Giovanni Cardone Marzo 2023
Fino al 30 Aprile si potrà ammirare al Museo MAXXI di Roma la mostra Bob Dylan. Retrospectrum a cura di Shai Baitel, prima retrospettiva in Europa dedicata alle opere di arte visiva di una delle più importanti icone della cultura contemporanea mondiale. Esposte oltre 100 opere tra dipinti, acquerelli, disegni a inchiostro e grafite, sculture in metallo, materiale video, che esplorano oltre 50 anni di attività creativa di Bob Dylan. I lavori esposti mettono in luce quei motivi che da sempre fanno parte dell’immaginario di musicista di Dylan e che tornano, sotto forma di disegno e di colore, anche nei suoi dipinti. Come scrive lui stesso nel catalogo della mostra (a cura di Shai Baitel e pubblicato da Skira), le sue opere d’arte visiva raccontano “il paesaggio americano come lo si vede attraversando il paese, osservandolo per quello che è. Restando fuori dalle grandi arterie e percorrendo solo strade secondarie, in totale libertà”. Grandi metropoli, paesaggi brulli e sterminati, binari ferroviari, strade aperte, automobili, camion, pompe di benzina, motel, baracche, bar, negozi, cortili, cartelloni pubblicitari, insegne al neon: come nelle sue canzoni e nelle sue poesie, anche nei suoi dipinti Dylan rende poetica l’America più profonda. “Scelgo le immagini per ciò che significano per me – scrive - .

Questi dipinti hanno il realismo dell’istante, arcaico, statico perlopiù, ma comunque percorso da un fremito. Sono il mondo che vedo o che scelgo di vedere, di cui faccio parte o in cui entro. Ad ogni modo, questo è il mio lavoro”. Per l’occasione, verrà donata al museo un’opera di Dylan che arricchirà la collezione pubblica nazionale del MAXXI. Un lavoro che nasce intorno alla celebre canzone del 1965 Subterranean Homesick Blues, che vanta il primo (e forse più celebre) video musicale della storia. Nel video, Dylan fa cadere al ritmo della musica una serie di fogli con il testo della canzone, scritti la sera prima da un gruppo di amici fra cui Allen Ginsberg, riconoscibile nel film. Nel 2018, Dylan ha riscritto questi testi su 64 cartelli, allestiti a comporre una parete di fianco allo schermo. Subterranean Homesick Blues Series unisce così arti visive, parole e musica. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Bob Bylan apro il mio saggio dicendo : Posso dire che fin dalle liriche degli esordi, la scrittura di Dylan presenta tratti fortemente pittorici e procede spesso per accostamenti di immagini. Questa caratteristica informa ampia parte della sua produzione ed evolve marcatamente nel corso degli anni. La sua analisi quindi può aiutare a comprendere le poetiche dei suoi diversi periodi compositivi. Quando nella celebre intervista rilasciata a Playboy nel 1965 citata in esergo Dylan afferma di non essere un ‘image-maker’ e che nelle liriche dei primi dischi non ci sono immagini di sua invenzione dice evidentemente una menzogna che, però, nasconde anche una verità. Nello stesso periodo, del resto, il cantautore aveva dichiarato anche “songs are just pictures of what I’m seeing – glimpses of things” e, ancor più inequivocabilmente, “I write in chains of flashing images” (ivi, 156 e 30). Salvo alcune eccezioni, come ad esempio “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, nei primi album, le immagini sono prevalentemente tratte dalla tradizione popolare cui le sue liriche ineriscono. In un primo momento, infatti, il suo interesse primario è quello di confrontarsi con gli universi musicali del blues e folk, dai quali eredita un particolare approccio all’immagine. L’efficacia espressiva delle canzoni blues risiede in parte nell’originale commistione di schiettezza e allusività delle liriche. Nel garantire la coesistenza di queste due caratteristiche apparentemente ossimoriche gioca un ruolo centrale il continuo ricorso a quelle che Stephen Henderson ha definito mascon images. Vere e proprie forme archetipiche della cultura e della letteratura afroamericane, esse non sono solo immagini in senso stretto, ma anche parole, topoi letterari ed espressioni verbali che, per usare le parole dello studioso americano, evocano una “massive concentration of Black experiential energy which powerfully affects the meaning of Black speech, Black song, and Black poetry” (Henderson 1973, 44). Talora archetipi propri della sola cultura afroamericana, altre volte comuni anche a quella occidentale, le mascon images hanno carattere transculturale: i loro significati valicano i confini delle discipline e dei diversi campi dell’esperienza, creando livelli semantici e associativi plurimi che spesso fanno coesistere categorie generalmente considerate come mutuamente esclusive (presente e passato, sacro e profano, personale e collettivo, etc). Spiega sempre il critico americano che la semplice rievocazione di temi e immagini come la strada, i binari, i treni merci, i crossroads, il cimitero o la miniera, solo per citarne alcuni, richiama alla mente dell’ascoltatore un ammontare di emozioni, ricordi e conoscenze comuni, nonché un’intera tradizione di composizioni a essi dedicate. Inoltre, per quanto queste forme siano di uso molto comune in seno alla società afroamericana, cionondimeno esse sfuggono al pericolo di diventare dei cliché abusati, oppure ricorrere a questi topoi per l’artista ha la duplice funzione di mantenere vivo il proprio patrimonio culturale e di impugnarne la tradizione per esprimere la propria esperienza personale attraverso le forme e i mezzi di un sentire e di un sapere tradizionali. In questo modo, se il soggetto delle canzoni blues è quasi sempre un io lirico, l’espressione dell’esperienza personale rimane ugualmente imperniata sulla variazione di forme e temi collettivi. Radicato in una comune condizione di subalternità, dunque, il sentire del singolo ha valore anche per l’intera comunità cui si rivolge – per dirlo con le parole di Micheal Harper, quando un cantante blues dice ‘io’ l’uditorio capisce ‘noi’ .
