del doloroso isolamento. È in opere come Periferia, dipinta nel 1944, che Sironi traduce visivamente il proprio tormento interiore. L’ideale costruttivo delle vedute urbane di oltre un ventennio prima appare qui irrimediabilmente perduto e la solidità plastica tipica della ricerca sironiana attenuata a favore di un controluce che trasforma i volumi in silhoutte senza corpo. La semplificazione spaziale gli consente di concentrare tutta la sua attenzione sulla materia e ottenere così una superficie tormentata da spatolate e pennellate sfilacciate.
 
Il taglio della scena, l’economia formale e cromatica, la fattura gestuale definiscono un’immagine carica d’angoscia e ne garantiscono l’originalità tra i lavori del periodo, scelte formali e linguistiche che non mancarono di essere notate da coloro che nel dopoguerra svilupparono una figurazione dai forti connotati esistenziali.
 
MASI – Museo d’Arte della Svizzera Italiana – Lugano
Una Raccolta d’Arte Moderna Italiana
dal 22 Maggio 2022 al 29 Gennaio 2023
dal Martedì al Venerdì dalle ore 11.00 alle ore 18.00
Giovedì dalle ore dalle ore 11.00 alle ore 20.00
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Lunedì Chiuso