Giovanni Cardone Novembre 2021
Fino al 13 Febbraio 2022 si potrà ammirare al Museo Maxxi di Roma la mostra di Sebastião Salgado. Amazônia a cura di Lélia Wanick Salgado, compagna di viaggio e di vita del grande fotografo. La mostra è stata prodotta dal Museo Maxxi in collaborazione con Contrasto. Dopo il progetto Genesi, dedicato alle regioni più remote del pianeta per testimoniarne la maestosa bellezza, Salgado ha intrapreso una nuova serie di viaggi per catturare l'incredibile ricchezza e varietà della foresta amazzonica brasiliana e i modi di vita dei suoi popoli, stabilendosi nei loro villaggi per settimane e fotografando i diversi gruppi etnici. La foresta dell’Amazzonia occupa infatti un terzo del continente sudamericano, un’area più estesa dell’intera Unione Europea. Questo progetto è durato sei anni durante i quali il Maestro ha fotografato la foresta, i fiumi, le montagne e le persone che vi abitano, registrando l’immensa potenza della natura di quei luoghi e cogliendone, allo stesso tempo, la fragilità. Sono esposte più di 200 fotografie che propongono un’immersione totale nella foresta amazzonica, invitandoci a riflettere sulla necessità di proteggerla. La mostra è divisa in due parti. Nella prima le fotografie sono organizzate per ambientazione paesaggistica, con le sezioni che vanno dalla Panoramica della foresta in cui si presenta al visitatore l’Amazzonia vista dall’alto, ai fiumi volanti, una delle caratteristiche più straordinarie e allo stesso tempo meno conosciute della foresta pluviale, ovvero la grande quantità d’acqua che si innalza verso l’atmosfera. Tutta la forza, a volte devastante, delle piogge è raccontata in Tempeste tropicali, mentre Montagne presenta i rilievi montuosi che definiscono la vita del bacino amazzonico. Si prosegue con la sezione La foresta, un tempo definita “Inferno Verde”, oggi da vedere come uno straordinario tesoro della natura, per finire con Isole nel fiume, l’arcipelago che emerge dalle acque del Rio Negro. La seconda parte è dedicata alle diverse popolazioni indigene immortalate da Salgado nei suoi numerosi viaggi, come gli Awá-Guajá, che contano solo 450 membri e sono considerati la tribù più minacciata del pianeta, agli Yawanawá, che, sul punto di sparire, hanno ripreso il controllo delle proprie terre e la diffusione della loro cultura, prosperando, fino ai Korubo, fra le tribù con meno contatti esterni: proprio la spedizione di Salgado nel 2017 è stata la prima occasione in cui un team di documentaristi e giornalisti ha trascorso del tempo con loro. Oltre alle immagini, poste a diverse altezze e presentate in diversi formati, la mostra si sviluppa in spazi che ricordano le “ocas”, tipiche abitazioni indigene, evocando in modo vivido i piccoli e isolati insediamenti umani nel cuore della giungla. La visita è accompagnata da una traccia audio composta appositamente per la mostra da Jean-Michel Jarre e ispirata ai suoni autentici della foresta, come il fruscio degli alberi, i versi degli animali, il canto degli uccelli o il fragore dell’acqua che cade a picco dalle montagne. Sono parte integrante dell’esposizione due sale di proiezione dedicate a due temi differenti: in una è mostrato il paesaggio boschivo, le cui immagini scorrono accompagnate dal suono del poema sinfonico Erosão, opera del compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos  nell’altra sono esposti alcuni ritratti di donne e uomini indigeni con in sottofondo una musica appositamente composta dal musicista brasiliano Rodolfo Stroeter. Nell’insieme, la visita di Amazônia vuole trasmettere, almeno in parte, quell’alone di magia che permea la regione amazzonica e le sue popolazioni native, per offrire ai visitatori un’esperienza intima e profonda capace di accompagnarli anche fuori dalla mostra. Attirando l'attenzione sulla bellezza incomparabile di questa regione, Salgado vuole accendere i riflettori sulla necessità e l’urgenza di proteggerla insieme ai suoi abitanti. La foresta è un ecosistema fragile, che nelle aree protette dove vivono le comunità indigene non ha subito quasi alcun danno. Tutta l'umanità ha la responsabilità di occuparsi di questa risorsa universale, polmone verde del mondo, e dei suoi custodi. Come afferma Giovanna Melandri Presidente della Fondazione Maxxi : “Alla potenza emotiva, alla nitidezza estetica, alla poetica espressiva delle immagini di Sebastião Salgado non ci si abitua mai. Il suo talento, la cura del dettaglio, l’immedesimazione con i luoghi e gli individui ci hanno via via messo davanti a manifestazioni tra le più magnificenti o dolorose della condizione umana e dell’ambiente. Inquinamento, povertà, sfruttamento, carestie, guerre. I suoi occhi hanno forgiato la nostra coscienza. Nelle gallerie di un museo o nelle pagine di un volume non possiamo fare a meno di commuoverci, estasiarci o indignarci per quel racconto in bianco e nero che un acclamato maestro della fotografia va componendo, così tenace e appassionato, come una sorta di atlante antropologico dell’età contemporanea. Amazônia esprime, ancora una volta, tutto il magnetismo e l’impegno di una visione civile che non si sottrae ai fenomeni più scabrosi, ai dossier più trascurati, anche se decisivi per il futuro del nostro pianeta. Sei anni è durata, nel set straordinario dell’Amazzonia brasiliana, la sua ultima ricerca di un’iconografia da salvare: un ecosistema ancora integro e spettacolare, tra montagne e fiumi, foresta e fauna, con le popolazioni indigene decimate dalla storia di secoli e attaccate adesso dall’insidia della pandemia. Il Maxxi è onorato di ospitare una mostra Salgado che nella bellezza degli scatti racchiude un’estrema testimonianza: quel tesoro naturale e culturale deve essere protetto, difeso a ogni costo. Le oltre duecento foto di Salgado e la “colonna sonora” creata da Jean-Michel Jarre con i rumori della foresta (il fruscio dei rami, le grida degli animali, il canto degli uccelli, il fragore delle acque) ci infonde un’accresciuta consapevolezza, ci fa superare una frattura percettiva: ciò che accade anche lontano da noi ci riguarda e ci chiama in causa. L’Amazzonia è un giardino della Terra. Salvarla, e salvare i suoi custodi, è aver cura del mondo e impedire un genocidio. L’Amazzonia siamo noi. Salviamoci con loro, non per loro. Insieme”. Mentre Sebastião Salgado dice :“Questa mostra è il frutto di sette anni di vissuto umano e di spedizioni fotografiche compiute via terra, acqua e aria. Sin dal momento della sua ideazione, con Amazônia volevo ricreare un ambiente in cui il visitatore si sentisse avvolto dalla foresta e potesse immergersi sia nella sua vegetazione rigogliosa sia nella quotidianità delle popolazioni native. Queste immagini vogliono essere la testimonianza di ciò che resta di questo patrimonio immenso, che rischia di scomparire. Affinché la vita e la natura possano sottrarsi a ulteriori episodi di distruzione e depredazione, spetta a ogni singolo essere umano del pianeta prendere parte alla sua tutela”.  