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Basta dare un rapido sguardo ai brani che Dylan registra per il disco esordiale Bob Dylan, sia tradizionali sia di sua composizione, e a quelli che pubblica poi nel seguente The Freewheelin’ Bob Dylan per rendersi conto di come il cantautore attinga primariamente da questo grande serbatoio, nonché da quello della canzone folk, anch’essa legata a dinamiche simili. Queste immagini archetipiche giocano un ruolo fondamentale nelle prime liriche, dove, impiegate alla stregua di vere e proprie tessere, contribuiscono a conferire quella cifra polisemica e quella forza evocativa che le caratterizzano. Questo tratto della sua poetica implica un approccio di carattere fortemente intertestuale ed è strettamente legato un’altra forma di ripetizione tipica della canzone popolare, il ricorso ai cosiddetti floating verses ossia, l’abitudine di fare propri incisi, a volte intere frasi o versi tratti da altre composizioni. Anche questo uso della citazione, come il precedente, permette all’artista di porsi nel solco di una tradizione di cui egli si appropria facendo della sua opera un prodotto artistico che è personale e al contempo parte della tradizione stessa. Sulla scorta dei bluesmen cui si ispira, Dylan guarda a questi versi come a un reservoir di voci e forme di un patrimonio da impugnare per produrre canzoni originali, operanti così come dei palinsesti che presentano differenti livelli testuali. Come si vedrà nel dettaglio nell’ultimo paragrafo di questo capitolo, si tratta di un aspetto che caratterizza l’intera poetica di Dylan, il quale estende queste logiche al rapporto con le fonti tout court. Un argomento, questo, che è già stato ampiamente studiato dalla critica. In The Invisible Republic, ad esempio, Greil Marcus esamina il modo in cui Dylan attinge al repertorio della musica folk delle origini nei dischi degli esordi, analizzando nel dettaglio i debiti con la tradizione della musica popolare tanto bianca quanto nera . Più di recente, Alex Ross, in The Wanderer, nota come questa modalità scrittoria sia evidente anche nei dischi degli anni Novanta e Duemila. Per le sole “It’s Not Dark Yet” e in “Tryin’ to Get to Heaven”, il critico individua più di una dozzina di prestiti in gran parte presi dalla Bibbia, dal Talmud, dagli spirituals e dalla raccolta Folk Songs of North America di Alan Lomax, grande collezionista della musica americana delle origini. Ce ne sono in realtà ben di più, come, del resto, anche nella maggioranza dei brani di Dylan. Queste tessere intessono una fitta rete di rimandi intertestuali che si prestano a essere studiati tematicamente. Visti nella loro totalità, tuttavia, potrebbero indurre a cedere alla tentazione di considerarli come quell’unico interminabile palinsesto che porta Alessandro Carrera a definire la produzione di Dylan la più grande epopea modernista della letteratura americana recente. Sono in tal numero da richiedere libri interi sulle singole fonti; analisi, che, di recente, la critica ha iniziato a provvedere. Se Micheal Gray (1999) in Song and Dance Man III: The Art of Bob Dylan ha scritto pagine importanti sul rapporto tra le liriche e la tradizione blues e investigato in maniera molto dettagliata i suoi debiti nei confronti della poesia angloamericana, Renato Giovannoli, invece, ha dedicato tre imponenti tomi ai soli palinsesti biblici e a questo suo impressionante mosaico andrebbero talora forse persino aggiunte ulteriori tessere. Inutile quindi dilungarsi ulteriormente su argomenti che richiederebbero uno studio a se stante che porterebbe fuori strada . Tornando al problema dell’immagine, è interessante notare come già in un articolo del 1966, Ralph Gleason affermasse “Dylan thinks of his song - all songs, his own included - as pictures, chains of flashing images” e paragonasse le canzoni dylaniane alle tele di Goya (in Jarosinski 2006, 302). Al contrario di quanto lascia intendere il critico, però, le catene di immagini dei primi dischi hanno caratteristiche molto diverse da quelle che caratterizzano le canzoni del periodo elettrico. Laddove questi ultimi rispondono a logiche compositive che rasentano la forma del flusso di coscienza, lo stesso non si può dire per le liriche iniziali. Queste, infatti, sono l’esito di un disegno poetico predeterminato che, a metà anni Sessanta, il cantautore stesso riconduce a una modalità compositiva a tesi, o a programma (vd. Hentoff 1964). Per questo motivo, l’abbondante accostamento degli elementi visivi risulta spesso studiato e calibrato sul contenuto civile dei brani. Si prenda, ad esempio, la seguente strofa di “When The Ship Comes In”, che Dylan eseguì anche alla marcia di Washington del 1963. Tratto tipico della scrittura di Dylan, le immagini sono qui accostate metonimicamente senza fonderle, come avviene anche nella trilogia successiva; al contempo, però, sono organizzate in modo da comporre uno scenario ben preciso.
