Giovanni Cardone Aprile 2023
Fino al 9 Luglio si potrà ammirare al Museo Nazionale del Prado Madrid la mostra dedicata a Guido Reni a cura di David García Cueto, organizzata dal Museo Nacional del Prado con la collaborazione dello Städel Museum di Francoforte sul Meno. L'esposizione intende offrire una completa panoramica del contributo del
grande maestro bolognese e dell’arte del suo tempo, sulla base delle
più recenti ricerche storico-artistiche e con un’attenzione particolare ai
legami dell’artista con la Spagna. Questo rapporto è evidente nel collezionismo delle sue opere da parte della monarchia e dell’aristocrazia e anche nell’influenza dei suoi modelli su vari artisti del cosiddetto Siglo de Oro spagnolo. Saranno esposte
circa cento opere tra pittura, scultura e arte grafica. Dipinti e sculture di suoi contemporanei saranno inoltre posti in dialogo con i suoi capolavori, al fine di stimolare una riflessione sulle molteplici interazioni evidenti nella sua produzione pittorica. Alcune opere saranno esposte per la prima volta mentre altre saranno esposte a seguito di importanti interventi di restauro. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Guido Reni apro il mio saggio dicendo : Credo che Guido Reni è uno dei più grandi artisti del suo tempo e con la sua pittura ha dialogato con i suoi maestri e colleghi, egli nacque nel 1575 a Bologna, precisamente in via San Felice, dal padre Daniele, maestro del coro di S. Pietro di Bologna e dalla madre Ginevra Pozzi. Avendo come padre un musicista, la sua vita fu imbevuta nell’arte sin dalla nascita. Egli cercò di indirizzare il figlio verso il canto ma invano, preferendo questi di gran lunga il disegno.

La predestinazione all’armonia e alla bellezza che caratterizzeranno l’opera del Reni venne quasi mitizzata dai più importanti biografi dell’artista, come il Malvasia, dove indicò la coincidenza tra la sua nascita e il giubileo romano, il quale padre partecipava con il Coro di San Petronio. Assieme a questa simbolica nascita, Malvasia individuò anche un altro simbolo che intrecciò la vita dell’artista con la sua opera e Emiliani, fondamentale biografo contemporaneo dell’artista, ci illumina a riguardo : Ci fu un tempo, tuttavia, in cui il maestro appariva tanto grazioso e bello da indurre Ludovico a « tentare di modestia Guido, perché alla natia bellezza aggiungendo quell’accidental rossore, gli facea un bellissimo modello di un angelo». La sua stessa vita, dunque, si elevava a valore di perenne simbolo, quasi a garanzia di un’arte dove quell’aurorale senso di alto destino prendeva poi corpo nella mirabile bellezza, nella venustà dei contenuti e delle forme. Quindi vita e opera sembrano compenetrarsi. La sua formazione artistica incominciò all’età di nove anni presso la bottega di Denys Calvaert, pittore fiammingo trasferitosi a Bologna nel 1560. Dopo la sua prima fase di apprendistato con il fiammingo, nel 1594 uscì dalla bottega, e incominciò gli studi presso l’Accademia degli Incamminati dei Carracci, all’età di 19 anni. Sotto l’ala di Ludovico, venne iniziato verso quelli che furono i principi che fecero grandi i Carracci, come lo studio e l’interesse per la natura, che contrastava con la pittura minuziosa e intellettualistica di Calvaert. I rapporti col suo maestro furono di rivalità, e già dal principio il Reni sembrava discostarsi da Ludovico, aderendo ad una concezione più metafisica della realtà. Nonostante ciò fu molto ammirato dal suo insegnante, e i loro rapporti rimasero sempre di stima reciproca. Uscì dall’Accademia già nel 1601, anno in cui si trasferì a Roma, città nella quale rimarrà per 13 anni, con alcune interruzioni. Fu il cardinale Sfondrato a inviare il Reni a Roma, commissionandogli alcuni dipinti della chiesa di Santa Cecilia, della quale Cardiale era titolare. Nella capitale fondamentale fu l’incontro dell’arte di Caravaggio, in quel periodo pittore affermato. Per quanto Guido si mise dalla parte di un gruppo che voleva contrastare il successo del Merisi, ci fu una fase della sua opera con evidenti richiami al caravaggismo. Il viaggio a Roma fu importante soprattutto per incrementare il suo successo a livello europeo: di fatto mentre a Bologna erano pochi coloro che avevano una situazione economica tale da interessarsi all’arte, a Roma certamente il pubblico era più vasto, attirando altresì l’attenzione di importanti famiglie dell’epoca quali gli Aldobrandini e i Borghese. Soggiornò anche a Ravenna, verso il 1613-14, sempre per commissione degli Aldobrandini, per la decorazione della Cappella del Santissimo Sacramento. Un altro soggiorno fu a Napoli, nel 1621, brevissimo, per un fatto che implicò il suo servo, il quale venne aggredito da un pittore locale, invidioso della fama di Guido: egli ne fu talmente terrorizzato da fuggire dalla città interrompendo qualsiasi collaborazione. Si è già accennato alla natura armonica e virtuosa della vita e dell’arte del Reni: di fatto conduceva una vita semplice, era modesto nel mangiare, rispettato da tutti, ci teneva al vestiario e soprattutto ad avere un certo equilibrio quotidiano: «Rizzavasi di letto poco prima di Nona, per ascoltare la Santa Messa, che mai avria lasciato, conferendogli molto quel mattutino riposo finestra chiusa, per trovar le invenzioni per quadri da farsi, pensare alle finezze per ben compire già dimezzati»; era aggraziato nei modi, non osava proferire parole oscene, anzi lo facevano arrossire, e ciò anche a causa della sua elevata religiosità: fu devotissimo alla Vergine e, alla devozione, si aggiungeva un forte timore di Dio, tant’è che spesso metteva in guardia i suoi allievi per la loro condotta. Ciò che soprattutto stupisce dell’artista bolognese è questa intraprendenza e passione per gli studi: era consapevole del suo talento, ma nonostante ciò si comportava con gli insegnanti e i suoi compagni d’Accademia con rispetto e serietà, restando però fuori dal gruppo dei suoi colleghi, preferendo lavorare solo; anche nella vita quotidiana prediligeva la solitudine: «Di natura malinconica, mista però di spirito a tempo, e di vivacità, ed in conseguenza atta alle speculazioni e allo studio, quale appunto conviensi ad un pittore».