In una mia Analisi e Riflessione fatta sulla ricerca fotografica di Salgado dove ho voluto evidenziare in parte il suo pensiero e le sue azioni attraverso questo mio saggio che è divenuta dispensa universitaria per far conoscere il messaggio di Salgado e il momento storico, politico e culturale che noi tutti stiamo vivendo. La denuncia ecologista non lo dimentichiamo fu lanciata da Joseph Beuys già negli anni 70 del secolo scorso sia Beuys ed oggi Salgado con le sue foto hanno cercato di scuotere le nostre coscienze. Prima di iniziare a parlare di fotografia sarà necessario un'analisi critica sulle immagini di Salgado, e quindi dobbiamo parlare prima del concetto di neoliberismo per capire la sua diffusione internazionale le sue conseguenze per la nostra società. Dato l'obiettivo di questo saggio ovvero indagare se e come le opere fotografiche prese in esame possano costituire una critica alla globalizzazione neoliberale da parte dell'autore, ci si concentrerà sugli elementi che tale critica hanno generato, non solo da parte di Salgado ma anche secondo un'abbondante letteratura scientifica. Il neoliberismo sarà preso in considerazione, in questa sede, in un contesto globale; è d'obbligo, quindi, introdurre il concetto di globalizzazione. I due fenomeni sono interdipendenti, si sono sviluppati ed affermati l'uno grazie all'altro; il modello di globalizzazione più diffuso è indissolubile dal neoliberismo. Ci riferiremo ad entrambi contemporaneamente utilizzando il termine “globalizzazione neoliberale”, ed in effetti la critica di Salgado esplorata in questo saggio applica più propriamente a detta globalizzazione neoliberale che al neoliberismo come pratica economica in sé e per sé. Si cercherà quindi di sottolineare i legami tra i due processi ed i loro effetti in diversi ambiti della vita umana, a parte quello prettamente economico: la politica, le relazioni sociali, la cultura, le condizioni dei lavoratori o delle minoranze etniche, l'ambiente, solo per citarne alcuni. Un esame da un punto di vista ampio, che consideri le dimensioni spaziali o meglio, globali e sociali del neoliberismo, ci permetterà di mettere in luce i nessi che questo intrattiene anche con il (neo)colonialismo e con l'imperialismo. Il concetto di globalizzazione introdotto in questo capitolo è funzionale a comprendere la diffusione ed il funzionamento del neoliberismo e della sua retorica in gran parte del globo. Un rischio comune in una trattazione di questo tipo sta nel finire per ricondurre semplicisticamente tutti gli eventi e i fenomeni affrontati alla “globalizzazione” come termine vago ed evasivo, senza però approfondire tale legame né specificare cosa si intenda per globalizzazione, cosicché lo studio cade nella tautologia e non porta ad una migliore comprensione. Si cercherà qui di evitare tale risultato mostrando come le politiche neoliberiste siano il presupposto grazie al quale la globalizzazione si è realizzata, e come sia grazie ad esse che la globalizzazione è potuta diffondersi a macchia d'olio. Parlare dell'affermarsi del neoliberismo e delle sue logiche senza coinvolgere la globalizzazione, quindi, significherebbe esulare da un elemento fondante dell'oggetto di questo studio, e il risultato finale sarebbe incompleto. L'utilità del presente saggio deve essere quella di contestualizzare storicamente e politicamente i lavori di Salgado presi in considerazione, rendendo così possibile comprendere la spinta ideologica che li guida e il tipo di critica che, secondo questa tesi, il fotografo sviluppa nel corso del proprio cammino professionale. La dottrina economica del neoliberismo nasce come una scuola di pensiero marginale negli anni '40 del Ventesimo secolo; essa viene fatta risalire al circolo intellettuale in cui Friedrich von Hayek, Milton Friedman ed altri economisti si riuniscono (la società di Mont Pélerin) a partire dal 1947. Sulla carta, essa è molto diversa da quella attuata ad oggi nella pratica, come ci sarà occasione di osservare. I principi cardine si rifanno al liberismo classico teorizzato da Adam Smith, la cui nozione più popolare è il laissez faire, ovvero il principio secondo cui i mercati sarebbero in grado di autoregolarsi grazie alle libere interazioni tra domanda e offerta, ed ogni intervento esterno, specialmente da parte dello Stato, atto a regolare tali forze o a modificare o controllare i prezzi, porterebbe ad una allocazione delle risorse artificiale e quindi non efficiente . Questa è la base cui si appoggia la teoria neoliberale, da cui poi si articolano poi varie caratteristiche e declinazioni. Con l'obiettivo centrale della libertà dell’iniziativa economica, della concorrenza e della conseguente allocazione delle risorse , il neoliberismo appoggia con decisione politiche quali privatizzazione di vari settori dell'economia la proprietà pubblica altera le interazioni sul mercato e ne limita la libertà, liberalizzazione e deregolamentazione la proprietà privata raccoglie i suoi frutti solo se ha la possibilità di operare in libertà, senza controlli di tipo tariffario e non. Queste premesse di base costituiscono solo i principi guida del neoliberismo, che viene applicato con varianti a seconda del contesto nazionale e delle differenze locali; è inoltre importante tenere a mente che questi principi teorici portano con sé imponenti conseguenze al momento della loro concretizzazione massiccia su scala internazionale, non solo sull'economia, ma anche sulla politica e sulla vita sociale e individuale dei cittadini. Nell’immediato periodo successivo alla sua elaborazione teorica, lo sviluppo pratico delle teorie neoliberiste procedette a rilento, soprattutto a causa del rinnovato supporto all’intervento dello stato in economia, nella formula keynesiana, dopo la seconda guerra mondiale, come prevenzione ad un eventuale tracollo del capitalismo come quello avvenuto nel 1929 . Tuttavia, la teoria neoliberale non venne abbandonata negli ambienti accademici, fino a raggiungere, negli anni '70, il culmine della popolarità anche a livello accademico e politico, in concomitanza con la crisi del sistema capitalista sorretto dalla struttura pattuita a Bretton Woods nel 1944. Si era infatti avviato, alla fine degli anni '60, un tracollo dell'economia capitalista internazionale caratterizzato da una grave stagflazione, peggiorata poi nel 1973 dalla prima crisi petrolifera internazionale. Il sistema stabilito dalla comunità internazionale sotto la guida degli Stati Uniti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, mirava ad una duratura stabilità economico-politica e prevedeva un liberismo di tipo controllato, embedded ovvero “legato” da controlli e regolamentazioni istituzionali, nel quale lo Stato aveva un ruolo regolatorio ed i tassi di cambio delle diverse valute erano ancorati al valore del dollaro, a sua volta collegato a quello dell'oro. Il bisogno di capitale degli Stati Uniti, i quali avevano esaurito le loro riserve monetarie (in particolare dopo le spese militari sostenute per la guerra in Vietnam e per i loro investimenti nelle banche estere) portò al riassestamento dell'ordine economico mondiale: terminato il sistema di Bretton Woods per decisione del presidente Nixon nel 1971, si aprirono le porte per una nuova configurazione economica internazionale, che venne attuata secondo le regole del neoliberismo . La prima ad attingere alla teoria neoliberale nella sua versione “disembedded” per l'economia politica nazionale fu la celeberrima iron lady Margaret Thatcher, che la applicò a partire dalla propria elezione nel 1979. Thatcher smantellò la struttura socialdemocratica della Gran Bretagna del secondo dopoguerra, abbandonando le politiche keynesiane adottate in precedenza a favore di un libero mercato in cui potesse trionfare l’iniziativa imprenditoriale. In particolare, i suoi governi furono caratterizzati da massicce privatizzazioni di settori tradizionalmente pubblici, deregolamentazioni volte soprattutto ad incoraggiare gli investimenti esteri, decise riforme fiscali - in particolare tagli al welfare e riduzioni delle tasse, e sociali, in particolare attaccando l’attività dei sindacati e delle iniziative di solidarietà sociale che minacciavano di distorcere il libero corso del mercato. La sua controparte oltreoceano fu Ronald Reagan, grazie alla cui azione venne definitivamente smantellato il ruolo acquisito dallo Stato dopo il New Deal degli anni '30. Le sue politiche rispecchiarono, in generale, quelle già implementate nel Regno Unito: in particolare, egli fu assistito da Paul Volcker, a capo della Federal Reserve, che sostenne un deciso approccio monetarista per far fronte alla stagnazione economica degli anni ’70. Lo Stato si ritirò così dall'azione diretta in economia, che si realizza principalmente nelle politiche di welfare, nella redistribuzione delle risorse e nell'emissione di servizi attraverso il gettito fiscale, nella protezione della produzione nazionale dalla concorrenza estera attraverso barriere tariffarie e non, nella regolamentazione degli investimenti transnazionali e nella proprietà di settori di rilevanza collettiva quali trasporti, sanità, educazione ed energia. La principale conseguenza del neoliberismo a livello politico è data dal fatto che esso presupponga una società stabile preferibilmente una democrazia, secondo gli orientamenti assunti dal neoliberismo a partire dagli anni '80, che possa garantire il libero dispiegarsi delle forze del mercato; ecco perché, in questo processo, lo Stato assume la funzione di garantire detta stabilità a costo di trasformarsi, in situazioni di conflitto sociale le rivolte dei minatori nell'Inghilterra dei primi anni '80, solo per fare un esempio, in Stato di polizia. Come scrive Crouch a proposito del maccarthismo, “la difesa del liberismo economico poteva anche diventare molto illiberale”. Inoltre, nei fatti, lo Stato ha assunto una seconda funzione, della quale si è avuta prova dopo la crisi finanziaria del 2008: nelle situazioni in cui il mercato, che pure dovrebbe essere in grado di autoregolarsi, va in “corto circuito”, ecco che è lo Stato ad intervenire attraverso fondi pubblici con salvataggi di banche (es. il colosso statunitense Goldman Sachs) ed istituzioni finanziarie in crisi . Proprio quello Stato che aveva ridotto al minimo la propria azione in economia per fare spazio all'efficienza del mercato. Vediamo, quindi, che il neoliberismo nella sua versione pratica attuale è diverso dal liberismo classico e da quello teorizzato dalla scuola di Mont Pélerin: lo Stato si ritira totalmente dal controllo economico, ma è esso stesso ad essere “embedded” dal mercato. Questa inversione di ruoli fa sì che lo Stato, quando interviene in economia, lo faccia in funzione della salute del mercato, provvedendo a salvare banche in difficoltà e grandi aziende altrimenti destinate a fallire. I compiti di uno Stato neoliberale sono quindi, in breve, mantenere la stabilità politica e controllare l'andamento delle crisi economiche e soprattutto finanziarie . Dopo le esperienze inglese e statunitense, politiche neoliberiste iniziarono ad essere applicate in altri Stati, ma è interessante notare che il primo esperimento neoliberale in assoluto non appartiene ad uno Stato europeo o agli USA, bensì al Cile. La svolta si ebbe con il golpe militare ai danni del governo democratico del socialista Salvador Allende, il cui assassinio segnò l'inizio del governo autoritario del generale Pinochet. Fin dal principio del suo governo, Pinochet si affidò, per la restaurazione economica del Paese, ad un gruppo di economisti statunitensi di ispirazione decisamente neoliberale, provenienti appunto dal vivaio del pensiero neoliberale negli Stati Uniti, l’Università di Chicago, e per questo soprannominati “Chicago Boys”. Essi misero in pratica gli insegnamenti appresi negli Usa, incoraggiando privatizzazioni, l’apertura alla dimensione internazionale attraverso la deregolamentazione dei flussi finanziari e la liberalizzazione del mercato, l’abolizione dei controlli sui prezzi, i tagli alla spesa pubblica . Emergono fin d'ora, già dalle origini del successo internazionale del neoliberismo, due elementi interessanti: primo, il fatto che la stabilità che fa da base all'implementazione del neoliberismo non è necessariamente collegata alla democrazia; secondo, che questo tipo di sistema economico occupa un ruolo ben preciso nella politica internazionale. Senza attribuire agli Stati Uniti la responsabilità per l'intero assetto neoliberale globale, è innegabile che l'interesse politico per una maggiore apertura del mercato cileno, una concorrenza internazionale ed interna più libera, una minore regolamentazione avrebbe giovato anche all'economia statunitense attraverso flussi di capitale, investimenti e commercio internazionale. È quindi poco utile isolare l'analisi del neoliberismo globale dalle sue implicazioni politiche e dagli interessi che esso beneficia o danneggia. Dopo l’esordio del governo Pinochet, l'applicazione del neoliberismo trionfò in Sudamerica negli anni '80, in particolare in seguito alle crisi economiche che, a catena, coinvolsero diversi Paesi a partire dal Messico, nel 1982 (crisi di cui si parlerà più approfonditamente in seguito). I governi in ginocchio si rivolsero al Fondo Monetario Internazionale, che offrì loro aiuti finanziari per poter uscire dalla crisi, la cui emissione era però subordinata all'accettazione di pesanti pacchetti di riforme economiche di stampo neoliberale (ad es. privatizzazioni di massa di settori industriali nazionalizzati, abbattimento delle barriere al libero commercio internazionale, riduzione delle spese statali). Questi aiuti vennero denominati SAP, ovvero, programmi di aggiustamento strutturale, la cui portata per l’assetto degli Stati che lo accettano è già denotata dal nome stesso: si prevedeva, appunto, un aggiustamento di tipo strutturale, per correggere un sistema evidentemente inefficiente. Harvey definisce i SAP come una prassi consistente nel beneficiare gli interessi delle istituzioni finanziarie andando a penalizzare la qualità di vita dei Paesi debitore, ovvero ricavare un surplus dai poveri del mondo, dal momento che sono le classi meno abbienti ad uscire svantaggiate da un taglio della spesa pubblica che si traduce in una drastica diminuzione dello stato sociale. In questo processo i Paesi poveri, osserva il celebre economista Stiglitz, “sovvenzionano di fatto i più ricchi”.  