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L’espressionismo retorico di questo testo dipinge una natura che si risveglia con forza e impeto grazie all’arrivo di una nave rivoluzionaria che giunge per riparare i torti del mondo. La composizione fonde elementi di diversa derivazione, cosa che risulta evidente già dal titolo. Il tema immagine della nave, tratto da Seeräuber-Jenny di Bertold Brecht e Kurt Weill, inclusa in L’opera da tre soldi, è fuso con un’espressione tratta dal gergo mercantile . Numerosi sono anche le citazioni desunte dalla Bibbia. Diretto è il rimando all’apertura delle acque da parte di Mosè e, altrettanto evidenti nei caratteri di questa natura in subbuglio sembrano i riferimenti ai vangeli di Matteo (24, 29) e Luca (21, 25- 26) e all’Apocalisse (7, 1). L’intento della lirica è quello di ricreare un’apocalisse laica e positiva, correlativo oggettivo dei venti di cambiamento che in quegli anni stavano portando i movimenti di protesta studenteschi e il Civil Rights Movement. Ulteriore tratto stilistico di interesse, i versi presentano un’oscillazione pronominale. Questo stilema informa anche le composizioni successive e, assente nelle canzoni degli anni del ritiro a Woodstock, riemerge nelle liriche successive agli studi raebeniani. Tuttavia, è importante notare che laddove in quelle canzoni esso è utilizzato per comporre un gioco prospettico di carattere pittorico, in questo brano risponde ad altre logiche. L’oscillazione, infatti, compone il movimento seguente: dalla terza persona singolare iniziale, il testo passa alla seconda plurale, per concludere con la prima plurale. Quest’evoluzione riproduce la strategia testuale che prende le mosse dalla descrizione della natura, per poi individuare nemici e interpreti di quest’apocalisse laica. In tal modo, i pronomi rimarcano la progressiva presa di coscienza da parte della popolazione della forza della nave-movimento. L’immaginario di brani come “Blowin’ in the Wind” o “Masters of War”, solo per fare due esempi, è costruito con dinamiche che sono affini a quelle appena viste, ma già dal quarto album le caratteristiche di queste catene immaginifiche cambiano sensibilmente. Con Another Side of Bob Dylan, il cantautore manifesta la volontà di staccarsi dalla scrittura civile e di smettere di scrivere quelle che in un’intervista con Nat Hentoff definisce “finger-pointing songs” (Hentoff 1964). Al giornalista, Dylan spiega anche “from now on, I want to write from inside me I have to make a new song out of what I know and out of what I’m feeling”, “for it to come out the way I walk or talk” (ibidem). L’album segna un primo passo verso uno stile nuovo che risponde alla rivoluzione del sentire che si stava diffondendo negli ambienti culturali giovanili del tempo. Conformemente a questo, nei brani della trilogia elettrica la sua scrittura è via via sempre più contrassegnata da un uso marcatamente sinestetico dell’immagine e da una modalità compositiva simile a quella di una scrittura automatica. Quello cui Dylan più mira è a una verità del sentire, non mediata, e a una poetica che gli consenta di rifuggire dalle idee preconcette. È così che lavora in questi anni, prima nasce il testo, poi la musica. Le evidenze di questa ricerca si possono trovare non solo nei brani finiti e nelle sue dichiarazioni, ma ancor più, e in maniera progressivamente crescente, nei bootleg del periodo elettrico (1964-1966). Gli audio delle registrazioni di questi dischi sono preziosi perché aprono una finestra sulle sue modalità compositive e danno conto di un artista che persegue una resa dell’istante, dando forma alla canzone in sede di registrazione. In Another Side of Bob Dylan, Dylan è chiaramente alla ricerca di forme che gli consentano di svincolarsi dalla rigidità e dalle convenzioni della musica tradizionale.
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A livello testuale, questo si evince, ad esempio, dal modo in cui sperimenta sul genere del talkin’ blues. Se la “Talkin’ World War III Blues” del secondo disco, col suo elegante e ironico incedere e le sue pause e variazioni argute, è il talkin’ perfetto, “I Shall Be Free No. 10” è quello dell’imperfezione. Il brano forza ed espande i limiti del genere, adattandoli a un flusso di coscienza che procede per divagazione e conduce al niente. Reduce da una tournée mondiale molto impegnativa con i membri degli Hawks, dopo aver pubblicato Blonde on Blonde Dylan prende accordi per una nuova serie di concerti promozionali. Tuttavia, i ritmi cui lo costringono gli impegni si fanno massacranti e il cantuautore, da poco sposatosi con Sara Lownds, sente la necessità di prendersi una pausa per dedicarsi alla propria salute e alla famiglia, cui si era di recente aggiunto il primogenito Jesse. Il 29 luglio del 1966, alla guida di una motocicletta nei pressi di Woodstock, Dylan perde il controllo del motociclo e va a sbattere. Le dinamiche dell’evento non sono mai state chiarite del tutto. Quel che è certo è che l’incidente gli procura la rottura di alcune vertebre della spina dorsale e il conseguente ricovero in ospedale, seguito da un lento recupero. Dylan decide, quindi, di cogliere l’occasione per cancellare tutti gli impegni presi con la casa discografica e aprire un altro capitolo della sua esistenza. Ciò si traduce anche in una nuova fase artistica, nota come periodo country o del ritiro a Woodstock. Non è solo, infatti, l’insostenibilità dei ritmi di vita a farlo propendere per questa scelta, ma anche la volontà di rinnovare una poetica portata a compimento in Blonde on Blonde. Ciò però non da subito. Come evidenziano le registrazioni dei bootleg del periodo immediatamente successivo all’incidente – pubblicati per intero nell’undicesimo volume dei Bootleg Series –, in primo momento Dylan prova a sfruttare i meccanismi compositivi che stava adottando in precedenza. Tuttavia, si rende presto conto del fatto di non essere più in grado di padroneggiarli come faceva in precedenza. Se è vera la massima che per costruire bisogna prima distruggere, è naturale che, dopo i dischi di rottura del periodo elettrico, per Dylan giunga il momento di ricostruire. L’impresa, però, si rivela più complessa del previsto. Per usare un termine della teoria raebeniana, il problema alla base della minor efficacia delle immagini dei primi brani di questo periodo sembra risiedere proprio nella carenza di feeling raramente le canzoni comunicano la coesione strutturale che hanno quelle precedenti e spesso tra gli ingredienti del brano vi sono elementi che appaiono non ben integrati o di scarso potere evocativo. È come se le immagini su cui i testi sono costruiti non uscissero dalla mente del loro narratore, ma fossero ricercate forzosamente dal suo creatore, cosa di cui si accorge fin da subito anche la critica . In John Wesley Harding, Dylan decide allora di perseguire altre strade. Formalmente più misurato, il disco poteva lasciare intendere che si stesse aprendo per Dylan un periodo più maturo, nel quale le sue due poetiche precedenti avrebbero trovato una sintesi. Gli album successivi, però, non avrebbero tenuto fede a queste previsioni. Inoltre, pur trattandosi di un ottimo lavoro, già John Wesley Harding presenta una certa dose di manierismo sia nelle liriche sia nelle musiche, tratto che caratterizza ancor più i dischi immediatamente successivi. Questo aspetto è talmente evidente che, già in un articolo del 1972. Non va dimenticato però che queste caratteristiche rispondo anche a scelte stilistiche dichiarate.