Evidentemente si celava in lui una certa ambiguità nella personalità già dalla giovinezza: «Il giovane Reni veniva colto dagli eccessi occasionali di ?melancholia’ e paranoia, sempre più frequenti man mano che egli invecchiava». Come riferisce Schaefer, già da giovane dimostrava una certa inettitudine, e che con l’avanzare del tempo peggiorava. Questa ambiguità continuerà a manifestarsi sempre di più e, dal rispettare e a non dispiacere i suoi maestri passava, soprattutto man mano che diventerà un pittore affermato, ricco di onori, rispetto, riverenze e denaro dal suo pubblico, ad abusare di superbia ed insolenza; nonostante ciò, il suo carattere venne meno davanti alla sua bravura e i suoi grandi committenti, papa Urbano VIII incluso, non esitavano nel cedere a compromessi a costo di ottenere la sua arte. Queste sue pretese, è bene chiarire, erano anche specchio di un desiderio di elevare lo statuto del pittore, del mettersi alla pari dei suoi committenti, come al suo tempo Michelangelo: Egli inveiva contro lo sconfortante trattamento che l’Italia riservava ai suoi artisti: Raffaello e Michelangelo erano morti pieni di debiti, mentre in Francia e in Spagna erano stati colmati di titoli e proprietà; Annibale Carracci era sull’orlo della disperazione, Prospero Fontana e Lorenzo Sabbatini solo alla fine della loro vita furono sollevati dalla loro posizione. In una occasione Reni rammentò il burrascoso rapporto fra Michelangelo e Giulio II paragonandolo alle sue stesse difficoltà con Papa Paolo V, all’epoca degli affreschi della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, a Roma (1611-12). Della sua mania per il gioco d’Azzardo si incominciò ad avere qualche notizia già nel 1602, momento in cui Guido alloggiava assieme all’Albani e al Domenichino; quest’ultimo lamentava il fatto che i suoi compagni lo disturbassero facendo le ore piccole per giocare a carte. Chiaramente questa è una fase germinale, il gioco di carte non determina necessariamente l’aderire successivamente al gioco d’azzardo, anche se è chiaro che questa sua passione incominciò ad avvicinarlo a quello che oggi rientra tra i disturbi del comportamento come «gioco d’azzardo patologico», e quindi una vera e propria malattia. La sua prima opera, l’Incoronazione della Vergine, è un compromesso tra la pittura pulita, graziosa del Calvaert e quella pastosa, naturalistica dei Carracci. Commissionata per la chiesa di San Bernardo di Bologna tra il 1595 e il 1598, oggi nella Pinacoteca nazionale di Bologna, si caratterizza per la netta suddivisione tra celeste e terrestre e, come ci rivela Malvasia, la parte soprastante riflette la maniera di Calvaert, mentre quella sottostante, dei Carracci; questa divisione la si scoprirà anche nelle opere successive, e può essere inclusa tra le caratteristiche principali del primo stile reniano. Un’opera di stacco dalla maniera del fiammingo e la prima opera nell’Accademia degli Incamminati è la pala della Vergine col bambino che appare a San Domenico e i Misteri del Rosario, datata 1597- 1598, oggi nel Santuario della Madonna di San Luca. I commissionari sono i domenicani, i quali Carracci erano nelle grazie. I corpi del santo, della vergine e del bambino sono carracceschi, forti e terreni; originale e inusuale l’impostazione in primo piano del rosario, non più catena con medaglioni (come insegnò egregiamente Lotto), ma pianta tripartita: da un lato rosa, per i misteri gaudiosi, al centro il rovo per i misteri dolorosi, dall’altro lato la palma per i misteri gloriosi. Un’altra opera importante prima di partire per Roma è l’Assunzione della Vergine, del 1599-1600, per la chiesa parrocchiale di Pieve di Cento. Il rimando all’opera carraccesca è più che esplicita: confrontandola con l’Assunzione di Annibale, la composizione è molto simile, fuorché la divisione tra la vergine assunta nell’Empireo, e i santi in terra che si agitano con naturalezza. Il soggiorno romano per Reni incomincia con una commissione del cardinale Sfondrato, il quale lo convinse a partire, per eseguire una copia della Santa Cecilia di Raffaello. Da qui incomincerà la breve fase di Caravaggismo, che interessò Guido circa dal 1604 al 1607. Molto importante in questo periodo la Crocifissione di San Pietro, oggi alla Pinacoteca Vaticana, con il corpo del Santo in linea con la croce, che esprime la tendenza reniana all’armonia dei corpi, ma con uno stile che si avvicina molto a Caravaggio, con il fondale scuro e i volti ben distinguibili degli aguzzini. Oltre a questa opera, anche Davide e Golia, gli apostoli Pietro e Paolo per la famiglia Sampieri, e il Cristo alla colonna appartengono a quella fase Caravaggesca che terminerà e non lascerà traccia. Sempre a Roma, nel 1610, gli venne commissionata un’opera per la famiglia Berò, di Bologna: La strage degli Innocenti, per la cappella di S. Domenico a Bologna, ora nella Pinacoteca Nazionale bolognese. Da questa opera si può indicare l’inizio della fase “ellenica” di Guido: un’opera impeccabile, interessante per la sua staticità: rappresenta un momento di tumulto e di dramma, ma lo blocca, ferma il tempo come un’istantanea. Importante anche la comparazione della madre in primo piano ad una «Niobe cristiana». Questa è l’opera più importante di Reni, exemplum della sua poetica, sintetizzata da Sandrart con il trinomio: «Dolcezza, grazia, perfezione» . All’interno di Palazzo Rospigliosi Pallavicini, a Roma, irrompe in tutta la sua grazia L’Aurora di Guido Reni. Inizialmente di Scipione Borghese, ed eseguita nel 1614; il corteo trionfale con la dea a capo si erge su di una bianca volta, ornato da una grande cornice, che ricorda le opere carraccesche della sala farnesiana. L’opera è una delle più importanti del periodo romano reniano, è la manifestazione del classicismo puro, tanto perfetto da essere incontestualizzabile: «L’ultima confezione di un classicismo estremo, rarefatto e sospeso in quello spazio dove si muovono apparizioni cristalline tanto perfette e quasi consumate nella loro inveterata volontà di bellezza, da sembrare inadatte alle registrazioni d’età, di stile, di scuola. » Tornato dal soggiorno romano, esegue tra il 1615 e il 1617, la pietà dei mendicanti, ora nella Pinacoteca nazionale bolognese. La composizione è unica: la scena principale è composta dai santi patroni di Bologna, mentre, per rappresentare l’iconografia della Pietà si avvale di un arazzo sospeso: un quadro nel quadro. Da questo momento, oltre alle canoniche opere religiose, gli verranno assegnate anche quadri a tema pagano, come il magnifico Sansone vittorioso, Atalanta e Ippomene e la serie di storie di Ercole. Il 1625 è una data importante, che sancisce un primo lieve cambiamento nell’opera di Guido: da qui inizierà a dipingere su seta, cercando di ottenere una gamma cromatica sempre più luminosa e monocromatica. E’ anche un anno di grandissimo successo per lui: la sua fama passa per il Papa Urbano VIII Barberini, col quale avrà uno scontro, e si estende anche ai più importanti cardinali e principi di Roma. Questa evoluzione stilistica si ritrova in opere come Venere e Cupido, ora a Toledo, e la Maddalena Penitente della galleria nazionale d’arte antica di Roma. I colori sono tenui, chiarissimi, non vi è un uso smodato di colori complementari come nel Bacco e Arianna di qualche anno prima.

