Giovanni Cardone Novembre 2021
Fino al 13 Febbraio 2022 si potrà ammirare al Museo Mart di Rovereto la mostra Anima e Visioni di Romolo Romani da un’idea di Vittorio Sgarbi a cura di Beatrice Avanzi e Roberta D’Adda.
Il Mart organizza, in collaborazione con la Fondazione Brescia Musei, una mostra dedicata all’artista lombardo Romolo Romani il cui lavoro è stato negli ultimi anni oggetto di rinnovati studi e ricerche. A cavallo tra i due secoli, Romani anticipò alcune delle correnti più significative del Novecento come l’astrattismo e le avanguardie futuriste che costituiscono il fiore all’occhiello delle
collezioni del Mart e del suo Archivio del ’900. Durante la sua breve carriera affermò una personale visione fondata su suggestioni oniriche e spiritualiste. L’ esposizione
presenta una sessantina di opere dell’artista provenienti in gran parte dai Musei Civici di Brescia e arricchite da una selezione di opere e documenti conservati al Mart. Si tratta principalmente di disegni su carta a cui l’artista di dedicò con particolare passione. Organizzata dalla curatrice del Mart Beatrice Avanzi e dalla conservatrice dei Musei Civici di Brescia Roberta D’Adda,l’esposizione conferma l’impegno di entrambi i musei a stringere alleanze con le più importanti istituzioni culturali al fine di valorizzare e di promuovere patrimoni artistici pubblici. La monografica rappresenta inoltre l’occasione per la circuitazione di un’eredità unica, sapientemente custodita dal Comune di Brescia e dalla sua Fondazione museale, messo eccezionalmente a disposizione dei sempre numerosi visitatori del Mart. Essendo uno studioso del Futurismo e dell’Astrattismo ho scritto con Rosario Pinto il saggio Astrattismo e Futurismo Idee per un rinnovamento della ricerca artistica all’esordio
del ‘900 edito da Printart Edizioni – Salerno. Come affermo all’interno del Saggio: Il grande recupero culturale sviluppatosi in Italia nel 1945, immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha costruito un esempio per l’Europa e ha certamente conferito al paese un ruolo di guida in molti campi, dall’architettura, al designer, al cinema, ma il fenomeno tipicamente italiano che più di tutti ha dato forza al recupero culturale italiano è stato il Futurismo, un movimento che nella varietà delle forme in cui si è presentato non avrebbe potuto sorgere in alcun’altra parte del mondo.
Con la sua vitalità e il suo dinamismo , che ne sono le caratteristiche principali, una freschezza ben difficili da incontrare, ha influenzato tutta la cultura del suo tempo, dominando la scena culturale per molti anni. Eppure accanto al Futurismo si è sviluppato anche un altro movimento che apparentemente si fonda su una ideologia del tutto opposta e comunque contrastante quella della pittura metafisica . Poche mostre sono riuscite a mettere in evidenza esplicitamente questa doppia natura del pensiero estetico italiano degli inizi del Novecento . Nei primi dipinti di Giorgio De Chirico, a partire dal 1911, si riscontrava infatti con l’esuberante vitalità del primo Futurismo, più o meno coevo. Il fatto che Giorgio De Chirico e Carlo Carrà siano comparsi sulla scena dell’arte negli anni stessi, in cui si sviluppa il Futurismo, appare in sintonia con la natura misteriosa ed elusiva dei loro primi lavori. Essi rappresentano l’altro aspetto di ciò che significa essere giovani di fronte al mondo, fornendoci così una visione completa dell’arte di quel periodo. Se incerti possono apparire i legami tra Futurismo e Cubismo, è invece palese l’influenza della pittura di De Chirico su un altro movimento, quello surrealista, che avrebbe dominato la cultura europea per almeno due decenni, sottolineando, tra l’altro gli scambi sempre stretti tra Parigi e l’Italia . Tanto più che Filippo Tommaso Marinetti aveva pubblicato il manifesto di Fondazione del Futurismo proprio a Parigi e lo stesso De Chirico vivrà a lungo nella capitale francese come molti artisti italiani. Se da un lato il Futurismo si sviluppa e si consolida attorno alle scelte e alla volontà di Marinetti , forse il poeta non eccelso ma grande organizzatore puntando sugli aspetti razionalistici e diurni della vita, dall’altro la pittura metafisica tende a esplorare i recessi notturni e reconditi ed interiori della psiche umana.
Il Futurismo guarda soprattutto alle masse , alla collettività, la pittura metafisica è introspettiva , è la “compagna del sé”, pone domande essenziali mai prima formulate , estrarre tanto ai futuristi quanto ai cubisti. Questi furono gli intenti dichiarati all’inizio del Manifesto: “Il futurismo pittorico si è svolto quale superamento e solidificazione dell’impressionismo dinamismo e plasmazione dell’atmosfera compenetrazione di piani e stati d’animo. Noi futuristi Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile.
Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione”. Il parolibero Marinetti disse con entusiasmo: «L’arte, prima di noi, fu ricordo, rievocazione angosciosa di un Oggetto perduto felicità, amore, paesaggio perciò nostalgia, statica, dolore, lontananza. Col Futurismo invece, l’arte diventa arte azione, cioè volontà, ottimismo, aggressione, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale nell’arte, splendore geometrico delle forze, proiezione in avanti. Dunque l’arte diventa Presenza, nuovo Oggetto, nuova realtà creata cogli elementi astratti dell’universo. Le mani dell’artista passatista soffrivano per l’Oggetto perduto; le nostre mani spasimavano per un nuovo Oggetto da creare» -«Le invenzioni contenute in questo manifesto sono creazioni assolute, integralmente generate dal Futurismo italiano. Nessun artista di Francia, di Russia, d’Inghilterra o di Germania intuì prima di noi qualche cosa di simile o di analogo. Soltanto il genio italiano, cioè il genio più costruttore e più architetto, poteva intuire il complesso plastico astratto. Con questo, il Futurismo ha determinato il suo Stile, che dominerà inevitabilmente su molti secoli di sensibilità». Nel 1917 Balla sperimenta una serie di
scomposizioni della natura in chiave puramente teosofica (Trasformazioni Forme e Spirito). Nel 1918, alla galleria di Anton Giulio Bragaglia, espone, tra le altre opere dedicate all’intervento in guerra, il Complesso plastico pubblicato nel manifesto del 1915 accanto a sedici dipinti dedicati alle “forze di paesaggio” unite a diverse sensazioni. Accanto a queste ricerche, lo studio della natura trionfa nei motivi delle Stagioni: dalla fluidità, morbidezza o espansione della primavera, alle punte d’estate al drammatico dissolvimento autunnale; sono lavori sperimentali volti a quella particolare ricerca astratta del tutto europea ma al tempo stesso lontana e nuova rispetto alle contemporanee ricerche astratte dei pittori in voga in questi anni sicuramente conosciuti da Balla come Kandinskij e Arp, Léger e Larionov, Mondrian e Gon?arova. Periodo, dunque, questo di Balla del tutto internazionale che viene a chiudersi col viaggio a Parigi nel 1925 per la “Exposition des Arts Decoratifs et Industriels Modernes”, particolarmente importante perché segna l’inizio dello stile Art Déco. Il Manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo, l’11 marzo del 1915. Insieme a Fortunato Depero, Balla firma il manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo che rappresenta una delle tappe più significative nell’evoluzione dell’estetica futurista. Con questo manifesto trova una completa maturazione la volontà del Futurismo di ridefinire ogni campo artistico secondo le sue teorie e di rifondare le forme stesse del mondo esterno fino a coinvolgere anche gli oggetti e gli ambienti della vita quotidiana. Questo principio artistico non costituisce una novità storica, infatti è già principio fondamentale della poetica dello Jugendstil, ma mentre in quel caso si fa riferimento a un’idea d’arte come valore assoluto, ora le finalità sono del tutto diverse: per
il Futurismo l’arte non è più fine a se stessa e non ha come obiettivo la pura esperienza estetica ma diviene uno strumento per affermare una diversa concezione della vita e un suo rinnovamento, nel quale predomina un intento di trasformazione culturale verso l’idea che il Futurismo ha della modernità. La più importante innovazione proclamata dal manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo è la proposta di estendere l’estetica futurista a tutti gli aspetti della vita quotidiana.
I campi della ricerca sembrano illimitati: arredo, oggettistica, scenografia, moda, editoria, grafica pubblicitaria: nulla sembra essere estraneo alla sensibilità dei due artisti. I futuristi imposero il loro segno distintivo fin dalle prime celebri “serate”, durante le quali gli artisti–autori-declamatori indossavano abiti da loro stessi disegnati e maschere che suggerivano la robotizzazione e meccanizzazione dell’uomo. In questo mia trattazione ho cercato di tratteggiare la figura di Romolo Romani posso dire che la sua prima formazione fu caratterizzata da un episodio fondamentale il maestro fu guidato dall’affezionato fratellastro Giuseppe Ronchi, pittore bresciano di soggetti prevalentemente sacri, formatosi nella temperie postscapigliata e divisionista e
aggiornato sugli sviluppi del Liberty d’oltralpe.
Ronchi aveva partecipato nel 1899 all’esposizione annuale del Glaspalast di Monaco con l’interessante coppia di ritratti Juventus e Senectus, per poi fermarsi qualche mese nella città tedesca per un soggiorno di studio . Giorgio Nicodemi, nella sua monografia del 1967, raccontava che questi aveva indirizzato l’attenzione del più giovane fratello verso riviste come “Jugend” e “Ver Sacrum” l’ampio orizzonte di riferimenti artistici messo a disposizione al giovane Romani comprendeva anche la nuova edizione in vari volumi dei disegni della Raccolta Albertina di Vienna, acquistati con il preciso scopo di farlo esercitare nella pratica della copiatura. Romani ebbe modo perciò di studiare e riprodurre i disegni di Leonardo artista amatissimo, il cui sfumato e l’attenzione fisiognomica appaiono spesso rievocati nei suoi ritratti, a partire dalla giovanile Testa di vecchio e poi di Dürer, di Salvator Rosa ma anche dei manieristi e degli olandesi come Bosch e Rembrandt, tutti artisti le cui modalità di costruzione dell’immagine costituiranno le fondamenta del suo operare, entro un connubio inscindibile tra sperimentalismo e tradizione. In seguito Romani si trasferisce a Milano dove frequenta la libera scuola di nudo dell’Accademia di Brera, seguendo i corsi di Cesare Tallone. È in questo momento che entra in contatto con Vittore Grubicy de Dragon, “uno dei maggiori educatori della nuova generazione”, come lo definiva Carrà nelle sue memorie . A Grubicy si deve la partecipazione alla mostra della caricatura di Varese nel 1903, sua prima apparizione in un contesto espositivo, che gli valse per l’anno successivo una borsa di studio del Comune di Milano. Grubicy nel frattempo aveva provveduto a finanziare la formazione di Romani di tasca propria, motivo per cui il giovane maturò nei suoi confronti una profonda amicizia, cui si univa, nei ricordi degli amici comuni di quegli anni, una stima reverenziale per il carismatico mèntore, ritratto da Romani in una delle sue creazioni più note, il Ritratto di Vittore Grubicy de Dragon, un grande disegno a matita su carta esposto nel 1905 alla sesta Biennale di Venezia. Alcune note manoscritte dello stesso Grubicy descrivono il quadro interpretando i densi aloni che si dipanano intorno al volto come una propagazione della facoltà dell’udito: “Non si sente nel loro movimento il pronunciarsi sfuggevole della forma di un orecchio Suggestionato – a confessione di Romani stesso dalla mia sordità, dalla canna acustica di cui faccio uso” . Nella descrizione del suo ritratto, Grubicy sembra avere in mente anzi quasi sovrapporre, nell’attitudine di pensiero che gli è propria anche un altro disegno di Romani realizzato in quello stesso momento, ‘La sensazione’ dove i rimandi alla forma dell’orecchio sono ancora più evidenti. Quest’ultimo faceva parte di un ciclo di disegni dedicato appunto alle Sensazioni, esposti assieme al ciclo dei Simboli l’anno successivo, il 1906, all’Esposizione Internazionale del Sempione, un’occasione in cui i lavori di Romani furono visti da un pubblico internazionale assai vasto, e commentati dalla critica italiana. Attraverso l’assidua frequentazione con Grubicy, così come attraverso le lezioni a Brera, Romani ha modo di conoscere l’ambiente artistico milanese, popolato dai coetanei Russolo, Camona, Carrà, Bonzagni, divenuti intimi amici, e dai maestri della generazione divisionista, Previati su tutti; soprattutto attinge a quelle conoscenze dell’estetica simbolista francese che probabilmente non di prima mano, ma attraverso incontri e i colloqui contribuiscono a sostanziare lo sfondo teorico del suo operare.
Si pensi in particolare, come già notava Luciano Caramel, alle teorie vitalistiche e sinestetiche di Jean-Marie Guyau e di Paul Souriau sulla funzione dell’arte propagate a Milano proprio tramite gli scritti e le conferenze di Grubicy come Un po’ d’arte per tutti del 1893 e il
saggio Guyau, del 1892, ma specialmente attraverso due articoli del 1896, che facevano particolare riferimento alle teorie di Soriau, intitolati Non c’è arte vera senza suggestione e La suggestione nelle arti figurative . L’idea che l’artista, nel momento in cui crea, possa trovarsi in una dimensione particolare della coscienza, fuori dallo spazio e dal tempo, e in cui pensiero, memoria e stimoli sensoriali si sfiorano reciprocamente, espressa da Grubicy ne La suggestione nelle arti figurative – ad esempio nella chiosa finale “lo studio della suggestione, nella sua forma più elevata e completa, si manifesta nelle pitture e scolture che si applicano a trascrivere immagini di sentimenti e di deità create dalla fantasia, in base a nozioni preesistenti di elementi reali” è consona all’atteggiamento dimostrato da Romani nei confronti della pratica del disegno, che lo portava a concentrarsi, come ricordavano gli amici, in uno stato quasi di trance attraverso una concezione iniziatica e del ruolo dell’artista. Anche la personale interpretazione dell’attività del disegno come forma d’arte totalizzante e privilegiata, adatta, tanto quanto la pittura, a generare opere complete e autonome, sembra dovere qualcosa all’idea del “disegno pittorico” formulata da Grubicy e messa per iscritto in forma più compiuta qualche anno più tardi, nel contributo su Daniele Ranzoni, così come la distinzione di genere proposta tra disegno pittorico e disegno grafico-illustrativo sembra aver interessato Romani, che si dedicherà in modo costante ad entrambi i generi, rispettandone le specificità. Tra i libri posseduti da Romani si trovava anche L’art symboliste di Georges Vanor, un testo di critica prevalentemente letteraria edito a Parigi nel 1889. La prefazione, firmata da Paul Adam, era stata accuratamente sottolineata da Romani, motivo per cui Nicodemi la riproduceva nella sua monografia. Ma più interessanti si rivelano le poche pagine, verso la fine del volume, dedicate alle arti visive: vi si trova tra l’altro la definizione, a caratteri maiuscoletti nel testo originale: “L’art est l’œuvre d’inscrire un dogme dans un symbole humain et de le développer par le moyen de perpétuelles variations harmoniques”. Il concetto delle continue variazioni armoniche, che costituirebbero una sorta di declinazione del simbolo umano, è ben presente nella scelta di Romani di concentrarsi più volte sugli stessi temi, sviluppati all’interno di cicli o serie, oppure, a distanza di anni, in opere similari dai titoli leggermente variati. È il caso delle raffigurazioni de Il riso, del ciclo de Il ricco, delle diverse versioni de L’incubo, La paura, e Il pensiero. Anche
l’accostamento al linguaggio musicale, frequente e fondante nelle teorie simboliste, trova riscontro nella produzione di Romani, come nelle diverse rappresentazioni de La goccia e ne La campana. Sempre in ambito francese, come ha notato Michela Valotti, Romani sembra conoscere anche il testo di Albert de Rochas L’extériorisation de la sensibilité, un altro caposaldo delle dissertazioni parascientifiche e spiritualiste di fine secolo, dedicato ai fenomeni del magnetismo corporeo e cerebrale, della telepatia e dell’estensione delle capacità sensoriali umane. Mentre sul versante degli studi fisiognomici, oltre alle dissertazioni nostrane di Lombroso e al Trattato della pittura di Leonardo, Romani può aver avuto diretta conoscenza del volume di studi clinici sulla mobilità dei muscoli facciali realizzato nel 1862 dal medico francese Guillaume Duchenne de Boulogne, illustrato dalle impressionanti tavole fotografiche di Adrien Tournachon, fratello di Nadar.
In particolare il volto maschile del disegno Il Vecchio, conservato ai Civici Musei di Brescia, sembra
serbare il ricordo delle illustrazioni di Duchenne. Nelle sue Note e impressioni sull’esposizione del 1906, Ugo Ojetti aveva messo a paragone l’opera di Romani a quella di Redon, colpito soprattutto da L’attrazione, un’opera non più rintracciata ma che, da riscontri sul retro del cartone così come dalla spiccata ascendenza redoniana, può essere identificata con il disegno oggi noto come L’osservazione, conservato nei Civici Musei di Brescia. La pratica di cambiare i titoli ai propri lavori nel corso degli anni è del resto una consuetudine di Romani attestata in diversi casi e parte integrante della poetica di sovrapposizione dei simboli che gli è propria. Proprio a Ojetti, convinto dell’affinità delle opere di Romani con il clima francese, spetta l’aver organizzato, con il supporto di Vittorio Pica, la partecipazione dell’artista al primo Salon des Humoristes tenuto a Parigi nel 1907, segnalandolo all’allora direttore Valmy-Baysse. Romani spedì nella capitale alcuni disegni per affiches, non più identificabili già negli anni ’60. Si trattava di lavori probabilmente simili all’originalissimo nucleo conservato nei Civici Musei di Brescia, frutto di una sincretica fusione tra il linguaggio pubblicitario francese e quello mitteleuropeo. Una lettera di Romani a Ojetti trascritta da Nicodemi, conservata oggi nel fondo archivistico della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, rivelava la permanenza di quei lavori in Francia subito dopo l’esposizione Romani pregava Ojetti di interessarsi alla vendita delle opere, ma non si hanno notizie certe della loro sorte. Nell’autunno dello stesso anno progettava un viaggio a Parigi, dove credeva di poter ottenere maggior fortuna; tuttavia, per mancanza di denaro, l’artista non diede corso al progetto. Aveva scritto a Ojetti: “Penso che a Parigi soltanto potrò trovare qualche giornale che potrebbe farmi fare dei disegni, delle caricature, offrendomi la magra vita che chiedo, senza obbligarmi a deformare questa mia visione d’arte”. Ojetti si era anche interessato a trovare una qualche sovvenzione presso il Ministero della Pubblica Istruzione scrivendo a Corrado Ricci, da poco nominato Direttore Generale. E’ stato possibile rintracciare nel fondo Ojetti la lettera di risposta del Ricci, dai magri auspici: “Ho ricevuto la lettera del Romani; ma qua non ci sono più fondi per i non impiegati o i non allievi. L’uragano Nasi spazzò tutto, e, dopo, hanno tenuto spazzato”. Per quanto riguarda invece la conoscenza e la consonanza di Romani con la grafica di area mitteleuropea e nordeuropea, oltre al tramite dell’amico Adolfo Wildt e sopratutto di Alberto Martini, conosciuto nella redazione di “Poesia”, e forse anche di Adriana Bisi Fabbri, un sicuro appiglio dovettero costituire le letture dei fascicoli Tra gli albi e le cartelle così come degli articoli dedicati ai protagonisti della grafica d’oltralpe da Vittorio Pica sulle pagine di “Emporium”; in particolare il contributo Tre artisti d’eccezione, apparso nel maggio del 1904, dove erano presentati i lavori grafici di Beardsley, Ensor e Munch.
Tra le incisioni di Ensor pubblicate da Pica, particolarmente
interessante a confronto con le future tematiche di Romani appare La pigrizia, dalla serie dei sette peccati capitali, ma sono soprattutto i lavori di Munch a rivelarsi determinanti per lo sviluppo dell’arte di Romani, come nel caso de Il Vampiro e nel Ritratto di Mallarmé, di cui l’artista ricorderà qualcosa nella serie dei ritratti di poeti eseguiti per “Poesia”. Oltre alle immagini presentate nell’articolo, sembrano avere una precisa rilevanza le parole che Pica adopera nel descrivere l’opera di questi tre artisti, insistendo sul valore della visione alterata delle passioni umane. L’opera del norvegese, attraverso l’interpretazione di Pica, appare svolgere una funzione fondamentale per Romani, perché veicolo di una riflessione esistenzialista, in grado di svincolare alcune sue realizzazioni dalla retorica fisiognomica dei “tipi”. Particolarmente affini ai temi munchiani appaiono alcuni lavori realizzati tra il 1905 e il 1907, che trattano la figura femminile in bilico tra maschera e ombra, come La paura, La civetta e L’amplesso, conservati nel nucleo bresciano. Anche per quanto riguarda un versante parallelo e altrettanto fertile della ricerca di Romani, rappresentato dall’approdo verso l’astrazione, l’artista lombardo raggiunge esiti che lo
inseriscono appieno in quel percorso pionieristico che si gioca in ambito prevalentemente mitteleuropeo. Contemporaneamente ai cicli delle sensazioni e degli stati d’animo e alla pregevole attività di ritrattista, Romani comincia a lavorare a composizioni astratte almeno a partire dal 1907, anche se, è bene precisarlo, non si hanno appigli cronologici certi per nessuna di esse, trattandosi di opere non datate e delle quali non si conosce la vicenda espositiva coeva all’artista. Si tratta di un gruppo di circa dieci disegni, in parte a matita e in parte a tempera o pastelli colorati. Se alcune composizioni a matita come la seconda versione de La libidine e Riflessi sonori si situano, per evidenti consonanze stilistiche con il resto della produzione di Romani, entro il 1908, più problemi hanno costituito le opere a colori, che rappresentano senza dubbio gli esiti più originali e storicamente rilevanti di questo gruppo di lavori. Guido Ballo e Renato Barilli si sono espressi, anche nel caso dei disegni a colori, per una cronologia alta, ravvisando un punto d’arresto netto nella parabola creativa di Romani intorno al 1909, periodo in cui l’artista si dedica a grandi ritratti di stampo klimtiano; sul versante opposto, Crispolti e Caramel propendevano per una datazione più bassa, intorno al 1910, mentre Evangelisti lasciava aperta la questione. Una rilevante testimonianza cronologica, forse non considerata a sufficienza sebbene più volte citata dalla critica, è costituita da un ricordo di Enrico Castello, in arte Chin, pubblicato la prima volta nel 1932, che rievoca il periodo di convivenza e stretta amicizia con Romani, quando i due avevano studi contigui a Milano, nel periodo tra l’inizio del 1911 e la fine del 1912. Castello ricorda chiaramente di aver visto Romani lavorare a diverse versioni de La goccia così come a composizioni astratte realizzate con pastelli grassi colorati mai usati prima, sicuramente avvicinabili a opere come Riflessi, che
sembrano dunque poter essere collocate tra 1911 e 1912, in autonoma sintonia con le prime Compenetrazioni iridescenti di Balla. Il problema più rilevante è costituito dalla grande composizione Immagine, non menzionata da Castello né, purtroppo, da nessun’altra fonte dell’epoca. L’opera, conservata nei depositi dei Civici Musei di Brescia e da lungo tempo non visibile al pubblico se non in occasioni espositive, ed è realizzata a matita e tempera su fogli di formato A3, incollati tra loro e intelati, procedimento usuale per le grandi composizioni di Romani almeno a partire dal 1909. Si presti attenzione alle dimensioni dell’opera perché, da un lato, lasciano intuire l’impatto visivo di questa composizione caleidoscopica, in grado di assorbire completamente lo sguardo dello spettatore. Dall’altro, perché ne rivelano l’aspetto e soprattutto l’intento monumentale, una caratteristica assai peculiare nell’arco di anni entro cui un’opera del genere si colloca. L’impatto percettivo di Immagine non ha eguali in questo momento in Europa, ponendo il dipinto ben al di là della dimensione di prova-esercizio che altre composizioni astratte o astrattizzanti, anche dello stesso Romani, denotano, o della dimensione dell’annotazione psichica, come nel caso degli schizzi visionari di Arnaldo Ginna, risalenti al 1908–1909. Gli accostamenti più stretti in ambito europeo sono certo quelli proposti da Calvesi e Crispolti a partire dal 1967 con le
Sonate del lituano ?iurlionis, in particolare la Sonata alle stelle del 1908 per il ritmo rutilante degli accostamenti cromatici, oppure con alcune realizzazioni di Kupka, come Tasti del piano- Il lago del 1909, anche in ragione del coinvolgimento nelle coeve teorie musicali e teosofiche da parte di tutti e tre gli artisti, anche se Romani non poteva conoscere i risultati dei due colleghi, in quegli anni ignoti in ambito italiano. Tuttavia, se nelle opere di Kupka e ?iurlionis vi sono ancora elementi desunti dal mondo della rappresentazione, sia che si tratti di visioni astrali con angeli che camminano in processione oppure di movimenti colorati che si dipartono dalla tastiera di un pianoforte, in Immagine è difficile scorgere, anche a uno sguardo ravvicinato, appigli al mondo figurativo. Si tratta di una composizione che, se pure prende le mosse dai paesaggi montani di stampo grubiciano subito sconfessati dall’impianto geometrico complessivo a croce greca, che innerva tutta la composizione squadrandola come un enorme foglio da disegno, parla il linguaggio esclusivo della non-rappresentazione, come sembra sottolineare un secondo titolo con il quale l’opera è ricordata da Nicodemi, Incidenze di colori e di piani, citato purtroppo senza ulteriori spiegazioni o appigli che possano far risalire l’origine del nome a Romani stesso. Per quanto
riguarda la spinosa questione della datazione, per una serie di riscontri tecnici e cronologici si propone di collocare l’opera tra il 1910 e i primi mesi del 1911, soprattutto in ragione della straordinaria vicinanza, non ancora sottolineata, con le idee di Boccioni espresse nella conferenza romana dell’aprile di quell’anno, dove erano chiamati in causa gran parte di quei fenomeni medianici e psichici cari anche a Romani. E’ impossibile stabilire, allo stato delle conoscenze attuali, se Boccioni avesse visto, prima o dopo la data della conferenza, questa specifica opera di Romani, benché sia certo che i due si siano frequentati a Milano almeno tra il 1908 e il 1910. In ogni caso, attraverso un riconoscimento di affinità d’intenti e di visione, ‘Immagine’ si può collocare entro quel primo orizzonte futurista di matrice prevalentemente simbolista ed espressionista, così come si stava delineando tra la metà del 1910 e appunto i primi mesi dell’11, nonostante Romani, assieme a Bonzagni, si fosse presto ritirato dal movimento, circoscrivendo la propria adesione formale ai primi mesi del 1910. Precursore dell’avanguardia, tra i firmatari del primo
Manifesto dei pittori futuristi del 1910 poi ritiratosi –Romani aderisce brevemente al Futurismo per poi proseguire in autonomia la sua ricerca sull’espressione degli stati d’animo: una visione fondata su suggestioni oniriche e spiritualistiche in cui affiorano i suoi incubi e i suoi fantasmi. Questi prendono corpo nei volti dai forti chiaroscuri e dalle deformazioni memori delle teste grottesche di Leonardo, circondati da andamenti lineari che possono essere interpretati come propagazioni di onde psichiche e suoni interiori. Attraverso queste linee Romani rappresenta anche il fluire dell’acqua, la scomposizione della luce attraverso un prisma e altri motivi tratti dal mondo naturale che, nella sua arte, si trasfigurano in un’esplorazione dell’invisibile. L’interesse per l’occultismo e la volontà di evocare sensazioni e suoni interiori, lo portarono inoltre sulla via dell’astrazione, di cui fu uno dei precursori in Europa, anticipando le ricerche dello stesso Kandinskij. Dopo essersi dedicato a una produzione prevalentemente grafica, nella quale prevalgono
strutture e composizioni geometriche, nell’ultimo periodo l’artista ritorna alla figurazione con una serie di ritratti e con alcuni manifesti nei quali sembra ritrovare la forza espressiva di un tempo.
Museo MART di Rovereto
Romolo Romani Anima e Visioni
dal 21 Ottobre 2021 al 13 Febbraio 2022
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 21.00
Lunedì Chiuso