Questi dischi affondano le radici in un filone specifico della canzone popolare americana: il country. Si tratta di un genere bianco che richiede una maggiore definizione e la cui universalità è spesso costruita su un gioco di dicotomie senza tempo (amore-odio, presenza-assenza, giovinezza-vecchiaia, fedeltà-tradimento, etc.). Proprio queste dicotomie affiorano in maniera molto consistente nel successivo Nashville Skyline, dove i temi trattati diventano i grandi dubbi e le contrapposizioni di sempre. Ciò influenza anche le trame che in molti casi parlano di contrasti generazionali, sociali o di genere, tipici della canzone popolare cui questi brani ineriscono. Vengono meno, di conseguenza, le caratteristiche tipiche delle liriche degli album precedenti. Le musiche si fanno più tradizionali e i brani più descrittivi. Così, ad esempio, se è vero che la Peggy Night è “out of sight” (Dylan 2016b, 18), è altrettanto palese che è una figura stereotipica, come molte delle protagoniste che popolano queste composizioni. La distanza è evidente anche a livello formale: non vi sono più catacresi, oscillazioni pronominali, né tantomeno sinestesie. Forse non è un caso allora che in “Wedding Song”, manifesto che chiude l’ultimo disco del periodo country, Dylan canti alla sua musa: “I’d sacrifice the world for you and watch my senses die” (ivi, 174). Protagoniste indiscusse delle liriche precedenti, le percezioni sensoriali trovano ora meno spazio. Per quanto, dunque, nel loro genere, questi album siano relativamente riusciti, le nuove composizioni non convincono i critici e sembrano non soddisfare nemmeno il loro artefice. Alla disperata ricerca di nuovi stimoli, in questi anni Dylan inizia a studiare l’esoterismo ebraico e la pittura, trovando maggiori soddisfazioni in quest’ultima. Nei pressi della sua casa di campagna abita l’artista Bruce Dorfman, così il cantautore gli chiede di dargli delle lezioni. Dorfman racconta che Dylan si presentò un giorno a casa sua con un libro di dipinti di Vermeer e, con la sua proverbiale assenza di senso della misura, gli chiese come fare a dipingere qualcosa di simile alla Ragazza con il flauto. La volta successiva arrivò con una raccolta di Monet, poi con una di Van Gogh, infine con una di Chagall. L’opera di quest’ultimo attira particolarmente l’interesse di Dylan sempre stando al racconto di Dorfman, il cantautore non tentava di ricopiare i dipinti di Chagall bensì di dipingere soggetti nuovi nello stile del pittore ebreo russo, desumendo il più delle volte i motivi dalle proprie canzoni . In breve tempo, il cantautore comincia a dipingere con costanza e pubblica i suoi primi risultati: alcune copertine di album suoi e della Band e gli schizzi che accompagnano i testi della prima edizione americana delle liriche Writings and Drawings (Dylan 1973). Tuttavia, non è con gli insegnamenti di Dorfman ma solo con le lezioni di Raeben che Dylan riesce a riconnettersi con le muse e a trovare una sintesi tra le sue due poetiche giovanili. In questo passo, Dylan offre un riassunto del pensiero del suo insegnante: spiega due concetti chiave (actuality e reality) e ripropone a Ginsberg una variante del test che Raeben gli assegnò il giorno del loro primo incontro. Considerazioni, queste, che in un’altra occasione il cantautore approfondisce ribadendo la necessità di gestire queste due forme di percezione del reale al fine di produrre dell’arte che, come il quadro raebeniano, sia “like life exactly, but not an imitation of it. It transcends life” (Dylan 2006, 178). Anche questo secondo passo è pieno di spie della terminologia raebeniana, tra le quali spicca il concetto di fantasticheria (fantasy), opposto a quello di immaginazione (imagination) proprio come insegna Raeben, per Dylan quest’ultima è tale solo se è radicata in una percezione sensoriale, frutto di un’esperienza tangibile. Questa convinzione, però, a ben vedere, Dylan l’aveva già espressa più volte anche nei primi anni di carriera e, infatti, nel prosieguo dell’intervista, sulla base di queste ritrovate convinzioni, Dylan sembra aver finalmente compreso una delle ragioni alla base della maggior efficacia di alcune sue composizioni giovanili. Più curioso appare il riferimento alla raffigurazione dell’artista fantino raebeniano che nell’intervista di Playboy del marzo 1978 viene trasformata in un’immagine da rodeo: il cavallo, infatti, diventa un toro, a significare l’approccio più impetuoso del giovane allievo. Evidente è anche l’influsso sui modelli letterari e artistici cui Dylan dichiara di ispirarsi. Tra i pittori, ad esempio, il cantautore cita Cézanne, Matisse, Picasso e Delacroix e fa più volte riferimento al cubismo e al postimpressionismo.