Fondamentale il Pallione della Peste del 1631, un’opera di significato civico e a chi se non Guido Reni, ormai il pittore più importante di Bologna dell’epoca, poteva essere assegnata un’opera simile, il quale doveva celebrare la salvezza di Bologna dalla peste del 1630, oggi in Pinacoteca a Bologna. Dipinto su seta, ma con tonalità cromatiche leggermente più accese rispetto alle opere sopracitate, dà alle figure un tale risalto da farle sembrare tangibili. In conclusione di questa prima parte di opere, è importante parlare del ritratto di Sant’Andrea Corsini, opera a cavallo tra la sua età matura e quella della vecchiaia. La ripropose anche qualche anno dopo, con una composizione differente (il Santo in piedi al centro), e non finita. Apparteneva alla famiglia Barberini fino al 1817, per poi andare a Palazzo Corsini. L’impianto compositivo riprende alcune opere carraccesche come L’apparizione della Vergine a San Giacinto di Ludovico, mentre la mitria perfettamente allineata con l’andamento verticale della tela ricorda la sua ricerca di armonia dei dipinti precedenti. Il piviale, dal cromatismo caldissimo, riflette quella che era la raffinatezza della mano del Reni. Emiliani però rivela come questo piviale sia l’unica manifestazione vitale del dipinto: «il fastoso e pesante piviale, unico e solo elemento di vita, anzi di iperrealtà, in quel palcoscenico dove il colore della potenza e della passione si accende fra aranciati crudi e lillà funerei, e la forma dell’uomo si salva soltanto nell’accordo di paradiso che fa dei volti dei due putti il richiamo dell’immensa beltà del mondo fisico, per chi voglia e sappia goderne.» Nella Bologna di metà Cinquecento si verificò un raddoppiamento demografico impressionante, dovuto a masse di contadini che migrarono dalle campagne verso la città, come successe in tutta Italia e in Europa. Nel 1589 la popolazione bolognese raggiunse il culmine della crescita della popolazione. In quel periodo, già dal 1512, la città emiliana era sotto il dominio pontificio (aggiudicandosi la nomina di «Capitale nordica dello Stato Vaticano»), e venne toccata direttamente dalla forte politica espansionistica papale. Una delle conquiste che la resero grande, soprattutto economicamente, fu quella di Ferrara nel 1598, importantissima in quel periodo per il collegamento con la repubblica di Venezia. Ciò provocò una maggiore sicurezza della pianura e delle distese di canapa e seta, la vera ricchezza di Bologna. Centro del cambiamento sociale bolognese nel Cinquecento sarà l’avvento dei nuovi ordini religiosi, che daranno inizio a vivaci dispute teologiche, in particolare sulla salvezza. Bologna a quei tempi era il territorio dei Domenicani, imposti già da molto tempo. Essi ritenevano che la salvezza fosse una scelta riservata esclusivamente a Dio. Durante la seconda metà del cinquecento, in Italia si impose la Confraternita degli Oratoriani, con a capo San Filippo Neri, al quale si deve una nuova concezione di salvezza, accessibile quotidianamente durante la messa giornaliera, istituita per la prima volta dagli Oratoriani, i quali tentavano di usurpare l’egemonia domenicana in campo teologico. Questi stavano introducendo, da Roma, moltissime innovazioni dentro la Chiesa, in particolare all’interno della funzione degli ordini Religiosi: vi fu un’apertura iniziale dell’ordine ai devoti secolari, cioè a persone che non dovevano pronunciare i tradizionali voti e alla rinuncia dei beni terreni. La messa era per gli Oratoriani fondamentale, fonte essenziale di spiritualità e meditazione; cercavano di educare i fedeli mostrando loro le meraviglie dell’universo, e impartendo lezioni morali tramite le arti: determinante fu l’uso della musica come elemento elevatore dello spirito dei fedeli e come strumento per comprendere l’universo divino. Anche nelle arti visive vi furono importanti novità: ora le chiese dovevano avvolgere il religioso per cullarlo nella fede e per elevarlo nell’alto dei Cieli: «Le decorazioni e le opere d’arte non erano più concepite come semplice abbellimento dell’architettura di quelle chiese, ma come parte integrante del loro organismo funzionale, finalizzato a incoraggiare una comunità di semplici e di laici ad unirsi al clero nell’affermazione della fede.» Oltre ai domenicani, si oppose alla nuova Chiesa di Neri quella dei Gesuiti, i quali affermarono la loro dottrina dalla Controriforma, iniziata nel 1542 e terminata nel 1563 dove, come risaputo, vigeva un rigorismo spirituale indisputabile, dove i sensi non potevano assolutamente mediare tra esperienze terrene e il cielo. Gli esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola erano la formula più vicina a questa concezione teologica e spirituale austera. Un altro oppositore, oltre Filippo Neri, era Carlo Borromeo.
Il Cardinale fu un principale fautore, assieme al suo fervente seguace bolognese Paleotti, delle nuove norme figurative del Concilio di Trento, dove l’iconoclastia viene totalmente respinta. Così a Bologna, dal 1580, si sentì il bisogno di rinnovare le arti e di renderle fonte di un severo insegnamento dei principi cristiani. Tuttavia Bologna fu anche una delle ultime città dove si manifestò la «maniera moderna», corrente figurativa presente dagli anni 30 agli anni 70 del Cinquecento, soprattutto in Toscana e a Roma. Fu in conseguenza di questa manifestazione artistica che vennero deliberate alcune regole ferree per l’arte dopo la Controriforma. Agli arbori del Seicento e del Barocco, Bologna trionfava nelle arti figurative. Sembrano essersi stabilite due condizioni artistiche in città: da una parte vi fu quello che può essere definito un atteggiamento “antiumanistico e rigorista” , in opposizione all’altra tipologia, di tipo “umanistico devoto” . Il primo è dedito all’esaltazione del divino, mentre il secondo tenta di stabilire un equilibrio tra natura e divinità. Quest’ultima fu la corrente dei Carracci, i quali scoprirono come compenetrare, nella loro arte, il rapporto complesso tra storia e natura, il naturalismo, insieme ad una «devozione capace ad esaltare anche il ruolo dell’uomo», un’inclinazione di quel periodo più che presente, e alla quale seppe dare voce non soltanto la scuola carraccesca, ma anche Caravaggio. Nel 1582 i Carracci fondarono una loro propria Accademia, chiamata inizialmente Accademia dei Desiderosi, per poi diventare l’Accademia degli Incamminati.
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La loro fu la prima vera Accademia di Belle Arti, come la si concepisce ancora, poiché intendeva superare il modello toscano (anche se certamente ripreso), facendo studiare anche i principi del colore e del disegno, quindi aggiungendo gli insegnamenti della Scuola Veneziana, cosicché gli allievi potessero essere «incamminati» verso una sapienza ancora più vasta e non incentrata soltanto sui grandi modelli. Quindi l’arte «felsinea» di fine Cinquecento trovò il fulcro del suo trionfo nell’imporsi dei Caracci come artisti non soltanto localmente, ma soprattutto per il loro successo nella capitale. Ed è in questo contesto sociale e artistico che nasce Guido Reni. L’educazione artistica di Guido si dirama in due vie parallele: la prima è la via dell’indipendenza, dello sviluppo di uno stile personale raffinatissimo, volto soprattutto all’idealizzazione dell’arte: importante in questo frangente è la sua famosa affermazione sul fatto che sia possibile, se muniti di buone idee in testa, riprodurre una bellissima Vergine anche prendendo come riferimento un «ceffo di rinnegato» la seconda è la via dello studio: la sua arte era frutto di studi affannosi, perseveranti, diligenti; indagava l’antico e lo attualizzava. Importanti per la sua carriera artistica (come d’altronde per moltissimi artisti) gli studi sull’antico e dei suoi predecessori rinascimentali agli Uffizi. La sua era però un indagine differente da quella degli umanisti: Non più l’antico singolare o curioso, bizzarro ed eterodosso degli umanisti, ma l’ammaestramento temibile e lento come il malessere che i manieristi risucchiarono da quelle macerie, in memoria di quella volta in cui Raffaello, nella tarda, sublime misura di storico della chiesa di Leone X, elevò come un exemplum solenne nei cartoni degli Arazzi della Sistina. E’ proprio quell’ultima fase