Ancora una volta, l'applicazione del neoliberismo risulta profondamente legata ad interessi politici, in questo caso quelli dei Paesi che si trovavano in posizione economicamente favorevole  in primis gli Stati Uniti  a scapito di quelli che, a causa della loro condizione svantaggiata, dovevano adattarsi ad un'economia politica imposta dall'esterno e nella cui implementazione i loro interessi venivano considerati solo marginalmente, o decidevano di aderire a tali programmi come unica alternativa al tracollo economico totale. I precetti del neoliberismo sono riassunti nel decalogo divenuto celebre con il nome di Washington Consensus, che riprende le caratteristiche che abbiamo già nominato: liberalizzazione del commercio, anche e soprattutto nella sua dimensione internazionale (con gli accordi di libero commercio come principale via di apertura dei mercati e trasferimento di beni e capitale da un'area all'altra del globo); diminuzione dei controlli sui flussi transnazionali di capitale; privatizzazione di settori dell'economia in precedenza appartenenti allo Stato; stretto controllo della spesa pubblica; tassi di cambio stabiliti dall'andamento del mercato; una severa disciplina fiscale. Con il realizzarsi di queste condizioni, si assiste tra l'altro ad una progressiva finanziarizzazione dell'economia la crescita economica non dipende più dalla crescita dell'economia reale, legata al capitale produttivo, ma ad un tipo di economia molto più instabile e volatile, quella finanziaria, il cui valore nominale non corrisponde a quello reale e può essere gonfiato a seconda delle ondate di speculazione dei detentori di titoli e pacchetti di azioni. Il dominio della finanza sul mercato globale ha causato varie crisi, da quelle asiatiche del 1997-98 a quella argentina e in seguito brasiliana del 2001-2002, a quella partita dagli Stati Uniti e diffusa globalmente, dall'Europa all'Oceania, a partire dal 2008. Il neoliberismo, quindi come, del resto, il capitalismo stesso, si rivela intrinsecamente imperfetto e soggetto a crisi cicliche, a cui  contro la teoria neoliberale “purista” - rimediano gli enti pubblici con i loro salvataggi a banche ed istituzioni finanziarie in fin di vita: ciò denota un inscindibile intreccio tra gli interessi pubblici e quelli privati delle grandi aziende (tra cui, appunto, le istituzioni finanziarie), e ancor di più una non indifferente influenza di queste ultime sulle politiche dei governi, cosa che non viene prevista dalla teoria neoliberale. Le differenze tra la teoria e la pratica neoliberale, come si è visto, sono rilevanti: il mercato non è affatto abbandonato a se stesso, ma è lo Stato ad essere asservito ad esso – più correttamente, come sottolinea Colin Crouch, non al mercato in generale ma alle grandi aziende (corporations). Di conseguenza, Crouch afferma che quello che governa la globalizzazione attuale non è neoliberismo ideologico puro, ma una versione di esso in cui Stato e mercato si compenetrano grazie ad una terza identità, quella delle grandi aziende multinazionali, le quali hanno raggiunto una tale influenza politica da far sì che lo Stato agisca in economia per proteggerle e operare secondo i loro interessi. Il problema di questo tipo di neoliberismo, continua Crouch, non sono le conseguenze dell'amoralità del mercato in sé (in effetti, sarebbe difficile immaginare un mercato il cui funzionamento si basi su valori morali), ma il fatto che, in un tale assetto economico-politico, i valori di mercato arrivino ad informare la società nella sua totalità: il risultato finale è una società totalmente amorale in quanto regolata in tutti i suoi aspetti dai valori del mercato. Essi si esplicano nella società soprattutto attraverso la “mercificazione di tutto”, come nota Harvey: non solo beni e servizi possiedono un valore economico, ma anche le persone ed i rapporti tra di esse sono visti come qualcosa di capitalizzato o comunque capitalizzabile, con un valore economicamente quantificabile e su cui si possano avanzare diritti di proprietà e concludere contratti. Possiamo dire che  gran parte del lavoro di Salgado si svolga in solitudine, più volte egli rimarca il fatto che il risultato finale sia possibile solo grazie al contributo altrui, e quindi frutto di una grande rete di collaborazioni: la prima e principale assistente è senza dubbio la moglie, la quale si occupa da decenni del destino delle immagini una volta scattate. Contatti con i partner per stampa e finanziamenti, editing, impaginazione sono sempre stati compiti svolti principalmente da Lélia. Anche durante i suoi viaggi, sul campo, Salgado precisa di non agire mai completamente da solo. L'azione di istituzioni quali Medici senza Frontiere (con cui Salgado realizza il progetto fotografico La fine della Polio), UNHCR e UNICEF (per In Cammino e Children) e OIM (grazie al cui supporto nascono Sahel e In cammino) è stata fondamentale per la riuscita di reportage in ambienti che necessitavano di un solido appoggio istituzionale non solo per la diffusione, ma anche per la riuscita stessa delle immagini . Dopo aver scattato per decenni con l'uomo al centro del proprio lavoro ed aver speso tutto se stesso nel lavoro sulle migrazioni (In cammino, il cui titolo inglese è Migrations. Humanity in transition), Salgado realizza di non essere più in grado di documentare la guerra, la morte, la violenza, l'estrema povertà. In particolare, fotografare il genocidio in Ruanda gli causa una reazione tale da accusare seri sintomi fisici. Alla fine anni '90, il fotografo ha completamente perduto la fiducia verso il suo soggetto di sempre, il genere umano. Necessita di un allontanamento dagli orrori che ha documentato. È in questo contesto che nasce l'Instituto Terra, fondazione per l'ambiente creata dai coniugi Salgado. Il progetto nasce nella Valle del Rio Doce, in Brasile, nella tenuta in cui Sebastião era cresciuto e che negli anni era andata distruggendosi, a causa della deviazione del fiume per irrigare aree coltivate e dell'ingente deforestazione. L'idea dell'Instituto viene lanciata da Lélia, che propone a Sebastião di ripiantare tutto, per restituire alla Terra ciò che l'uomo le aveva tolto. Lentamente, un progetto che inizialmente era parso utopico si traduce in realtà: con un impegno costante, l'aiuto di un esperto ingegnere e fondi da parte di enti di vario genere e provenienza, la tenuta della famiglia Salgado riprende vita ed il progetto di piantare 2 milioni di alberi ha successo. L'area è oggi tutelata dal governo e l'Instituto continua, la sua opera di riqualificazione ambientale. In quegli anni, Salgado sperimenta un cambio di rotta nel suo percorso professionale: desidera avvicinarsi a ciò che del pianeta Terra è rimasto vivo e intatto, non corrotto da uno schema di sviluppo malato e compulsivo. Comincia dunque a pianificare insieme alla moglie un nuovo ambizioso progetto: a partire dal 2003 e fino al 2011, intraprende un'ennesima, lunga serie di viaggi, probabilmente l'ultima data la sua non più giovane età, per recuperare in una collezione di immagini le aree incontaminate del nostro pianeta. Spazia dalla Siberia alle Galapagos, dall'Amazzonia alla Papua Nuova Guinea. Fotografa paesaggi e animali, gruppi di indigeni e iceberg, per ricordare ai suoi osservatori che il 46% degli ecosistemi della Terra è ancora vivo e protetto. È così che nasce Genesi, definita dall'autore come “una lettera d'amore alla Terra”; quest’opera è la prova della centralità della collettività e di una visione, per così dire, olistica da parte dell’autore: “We are entirely implicated in their lives as well as in our lives” afferma, e continua “There really is no ‘other’. It's us” . L'attivismo di Salgado si concretizza anche nella sua costante partecipazione a conferenze, workshop e seminari in varie istituzioni ed università: la sua opera non viene semplicemente presentata, ma contestualizzata e discussa per permetterne una consapevole ricezione da parte del grande pubblico. Più volte lo si sente sostenere che per lui la fotografia, oltre che un inevitabile modo di vita, è un potente linguaggio capace di travalicare le barriere geografiche, linguistiche e culturali per portare a tutti, indistintamente, un messaggio condiviso, d’accordo con la tesi discussa in precedenza, che vede nella fotografia un essere “lingua”, pur senza un carattere verbale. A livello tecnico, una dimensione non fondamentale per il presente lavoro, ma non per questo trascurabile, è rilevante la scelta di Salgado di scattare in bianco e nero: nonostante in passato egli abbia sporadicamente lavorato a colori, esprime la sua preferenza per il bianco e nero per motivi sia operativi che espressivi: afferma, infatti, che il bianco e nero gli permette di concentrarsi “sull’intensità del soggetto” senza il colore che egli definisce un disturbo. Salgado fotografo che ha dedicato al carattere “ibrido” di quest’ultimo infatti, pur essendo originario di un Paese della periferia del mondo, egli è entrato a far parte del “centro” molti anni fa, trasferendosi in Francia. Acquisendo elementi culturali propri di entrambi i mondi, Salgado si pone al confine tra due modi di osservare il mondo, il che è particolarmente rilevante se si considera che la stragrande maggioranza delle sue opere sono state realizzate scattando la periferia e non il centro. Di seguito si vuole indagare quest’attenzione verso determinati temi, riconducendola all’importanza della posizione di Salgado come membro di una comunità subalterna, ovvero quella del Brasile in via di sviluppo. È infatti vero che il fotografo occupa oggi una posizione, per citare Santiago, “in between”, in quanto parla dai margini e parla dei margini collocandosi in un Paese del Primo Mondo (la Francia, dove oggi risiede). Le sue radici, tuttavia, gli trasmettono un retaggio culturale ancora presente nonostante la decennale residenza in Europa: secondo Salgado, esiste un modo latinoamericano di vedere il mondo (latinoamericano e non sudamericano, non a caso, direbbe Santiago) . Salgado, con il suo collocarsi fra due mondi, deve confrontarsi con una “dialettica fra il non essere e l'essere altro” – come del resto devono fare anche le diverse culture ibride dell’America Latina; private della loro cultura originale, la cultura, o meglio le culture, sudamericane, possono riappropriarsi di sé, principalmente attraverso tre strade: la prima è l'indigenismo, ovvero il dare risalto alla componente indigena (o nera, nelle aree della schiavitù africana) della società per recuperare le identità che fanno parte del presente, ma sono state in passato rinnegate e marginalizzate; la seconda è la trasculturazione, o ibridazione, che consiste nel fare propri elementi culturali dell'una e dell'altra cultura (la dominante e la subalterna) per creare un'identità nuova che tragga forza dal proprio essere innegabilmente ibrida; da ultimo, la parodia, o pastiche, processo utilizzato soprattutto in letteratura che consiste nell'appropriarsi in modo nuovo - non necessariamente ironico - dei caratteri della cultura dominante per farne qualcosa di nuovo (sia esso uno stile letterario o architettonico, una danza o una composizione poetica).
Ciò è particolarmente visibile nelle opere ambientate nella sua terra di origine, Altre Americhe e Terra, discusse nel prossimo capitolo. Per ora basti una breve discussione che aiuti a collocare il fotografo nello spazio tra subalternità della periferia e condizione privilegiata del centro: Salgado si trova in una posizione particolare in quanto si muove dall'interno del centro, ma con gli occhi della periferia. È ancora più cruciale, allora, il suo modo di osservare “se stesso come altro”: se stesso, come sudamericano che ritorna alle proprie origini e ritrae il suo mondo, come altro non solo perché fotografare significa, intrinsecamente, creare una separazione fra autore e soggetto fotografato, ma anche e soprattutto perché, come dice il titolo stesso, le Americhe che sono protagoniste di questi reportages sono altre, separate-segregate-diverseesterne al centro. Egli si trova, pur senza rivendicarlo e quindi, probabilmente, in modo inconscio, a servirsi di tutte e tre le tecniche di riappropriazione culturale: l'indigenismo, attraverso la rappresentazione di comunità indigene, in contrasto con ciò che di più occidentale e globalizzato vi è in America “Latina”, insomma, contro la “Latinità”. Questo barocco, che in architettura s'ispira allo stile importato dai coloni portoghesi rimaneggiandolo, mescolandolo con le particolarità locali e creando edifici unici nel loro genere (si veda ad esempio la città di Recife), si traduce in fotografia nell'estetica di Salgado, che utilizza la luce e la composizione in modi spesso maestosi, roboanti, eccessivi, evocanti il mistico e il magico, barocchi, appunto. Il fotografo porta con sé non solo i suoi paesaggi del Brasile, ma anche la storia e la cultura, che riprende e fa sue per riappropriarsi del suo essere brasiliano. L'ultima tecnica di riappropriazione culturale adottata da Salgado è la trasculturazione,con queste tre “tecniche”, Salgado entra nelle profondità del suo essere latinoamericano, e ciò gli permette di “parlare da subalterno” pur situandosi nel mondo occidentale. Non è unicamente negli aspetti culturali che si ritrova in Salgado la dicotomia tra centro e periferia, tra subalterno e dominante. Anche per quanto riguarda il lato economico- commerciale del suo lavoro, infatti, egli si colloca tra due sistemi divergenti: l’uno implicato dalla circolazione delle sue fotografie nel mercato internazionale, nel contesto prevalente della globalizzazione neoliberale; l’altro, espressione di una critica a questo stesso sistema, costituito dal tentativo di seguire un agire professionale consapevole e alternativo, che quando possibile non si conformi agli standard del mercato contemporaneo dell’immagine fotografica . Insomma, la dialettica tra centro e periferia si esplica non solo nel contenuto e nella forma dell’immagine fotografica, ma anche nei modi in cui essa viene prodotta, diffusa, commercializzata. Riprenderemo ora le criticità proprie dell’immagine fotografica inserita all’interno del sistema economico neoliberale, concentrandoci sull’atteggiamento di Salgado rispetto ad esse. Innanzitutto, si è detto che il fotografo parla dall'interno del sistema che egli stesso critica: come si può criticare il neoliberismo parlando dall'interno delle sue strutture? In risposta a questa problematica questione, Salgado si riferisce alla sua collaborazione con il club Rotary International per il progetto The end of Polio, nonostante un iniziale scetticismo; egli afferma che il fatto che il mercato globale costituisca il veicolo delle sue opere è per lui secondario: se il suo scopo di creare riflessione e dibattito per una possibile alternativa viene comunque raggiunto, sostiene, “we can bring discussion in any kind of structure” . L'importante, continua il fotografo, è prendere l'iniziativa, fare: anche dall'interno delle strutture e dei sistemi dominanti attuali si possono “correggere le traiettorie” e prendere in mano le proprie responsabilità per la situazione globale attuale. L'approccio di Salgado è quindi estremamente pragmatico, e si basa su una critica il cui corollario pratico è un'azione che mira all'ottenimento di risultati concreti piuttosto che ad una lotta meramente ideologica. Un'altra critica spesso rivolta a Salgado e collegata al suo far parte di un mondo ben lontano da quello dei suoi soggetti è stata quella di utilizzare la loro miseria e le condizioni svantaggiate per arricchirsi alle loro spalle, utilizzando la miseria del Terzo mondo come un amo per ottenere successo nel Primo; se si desidera raggiungere il grande pubblico per trasmettere un messaggio, tuttavia, lo sbocco nel mercato globale diventa inevitabile. Salgado potrebbe essere criticato per un’ipotetica incoerenza per il suo “ingresso nella logica del capitalismo del Primo mondo” tramite la realizzazione, in contemporanea ai suoi progetti, anche alcuni lavori pubblicitari, ad esempio per Volvo o Illy Caffè con la cui sponsorizzazione realizza la mostra-libro Profumo di Sogno. Berger  che ironicamente è anche uno dei più grandi ammiratori di Salgado scrive a proposito della pubblicità: essa “aiuta a mascherare e a compensare tutto ciò che di non democratico vi è nella società. Ed essa maschera anche ciò che sta avvenendo nel resto del mondo”. Tuttavia, se si considera come esempio la collaborazione pubblicitaria di Salgado con Illy citata in precedenza, si vedrà che il risultato è un ritratto dei processi produttivi del caffè, e ciò che fa è esattamente mostrare “ciò che avviene nel resto del mondo”. In altre parole, se il contesto in cui Salgado opera lo costringe ad entrare in una determinata dinamica (quella del mercato) questo lavoro dimostra che esistono diversi approcci anche alla fotografia commerciale, e che essa non necessariamente fa parte di quel mercato in cui “poverty is a commodity that fetches a high price”: egli dimostra che esistono, insomma, alternative sia al farsi portavoce di un discorso dominante e oppressivo, sia all’utilizzo della retorica della sostenibilità come propaganda per il profitto. Del resto, come egli stesso sottolinea nel suo libro Dalla mia terra alla Terra , “vendere non è mai stato il nostro mestiere”, ed è proprio per la particolarità della sua agenzia Amazonas Images una piccola impresa di otto collaboratori, di cui Salgado afferma “we are not a real business commercial” che risulta necessario appoggiarsi a lavori commerciali esterni: bisogna tenere presente che i suoi reportage sono estremamente costosi in termini di tempo e denaro: senza i fondi necessari non potrebbe portare avanti il proprio lavoro. La polemica su un presunto appoggio di Salgado al centro piuttosto che alla periferia si è concentrata anche sui finanziamenti al lavoro fotografico da parte di istituzioni quali UNHCR e OIM; l'appoggio delle istituzioni, tuttavia, è stato determinante per la riuscita dei progetti non solo in termini monetari, ma anche – si è già visto - di assistenza sul campo: le istituzioni internazionali con cui il fotografo collabora possiedono le risorse economiche, le strutture e la conoscenza per poter appoggiare la produzione e la diffusione di immagini la cui esecuzione stessa risulterebbe altrimenti rischiosa o addirittura impossibile. È in un certo senso paradossale che Salgado si scagli contro le dinamiche del sistema articolando la sua critica proprio attraverso di esso; è però vero che, come nota anche Nair , non è possibile segregare l'immagine fotografica dal sistema sia economico che culturale che ne permette la circolazione e la diffusione. Salgado, in realtà, esce dalle logiche del sistema neoliberale in diversi modi: sia nella prassi professionale, sia nei contenuti, come vedremo più in dettaglio nei prossimi capitoli. Per quanto riguarda la prima, basti per ora notare che Salgado si allontana decisamente dalla metodologia di lavoro del “grab-shot approach” segnalato da Gold , fotografando con un metodo che si può definire “sociologico”: la durata prolungata dei suoi reportages è proprio atta a permettere a Salgado di passare del tempo con i soggetti che fotografa ed immergersi nelle realtà che ritrae, siano esse sociali o ambientali. La “fotografia mordi e fuggi” che caratterizza l'epoca contemporanea trova così la sua controparte nella “slow photography” di Salgado: ecco che emerge una posizione contraria all'etica.Il fatto che l'opera di Salgado entri a far parte del mercato è un'inevitabile conseguenza della decisione di mostrare le proprie immagini al mondo attuale, e non fa di lui un connivente o un supporter dell'assetto economico in cui ora si trova. Portare alla luce i messaggi contenuti nelle fotografie comporta l'entrata in un “restless field of ideological contradictions”, un paradosso tra il sistema in cui la fotografia circola ed il messaggio che essa contiene. L'attività fotografica e politica di Salgado (e, ovviamente e fortunatamente, non solo la sua) rappresenta offre una voce esterna al contesto di cui sopra: rappresentando soggetti e realtà marginali, “invisibili” ai più e fornendo un contesto informativo che ne permetta la comprensione, Salgado cerca di uscire dalla dominazione culturale che costituisce uno dei tratti principali del sistema neoliberale globale. Attraverso i contenuti delle sue fotografie, Salgado mira a costruire un “different kind of social logic” sulla base di ideali di unità, solidarietà e giustizia sociale, sfidando la supremazia dell’individualismo come presupposto ideologico da cui la retorica neoliberale prende forza.
La globalizzazione neoliberale costituisce al tempo stesso il bersaglio della critica del lavoro di Salgado ed il contesto in cui esso si realizza; come si è visto, in tale contesto non sono poche le criticità che deve affrontare chi produce informazione (soprattutto fotografica), tanto più se essa contiene un messaggio deliberatamente politico. Un progetto di critica, sia esso verbale o per immagini come è quello di Salgado, deve impiegare un linguaggio che sovverta le categorie stabilite dall'ideologia di questo sistema. “Democracy as a site of intense struggle over matters of representation, participation, and shared power”: agire politicamente in modo alternativo implica quindi cercare di decostruire un discorso egemone che si è imposto globalmente negli ultimi tre-quattro decenni. Nonostante non ami definirsi un attivista e preferisca descriversi come un fotografo con delle preoccupazioni, l'urgenza della spinta politica è tanto forte da far sì che spesso, durante i suoi interventi in varie conferenze, il focus del dibattito si sposti dalla fotografia alle tematiche sociali che Salgado porta all'attenzione: “you would barely know he is a photographer”, nota un interlocutore . Nonostante Salgado sottolinei a più riprese il suo essere “semplicemente un fotografo”, le modalità in cui la sua fotografia nasce e viene diffusa implicano un'importante conseguenza politica, ovvero che non è possibile agire altrimenti se non si può pensare altrimenti, ma pensare altrimenti richiede una nuova politica in cui si riconosca che per problemi globali sono necessarie soluzioni globali, modalità di contestazione e dissenso globali. E Salgado “pensa e agisce altrimenti” rientrando, seppur quasi involontariamente, in un quadro globale di attivismo e dissenso verso il modus operandi globale che caratterizza la globalizzazione neoliberale. Nair afferma che “clearly, Salgado's aim is not to oppose capitalism – rather it focuses on the creation of awareness and a consciousness of the debates he deems important” . È certamente vero che il fine ultimo di Salgado è la creazione di un dialogo e non la distruzione dell'ordine mondiale presente; si vedrà tuttavia come l'affermazione di Nair sia condivisibile solo in parte. Le “rotture” fotografate da Salgado anche secondo le parole dello stesso fotografo sono conseguenza, principalmente, di una realizzazione malata e iniqua del capitalismo, ovvero la sua declinazione neoliberale: se si desidera contrastarle è necessario anche ripensare la configurazione del capitalismo mondiale. Salgado stesso si interroga e viene interrogato spesso sul suo pensiero circa un ordine mondiale ideale e sulla portata del suo attivismo per poter realizzare tale nuovo ordine a tale proposito, egli riflette ma è sufficiente essere informati? Siamo davvero condannati ad essere per lo più spettatori?  Possiamo invece influire sul corso degli eventi? Io non so rispondere a queste domande ma sono convinto che qualche risposta deve pur esistere, che il genere umano è in grado di capire e controllare le forze politiche, economiche e sociali che noi stessi abbiamo scatenato, da un capo all'altro della terra.”  “La mia speranza è riuscire – come individui, come gruppi, come società- a fermarci per riflettere sulla condizione dell'umanità alla soglia del nuovo millennio. Le ideologie dominanti del XX secolo, il comunismo e il capitalismo, ci hanno per lo più delusi. La globalizzazione ci viene presentata come una realtà, ma non è certo una soluzione. Dobbiamo creare un nuovo regime di coesistenza. Le sue fotografie sono quindi, decisamente, uno strumento di critica sociale, il cui obiettivo è proprio rendere possibile la nascita di un pensiero alternativo, su cui si possa fondare un agire collettivo consapevole e diverso. La mostra è divisa in sei sezioni che raccontano l’ Amazzonia :  L’Amazzonia vista dall’alto: L’unico modo per poter cogliere le reali dimensioni della foresta è osservandola dallo spazio. Occupa un terzo del continente sudamericano, un’area più estesa dell’intera Unione Europea, è attraversata dal Rio delle Amazzoni che, con i suoi circa 1.100 affluenti, di cui 17 lunghi più di 1.500 chilometri, alla fine della sua corsa riversa nell’Oceano Atlantico, il 20% dell’acqua dolce di tutta la Terra. Osservata da un aereo o da un elicottero, la foresta pluviale di colpo prende forma: un vasto manto verde decorato dalle linee curve e sinuose dei lenti fiumi che lo attraversano. Durante la stagione delle piogge questo arazzo ordinato viene scompaginato dai fiumi che esondano dai propri argini, alle volte addentrandosi fino a 100 chilometri nella foresta, altre dando vita a laghi e lagune. Il paesaggio è talmente pianeggiante che a Tabatinga, al confine occidentale tra Brasile e Colombia, il Rio delle Amazzoni si trova a soli 73 metri sopra il livello del mare sebbene gli restino ancora 4.660 chilometri da percorrere. Questo ciclo naturale, che è sopravvissuto per milioni di anni, ora è in pericolo. La deforestazione sta accelerando, soprattutto ai margini della giungla, dove la presenza di strade ha attirato agricoltori, tagliatori di legna e minatori. Tale fenomeno si sta concentrando prevalentemente nei territori demaniali, mentre le foreste delle terre indigene e dei parchi nazionali sono per ora interessate in modo più marginale. Tuttavia, stante l’avvenuto abbattimento di almeno il 17,25% della biomassa, il timore è che la deforestazione possa presto giungere a “un punto di non ritorno” in cui il bioma, ovvero la caratterizzazione di un ambiente data da una particolare vegetazione e un particolare clima, non sarà più in grado di ripristinarsi con la conseguente trasformazione di vaste aree boschive in savane tropicali. Dissetare il continente: Una delle caratteristiche più straordinarie - e forse meno conosciute - della foresta pluviale dell’Amazzonia sono i “fiumi volanti” o “fiumi atmosferici”. Formandosi sopra la giungla amazzonica, questi “fiumi aerei” carichi di umidità si estendono su gran parte del continente sudamericano. Gli scienziati hanno stimato che se ogni giorno dal Rio delle Amazzoni vengono riversate nell’oceano 17 miliardi di tonnellate d’acqua, nello stesso lasso temporale dalla giungla se ne innalzano verso l’atmosfera 20 miliardi – da cui l’appellativo “Oceano Verde” - abbandonando così la regione amazzonica. Tuttavia a stupire è soprattutto la scala di tale fenomeno. Un albero di grandi dimensioni riesce a succhiare acqua fino a una profondità di 6o metri e a produrne fino a 1.000 litri al giorno. E poiché tale processo si ripete per ciascun albero presente, ovvero tra le 400 e le 600 miliardi di volte, è facile comprendere come la foresta dell’Amazzonia produca un quantitativo d’acqua molto importante che, nel tempo, torna a ricevere. In realtà anche l’acqua che raggiunge la terraferma a seguito dell’evaporazione dell’acqua salata è essa stessa presto riciclata dalla giungla in un processo tecnicamente noto con il nome di “evapotraspirazione”. I “fiumi volanti” non sono solo essenziali per il benessere economico di decine di milioni di persone specialmente in Brasile, ma influenzano i modelli climatici dell’intero pianeta e, a loro volta, subiscono gli effetti della deforestazione e del surriscaldamento globale. In entrambi i casi ciò che avviene nell’Amazzonia è una variabile fondamentale. Gli scienziati ritengono che, a causa di un accelerato processo di deforestazione e dei cambiamenti climatici in atto, la temperatura del bacino al livello del suolo si sia già innalzata di 1,5 °C e si stima crescerà di ulteriori 2 °C qualora il trend attuale non subisca variazioni. In modo analogo, come conseguenza del riscaldamento globale, si teme una riduzione delle precipitazioni annue compresa tra il 10% e il 20%. Piove nella foresta pluviale Le nubi sono parte integrante del dramma senza fine dell’Amazzonia. Possono essere piccole o grandi, benevole o minacciose ma, sia da una barca che naviga un fiume sia da un aereo che sorvola il cielo, queste sono sempre avvistabili. Anche nella foresta, dove la vegetazione può ostruirne la vista, esse sono sempre presenti ed è improbabile che la giornata giunga al termine senza che si producano delle precipitazioni intense. Se si tratta di una tempesta tropicale, l’esperienza può essere persino fatale. Per la propria sicurezza personale, chiunque debba trascorrere del tempo nella regione, soprattutto qualora debba sorvolare la foresta pluviale, deve imparare a leggere le nubi come farebbe con una cartina dettagliata. È raro vedere i cieli che sovrastano la foresta presentarsi come un’incontaminata distesa azzurra, ma è altrettanto raro vederli coperti da uno spesso manto di nubi grigie. Le formazioni nuvolose regalano uno spettacolo sempre diverso: si inizia la mattina, quando una calda aria umida si solleva dalla giungla e viene a contatto con delle particelle minuscole che consentono al vapore di condensarsi in goccioline d’acqua formando delle piccole nubi simili a batuffoli di cotone chiamate aru. Con l’avanzare della giornata, queste si sollevano e, temperatura e intensità del vento permettendo, si compattano a formare un particolare tipo di nube detto cumulonembo. Si tratta di una delle formazioni metereologiche più pericolose: può estendersi per diverse migliaia di metri in altezza, espellendo pezzi di ghiaccio e con venti che arrivano fino a 200 km/h, il tutto accompagnato da fulmini e forti rovesci. La loro forza è tale che anche i grandi aeroplani fanno il possibile per evitarli, gli elicotteri si lanciano all’immediata ricerca di una radura nella giungla in cui atterrare e le imbarcazioni si affrettano a trovare riparo dalla pioggia accecante. In rare occasioni, la più recente delle quali nel 2005, la tempesta può essere così devastante da abbattere centinaia di migliaia di alberi. Vette inattese si ergono dai bassopiani Le Ande che definiscono la vita del bacino amazzonico sorgono nell’area più occidentale del Brasile. La catena montuosa più importante del Brasile, chiamata Cerro do Imeri, funge quasi da confine naturale con il Venezuela, nel nord dello Stato di Amazonas. Emblema della catena è il Pico da Neblina o Mist Peak che, con la sua vetta aguzza che supera 3.000 metri in altezza, è la montagna più alta del Brasile. Come suggerisce il nome, è spesso avvolta da nubi che ne rendono la scalata un’esperienza ardua e pericolosa. Non lontano da lì, il Pico 31 de Março supera 2.900 metri. Sempre in quella stessa regione, il Pico Guimarães Rosa, dal nome della famosa scrittrice brasiliana, svetta per 2.105 metri sul livello del mare. Ciò che stupisce di questi rilievi è il modo in cui la foresta pluviale ricopre le pendici più basse, con una vegetazione che via via si dirada fino a essere interrotta dalle pareti rocciose. Ad est, nello Stato di Roraima, Monte Roraima, che fa parte della Serra do Paracaima, rappresenta una formazione geologica alquanto peculiare. Con una vetta che raggiunge 2.800 metri, questa montagna dalla cima piatta che si erge sul confine con la Guyana e il Venezuela, appartiene alla categoria dei tepui che ospita specie vegetali ed animali endemiche. Un’area montuosa protetta dalla bellezza straordinaria è il Parque Estadual Serra do Aracá. Ubicato a circa 400 chilometri a nord di Manaus, la sua aspra morfologia è perlopiù frutto dei tepui ivi presenti e, sebbene raggiunga un’altezza massima di 1.700 metri, s’impone con forza nella giungla circostante. Nello stesso luogo si trovano anche le più alte cascate del Brasile, El Dorado e Desabamento, le cui acque precipitano per 360 metri lungo il versante spoglio di una montagna. Paura e ispirazione: Per secoli, dopo la colonizzazione del Brasile ad opera del Portogallo, la foresta pluviale dell’Amazzonia fu chiamata “l’Inferno verde”: impenetrabile, intrisa di pioggia e pervasa di pericoli per i forestieri. Chi riuscì a sopravvivere e a raccontare la propria esperienza passò alla storia: dal conquistatore spagnolo Francisco de Orellana all’esploratore tedesco Alexander von Humboldt, passando per Theodore Roosevelt e il maresciallo Cândido Rondon, cartografo dell’esercito brasiliano, considerato nel secolo scorso il più importante protettore del popolo indigeno del Brasile. Molti esploratori, soprattutto quelli partiti alla volta della mitica città scomparsa di El Dorado non hanno mai fatto ritorno: alcuni potrebbero essere stati uccisi dalle ostili tribù native, altri aver perso la vita perché morsi da serpenti e, altri ancora, essere morti di fame; ma un numero sorprendentemente elevato di esploratori decise di fermarsi a vivere con le tribù indigene e di condividere con loro lo stile di vita bucolico che le caratterizzava. Oggi la foresta pluviale è guardata in modo più benevolo, alle volte persino romantico, tanto da essere considerata da alcuni come un “Paradiso verde”. Più spesso, è semplicemente vista come uno straordinario tesoro della natura dove è custodita la maggiore concentrazione di specie botaniche al mondo, tra cui 16.000 specie di alberi e innumerevoli piante dalle eccezionali proprietà medicinali. Inoltre, questo concentrato di vegetazione senza precedenti assorbe gas a effetto serra e rilascia ossigeno. I fiumi forniscono alle comunità indigene alimenti ad alto contenuto proteico essenziali per la loro alimentazione. Tuttavia le tribù hanno anche appreso a mantenersi a una distanza di sicurezza dalle golene naturali che, durante la stagione delle piogge, sono invase dai corsi d’acqua più importanti che possono inondarle fino a 100 chilometri. Gran parte di quest’acqua proviene dalla neve sciolta e dalle precipitazioni che si producono sulle Ande. Le inondazioni che ne scaturiscono sono un costante promemoria del fatto che, un tempo, gran parte del bacino amazzonico era ricoperto dal mare. Isole nella corrente: Nella vastità della foresta dell’Amazzonia, la battaglia tra terra e acqua ha dato origine al più grande arcipelago di acqua dolce al mondo, conosciuto come arcipelago di Anavilhanas, caratterizzato da isole dalle forme più disparate che emergono dalle scure acque del Rio Negro. Dall’alto la vista è mozzafiato, e si estende a perdita d’occhio. Visto dal fiume l’arcipelago somiglia a un enorme puzzle che soltanto i traghettatori più esperti attraversano, essendo capaci di tracciare rotte che consentono un passaggio sicuro tra la miriade di ostacoli naturali presenti. Gran parte delle isole maggiori sono ricoperte da una fitta vegetazione tropicale ma se le stime sul numero delle isole oscilla tra le 350 e le 400 unità lo si deve anche al fatto che le isole più piccole e basse possono temporaneamente o anche permanentemente scomparire quando, durante la stagione delle piogge, il livello delle acque si alza di oltre 20 metri. Le fotografie satellitari permettono di immortalare, anno dopo anno, la continua evoluzione dell’arcipelago. Queste isole del Rio Negro compaiono a circa 80 chilometri a nord-ovest di Manaus e danno vita a due ramificazioni principali che si estendono per circa 400 chilometri in direzione di Barcelos, la prima cittadina fondata da coloni portoghesi. Il primo tratto, con un’estensione di circa 135 chilometri, dove il fiume presenta una larghezza media di 20 chilometri e la cui superficie è per il 60% occupata da isole, è ora un’area protetta compresa nel Parco Nazionale di Anavilhanas. Esteso su una superficie di 350.470 ettari, il parco è totalmente disabitato fatta eccezione per la cittadina di Novo Airão, sulla sponda occidentale, 180 chilometri a nord-ovest di Manaus.
Museo MAXXI di Roma
Sebastião Salgado. Amazônia
dal 1 Ottobre 2021 al 13 Febbraio 2022
dal Martedì alla Domenica dalle ore 11.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 11.00 alle ore 20.00
Chiuso Lunedì