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Mutata, invece, sembra essere la sua opinione su Chagall, nei cui lavori scorge ora un non perfetto bilanciamento tra feeling e imagination, come già il suo insegnante. Anche gli scrittori che Dylan cita in questo periodo sono quasi sempre destinatari privilegiati delle lecture di Raeben: tra questi, diversi simbolisti francesi (Rimbaud e Verlaine su tutti) e molti russi, tra cui Tolstoy, Dostoevskij e, soprattutto, ?echov, i cui racconti Dylan afferma essere alla base dell’ispirazione di diverse canzoni di Blood on the Tracks . Altrettanto importante è segnalare l’emergenza della teoria freudiana, che il cantautore apprende dietro spunto di Raeben e probabilmente anche dell’amico e coautore di Desire Jacques Levy. Sulla base del palinsesto freudiano, Dylan riflette in maniera più approfondita sulla cifra pluristratica delle opere. Grazie a questi insegnamenti, Dylan sviluppa una nuova sensibilità artistica e cerca subito di tradurla nel campo della canzone d’autore. A livello formale, l’esito più facilmente riscontrabile è l’emergenza di diversi stilemi e stratagemmi descrittivi già impiegati nei suoi primi dischi. Tra i molti, spiccano, in particolare, sentenze gnomiche, oscillazioni pronominali, catacresi, sinestesie e, più in generale, un approccio rappresentativo semiastratto, spesso costruito per catene di immagini. Tratti, questi, che ora Dylan gestisce con maggiore consapevolezza. Si prendano, ad esempio, le varianti di “You’re a Big Girl Now”: il verso “A change in the weather can be extreme” viene dapprima trasformato nella sentenza gnomica “is known to be extreme” nella versione su disco, per poi essere a sua volta corretta nell’ancor più forte “is always extreme” della versione live del disco Hard Rain. Un’altra soluzione molto indicativa si trova nelle carte di “Tangled up in Blue”, dove Dylan cambia il verso “you like a silent type” in “you look like the silent type”: una piccola variazione volta ad amplificare il gioco prospettico creato dall’oscillazione pronominale che moltiplica i personaggi e i punti di vista, di cui si dirà a breve. Ciò segna un evidente ritorno alla poetica giovanile, già notato dalla critica . Tuttavia, Dylan non si ferma a questo. Ora che è in grado di capire gli elementi di continuità tra le sue sperimentazioni giovanili e le ricerche delle avanguardie pittoriche francesi primo novecentesche, l’artista mira a elaborare un sistema compositivo che raccolga la lezione postimpressionista, in particolare per quanto riguarda la scomposizione dei piani prospettici e il rapporto tra motivo e sfondo, e quella raebeniana. A livello testuale, sebbene non manchino disegni, schizzi e abbellimenti all’interno delle pagine, la sua ricerca si concentra non tanto su una scrittura visiva strictu sensu quanto su delle modalità compositive di derivazione pittorica. Di ciò danno conto soprattutto i libretti di Blood on the Tracks. Tra questi, il meno interessante è quello rosso: ultimo per genesi, pur raccogliendo un ampio numero di varianti, alcune delle quali apposte anche in sede di registrazione, il notebook contiene le versioni quasi definitive delle liriche, impaginate con una struttura convenzionale che ne rende relativamente agile lo studio. Lo stesso non si può dire per gli altri due, su cui Dylan compone materialmente i brani. La calligrafia è ostica e la scrittura molto piccola e precisa; il modo di porre i versi sulla pagina è non comune e all’apparenza dispersivo. Il più delle volte, infatti, in un primo momento, Dylan non segue l’ordine strutturale che ci si aspetterebbe. Come insegna il suo mentore, l’artista vuole prima predisporre lo sfondo: per prima cosa butta giù gli elementi e gli ingredienti, spesso alla rinfusa, come stesse raccogliendo il materiale da utilizzare e allestendo la tavolozza dei colori. Una tavolozza, la sua, fatta di versi, liste di rime, schizzi, disegni, idee e descrizioni e talora anche di domande, cui, a volte, l’artista si risponde pure. Non avendo ancora chiaro in mente cosa questi andranno a comporre, Dylan esamina i materiali cercando di comprenderne la natura e la qualità e di stabilire la loro posizione e destinazione d’uso. Quindi, li assembla, li sposta, li compone e ricompone. Fatto ancor più insolito, quasi alla maniera in cui un pittore appende alle pareti del suo atelier i quadri di un unico ciclo di opere per lavorare ora all’uno ora all’altro, Dylan porta avanti la scrittura di tutti i brani dell’album contemporaneamente. Come Cézanne aggredisce l’opera da ogni angolo, così Dylan compone l’intero disco alla stregua di un’opera unica. Non è raro, perciò, che versi di una lirica vengano provati in un altro contesto per poi, magari, essere riscritti in un terzo componimento, o venire scartati. Il criterio che guida questa continua ricreazione delle liriche non è di carattere primariamente estetico. Quando i testi prendono forma definitiva, capita a volte di avere l’impressione che tra le varianti scartate vi siano versi o intere porzioni di strofe belle quanto quelle che sono riuscite a imporsi nella stesura definitiva. I problemi di Dylan sono due: in prima battuta, quello di capire se i versi sono fedeli a ciò che vuol esprimere; secondariamente, se la rielaborazione è sufficientemente bilanciata da non intaccare la genuinità e organicità del componimento nel suo complesso. Quale che sia il valore estetico, la musicalità o la carica evocativa di un verso, o anche di un’intera canzone, se non concorre a comporre un compromesso convincente è destinato a essere scartato. Nell’evolversi delle riscritture, tramite questo lento e dettagliato processo di selezione e interpretazione degli elementi testuali, la forma definitiva delle liriche inizia gradualmente a comporsi, quasi come se si chiarisse da sé, emergendo dallo sfondo della composizione. Una dinamica, questa, che ricorda da vicino la lezione