raffaellesca, della scuola di Atene e degli arazzi sistini, ma soprattutto della Santa Cecilia bolognese dell’urbinate, la prima insegnante del giovane Guido, prima del Calvaert e dei Carracci. Queste due strade parallele finiscono, nella fase matura dell’artista, per unirsi nell’idea di emulazione, intesa come amore e studio faticoso dell’antico, della tradizione, tramandata soprattutto da Raffaello. Ma questa tipologia emulativa, dinamica e virtuosa cresce assieme una seconda emulazione, come scrive Emiliani, facendo riferimento al Malvasia: « Ma il Malvasia stesso, che di questo mutevole e rissoso mondo dell’arte che cresce nell’arte, e di tutte le più riposte astuzie del ‘rubare’ artistico, è un grande conoscitore, ammette che sì, accanto all’emulazione virtuosa esiste anche un’emulazione perfidiosa. » Questa emulazione differenzia l’arte di Guido Reni da quella, come già accennato, dall’imitazione dell’arte Rinascimentale. Di fatto è questo un nuovissimo tipo di emulazione, esule delle novità artistiche e culturali presenti soprattutto a Bologna: «Il teatro dell’esistenza è aperto, spalancato, percorso da comportamenti che non appartengono più al passato e che non concorrono anch’essi a portare l’esercizio dell’arte da una condizione artigiana e meccanica, alla levatura liberale che proprio Guido più altri volle raggiungere ad esaltare.» Quando si parla di novità artistiche «felsinee», ci si riferisce ovviamente alle innovazioni introdotte dai Carracci, delle quali Guido Reni, per quanto gli siano state di grande insegnamento durante la leva presso gli Incamminati, si discostò, perché non conformi alla sua idea di «grazia ritmica e musicale». Questo rifiuto del classicismo storico-naturalistico si può notare soprattutto nella differenza con la quale le due parti interpretano il paesaggio: Questo rifiuto ci sembra in modo del tutto intenzionale coinvolgere, a prima vista, proprio la concezione del paesaggio, di un paesaggio popolato da una grande quantità di miti e di ricordi letterario-poetici, florido ed esultante in una forte luce quotidiana, il più delle volte di stampo elegiaco, e cioè venata dalla tristezza di un’età dell’oro definitivamente perduta. Mentre il Reni non punta sulla paesaggistica: «La sacralità apollinea del corpo umano è la sua pericolosa scommessa, e tutto ciò che vive intorno viene assoggettato ad un paesaggio inameno, sterile e senza frutti, quasi a paralizzarne ogni comunione con la natura , esaltandone la sola efficacia della metafora. » E’ il corpo il centro dell’arte di Guido: «questo corpo sensualmente percorso dallo stesso pennello che, proprio questi anni, apprenderà ad accarezzare il torso, il ventre e l’inguine dei Cristi impesi frontalmente, immobilmente alla croce. » Dominano i corpi in primo piano, luminosissimi, sicché pare che siano questi il paesaggio stesso. Il primo Guido Reni assume un comportamento dicotomico: deve cercare di equilibrare l’irrequietezza della sperimentazione con la formalità dei suoi predecessori, adottando degli espedienti, degli artifici, che lo renderanno l’altro tramite, dopo Caravaggio, tra il rinascimento e il barocco. Questo tramite è dovuto dal fatto che Guido riuscisse a fondere la spiritualità e la umile cristianità delle immagini sacre, con i sensi, in quella che verrà definita «Empiria sensoriale» . Sempre nella sua prima fase artistica, vi è la ricerca di un processo imitativo, di un comprensione del come imitare, ponendo meno attenzione all’oggetto dell’imitazione. Questa emulazione dell’arte certamente verrà maturata con il viaggio a Roma, dove è inevitabile il confronto con i concorrenti in città, soprattutto Caravaggio. Come già accennato, nel primo periodo romano di Guido sono presenti opere dallo stile molto vicino al pittore lombardo, come il David o la Crocifissione di San Pietro. Tuttavia sarà un approdo all’arte caravaggesca poco influente e di passaggio; Emiliani d’altronde lo ritiene un luogo comune questo confronto, che svia dalla sua reale formazione e produzione romana, e rimanda sempre a quel grande modello, Raffaello: «D’altronde il giovane bolognese riusciva a filtrare Raffaello attraverso Caravaggio stesso: ed era quella cosa straordinaria, quella di dare dignità di ideale e di antico ad un attimo di cronaca».
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Effettivamente Guido Reni è una voce fuori campo a Roma, proprio perché sembra non volersi attenere alle inclinazioni che stavano prendendo i pittori nella capitale: nonostante possa essere visto come un tramite tra Rinascimento e Barocco, in realtà la sua arte pare inattuale, rimane incantata nello studio del bello ideale, della sacralità dei corpi, alla virtuosa bellezza e grazia, reduci dalla stenuante ricerca della riproduzione dell’antico. A Roma già si stava aprendo la stagione barocca: Su questa Roma thriumphas dorata e come mossa da un lievito sacro che silenzioso crepita nella penombra, sembra muoversi e prender corpo quella fisiologica sostanza quasi di materie organiche che lo stile barocco esibisce, spezzando la forma chiusa, aprendo la crosta chiaroscurale e disegnativa, rivelandosi in pittoricismo, tavolozza, atmosfera, sprezzo. Guido paventa in realtà tutto questo, e la sua vuol essere ancora l’antica forma meditativa, la mestizia solennemente altera . Guido si trova in uno stato di disagio davanti al nascente stile artistico, così decorativo, di Pietro da Cortona e di Lanfranco; tuttavia Bernini ebbe un occhio di riguardo verso Guido, soprattutto davanti alla Trinità romana, che lo stupì certamente per l’ampio respiro del dipinto e la figura trionfale di Dio. Come dice Emiliani, la sua è una «variante composta» del trionfalismo barocco, sempre ricordando che la sua è una concezione dell’arte come portatrice della salvezza dell’anima, provvidenziale. Cattolico e classico: questi i due termini che possono riassumere l’inclinazione artistica di Guido Reni: «Il maestro bolognese che ha posto un così autorevole limite all’angoscia, quasi a costituirsi come la controparte cattolica e classica della nuova forma, è ricorso all’ethos, ha allontanato le discrasie e le violenze evocando cioè o contenuti più dignitosi dell’uomo. » Oltre al suo grande modello, Raffaello, Guido guarda anche ad altri grandi artisti italiani, come l’emiliano Correggio e il Veronese. Il primo lo apprezzava per l’uso e la vivacità dei colori, mentre si ispirava al secondo per la regalità delle figure e la ricchezza dei panneggi. Anche il Bagnacavallo fu un ottimo maestro di angeli per Guido: “si pregiava d’aver da lui appreso il fargli così butirrosi, cicciuti” . L’arte reniana guarda a modelli non solo italiani, anche grazie all’insegnamento di Calvaert, come Dürer: in particolare Guido si interessò delle xilografie del tedesco, non tanto come indagatori del reale, quanto come esemplificazione perfetta dell’ideale. La maturità dell’arte di Guido ha il suo culmine tra il 1620 e il 1630, un decennio di ininterrotta produzione, dove può fondere tutti gli studi e la sua esperienza all’interno delle sue opere, provandosi anche in nuovi temi e iconografie: « esibisce la libertà, superba e devota insieme, di un grande artista giunto alla maturità piena, che ha piegato in fondo le ragioni della morale a quelle della forma: o dello stile, se è questo che colma le forme continuamente scaturite, che defluiscono dalla necessità di un mondo, che è sacro e profano» Rettorico degli occhi, dice l’Assarino. Osservando una buona parte dell’opera reniana, si può vedere come sia quasi un feticcio la posizione degli occhi dei santi verso l’alto. Questo leitmotiv di Guido Reni è il tributo a Raffaello più sincero: è la Santa Cecilia del Sanzio a fare da modello, dove la protettrice della musica appunto guarda verso l’alto, in procinto di ascoltare la musica dei Cieli. L’occhio vitreo, bagnato dalle lacrime riversate nel martirio, esprime al massimo, come rivela Emiliani, quella che è la sacralità e la contemplazione dell’Alto: « occhi levati al cielo, occhi estati ed imploranti, occhi espressione dell’anima e di nobile grazia, concessivi e contemplativi; occhi in cui si riassume, quasi nel giro della pupilla e nel lago della sclerotica , quel dare in tondo in circolo, in anello, di tutto il mondo visibile. »