raebeniana e, prima ancora, quella di Matisse, che parlando dei suoi ritratti spiega: Quest’immagine mi appare come se ogni tratto di carboncino avesse tolto da uno specchio la nebbia che fino a quel momento mi aveva impedito di vederla. (Matisse 2003, 141). L’ultimo aspetto di queste ricerche da analizzare è la riflessione sul ruolo che il soggetto deve avere all’interno del contesto dell’opera. Si è già segnalato come tale tema sia stato a lungo al centro delle riflessioni di Braque e Picasso e analizzato nel dettaglio come Raeben risolva il problema dell’integrazione del soggetto con lo sfondo attraverso una modalità figurativa semiastratta. Per quest’ultimo, infatti, la rappresentazione pedissequa di un motivo principale tende, nella grande maggioranza dei casi, a sbilanciare i rapporti interni del quadro. Ciò si verifica ancor più frequentemente quando il soggetto è costituito da figure umane, le più difficili da integrare con il resto degli elementi del dipinto. Un’opinione, questa, accolta anche da Dylan, il quale in Blood on the Tracks torna a tratteggiare i propri personaggi in maniera rapida e sfuggente senza fornire elementi visivi per inquadrarne le figure. Dei protagonisti di queste liriche si sa poco o nulla e sembrano a volte fondersi con le immagini e le sensazioni che il testo evoca. Indagato l’impatto delle lezioni sul modus scribendi di Dylan, è tempo di chiedersi in che misura l’artista sia riuscito a far tesoro di quegli insegnamenti nella sua carriera pittorica. L’analisi di questo aspetto si presenta più complessa. A livello teorico, l’influenza di Raeben sul suo pensiero estetico è accertata: le evidenze di ciò sono rintracciabili non solo nelle interviste degli anni Settanta e Ottanta passate in rassegna nel paragrafo precedente, ma anche in quelle più recenti. Tuttavia, un conto è la teoria e un altro è la pratica. Nonostante i dipinti degli anni Novanta e Duemila mostrino diversi tratti di continuità con la metodologia raebeniana, come afferma l’autore stesso nell’intervista rilasciata a John Elderfield nel 2011. Efficace risulta questo parallelo tra la sua pittura e la poetica dei primi dischi. Rispetto alle modalità descrittive ‘iconoclaste’ dei brani di metà anni Sessanta e di quelli successivi alle lezioni, i dipinti di Dylan danno conto di un approccio marcatamente realista. Il paragone con i brani a programma, per usare un termine di Dylan stesso, appare quindi azzeccato: laddove le canzoni e le esecuzioni tarde del cantautore mirano a essere genuine e improvvisate, i suoi dipinti, come i componimenti dei primi dischi, sono accuratamente preparati e studiati e hanno sempre una forte componente diegetica. Più ancora che con Raeben, la scelta di riprodurre fedelmente i soggetti lo pone in linea con la lezione del Guthrie scrittore e pittore e con quella dell’Aschan School. Come si nota ancor meglio nei cicli successivi, l’approccio del Dylan pittore lo pone nel solco della tradizione dei mobile painter. I quadri dell’artista si presentano quali occasioni: scene tratteggiate velocemente da un pittore in viaggio che coglie le scene, i paesaggi e i soggetti rendendone la qualità dell’istante. Come nei dipinti degli ashcanner, inoltre, si ha l’impressione che l’artefice si sia immerso nell’ambiente che ritrae senza però mai riuscire a farne parte a pieno. Una caratteristica, quest’ultima, che caratterizza anche l’opera del suo mentore. Anche alcuni soggetti e i tagli prospettici con cui vengono resi ricordano da vicino quelli di Raeben. Si vedano, ad esempio, Bell Tower in Stockholm 2007 e Brussels 2007 dalla raccolta The Drawn Blank Series, i cui debiti con gli studio work di Raeben sono molto evidenti. In linea con il credo dell’insegnante è anche la scelta di accludere lo studio iniziale a matita, penna o carboncino, e diverse fasi della realizzazione, espressioni della volontà di concentrare l’attenzione sul processo creativo nel suo farsi. Rispetto ai quadri di Raeben, tuttavia, realizzazione, integrazione e bilanciamento degli elementi appaiono meno riusciti. Inoltre, come risulta ancor più chiaro negli altri pezzi della collezione, Dylan sembra non riuscire a slegarsi a sufficienza dal modello di partenza. Ciò in parte anche in ragione del fatto che Dylan, al contrario di Raeben, conferisce sempre una forte componente narrativa ai suoi soggetti, approcciati con la sensibilità un pittore storyteller. Ne consegue un risultato che il suo mentore riterrebbe troppo legato al ‘giogo della rappresentazione’. Quest’ultimo aspetto è ancor più evidente nei dipinti di The Asia Series. Anche in questo caso è Dylan stesso a esporre la rosa dei modelli ‘tangibili’ dei suoi dipinti, espressi nell’intervista che accompagna il catalogo della collezione. Tuttavia, la decisione di restare fedele ai modelli è qui molto più marcata e dichiarata, per certi versi persino provocatoria, tanto da aver suscitato un dibattito molto animato tra i critici e gli appassionati. Come la stampa non ha mancato di far notare, infatti, svariati quadri sono dei rifacimenti di materiale fotografico. Non solo, ma molte delle fotografie selezionate sono opera di artisti rinomati del calibro di Henri Cartier-Bresson, Dmitri Kessel, Jacob Aue Sobol e Léon Busy, solo per citarne alcuni. Il numero totale di queste immagini, tra foto d’autore e altri lavori, alcuni dei quali privi di copyright, sarebbe pari a undici sui diciotto esemplari che compongono la mostra tenutasi presso la Gagosian Gallery nel 2011. Trattandosi di una percentuale decisamente significativa, molti hanno considerato legittimo chiedersi se si possa realmente considerare originale un’esposizione in cui oltre il cinquanta per cento dei soggetti è desunto da altri artisti, e alcuni hanno addirittura gridato al plagio. Superfluo dire che non ci sono gli estremi per parlare di violazione dei diritti d’autore. In primo luogo, perché, come ha prontamente precisato l’agenzia fotografica Magnum pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo, Dylan aveva preso accordi con i legittimi proprietari delle opere. In secondo luogo, non è certo Dylan il primo a inaugurare l’usanza pittorica di prendere spunto da immagini fotografiche; basti pensare, tra i molti illustri esempi possibili, ai lavori di Edgar Degas, Edouard Vuillard, Edvard Munch, o ancora, alle opere d’ispirazione nordafricana di Matisse. Non si tratta quindi di contraffazione ma di ekphrasis, pratica artistica che, come si è ampiamente detto, Raeben incoraggiava i propri allievi a frequentare. L’anziano docente, tuttavia, riteneva fondamentale reagire al modello e produrre un’opera che sia diversa e personale, cosa che, anche a colpo d’occhio, è difficile riscontrare in alcuni di questi dipinti. Altrettanto palese è l’influsso della metodologia raebeniana nei ritratti della collezione Face Value. L’adozione della tecnica a pastello, quella più spesso frequentata da Raeben, rende visibile anche a colpo d’occhio la somiglianza tra le modalità compositive di questi ritratti e quelle degli studi della testa che l’insegnante impartiva settimanalmente. Per ricorrere alla felice formulazione della pittrice Berniece Sokol Kramer, compagna di studi di Dylan, Raeben “taught you light and texture […] he taught you from the shadows up” (cit. in Zimmer 2011). Questa affermazione ben si presta a descrivere questo ciclo di ritratti, i cui protagonisti sembrano affiorare dallo sfondo del quadro. A partire dalla redazione del sottodipinto astratto, il soggetto viene a chiarirsi gradualmente quasi come se emergesse dall’ombra sottostante. Un procedimento, questo, che richiama alla mente l’immagine della nebbia che scompare dallo specchio chiarendo la figura che Matisse impiega per descrivere i propri ritratti. Ha ragione però Amato quando afferma che accanto ad alcuni elementi molto riusciti, nei dipinti dylaniani vi sono particolari non altrettanto ben realizzati e bilanciati tra loro. Basti notare il dettaglio dell’orecchio destro o dell’occhio sinistro del volto di Scott Wagner, tra i più riusciti della serie. Sebbene in minor misura rispetto a quelle analizzate in precedenza, anche queste due ultime collezioni evidenziano un approccio marcatamente realistico, che, se rapportato al panorama dell’arte contemporanea, può risultare a tratti quasi anacronistico. Tanto sfuggenti e poco definiti sono i personaggi e i luoghi delle canzoni di Dylan quanto ben individuabili sono quelli dei suoi dipinti. Si direbbe, quindi, che nella pittura l’artista abbia trovato un luogo idoneo a esprimere una modalità descrittiva più diretta e rappresentativa, forma espressiva che evidentemente la canzone non gli consente. In questo senso, John Elderfield coglie nel segno quando afferma che l’analisi della produzione pittorica di Dylan non può prescindere dallo studio di quella musicale, di cui essa non è che il rovescio della medaglia. Se è vero che l’artista compone canzoni come le realizzerebbe un pittore, lo è altrettanto che egli dipinge come un cantautore: i suoi quadri hanno una componente narrativa predominante che è il loro tratto più precipuo. Una peculiarità che emerge ancor più chiaramente nella struttura della più recente Mondo Scripto, dove Dylan accompagna versioni manoscritte delle proprie liriche con disegni ad esse ispirati. Egli sembra così riprendere e perfezionare il meccanismo già utilizzato nella prima raccolta Writing and Drawings del 1974. Questa caratteristica è al tempo stesso il limite e il punto di forza della pittura dylaniana: un’arte che nasce per raccontare prima ancora che per rappresentare . Non sorprende allora che in una lirica del 1997 Dylan offra una riflessione molto ironica e insieme rivelatrice del suo approccio pittorico alla rappresentazione. In “Highlands”, canzone che chiude l’album Time Out of Mind, il cantautore inscena un siparietto che richiama, rovesciandolo, l’episodio del primo incontro con Raeben. In quell’occasione, l’anziano pittore gli aveva chiesto di dipingere a memoria un oggetto che Dylan non aveva guardato con sufficiente attenzione. Allo stesso modo, in “Highlands”, una cameriera gli chiede di farle un ritratto. Di fronte all’insistenza della donna, il cantante risponde: “I would if I could, but I don’t do sketches from memory” (Dylan 2016c, 214). La cameriera non si dà per vinta e riesce infine a persuadere il suo interlocutore a ritrarne le sembianze su di un tovagliolo. La donna non si riconosce nell’immagine, che, a suo avviso, non le somiglia per nulla, e getta via il pezzo di stoffa. Come anche il Dylan pittore, l’avventore del ristorante non è in grado di scostarsi dal modello, che ritrae fedelmente. Il fatto reca qualche motivo di insofferenza alla donna, che giudica la figura piuttosto attempata e troppo sessualizzata. Così però la vede l’artista, il quale si dimostra, nel resto della canzone, combattuto tra il rimpianto di una giovinezza perduta e la persistenza del desiderio erotico. E, in effetti, i commenti sul bel viso e sulle gambe bianche della cameriera legittimano l’ascoltatore a sospettare che ciò che il narratore desidera da lei non siano le uova bollite che le ordina – peraltro chiaro simbolo di fertilità. Anche il riferimento a Erica Jong nasconde una provocazione: il suo romanzo più famoso, infatti, Fear of Flying, fu uno dei manifesti della rivoluzione sessuale degli anni Settanta. Non c’è soluzione né terreno comune di comunicazione tra i due personaggi, il cui scambio rimane sospeso. Un contrasto paradossale, questo, e senza via di uscita, come rimarca anche la rima tra “Jong” e “wrong”. Questa curiosa pièce, dal gusto un po’ amaro, vede una perfetta applicazione dell’estetica raebeniana: nella composizione, che si snoda su più livelli interpretativi, si sviluppano conflitti e paradossi, messi in dialogo dall’autore e armonizzati in un’opera che rimane aperta.