Tra 1625 e il 1642 Guido Reni tornò a Roma, dove riceverà varie commissioni importanti. Purtroppo questo soggiorno romano fu disastroso: il Sementi, suo precedente collaboratore, era in contrasto con Guido e, per cercare di sabotare la sua commissione per le pale d’altare delle Cappelle di San Pietro, mise in giro la voce della mania di Guido per il gioco d’azzardo e della sua inaffidabilità. Da ciò, e vista la sua lentezza nel terminare le opere, i committenti diminuirono la somma da pagargli. Reni, preso dallo sconforto, distrusse il Coro degli Angeli. Tornato a Bologna, il cardinale Bernardino Spada, amante dell’arte e grande stimatore di Reni, cercò di salvarlo dalla cattiva reputazione che si fece nel breve soggiorno a Roma, dialogando con i Barberini e indirizzandolo verso una commissione per la Regina Madre di Francia, Maria de’ Medici, la quale apprezzava molto l’opera reniana; da questa committenza la fama di Guido si estese in Francia, dove ancora oggi viene elogiato. Nonostante la vicenda romana, Reni venne ricoperto di onori e di apprezzamenti: nel 1632 vennero pubblicate le Lodi al Sig. Guido Reni di un certo Girolamo Giacobbi, e si circondò di grandi estimatori importanti come Virgilio Malvezzi, scrittore e politico bolognese del suo tempo, il quale lo nominò il primo artista in assoluto nel periodo in cui Filippo IV era regnante. Tornando a parlare dell’abitudine del Reni al gioco d’azzardo, fu proprio in questo periodo della sua vita che incominciò a praticarlo assiduamente: il Malvasia ce ne fa presente parlando di una commissione del 1627 per un progetto in Vaticano: il tesoriere del Papa gli anticipò 500 scudi, che però il Reni perse, e che dovette recuperare tramite l’aiuto di amici. Da questo momento in poi i debiti dell’artista saranno sempre più ingenti, soprattutto intorno al 1630. Reni aveva quasi sessant’anni. Con l’avanzare degli anni egli metteva in parallelo sempre di più il suo produrre opere con il bisogno di soldi, spesso chiedeva prestiti e si riduceva a creare dipinti velocemente e di bassa qualità per ottenere denaro e per estinguere tutti i debiti. L’unico evento che lo ridestò apparentemente da questo circolo vizioso del quale era stato risucchiato, fu quello di un incidente con un uomo che comprava le sue opere sfruttandolo. Accorgendosi del misfatto, venne meno dei suoi accordi pattuiti con il mascalzone, il quale fece finire il tutto in una rissa. Reni che, come già si può evincere dalla vicenda napoletana, temeva ogni atteggiamento violento, talmente non resse l’incidente da allontanarsi per un certo periodo dal gioco d’azzardo; nonostante questa breve pausa dalla sua ossessione in breve tempo ritornò a giocare; le sue perdite furono tali da non riuscire a riottenete i soldi perduti, e proprio per questo una buona parte dei dipinti di questo periodo fu prodotta non tanto per passione, quanto per denaro. Muore così il 18 agosto del 1642, nella sua amata Bologna; esalando il suo ultimo respiro disse ai suoi allievi: « mai più verrà al mondo un altro Guido». Aveva sessantasette anni, e il suo corpo venne sepolto nella chiesa di San Domenico, mentre fu il cugino l’erede dell’artista (non avendo parenti più vicini) Guido Signorini, al quale non gli convenne questa eredità, dovendo così saldare tutte le perdite nel gioco d’azzardo dell’artista. I tormenti di Guido non cessarono nemmeno dopo la morte: Mastro Marco, allievo e garzone del Reni, ritenendo di non aver mai ricevuto un piacere e solo malefatte dal suo maestro, pensò bene di diffamarlo con dei volantini che rivelavano alcuni suoi vizi. L’ultima opera di Guido è caratterizzata da immagini a mezzo busto, quasi abbozzate o con parti del corpo non-finite: «L’infragilirsi della forma esterna risponde al dilatarsi dell’interno disegno: e da questa soglia , più volte oltrepassata sull’onda quasi musicale di una visione celeste, ovvero di una armoniosa dissoluzione, facile sarà il passo all’incompiutezza», ma soprattutto da una delicatezza ineguagliabile che si riflette nei corpi algidi delle donne, trovando così una spiritualità mai raggiunta prima. Non volle che la luce nei suoi dipinti fosse zenitale, di mezzogiorno, violenta sulle pelli candide e delicate delle sue figure, ma dolce e fievole, in armonia con i colori pastellati che spesso usava, come l’azzurro carta da zucchero, il rosso tendente al rosa chiaro o l’ametista, oltre all’uso di molta biacca: « al contrario de’ buoni maestri passati s'è arrischiato oprar smoderatamente la biacca, porre giù una sola pennellata della quale, soleva avvisar Lodovico suo maestro, bisognare pensarvi un' anno intero; certo che si osserva ogni di più avverarsi il suo presagio, che dove le pitture degli altri perdono tanto col tempo le sue acquisteriano» infatti la biacca permetteva una conservazione maggiore dell’opera, e non solo: Malvasia vede questa tecnica in Guido come un espediente per dare naturalezza alla sua opera: « la biacca, pigliando una certa patina, riduce il colore ad un vero, buon naturale». La seta, come già si è detto, è la materia con la quale, nell’ultima sua fase artistica, creerà molte suoi dipinti. Queste tele di seta sono un elemento fondamentale nell’opera ultima di Guido: è un materiale molto resistente al tempo: infatti, se si confronta le pala di Guido in seta dentro una chiesa, rispetto alle altre vicino a questa, risulta ancora omogenea e luminosa; e poi questa luminosità era una caratteristica portante delle opere ultime: proprio l’uso della biacca servì per risaltare le meravigliose «carni delicate, che rendono un certo diafano», cosicché possano essere radiose e luminose al massimo. Questo può essere definito un caso di sperimentazione artistica più che lodevole, e un elemento che certamente eleva l’arte dell’ultimo Guido e che proprio per questo degna di studi e di lodi. Le opere più significanti si possono circoscrivere tra il 1635 e il 1642, data della morte dell’artista. Per quanto già alcune opere in precedenza siano sintomo della seconda maniera reniana, come la Venere e Cupido del 1626, quasi monocromatica, luminosissima e molto meno dettagliato, la prima opera che inaugura la sua seconda maniera può essere la Sibilla del 1635 e del 1636: figura molto presente in questi ultimi anni, la Sibilla di Reni , datata 1635-36 e conservata a Londra, può essere identificata tale solo dal turbante e dalle mani (sembra stia raccontando qualcosa) perché del resto non è che una semplice fanciulla, con gli occhi alzati al cielo come Raffaello ha insegnato. La Sibilla, nonostante sia un soggetto dell’antichità, venne ripresa nel Medioevo e indicata come colei che predisse l’avvento di Cristo. Così nei pittori, e soprattutto questo si può ipotizzare in Guido Reni, la Sibilla può essere definita come un’iconografia cristiana. Sempre del 1635, il San Michele Arcangelo, il quale si trova nella Chiesa romana di Santa Maria della Concezione, è una delle opere ultime più conosciute di Guido e tra le più replicate, e come composizione riprende il San Michele di Raffaello. Lo stile non è ancora radicalmente cambiato, ma è da notare la semplificazione delle forme, il colore pastoso, di carraccesca memoria, che lo fa diventare, a detta di Pepper, un’opera- chiave della sua seconda maniera. La tela è in seta, come molte opere dell’ultima fase di Guido; la posa dell’angelo ricorda molto quella del San Michele raffaellesco, e sicuramente è stato uno spunto per la sua opera. Si dice che il volto del Demonio sia quello del futuro Innocenzo X, della famiglia Pamphili, che non aveva buoni rapporti con la famiglia prediletta da Guido, i Barberini. Di fondamentale importanza la testimonianza diretta di Guido Reni, tramandataci da Bellori, su questa opera: Vorrei aver avuto pennello angelico, o forme di Paradiso, per formare l’Arcangelo e vederlo in cielo, ma io non ho potuto salir tant’alto, ed in vano l’ho cercate in terra. Sì che ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita. Si trova anche l’idea della bruttezza, ma questa lascio di spiegare nel Demonio, perché lo fuggo sin col pensiero, né mi curo di tenerlo a mente. Le parole di Guido ci saranno utili in un secondo momento per delineare la sua psicologia. Altro soggetto prediletto nell’ultima fase dell’artista è la Maddalena Penitente del 1635, conservata a Baltimora, rappresentata a mezza figura, anche questo un elemento ricorrente degli ultimi due decenni. Il viso della Maddalena è rivolto verso la luce divina, la mano tesa verso il petto. Alcuni elementi sono come abbozzati, incompleti, come la veste che, rispetto alle opere precedenti, non hanno più precisione nel panneggio, anzi si notano delle pennellate fugaci, modernissime. La gamma cromatica continua ad essere limitata: i capelli, la croce e lo sfondo sono dorati, la veste, il teschio bianchi e la pelle, mentre l’unico colore caldo è il mantello, di un rosso molto diluito, tendente al rosa. Il Sant’Andrea Corsini della Pinacoteca Nazionale bolognese, datato al 1639 circa, può sembrare a primo impatto un’opera di poco successiva alla strage degli Innocenti: la precisione nel panneggio soprattutto della talare, il colore scarlatto del piviale, che ricorda l’abito della madre «Niobe» della Strage (molto meno dettagliato). Benché questo dipinto possa sembrare più elaborato rispetto a quelli dell’ultimo periodo, un piccolo ma importantissimo dettaglio desta subito interesse e che anzi potrebbe essere fondamentale in questa sede: la mano sinistra del santo, la quale tiene un libro, è stilizzata, abbozzata, non finita. Di questa mano si può soltanto individuare il pollice, mentre il resto non è che un quadrato, con una netta differenza rispetto alla mano destra, con le pieghe del guanto bianco in evidenza, e le dita scorciate che tengono saldo il pastorale. Questa negligenza nel non terminare l’opera sarà uno stilema tipico dell’ultima maniera di Guido Reni. Nel 1639- 40, dipinge una prima versione della Cleopatra, della collezione di Sir Denis Mahon, la quale riflette quello che sarà il totale abbandono della forma e del virtuosismo, per intraprendere una strada fatta di morbidezze e luminosità, contorni sfumati e i colori perlacei. Stando alle parole del Malvasia, sembra che si sia ispirato ad alcune nobildonne dell’epoca: «Osservò anche ritrasse la sig. Contessa de' Bianchi, la sig. Contessa Barbazzi, che furono due delle più belle dame di que' tempi, se ne valse in Lucrezie, Cleopatre si mili per la nobiltà grandezza dell'aria loro.» Questa figura storica, assieme ad altre, vengono raffigurate da Guido in questo periodo a mezzo busto, in modo da poter focalizzare il suo lavoro sulla sofferenza dell’eroina rappresentata. Il suo non è tanto un intento ad esprimere il dolore fisico, quanto il dramma psicologico e morale. Anche nel San Sebastiano , vi è un’esaltazione del dolore interiore, pituttosto che quello fisico. Opera conservata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, è una delle figure che più esprimono la pennellata fluente e vibrante dell’ultima fase. Qui il santo, dal corpo argenteo e senza le tradizionali frecce, viene introdotto all’interno di un paesaggio volutamente incompleto, senza dettagli. Ciò che non manca è la grazia, sempre presente fino alla fine nell’opera di Guido, come se fosse un modo per guadagnarsi il paradiso. Interessante il confronto con i precedenti dipinti riguardanti il Santo, come quello datato 1617, dove il corpo perfetto, aggettato verso lo spettatore, monumentale, col paesaggio al buio, per fare contrasto con il corpo bianchissimo di San Sebastiano. La Flagellazione del 1642 circa, venne commissionata dai conti Hercolani, trasferito nelle Marche e ora conservata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. L’opera è non-finita, e ciò si può dedurre negli aguzzini la mano del personaggio a destra è una macchia di colore informe come nell’elemento architettonico sullo sfondo; l’incompiutezza di questa opera non venne apprezzata dai committenti, tant’è che richiesero al Viani di completarla ma egli, per non voler ritoccare il dipinto del maestro, creò una copia più completa. La particolarità di questa opera sta nel corpo del Cristo, al centro della composizione, più delineato degli altri corpi, ma meno statuario dei personaggi delle opere giovanili dell’artista, rappresentato con una tonalità corporea luminosissima, irradiante luce divina. La gamma cromatica è sempre quella che domina nell’opera ultima di Guido Reni: grigio per il pavimento, beige per gli edifici, tocchi di verde muschio per i panneggi. Dell’iconografia di San Gerolamo e L’angelo ci sono due dipinti nel repertorio delle ultime opere di Guido Reni, e moltissime volte è stata trattata nella sua opera. E’ stato scelto di considerare il San Gerolamo del Duomo di Piacenza, perché inserito tra gli ultimissimi dipinti del Reni, e molto probabilmente l’ultimo San Gerolamo della sua vita. Venne ritrovato da Pepper nella sagrestia del Duomo, e ora sistemato in una delle cappelle della navata. Al centro dell’opera campeggia il santo con la sua tradizionale veste rossa, con lo sguardo rivolto verso l’angelo. L’ambientazione è estremamente essenziale, e sembra che entrambe le figure siano circoscritte in una diagonale che rappresenta la luce divina dei Cieli. La pennellata è grossa e grezza, e sono particolari i graffi di pittura nera presenti nella veste dell’angelo e nella barba e capelli del santo, evidente segno della voluta incompiutezza dell’opera. All’angelo, praticamente abbozzato, viene riservata solo la parte più estrema dell’angolo sinistro del quadro, mentre degli altri San Gerolamo, l’angelo si impone maggiormente nell’ambiente del quadro. Numerosissimi sono i dipinti che il Reni fece con la figura della Maddalena. Sicuramente però mai arrivò ad una stilizzazione simile del corpo della penitente, come in quella della Biblioteca Ambrosiana milanese. Ella sembra mimetizzarsi con il paesaggio, è evanescente e semplificata al massimo. Gli occhi sembrano quelli di uno spirito già in Paradiso, le forme del corpo nudo sono in armonia e in piena fusione con il panneggio dalle linee graffiate. In questa tela soltanto viene rappresentata in ginocchio, con gli occhi riversi verso il putto. La Cleopatra della Galleria Capitolina, datata 1640 – 1642, per quanto sia successiva rispetto quella della Collezione Mahon, assume degli stilemi più tipici del Guido maturo, e risulta più definita, soprattutto in volto, sebbene ci siano dei punti incompiuti, come le mani. Poche e grosse sono le pennellate, essenziali. La composizione è piramidale quindi, come la Cleopatra precedente, si incentra completamente sulla mezza figura della protagonista, come è d’uso nell’opera di Guido nei suoi ultimi anni. Una delle ultimissime opere del Reni, la Sacra Famiglia, circoscrivibile tra il 1640 e il 1642, racchiude tutte le bellezze del particolarissimo stile dell’ormai anziano Guido Reni. Fu un’iconografia poco rappresentata dal Reni, più intento nella raffigurazione di singoli personaggi religiosi o pagani. L’iconografia è peculiare: insieme a Santa Elisabetta e San Giovanni Battista, i due sacri genitori si raccolgono intorno al nuovo nato, il quale viene posto al centro della composizione, per essere contemplato. I colori sono tenui, volti e i corpi sono la fonte più luminosa, e paiono d’argento. La Vergine è il personaggio più rifinito, dai lineamenti delicati e caratteristici. Molte parti sono solamente abbozzate, come il piede del bambino o il San Giuseppe. Con il tempo la personalità di Guido andò lentamente sgretolandosi: «Reni divenne sempre più depresso, ansioso, sulle difensive, paranoide. Con l’aumento delle perdite, la stima di se stesso crollava. In questo periodo Reni si alienò tutti gli amici e fu presto circondato da mercanti che lo adulavano, buoni a nulla e servi avidi.». Si rinchiuse col tempo in se stesso, nei suoi vizi e nei suoi sensi di colpa: Reni di fatto, proprio per il suo vivere la religione con timore, nutriva fortissimi sensi di colpa soprattutto davanti al suo vizio del gioco d’azzardo: «Non ci si può nemmeno immaginare il senso di colpa che deve aver tormentato Reni mentre sedeva ai tavoli da gioco». Ovviamente più erano le perdite in gioco, più l’autostima crollava; per lui il gioco divenne una presenza ossessiva, che lo trasformava di notte. Eventi strani accadevano alla vita sempre più fievole del vecchio Guido Reni, apparizioni e paure lo perseguitavano, come questa luce «o di un lume, della grandezza di un uovo», che si postava sul suo letto e lo tormentava, o il bussare continuo alla porta a Natale.
Capitò che nel 1637 si prodigò nel ritoccare in modo quasi maniacale, in più date, una Madonna di Mastro Marco, arrivando a raschiarla con un coltello e a lavorare giornate intere per modificarla, dicendo che le avrebbe dato ancora più bellezza. Come possono testimoniare questi fatti, la sua vita divenne angosciante: non dormiva, aveva molte ansie: temeva le stregonerie e di conseguenza le donne, soprattutto anziane; temeva di essere avvelenato, rifiutando così tutte le pietanze che gli venissero regalate; un’altra paranoia era il timore perenne di essere derubato del suo denaro e soprattutto dei suoi dipinti, ormai la sua unica compagnia. Camminava avanti e indietro durante le notti di insonnia, diventava sempre più inquieto col passare del tempo. Non gli restava che parlare da solo, nella solitudine di una casa dalle molte stanze, fatta di tele abbozzate e fantasmiche, le uniche che lo ascoltavano, piene di malinconia e ultime divulgatrici della bellezza antica mista alla più pura religiosità cattolica. La sua casa in via Pescherie, prima popolata da allievi e garzoni, ora andava lentamente disabitandosi; era una casa ampia, con molte camere, ma spoglia, costellata di tele abbozzate, non finite, dai colori evanescenti, le pelli che brillano (essendo le tele di seta). Emiliani riconduce la visione di questa casa «infestata» da immagini sfumate, ad una corrispondenza con le Idee platoniche: «Mentre attorno a lui, lungo i muri dello studio, Guido continua ad appoggiare tele sempre meno costruite, abbozzi matericamente allusivi, pale d’altare popolate di un murmure appena, di una fabulazione di ideali fantasmi, sembra risuonare ogni volta più suadente l’inaudito incoraggiamento di Platone» . Nonostante ciò seguitava in questo periodo nello studio e nell’esercitazione della pittura come un novello allievo, in modo stenuante, senza mai fermarsi, senza mai essere sazio della sua produzione, creando mille bozze di busti, come se ancora dovesse imparare. Questo suo incessante esercizio, come rivela il Malvasia, lo faceva proprio per mantenere allenata la mente: «studiava negli ultimi anni più che mai s'avesse fatto, ogni sera, mentre gli scolari attorno al nudo, a' rilievi con correnza si travagliavano, disegnare per tre, uattr'ore intere, teste in varie vedute, 'ogni sesso, d'ogni età, mani, pensieri di storie». Dunque, per quanto spesso si sbrigasse nel produrre opere per bisogno di denaro, comunque non rinunciava allo studio, ottenendo risultati di una delicatezza mai vista prima, «con certi lividetti, azzurrini mescolati fra le mezze tinte, fra le carnagioni», che fecero scuola a grandi artisti locali come il Cagnacci e il Cignani. Ciò che stupisce è che proprio Guido, davanti alla sua idea di arte così rigorosa, dettagliata, fine, fonte di enormi studi, si sia dato ad una pittura così diversa. E’ una pittura priva di ciò che prima riteneva fondamentale. L’angoscia più grande del pittore, che si può notare dalla ripetizione convulsa di figure sofferenti e malinconiche, come le Sibille e le Cleopatre nella sua ultima maniera, è quella dell’impossibilità di riuscire a dominare le regole classiche e di «vivere insieme quella grandezza sepolta e questa età travagliata.». Certamente Guido, mentre dipingeva, vedeva riflettere negli occhi di queste donne dolenti, la sua sofferenza. Chiaramente è bene ricordare che nel Seicento la media di mortalità è decisamente inferiore rispetto agli studi contemporanei geriatrici, soprattutto a causa delle guerre, delle carestie e delle malattie frequenti (come Manzoni ci ricorda). Di conseguenza è possibile racchiudere Guido Reni nella cerchia degli «anziani», essendo deceduto all’età di sessantasette anni. Sul piano delle psicopatologie geriatriche, analizzando i comportamenti e la psicologia dell’artista nella sua ultima età, è possibile diagnosticare a Guido Reni gli stessi sintomi che si manifestano in caso di Demenza Senile: dal momento che Guido iniziò in modo maniacale ed esaustivo, durante la vecchiaia, a perseguire i suoi studi sulla pittura, denota come egli, sentendo probabilmente di cedere a livello mnemonico (caratteristica della demenza), adottò l’allenamento in pittura come un meccanismo di difesa per evitare un decadimento totale della memoria, ed in questo si avvicina, tra l’altro, alla teoria di Baltes a proposito della cultura, dove ritiene che essa, durante l’invecchiamento, sia capace di difendersi e dominare le condizioni di perdita e limite che si possono riscontrare. Ma ciò che più si accosta ai sintomi della demenza, sono i sintomi comportamentali: di fatto questa patologia prevede il rilevamento, nei pazienti, di atteggiamenti come il vagabondaggio, quindi un’inclinazione a camminare incessantemente, con stati di agitazione e irrequietezza; Guido infatti, come possiamo vedere nelle testimonianze del Malvasia, tendeva ad avere questi sintomi. Un'altra interessante analogia sono i deliri che Guido aveva soprattutto durante la notte, con quelli che vengono diagnosticati ai pazienti malati di Demenza Senile: «allucinazioni, soprattutto di tipo visivo, frequenti in modo rilevante nella fase moderata della patologia.», da ricondurre al quel «lume» che Guido vedeva sopra il suo letto la notte. Ancora più interessante è la condizione più favorevole per il sopraggiungere di questi sintomi dispercettivi: «La frequenza di sintomi di tipo dispercettivo e allucinatorio viene spiegata con la combinazione tra agnosia e le difficoltà causate dalla sensibilità tra chiaro e scuro, che si accentua a causa delle mancate condizioni illuminatorie dell’ambiente in cui si trova il malato e anche dai rumori, i quali possono favorire fenomeni dispercettivi.» in caso di poca illuminazione, e certamente negli anni 30 e 40 dei Seicento la luministica era più che insufficiente, e di rumore come ci dice il Malvasia via delle Pescherie era una via particolarmente movimentata. Di conseguenza, vista la situazione psicofisica di Guido Reni, vi può essere un’inclinazione verso la patologia della Demenza Senile. Tutt’altra piega sembra prendere invece l’attività artistica di Guido Reni. Se la salute di Guido stava irrimediabilmente decadendo, dall’altra parte è però accompagnato dalla sua Seconda Maniera, la quale in realtà non decade con lui, ma al contrario si eleva, portandolo ai picchi più alti della sua arte proprio durante la vecchiaia. Come si è detto nel primo capitolo, la più recente psicologia dell’invecchiamento, ci tiene a dimostrare come l’invecchiamento sia un processo che non implica necessariamente un declino sia fisico che psicologico. Dewey con il suo «paradosso dell’invecchiamento», e Baltes con la teoria della selezione, compensazione e ottimizzazione, scardinano l’idea di una vecchiaia che porta soltanto ad una degenerazione, ed infine alla morte. Sempre nel primo capitolo, vengono esposte alcune «seconde maniere» di importanti artisti, che mostrano come la vecchiaia riesca a far nascere i frutti più rigogliosi della forza creativa dell’uomo. In tutto ciò, Michelangelo fu esemplare: con il suo non-finito, riuscì a rappresentare l’Idea neoplatonica. Riguardo questo argomento è necessario soffermarsi un attimo: in un notevole testo sull’estetica seicentesca di Elisabetta di Stefano, viene introdotto il concetto di Bello e di Idea, secondo gli scritti di Bellori e di Agucchi. Questi autori, contemporanei a Guido, porranno le basi dell’estetica del periodo, e trasporteranno in letteratura il percorso che l’arte ha perseguito dalla fine del Cinquecento per poi approdare a Winckelmann, e quindi al Settecento. In particolar modo tende ad unire il concetto filosofico inerente all’arte di Platone e quello di Aristotele. L’autrice cita anche lo stralcio della lettera che Guido inviò ad un certo Massani, dove parla del suo Michele Arcangelo. Qui spiega come nelle parole di Guido Reni ci sia la messa in luce del potere dell’Idea di andare oltre la natura definendo, come Bellori, l’artista bolognese «il nuovo Zeusi». La citazione di Guido non può che ricondurre alla concezione filosofica platonica, adattata al cristianesimo, come soleva farsi durante il Rinascimento, e quindi al neoplatonismo. Questa corrente, che nel Rinascimento trova il suo splendore, nasce dal desiderio dei dotti del Quattrocento di riesumare la dottrina platonica per poi adattarla al cristianesimo, quando la cultura di quel periodo era dapprima incentrata sulla dottrina aristotelica su base tomistica. Fu un nodo fondamentale del pensiero moderno, ed ebbe come maggiore rappresentante Marsilio Ficino, il quale tentò di dare unitarietà ai testi platonici, cercando inoltre di dare un’idea di un Platone pius cioè, per quanto egli chiarisca che Platone non era un filosofo «cristiano», dove i suoi scritti possono essere sfruttati sulla base della teologia cristiana. Oltre a ciò, si interessò alla traduzione di testi di Plotino, Porfirio e Proclo. Ficino costituì alcune dispute che chiamò Accademia: nell’Accademia Fiorentina, vi erano grandissimi nomi dell’erudizione umanista, come Poliziano e Pico della Mirandola. Alla base della concezione neoplatonica ficiniana della bellezza, sta l’idea della luce vista come il mezzo con il quale Dio si manifesta all’universo e, in contatto con gli oggetti del mondo, diventa bellezza. L’uomo è attratto dalla bellezza, tant’è che la contempla, e contemplandola, può riuscire a trovare nelle cose la luce che conduce a Dio. Quindi vi è un’idea innata del bello. Questa idea, viene impressa nella mente dell’uomo da Dio. Di conseguenza tramite la contemplazione della Bellezza si potrà approdare alla conoscenza del divino. Ciò contrasta chiaramente con il bello fondato sugli elementi tradizionali come l’armonia, la misura e la proporzione, poiché nel neoplatonismo pone invece le sue basi sullo splendore e sulla brillantezza, che comprendono la luminosità divina. Ovviamente questa concezione stava alla base dell’arte di Raffaello, che fu l’oggetto di studi più frequente di Guido, e quindi essendo egli un erudito artista, avrà certamente studiato la concezione filosofica neoplatonica. D’altronde lui stesso lo disse: «ma io non ho potuto salir tant’alto, ed in vano l’ho cercate in terra. Sì che ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita.» La sua era una stenuante ricerca dell’ideale in terra, e «in vano», andò a cercare la forma che da studioso rilevò. Anche soltanto l’uso della seta, può spiegare come la materia venga usata come una maniera per portare l’opera ad una contemplazione celeste e non solo, Guido è, così come Dio, il plasmatore di questa materia che è la tela, il quale (come Michelangelo a sua volta), tenta di modificarla dall’intelletto, attraverso un gesto di «autocontemplazione». Questo approdo puramente metafisico era l’obbiettivo ultimo di Guido. Basta soltanto osservare opere come la Maddalena del 1636, o la Flagellazione del 1642, per comprendere come sia stato ben recepito da Guido questo concetto. Quindi, come si può dedurre, pare che Guido abbia fatto in pittura ciò che Michelangelo riuscì al suo tempo a compiere nella scultura con la Pietà Rondanini: nel pittore bolognese si può benissimo trovare quella stessa fusione dei corpi, che sembrano uscire a fatica dallo sfondo, proprio perché incompleti. Inoltre, se si guarda all’idea di bellezza ficiniana, quindi il bello come ciò che viene illuminato dal Dio, che pone le proprie basi sulla luminosità, lo splendore e la brillantezza, fonte di luce divina, allora basti pensare alle pelli opalescenti delle sue ultime Cleopatre, rafforzate dalla tela di seta, e dai Cristi e Vergini, per non avere dubbi: Guido stava cercando Dio, e ha trovato la luce divina nella sua mente, nell’Idea, trasposta nelle sue opere finali; questo solo nella sua ultima fase, proprio perché queste opere si avvicinano ad un’astrazione che sembra essere stata suggerita da un’entità superiore. Da ciò è possibile trarre una conclusione: mentre questa seconda maniera sembra essere vista dai biografi di Guido come una fase di decadimento artistico che va a pari passo con la sua depressione (o, un’ipotetica demenza senile), al contrario Guido conferma ciò che è stato sostenuto dai contemporanei psicologhi geriatrici e in particolare con Baltes: cioè che l’invecchiamento, fin troppo sottovalutato, invece è fonte di progresso soprattutto culturale del soggetto, dal momento che egli impara a dominare e sfruttare le sue perdite psicofisiche per trasformarle in un guadagno creativo. Alla fine il Divino Guido si è così riscattato di tutte le sue problematiche terrene, abbagliato da quella luce, forse proprio grazie a quel «lume» che vedeva ogni notte. Questa teoria del neoplatonismo nell’ultimo Guido Reni è stata chiaramente fin troppo ridotta in questa sede, mentre credo possa essere fonte di studi interessanti a proposito della figura del Reni. A mio avviso si dovrebbe far luce maggiormente sulla sua età ultima, proprio perché potrebbero essere trovate informazioni fondamentali per l’analisi dell’opera di uno dei più grandi artisti del Seicento italiano. Mi riserverò di rimandare questa riflessione ad un altro momento. Il Museo del Prado si è unito a questa serie di iniziative allestendo la mostra la prima dedicata al pittore in Spagna che questo catalogo accompagna. Con quasi ottanta dipinti e disegni del maestro e più di venti opere di altri artisti, ricostruisce integralmente la personalità di Reni, mostrando l'attualità della sua eredità.
Museo Nazionale del Prado Madrid
Guido Reni
dal 28 Marzo 2023 al 9 Luglio 2023
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Immagine 1 David Garcia Cueto
immagine 2 dettaglio del volto di Atlanta dopo il restauro
immagine 3 Atlanta e Ippomene dopo il restauro
immagine 4 una sala del Museo
immagine 5 San Sabastino prima e dopo il restauro
immagine 6 La circoncisione