Il Percorso della Mostra:
Si articola in otto sezioni che ripercorrono il viaggio di Dylan nelle arti visive e, al contempo, ci fanno entrare in contatto con la sua creatività di musicista, poeta e artista: Early Works, The Beaten Path, Mondo Scripto, Revisionist, The Drawn Blank, New Orleans, Deep Focus, Ironworks.
Early Works presenta una serie di disegni degli anni Settanta nei quali Dylan prende nota della realtà che lo circonda, di ogni immagine che ha a portata di mano, disegnando a piena pagina figure e oggetti. Queste illustrazioni anticipano i lavori del 2018 quando, con Mondo Scripto, l’artista torna a far dialogare musica e arte visiva realizzando una serie nella quale i testi scritti a mano delle sue canzoni sono accompagnati da disegni originali che richiamano i titoli o i momenti chiave dei brani stessi.
The Beaten Path è un ritratto del paesaggio americano, un viaggio visivo attraverso gli Stati Uniti per intravedere la bellezza in quei luoghi dimenticati che fanno da sfondo alla vita quotidiana. Le opere mostrano scorci di motel e tavole calde sempre aperte, di luna park abbandonati e di auto d'epoca, di grandi palazzi illuminati dai lampioni. In molti casi la strada scandisce la scena con lunghe autostrade che sembrano dispiegarsi all’infinito verso l'orizzonte.
Mondo Scripto presenta alcuni dei testi più noti di Dylan, trascritti personalmente dall’artista e accompagnati da suoi disegni a grafite. Queste combinazioni di parole e immagini sottolineano il nesso profondo e diretto tra la sua arte visiva e le sue composizioni scritte. I disegni a matita illustrano quel dialogo fra immagine e testo, passato e presente, che - grazie al continuo flusso creativo che alimenta l’arte di Dylan - ha cambiato il rapporto tra musica e parole. Di questa serie fa parte Subterranean Homesick Blues Series, che enterà in Collezione MAXXI.
Revisionist è una serie in cui Dylan rielabora la grafica, le parole e il contenuto cromatico delle copertine di celebri giornali, da “Rolling Stone” a “Playboy”, per trasformarle in nuove immagini serigrafate di grandi dimensioni.
The Drawn Blank è una sorta di diario illustrato nel quale sono raffigurate istantanee della vita in strada: ritratti, luoghi storici, panorami e angoli nascosti. La serie nasce da una raccolta di schizzi a matita carboncino e penna realizzati tra l’89 e il 92 durante le tournèe in America, Europa e Asia. Negli anni, Dylan ha più volte modificati i disegni, aggiungendovi dettagli, colore e profondità.
New Orleans è la serie che immortala il legame tra Dylan e New Orleans, città natale del jazz, situata all'estremità meridionale della Route 61, una delle strade più famose d'America, nota anche come "The Blues Highway", la strada del blues, che attraversa da nord a sud la sezione centrale degli Stati Uniti, passando per i luoghi dell’infanzia di Dylan. In ogni angolo di New Orleans, l’occhio dell’artista individua infiniti spunti per le sue opere; i gesti e le abitudini dei suoi cittadini sono per Dylan fonte di ispirazione che si traduce, sulla tela, in scene di vita quotidiana dove viene privilegiato uno sguardo ravvicinato, capace di creare una certa intimità tra i soggetti ritratti e chi li osserva.
Deep Focus sono dipinti con particolari inquadrature e tagli dell’immagine, composizioni suggestive e spesso misteriose, sospese tra vita e teatro, che si ispirano allo spirito documentaristico della fotografia e del cinema. Il titolo fa riferimento a una tecnica cinematografica in cui la narrazione è il risultato della combinazione di primo piano, secondo piano e sfondo, tutti contemporaneamente a fuoco per poterne distinguere i dettagli a ogni profondità.
Ironworks. Il percorso di mostra si chiude con una serie di sculture in ferro, strutture funzionali composte da oggetti e attrezzi convertiti a nuovo uso che richiamano, insieme al ricordo dell’infanzia di Dylan nella zona mineraria del Nord del Minnesota, anche l’iconico passato industriale degli Stati Uniti. La mostra è accompagnata da un catalogo in doppia edizione italiano e inglese, 224 pagine, edito da Skira e curato da Shai Baitel. Nel volume la vasta produzione artistica di Bob Dylan viene raccontata attraverso le immagini e il contributo di importanti scrittori, critici e artisti, tra cui Shai Baitel, Alain Elkann, Anne-Marie Mai, Greg Tate, Richard Prince, Bob Dylan, Caterina Caselli. Sarà inoltre accompagnata da un programma di incontri che ne approfondiscono i temi e da un film screening per scoprire il rapporto di Dylan con il cinema.
Museo MAXXI di Roma
Bob Dylan . Retrospectrum
dal 16 Dicembre 2022 al 30 Aprile 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 11.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso