Giovanni Cardone Dicembre 2022
Fino al 26 Febbraio 2023 si potrà ammirare al Palazzo delle Esposizioni di Roma la mostra Pier Paolo Pasolini. TUTTO È SANTO”. Il Corpo Poetico a cura di Michele Di Monte, Giulia Ferracci, Giuseppe Garrera, Flaminia Gennari Santori, Hou Hanru, Cesare Pietroiusti, Bartolomeo Pietromarchi, Clara Tosi Pamphili. L’iniziativa fa parte del programma PPP100-Roma Racconta Pasolini promosso da Roma Capitale-Assessorato alla Cultura con il coordinamento del Dipartimento Attività Culturali. L’esposizione sarà scandita all’interno delle sale del piano nobile del Palazzo delle Esposizioni, attraverso un’accurata selezione di oltre settecento pezzi,che andranno a comporre un ritratto inedito del grande intellettuale italiano. Al centro del percorso espositivo lo spazio circolare della Rotonda che sarà trasformato in una grande sala-lettura in cui saranno presenti numerose edizioni di libri su e di Pier Paolo Pasolini liberamente fruibili dal pubblico. La rassegna intreccia discipline, media, opere originali e documenti di archivio secondo tre direttrici autonome, specifiche per ogni sede, ma concepite per potersi integrare allo scopo di sollecitare riflessioni inedite sulla produzione pasoliniana, sull’influenza culturale che ha esercitato e ancora esercita sullo sguardo di chi la osserva dal XXI secolo. L’esposizione parte dall’assunto che mai un poeta, uno scrittore, un intellettuale, un autore cinematografico, è stato così corpo e incarnazione della parola. La mostrasi propone di esplorare la figura di Pasolini nella dimensione radicale di autore, sempre vissuta attraverso una fisicità che attraversa il mondo come splendore e tragedia, in un amore estremo per la vita e per la realtà e in una opposizione irriducibile e profetica alla sottomissione dei corpi e dei volti, prima ancora che delle menti, alle convenzioni e alle normalizzazioni omologanti, volte ad annullare le caratteristiche dei singoli e le diverse, sorprendenti e incontrollate, forme dell’eros. Per sottolineare la “corporeità” degli oggetti: fotografie vintage, giornali dell’epoca, prime edizioni di libri, riviste sulle quali per la prima volta comparvero interviste, articoli, interventi, e poi costumi, dattiloscritti, ciclostilati, oltre a filmati, dischi, nastri. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Pasolini Poeta apro il mio saggio dicendo : L’intensa fase di crescita economica coincidente con l’inizio degli anni Sessanta dà avvio, inevitabilmente, a un’inarrestabile serie di trasformazioni nello scenario socioculturale del tempo, davanti alle quali gli intellettuali, e nella fattispecie i letterati, scoprono sgomenti che «non c’è più niente da dire» , e si dibattono nella loro condizione di «superstiti» rispetto a un mondo ideologico e culturale che non esiste più. Con gli anni Cinquanta alle spalle, si entra nella «Dopostoria» , fatta di rovine, culturali e letterarie: allo smarrimento intellettuale corrisponde inevitabilmente un vuoto letterario, per cui si assiste alla caduta della letteratura come luogo privilegiato di analisi e interpretazione della realtà. Pasolini non nasconde di aver smarrito «la luce della vecchia verità», e di sentirsi «come un bambino che non ha più casa, un soldato disperso» l’impressione è quella di trovarsi in una vera e propria «selva», simile in tutto e per tutto a quella dantesca: «qualunque cosa facessi, nella selva del 1963, anno in cui ero giunto, assurdamente impreparato a quell’esclusione dalla vita degli altri che è ripetizione della propria, c’era un senso di oscurità» . Allora, dal momento che Pasolini non può più far affidamento sulle consuete categorie artistiche e intellettuali per affrontare la sua nuova condizione, ma al tempo stesso non riesce a ignorare la sua vocazione all’interrogazione e rappresentazione della realtà, egli vive con grande tormento il fatto di trovarsi in un «reale momento zero della cultura e della storia» , che sarà invece il luogo privilegiato per l’azione rivoluzionaria dei contemporanei movimenti di avanguardia. Secondo Pasolini, tuttavia, gli esponenti della Neoavanguardia, supponendo «di trovarsi per libera scelta in un luogo dove si trovano invece per coazione» , non si rendono conto del concreto rischio che la loro smania distruttrice si rivolga in realtà contro loro stessi. Nel loro volgersi alla prefigurazione di un futuro mitico, «fondato sulla negazione di tutto ciò che è passato e presente» , gli avanguardisti mescolano infatti nel loro discorso (attribuito a un ipotetico «homo technologicus» «una lingua fittiziamente distrutta e una lingua fittiziamente ricostruita» , provando così di credibilità e solidità scientifica non solo le proprie operazioni linguistico-letterarie, ma tutto il relativo impianto ideologico, «anarchico e irrazionalistico» . Tale «distruzione simbolica della lingua», «arbitraria e approssimativa» , viene perciò duramente criticata da Pasolini, il quale la considera una deriva rozza e semplicistica della crisi contemporanea, mentre la sua personale riflessione lo condurrà piuttosto verso una rivitalizzazione della propria espressività all’interno del più ampio orizzonte del cinema, inteso come un linguaggio del tutto nuovo, e sufficientemente complesso per sperare di restituire il dinamismo del reale. Parallelamente alla fondamentale scoperta del cinema come «lingua della realtà», Pasolini giunge poi a conclusioni nuove e inaspettate in merito al proprio destino di scrittore, sulla base di un’acuta analisi delle condizioni dell’italiano contemporaneo che egli era stato peraltro tentato di abbandonare come strumento espressivo, in quanto prodotto di quella «maledetta Italia» che tanto lo aveva deluso già in un’intervista apparsa sul «Giorno» del 2 dicembre 1964, infatti, lo scrittore rivela ad Alfredo Barberis di aver finalmente individuato uno spiraglio nella crisi creativa che pareva averlo sopraffatto, una via d’uscita che, a quanto pare, è di natura squisitamente linguistica. Di lì a poco, uscirà su «Rinascita» il celebre saggio Nuove questioni linguistiche , che si apre proprio con un durissimo atto d’accusa verso questo italiano pseudonazionale, descritto come un simulacro vuoto e fasullo, di fatto padroneggiato solo dall’aborrita classe borghese, che ne avrebbe fatto la bandiera «dei suoi privilegi, delle sue mistificazioni, della sua lotta di classe». A suo giudizio, infatti, dal momento che in Italia non c’è mai stata una reale cultura nazionale, non si è mai neanche palesata la necessità di una lingua che l’esprimesse, al di fuori dell’élite letteraria; il mondo intellettuale d’altro canto, chiuso in se stesso, ha ignorato ostinatamente la trasformazione in lingua parlata, strumentale, di quella che fino a quel momento è stata una lingua d’uso esclusivamente letterario, determinando così una frattura fra «lingua italiana» e «lingua letteraria italiana». L’italiano medio, la koinè, esiste quindi solo sotto forma di «entità dualistica, una santissima dualità: l’italiano strumentale e l’italiano letterario», riuniti esclusivamente nella persona del borghese o piccolo borghese italiano, la cui «vocazione letteraria non è palingenetica» dal momento che egli usa la lingua parlata nella comunicazione quotidiana e l’italiano letterario nell’espressione scritta. Il discorso pasoliniano appare dunque fortemente caratterizzato dall’equazione fra lingua, cultura e classe sociale, inestricabili al punto da affermare che: La lingua parlata è dominata dalla pratica, quella letteraria dalla tradizione: sia la pratica che la tradizione sono due elementi inautentici, essi esprimono una realtà che non è la realtà nazionale: esprimono la realtà storica della borghesia italiana che nei primi decenni dell’unità, fino a ieri, non ha saputo identificarsi con l’intera società italiana. La lingua italiana è dunque la lingua della borghesia italiana che per ragioni storiche determinate non ha saputo identificarsi con la nazione, ma è rimasta classe sociale. Il centro del discorso pasoliniano è quindi una visione della lingua, di matrice gramsciana, secondo cui essa è un elemento determinante dal punto di vista sociopolitico, e svolge un ruolo decisivo nei processi di creazione dell’egemonia nella vita culturale e politica; Pasolini aveva letto infatti Gramsci sullo scorcio degli anni Quaranta, riconoscendo immediatamente in lui un maestro «le idee di Gramsci coincidevano con le mie; mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me», e interpretando i suoi scritti non come un’esaltazione acritica della realtà popolare come spesso facevano gli intellettuali del tempo, intenti alla definizione di una letteratura nazional-popolare, bensì come la complessa e profonda analisi delle interrelazioni esistenti fra classi sociali, differenti visioni del mondo e relative forme espressive. Ecco allora che Pasolini deriva da Gramsci innanzitutto la percezione di una tensione, una lacerazione fra due forze attive nella società, ovvero la cultura borghese e quella marxista, e insieme la consapevolezza che il faticoso rinnovamento della società non può che derivare da una frattura della coscienza collettiva e dei suoi istituti culturali e linguistici, poiché «una nuova cultura non può essere altro che il prodotto di una nuova società». Nel Pasolini degli anni Cinquanta, così come in Gramsci, l’idea fondante era dunque quella di una perpetua lotta fra due diverse visioni del mondo, ossia quella borghese e quella proletaria sostenuta dall’ideologia marxista. Lo scontro in atto nella società era uno scontro tra due organizzazioni della vita: quella capitalistica e quella socialista. L’egemonia per Gramsci significava capacità della classe operaia di prendere nelle sue mani la direzione dello sviluppo sociale. Partendo, dunque, dai meccanismi produttivi, la classe operaia maturava la propria coscienza, propri valori e autentiche forme di vita in antitesi a quelle dominanti.
Nel 1955, tuttavia, in conclusione alla sua introduzione all’antologia della poesia popolare, Pasolini aveva già osservato, sempre a partire da dati linguistici ovvero l’allora imminente formazione di una nuova lingua parlata, una koinè una certa tendenza a «un mutato “rapporto” sociale tra le due classi» , del quale egli segnalava i rischi e insieme le potenzialità, avanzando quindi proposte e speranze. Se da un lato, infatti, lo scrittore temeva che l’ottusa classe borghese ora dotata di «armi di diffusione dell’ideologia immensamente potenziate» si sarebbe limitata (come poi è infatti avvenuto) a un tentativo di brutale assimilazione delle classi subalterne, dall’altro invece auspicava che la nuova lingua parlata potesse beneficiare dell’apporto dei dialetti, delle loro vivacità e ricchezza lessicale, grazie a un rapporto biunivoco «intensissimo» tra le due culture; nel 1955, egli sperava quindi ancora in un risveglio del popolo moderno che, ormai consapevole di sé in quanto classe, sarebbe forse finalmente riuscito a essere autonomo, a «dissimilarsi», superando «l’irrazionale soggezione in cui per tanti secoli era vissuto» .Tuttavia, questa speranza di un rapporto fra popolo e borghesia che fosse insieme di «assimilazione e dissimilazione, di simpatia e di lotta» , si sgretola all’inizio del boom economico degli anni Sessanta, quando Pasolini osserva che la lingua media non è affatto divenuta la lingua della nazione (e le cause sono da ricercarsi, riprendendo Gramsci, all’assenza di un reale spirito democratico già nel Risorgimento italiano, che non aveva visto una reale e totale partecipazione delle masse), ma è rimasta appunto il codice di una sola classe sociale, quella borghese, che dall’alto ha imposto al paese la sua lingua di classe, plasmata per assolvere «i propri interessi economico-politici e i propri pretesti culturali» . Il grande principio unificatore dall’alto, autoritario e paternalistico, di tale lingua media è stata la burocrazia, l’apparato statale. E i mezzi di diffusione, oltre alla scuola umanistica e piccolo borghese, sono stati le infrastrutture di base, l’esercito, la ferrovia, i giornali ecc. Il latino era sempre stato il grande modello della lingua: ora, tale modello era “borghesizzato” attraverso lo “spirito burocratico statale”. D’altra parte, la borghesia in quanto classe dirigente non è mai stata davvero egemone in senso gramsciano, «cioè non ha saputo identificarsi con gli interessi nazionali nella loro globalità», ma ha avuto nei confronti del paese un atteggiamento quasi coloniale, trattando il popolo come un corpo estraneo alla nazione (quando in realtà esso ne costituisce l’anima), e mostrandosi così incapace di svolgere una reale azione unificatrice, non solo politica ma anche culturale e linguistica. La vecchia borghesia clerico-fascista, quindi, non ha mai coinvolto le masse popolari in un reale processo di sviluppo, per cui non si è mai generata una vera osmosi linguistica: il popolo stesso, d’altro canto, si è sempre mostrato ostile al dominio che la borghesia esercitava mediante il potere burocratico-statale, rifiutando di lasciarsi assimilare ai suoi modelli culturali e linguistici, che pertanto sono stati recepiti solo dai ceti medi, o piccolo borghesi, intrappolati in una condizione di perenne e passiva imitazione. Agli albori degli anni Sessanta, tuttavia, questo scenario socioculturale appare in rapida trasformazione, perché la nuova borghesia industriale lascia infine intravedere le potenzialità per diventare realmente una classe egemone, mediante l’imposizione di nuovi bisogni e consumi, che sembrano in grado di assimilare a sé ogni altro modello sociale e culturale: viene così a mancare ogni elemento alternativo o antitetico rispetto al pensiero e allo stile di vita borghese. l Pasolini degli anni Sessanta, quindi, pur impiegando prospettive e metodi di matrice gramsciana, che lo inducono a osservare la lingua non solo come sede in cui si manifestano i primi fermenti di un cambiamento socioculturale in atto, ma anche come strumento per valutare «lo spessore egemonico di una classe dominante» , si trova a fare i conti con un contesto storico e sociale radicalmente trasformato rispetto a quello analizzato da Gramsci: egli deve infatti prendere coscienza dell’esistenza di una borghesia finalmente egemonica, in grado di escludere ogni apporto “dal basso” ai mutamenti linguistici in corso, che sembrano rivolti alla creazione di un nuovo italiano finalmente unitario, sotto il segno della tecnologia e della comunicazione. Questo è stato sicuramente uno dei nuclei più articolati e controversi della riflessione pasoliniana, che riemerge infatti come questione critica nelle osservazioni e nelle analisi di molti degli intellettuali che, su giornali e riviste, replicano a più riprese all’articolo di Pasolini. Per citarne solo alcuni, Mario Spinella ad esempio ribadisce che «la dinamica del paese non è comprensibile al di fuori della presenza e dell’azione del movimento operaio» per cui la riduzione dei «processi, anche strettamente linguistici, all’egemonia borghese e capitalistica è una linea di analisi sociologica del tutto insufficiente», mentre Angelo Guglielmi contesta radicalmente l’affermazione di Pasolini secondo cui il potere, la cultura e la lingua sono una cosa sola, ed Elio Vittorini , nel suo intervento, sottolinea come l’analisi dell’italiano solo in quanto lingua borghese e burocratica trascuri la fondamentale importanza del linguaggio della lotta di classe, «affermatosi già dalla seconda metà dell’Ottocento con l’anarchismo e con le prime organizzazioni socialiste e in seguito diventato specifico di tanti momenti non dialettali della vita del proletariato» .
Spesso si è quindi imputato allo scrittore di fondare la propria posizione su una schematizzazione troppo semplicistica dei rapporti intercorrenti tra struttura economica e sovrastruttura politica, culturale e artistica ecc.: in realtà, Pasolini ha ben presente il carattere dinamico del rapporto fra struttura e sovrastruttura, con i loro reciproci influssi, per cui prende in esame il sistema economico solo come nucleo da cui si origina un mutamento sociale così travolgente da pervadere in profondità la cultura e, come in cortocircuito, la lingua dell’intera nazione, che porta poi in superficie i segnali più immediatamente visibili dei paralleli sconvolgimenti sotterranei. Da più parti, poi, si replica a Pasolini con la riaffermazione della centralità del proletariato nella vita socioculturale della nazione, dato che il processo dialettico sul quale deve necessariamente basarsi una riorganizzazione dell’egemonia culturale non sembra poter fare a meno del polo costituito dalla contestazione operaia; tuttavia, con la società neocapitalistica sono cambiati i presupposti per un tale confronto dialettico, che in Italia, d’altro canto, non si è mai realizzato pienamente, a causa dell’incapacità della borghesia di ampliare all’intera società il suo orizzonte di interesse e intervento. Pasolini stesso si sofferma infatti a spiegare le ragioni per cui, fin dagli inizi degli anni Sessanta, egli si è trovato a dover ristrutturare le fondamenta gramsciane del suo pensiero, proprio a causa del dileguo ideologico di una delle parti in lotta, ormai avviata alla più assoluta e passiva accettazione dei modelli imposti della nuova borghesia neocapitalistica. Io non ho mai detto addio all’influenza di Gramsci. Cioè, oggettivamente, c’è stato un momento in cui l’influenza di Gramsci è risultata essere anacronistica. È stato il momento in cui l’Italia, da paese paleo-industriale e agricolo, è diventato un paese neocapitalistico e il vecchio mondo agricolo si è svuotato sia attraverso l’emigrazione sia attraverso l’industrializzazione agraria. Questa cosa è avvenuta in Italia in questi ultimi dieci anni. Ora, ai tempi di Gramsci, invece, il popolo italiano era un popolo paleo-industriale per cui i contadini erano contadini e gli operai appartenevano, veramente completamente, alla classe operaia. Allora, quando Gramsci diceva che bisognava fare delle opere nazionali e popolari intendeva che i destinatari di queste opere fossero quel popolo di cui parlavo prima, cioè gli operai come classe e i contadini come contadini antichi, diciamo, classici. In questi dieci anni ci sono state delle trasformazioni: gli operai del Nord si sono imborghesiti, hanno acquistato certi atteggiamenti, certi caratteri della piccola borghesia, i contadini del Sud sono entrati in una profonda crisi, sono emigrati e stanno trasformando industrialmente la loro terra e, quindi, non sono più quelli dei tempi di Gramsci, e allora mi sono reso conto che seguire, in questo, Gramsci, era un anacronismo. Resta tuttavia inalienabile, in tutta la riflessione sociolinguistica dello scrittore, l’impronta del pensiero di Gramsci, forse non espressa nei termini consueti, eppure insita in ogni suo ragionamento, come profonda coscienza della centralità della lingua non solo come luogo di conservazione della memoria storica e culturale della società, ma anche come strumento privilegiato nella formazione e configurazione dei rapporti socioculturali fra le classi sociali contrapposte. Pasolini oltre a riflettere sulla natura ideologica, la sua presa di posizione ha dato vita a un intenso dibattito di tipo più strettamente linguistico, fino ad essere considerata la scintilla in grado di riaccendere l’antica «questione della lingua», sempre viva in Italia in realtà, come sottolinea Claudio Marazzini, «Pasolini si discostava dalla tradizione delle antiche diatribe attorno alla questione della lingua, perché le sue tesi non avevano affatto un carattere “normativo”», ma costituiscono piuttosto una lucida analisi sociolinguistica della situazione presente, da cui trapela chiaramente l’intenzione provocatoria di formulare certi giudizi teorici e linguistici riguardo alle tendenze letterarie contemporanee. Dopo la dura critica della realtà linguistica italiana, infatti, Pasolini passa ad analizzare la tipologia stilistica degli scrittori italiani, classificandoli in base al loro rapporto con l’italiano medio, impiegato «come termine di confronto negativo, come equivalente di mediocrità espressiva, di ‘antistile’» questa lingua «impossibile» e «infrequentabile» è dunque inservibile per operazioni letterarie di autentico valore, che necessariamente ne vengono respinte, centrifugate, per far posto solo a opere di compilazione, banalmente accademiche, oppure di evasione o di propaganda fascistaclericale. I prodotti letterari davvero pregevoli, espressione di un’ispirazione autentica, così come le correnti più importanti, si collocheranno allora al di sopra o al di sotto di una linea immaginaria coincidente con l’italiano medio: nella parte bassa si troveranno gli scrittori che si rivolgono al dialetto come strumento letterario, quindi innanzitutto i già citati poeti dialettali di valore (come Di Giacomo, Giotti ecc…) e via via quelli meno apprezzabili, per poi scendere a un livello dove si incontrano gli eponimi di Verga, naturalisti o veristi di secondo o terz’ordine; nella parte più alta, invece, Pasolini colloca la «torre d’avorio degli ermetici», lontanissimi dall’italiano medio in virtù della loro ricerca della poesia pura, che li spinge al rifiuto della realtà e all’impiego di schemi linguistici classicistici e desueti; a seguire, scendendo verso la linea della koiné, si incontrano quasi tutti gli scrittori del Novecento come Vittorini, Moravia, Cassola, la Morante, Calvin, che per una ragione o per un’altra si sono discostati dalla trita medietà linguistica. Tutti questi autori, in effetti, di estrazione sociale borghese, hanno con i propri personaggi e il relativo ambiente un rapporto paritario, per cui riescono a immedesimarsi in loro e a rivivere i loro pensieri, creando così le condizioni d’uso per il discorso indiretto libero o meglio, per il monologo interiore, possibile, secondo Pasolini, solo quando l’autore può attribuire a un personaggio la sua stessa lingua, al punto che «l’anima dell’autore e l’anima del personaggio si fondono» attraverso questa pratica stilistica avviene allora uno «scambio di lingue», che riscatta il codice borghese dalla sua impraticabilità. A questo sistema sfuggono due autori, quali Gadda e lo stesso Pasolini che così conclude la carrellata dei novecenteschi con una puntualizzazione in merito alle proprie scelte stilistiche, entrambi protagonisti di una deviazione particolarissima dalla lingua media, sotto forma di una «linea a serpentina» che, partendo dall’alto, scende verso gli strati inferiori della lingua, intersecando la linea media, per poi tornare verso il settore alto, o addirittura altissimo: da un lato Gadda, uno dei grandi maestri di Pasolini, per il suo discorso indiretto libero attinge alle varietà basse, dialettizzate, o ai dialetti veri e propri, per poi rielaborare questi «materiali sublinguistici» in funzione espressiva o espressionistica, dall’altra lo sperimentalismo pasoliniano degli anni Cinquanta, anch’esso fondato su un recupero dialettale intersecato con la varietà letteraria, ma stavolta con funzione «di ricerca sociologica e di denuncia sociale» Attraverso questo accostamento alla poliedrica figura di Gadda, Pasolini intende evidentemente definire il valore della propria produzione letteraria, sottraendola a ogni accostamento con l’italiano medio, e giustificando la passata stagione poetica del realismo e dell’impegno sociale, per poi dichiararla superata; il riferimento alla propria esperienza personale, che spesso è stata indicata come motivazione soggiacente all’intero articolo, è in realtà lampante solo in questo punto, a conclusione dell’ampia panoramica linguistico letteraria introduttiva, in relazione a un periodo ben preciso (gli anni Cinquanta) e a motivazioni ideologiche ormai decadute, dato che lo scrittore afferma di trovarsi adesso «in un reale momento zero della cultura e della storia.» Di qui in avanti, il discorso pasoliniano si allontanerà sempre più dall’autoreferenzialità per incentrarsi su un’analisi teorica del contesto sociolinguistico italiano condotta con acume e puntualità: al di là di alcuni sbilanciamenti, chiaramente provocatori, e delle innegabili imprecisioni tecniche, è chiarissimo il nucleo della sua denuncia, ovvero l’ammissione del fallimento del tentativo, tutto letterario, di dar vita a una lingua realmente nazionale, il che coincide con una crisi molto grave, sia linguistica che stilistica, in quanto «i luoghi da dove la letteratura si difende non hanno più nessuna corrispondenza con una realtà che si sta modificando.»Le repliche alle pungenti provocazioni pasoliniane non si fanno attendere, e un coro di voci stizzite si leva per contestare sia la perentoria stroncatura dell’italiano medio che la relativa produzione letteraria; il primo a replicare a Pasolini è Alberto Arbasino , secondo il quale una lingua abbastanza duttile e abbastanza moderna per ogni esigenza esisterebbe già da tempo nel Nord Italia, mentre secondo Piero Dallamano sarebbero gli scrittori, i romanzieri o i poeti gli «orfanelli della lingua» che necessitano di un nuovo linguaggio, dato che preferiscono «inventare ex-novo un sistema di sgorbi» anziché impiegare «il patrimonio lessicale e grammaticale contaminato dalla borghesia», e Dante Isella osserva come la lingua italiana di tono medio «che esiste oggi più di ieri ed esisterà domani più che oggi», lungi dall’essere uno strumento così deprecabile, rappresenti invece un superamento del regionalismo storico del nostro paese. Anche per Mario Pomilio la lingua italiana rappresenta una realtà effettiva, protagonista di un processo di avvicinamento al parlato che la conduce a diventare sempre più espressiva e al contempo capace di comunicazione: «già veicolo comune delle idee, l’italiano sta diventando sempre più lingua da conversazione, rappresenta sempre meno, per la generalità dei parlanti, un inceppo espressivo» a suo parere, quindi, dal fortunato connubio tra scritto e parlato l’italiano avrebbe quindi ricavato una semplificazione delle strutture sintattiche e un’attenuazione di certi tradizionali stilemi letterari, riuscendo così a liberarsi dall’abituale apparenza da «lingua scritta». Maria Corti che già nel saggio Uno scrittore in cerca della lingua aveva osservato la progressiva maturazione di «una lingua unitaria, di tono medio, innovativa nelle strutture sintattiche e nel patrimonio lessicale» riprende alcune istanze pasoliniane, traducendole in termini più pacati e precisi; partendo dall’osservazione che, effettivamente, una stagione di crisi e trasformazione è al momento in corso, la Corti osserva come l’italiano, in quanto lingua media di estrazione borghese, appartenente a un’élite culturale, sia già una realtà unitaria come lingua dello Stato, burocratico-scolastica e letteraria, ma solo adesso stia «ruotando molto lentamente» , con tutte le sue stratificazioni e i linguaggi settoriali, intorno a una reale unificazione. In effetti, in senso verticale si assiste a un notevole aumento degli utenti della lingua nelle classi sociali inferiori (quindi a un «democraticizzarsi del prodotto» ), mentre in senso orizzontale i vecchi confini dialettali si vanno ormai trasformando nelle linee di differenziazione dei vari italiani regionali. È quindi indubbiamente in atto un processo di trasformazione, che affonda le sue radici in un più ampio mutamento sociale e culturale: resta da valutare l’effettiva portata del fenomeno, sia nei termini della nuova strutturazione sociopolitica nazionale, che sarà determinante come garanzia di fermento culturale, sia per gli esiti della una diffusione a livello globale di una mentalità tecnico-scientifica, che possa informare di sé la nuova civiltà industriale.
Particolarmente interessante è infine l’intervento di Calvino, che mostra di aver apprezzato in generale l’intervento pasoliniano «nel suo scritto ho trovato molto di stimolante e di vero, nella impostazione generale, in alcune delle rapide analisi stilistiche e in parecchie osservazioni marginali», ma puntualizza alcuni aspetti controversi, primo fra tutti appunto l’esistenza della lingua nazionale, che Calvino riconosce «come fenomeno linguistico unico nel suo genere», pur mostrando nei confronti dell’italiano medio la stessa «insofferenza» «l’italiano medio, come ben dice Pasolini, è una lingua impossibile, infrequentabile». All’interno di questa lingua agisce infatti un richiamo subdolo e mortifero verso quell’entità che Calvino definisce «antilingua», la cui ragion d’essere sembra risiedere nella «mancanza di un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi» . Si tratta infatti di un codice inaccessibile, pretenzioso, barocco, generato dagli effetti di «cent’anni di burocratizzazione» sulle potenzialità semantiche dell’italiano; l’antilingua è intrisa di formule cristallizzate e arcaiche, di vacue perifrasi, di pseudotecnicismi generati dall’erronea convinzione che chiamare le cose con il loro nome sia un’operazione in qualche modo svilente. Secondo Calvino, dal momento che «la lingua vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione», laddove l’antilingua trionfa, la lingua viene uccisa, poiché ormai incapace di afferrare e trattenere la realtà. Una simile descrizione non può non ricordare i tratti dell’italiano medio così duramente avversato da Pasolini, che lo descrive come un vaniloquio dominato dall’irrealtà, un mero strumento asservito al potere, repellente al punto da centrifugare da sé qualsiasi valore culturale e letterario: anche qui, evidentemente, si può osservare il trionfo di quel «terrore semantico» descritto da Calvino, per cui i significati sono costantemente allontanati, «relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente, o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente» . Tuttavia, quest’italiano medio fasullo e artificiale, che nella storia italiana era stato appannaggio della tradizione borghese, dalla più trita letteratura e del fascismo, agli albori degli anni Sessanta sembra sul punto di scomparire, soppiantato da una nuova realtà linguistica che Pasolini riconosce come «finalmente nazionale». Dal momento che questo neoitaliano, nato sotto la stella dell’industrializzazione e della scienza, si presenta come una forza così dirompente che non sarà più possibile esserne poeticamente centrifugati, allora l’unica via percorribile per «un letterato non ideologicamente borghese» sarà quella di tornare a Gramsci, e con lui ricordare che se la nuova realtà italiana produce una nuova lingua, l’italiano nazionale, l’unico modo per impossessarsene e farlo proprio, è conoscere con assoluta chiarezza e coraggio qual è e cosa è quella realtà nazionale che lo produce. L’originalità della sua produzione e del suo pensiero plasma e vivifica, sollecitandolo, qualsiasi campo ne è toccato, dalla poesia al romanzo, ma soprattutto dal teatro al cinema. Le categorie rappresentative, figurative, linguistiche e culturali sono la sua firma. Pasolini è un autore complesso, “estremamente complesso”. Sperimenta e quasi inventa diversi generi, conia nuovi linguaggi, scrive sceneggiature in forma di poema e documentari in versi. L’“opera” di Pasolini non può essere quindi scissa, ma è l’insieme delle sue opere, “dai cui interstizi figurali traspare il volto stesso dell’autore”. Le pratiche di rappresentazione culturale nelle poesie possono in parte desumersi dal Canzoniere italiano del 1960, “monumentale” Franco Fortini e “poderosa” ‘Italo Calvino’ antologia nella quale Pasolini intese raccogliere le espressioni più interessanti e peculiari della poesia popolare italiana e a cui lavorò con “severa passione filologica oltre che estetica”. Questo testo rappresenta una tappa fondamentale per riscoprire la poesia popolare e al contempo offre un ritratto denso e poetico degli italiani e delle loro tradizioni regionali. Alberto Maria Cirese in chiusura del suo saggio ne riconosce il dovuto riconoscimento, dopo un quarantennio dalla sua pubblicazione. In particolar modo è interessante la corposa Introduzione curata dallo stesso Pasolini, per il suo valore storico e scientifico ricca di fonti e studi autorevoli, tenta- con un risultato tutt’altro che deludente- di delineare gli aspetti linguistici dei diversi popoli italiani, a partire addirittura dal Settecento.
Pasolini, ricorda Cirese, parla di “bilinguismo sociologico”, in riferimento alla sua opera, come “accezione particolare del bilinguismo immanente e complesso”, nozione resa centrale- dice Pasolini- dagli studi linguistici fatti da personalità quali Contini e Devoto “col corollario immediato che ogni lingua letteraria è una lingua speciale: velleitaria e affettiva”. Il “bilinguismo sociologico” di cui parla Pasolini è imprescindibile per capire la sua poesia popolare dal momento che vuole richiamarsi alle differenze linguistiche che intercorrono inevitabilmente tra le due classi in cui è divisa la società, quella borghese-dominante e quella popolaredominata. “Bilinguismo” ma anche “bi- stilismo sociologico”: la poesia popolare nasce dal rapporto tra le due classi il cui prodotto è “originale perché non è contaminazione”. L’Introduzione al Canzoniere oltre a delineare la fisionomia della raccolta, ci racconta delle sue scelte e del pensiero e dell’ideologia che a queste soggiacciono. Interessante è la sua definizione di “poesia folclorica”, su cui si sofferma anche la puntuale analisi di Cirese, che sarebbe quella prodotta da una mentalità “arcaica e primordiale” (Pasolini fa riferimento alla “miseria psicologica” di De Martino), contempla “canti che, spogli di ogni traccia di provenienza colta (scongiuri, filastrocche, alcune ninne- nanne ecc.) tendono ad immettere in un mondo così duramente e irrimediabilmente miserabile, che ogni nostra, storica, legge estetica finisce col decadervi, con lo smarrirsi”. Parla di “bruttezza estetica” di “nonesteticità” dei canti folclorici; usa parole di rifiuto quali “ripugnanza”, “senso di angoscia”. Il giudizio di Pasolini sembra ineluttabile, totale se non fosse per le “monadi estetiche infinitesimali” che sono i casi di produzione poetica popolare peculiare, “bassa”, dove ciò che colpisce è l’“invenzione linguistica popolare autonoma, interna e quindi in un certo modo innovativa”: gli esempi che fa sono “gridi, nomi di animali, brevi sintagmi, balenanti metafore, gerghi, novellistica popolare” da cui trasuda allegria, genuinità e semplicità contro la “miseria psicologica” demartiniana che Pasolini dice essere tipica dei canti folclorici “non di origine alta”. La differenza sta nel trovarsi al cospetto della lingua parlata, alveo dell’“inventività popolare” che appunto si concretizza negli esempi poco sopra citati ma anche in “toponimi, narrazioni di fatti, esposizioni di storie o favole”.
Per Pasolini “l’invenzione del popolo è anche innovazione perché il volgare si è evoluto di innovazione in innovazione, per forza autonoma, per ricchezza interiore”. L’importanza dei dialetti è puntualmente ribadita da Pasolini che ritiene necessario preservarne l’esistenza nel mare dell’omologazione. Ogni dialetto porta con sé un vissuto, una tradizione, una storia caratteristica. Ma le trasformazioni socio-culturali in atto con la modernizzazione tendono a reprimere le lingue vernacoli e ciò comporta inevitabilmente, nonostante le denunce di molti intellettuali antropologi. La realtà sta dietro alle convenzioni linguistiche e alla norma letteraria. È la realtà che va disvelata. La poetica alla quale Pasolini è più assimilabile può essere l’espressionismo (Walter Siti) che rigetta l’idea di assolutezza delle parole e rifiuta le convenzioni espressive per cui anche la letteratura classica non può rappresentare la realtà. Per l’espressionista l’arte è figlia della privazione e Pasolini “sceglie la terza via dell’iperbolela parola che si torce per diventare più di se stessa e che si tortura nella propria impotenza- in una frustrazione che si declina come esibizionismo, scandalo, rivolta”. Ciò spiega l’invenzione di espressioni linguistiche nuove, atte ad indicare un qualcosa che nasce per la prima volta: “riconsacrare” è il suo obiettivo. Mai dissacratorio dunque, né aggressivo verso le convenzioni. Lo stile pasoliniano non sarà mai volgare ma sempre raffinato (pensiamo al ricorso alla “poesia romanza”) e al contempo decadente al fine di alludere alla purezza delle origini. Le prime poesie di Pasolini nascono in dialetto, non a caso e precisamente nel dialetto di Casarsa della Delizia, un piccolo paese friulano della riva destra del Tagliamento, di cui è originaria sua madre. Una mattina mentre dipinge ragazzetto in balcone, giunge al suo orecchio la parola “rosada” (rugiada) e se ne innamora. Da quel colpo di fulmine una riflessione: “Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono” da cui scaturisce una subitanea intenzione: scrivere dei versi in quel dialetto della riva destra del Tagliamento che fino ad allora si era limitata ad essere un calderone di suoni, “comincia col rendere grafica la parola rosada”. A Casarsa si trova immerso in un mondo contadino e questa diversità sociale fomentava il tormento di Pasolini per quel mondo esposto alle asperità della vita e sconvolto anche dalla tragedia iconoclasta della guerra. Pasolini vuole riscattare quel popolo, farlo uscire dall’oblio in cui lentamente è scivolato, e decide di farlo attraverso la poesia, strumento che più degli altri serviva a rendere la purezza rustica, bucolica e cristiana di quel linguaggio. Inizia a sperimentare, a ricercare parole arcane legate alla tradizione dei padri. Il linguista e critico Gianfranco Contini, studioso in particolare della lingua romanza e contemporanea, ritiene la letteratura italiana come l’unica grandiosa letteratura nazionale per la quale il dialetto è considerato parte integrante. La poesia dialettale è riconosciuta, dunque, come uno dei fenomeni più importanti e imprescindibili della letteratura italiana del Novecento. Fu proprio Gianfranco Contini, con ammirevole e timoroso stupore di Pasolini, nel 1943 a recensire Poesie a Casarsa. “L’odore era quello irrefutabile della poesia, in una specie inconsueta” ma suscita “scandalo”. L’aggettivo “scandaloso”, sarà un compagno fedele di Pasolini, un marchio indelebile e per la prima volta viene usato dal Contini in riferimento sia alla trasgressione di Pasolini che decide di usare il dialetto in un paese in cui il fascismo aveva vietato l’uso di “lingue barbare” ma soprattutto lo “scandalo” era quello che appariva più discreto e celato, in maniera delicata: quello dell’omosessualità che attraversa l’intera raccolta. Contini, inoltre, matura una riflessione assolutamente condivisibile quando, in uno dei suoi interventi, afferma che la poesia dialettale pasoliniana esula completamente dal verismo regionale ottocentesco perché la sua cultura è “nettamente simbolista”. Pasolini vuole sperimentare, indulge spesso nel richiamarsi al “plurilinguismo”, in salsa romana, di Emilio Gadda. Il simbolismo pasoliniano risiede nel ricercare una lingua pura, incontaminata dal consumo, colta nel suo stato larvale all’interno di quella congerie di lingue partorite dal latino volgare. Nel caso dell’esperienza friulana degli anni Quaranta, la sua poetica guarda alla peculiarità del mondo contadino e alla dinamicità creativa delle sue parole. Pasolini vuole si rivolge precipuamente a questo mondo del quale vuole esaltarne la qualità di rappresentazione della realtà nelle sue varie sfumature, istintuale, tradizionale, storica e mitologica. Le poesie friulane, osserva Enzo Siciliano nella sua biografia su Pasolini, sono il frutto dell’“immediata gioia espressiva” del giovane poeta. Un breve richiamo allo “scandalo” dell’omosessualità di Pasolini è d’obbligo perché l’omoerotia, che con il tempo anche per gli avvenimenti che occorrono diviene sempre meno celata, è un elemento imprescindibile e fondamentale della sua poetica. La sua produzione artistica diviene quasi un mezzo per sondare e riflettere sulla diversità in un mondo anestetizzato dall’omologazione e da stereotipi radicali che generano solo rifiuto, intolleranza e marginalità, ghetti ed esclusione, atteggiamenti liberticidi dietro i falsa simulacra di totale libertà e tolleranza costruiti dalla nuova ideologia neocapitalista. La ricerca e lo sperimentalismo linguistico di Pasolini favoriscono esperienze sistematiche da cui nascerà l’esigenza del poeta di curare una seconda edizione, arricchita, del florilegio di poesie dialettali Poesie a Casarsa: nel 1953 viene pubblicata con il titolo evocativo La meglio gioventù (dal triste canto degli alpini della prima guerra mondiale, la megio zoventù la va soto tera) e sarà dedicato a Gianfranco Contini un’altra edizione, ulteriormente arricchita, uscirà nel 1974 con il titolo La nuova gioventù. Sia Contini che successivamente Franco Fortini, come tutta la critica unanime, tendono a sottolineare la bellezza delle singole poesie: una bellezza non solo contenutistica ma esaltata dalla musicalità della lingua friulana di Casarsa, dall’armonia che la priva della durezza e del carattere spigoloso e aspro tipico di alcuni dialetti. Il vigore contenutistico viene così esaltato, la drammaticità di alcune poesie si distende comodamente all’interno dei singoli versi e la sensibilità di Pasolini si esprime tra intimo dolore e (utopica) speranza nel futuro. Un fulgido esempio può essere dato da alcuni versi di un componimento che tanto colpì Fortini, “El testament Coràn” che narra la parabola esistenziale di un sedicenne orfano ruvido e eroico nella sua vitalità adolescenziale, impavido e spavaldo nelle membra ancora acerbe, in una zona liminare di passaggio tra il fanciullesco e l’adulto, dove tutto ha il profumo della scoperta, dove le passioni sono viscerali e totalizzanti come quella che lo prende per Neta, una impube bambinella tredicenne con la quale scappa “pieno di ardore”. La vitalità di questo passo è smorzato dal suo contrappasso: il ritorno a casa dove ad accoglierlo c’è un paese deserto, bruciante, buio e in cui l’olezzo di morte prende la forma di un morto in piazza immerso in una pozza di sangue. I famelici carnefici tedeschi, non sazi, prendono il ragazzo e lo caricano su un camion per impiccarlo dopo tre giorni. Il lirismo pasoliniano esalta in chiusura l’eroismo di questo ragazzo: lassi in reditàt la me imàdin / ta la cosientha dai siòrs. / I vuòj vuòiti, i àbith ch’a nasin / dei me tamari sudòurs, / Coi todescs no ài vut timour / de tradì la me dovenetha. / Viva il coragiu, el dolòur / e la nothentha dei puarèth!” (“Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei ricchi. Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano dei miei rozzi sudori. Coi tedeschi non ho avuto paura di tradire la mia giovinezza. Evviva il coraggio, il dolore e l’innocenza dei poveri!”). Nell’opera pasoliniana, “la poetica romantico-popolareggiante e la poetica veristica si sono realizzate quasi unicamente nei dialetti” (Franco Fortini). Pasolini si trova da sfollato a Casarsa, da estraneo è curioso e affascinato da quel mondo contadino, parafrasando Enzo Siciliano ne Vita di Pasolini, per il poeta comporre poesie in friulano significa avvicinarsi a quel mondo agreste ma al contempo sancirne la lontananza e la diversità perché “solo uno straniero avrebbe potuto trascegliere suono da suono, vocabolo da vocabolo nelle proprie vergini orecchie”.
Pasolini reputa la lingua vernacolare come la più umile per esprimersi ed è convinto che tramite il mezzo aureo della scrittura, il dialetto fino a quel momento solo parlato potesse, come successe all’italiano ufficiale che “tanti secoli fa era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti”, innalzarsi a lingua cosicché “la lingua sarebbe un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore”. E solo quando il dialetto assurgerà a lingua e sarà adoperata dai poeti conformemente ai propri pensieri, nasceranno diversi “stili” e ciascuno stile sarà “qualcosa di interiore, nascosto, privato e soprattutto, individuale. Uno stile non è né italiano né tedesco né friulano, è di quel poeta e basta” . Disprezza e dileggia il linguaggio affettato e vacuo mentre ama passionalmente quello dialettale, diretto umile e vitale, a volte aspro ma incontaminato perché è il linguaggio delle persone che più adora, quelle “assolutamente semplici” non colonizzate da quella cultura piccolo-borghese che porta sempre della corruzione, delle impurezze, mentre un analfabeta, uno che ha fatto solo i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi la si ritrova ad un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice . Il dialetto, nell’idea di Pasolini, è l’aureo simulacro dell’imponderabilità della vita e non semplice lingua residuale, dei diseredati ed emarginati. Queste persone sono quelle che conosce in Friuli ma poi nelle borgate romane e poi ancora nel Terzo Mondo verso cui volgerà lo sguardo quando le speranze si tramuteranno in amare illusioni e tutto gli sembrerà perso. A Roma, “città divina!”, viene a contatto con un ambiente più popolaresco di quello di Casarsa, quello della borgata: il mondo dei sottoproletari, degli spostati e dei piccoli delinquenti. È un mondo che lo ammalia, lo affascina e che descriverà molto bene, con dovizia di particolari, attraverso l’uso del dialetto romanesco con un cambiamento di prospettiva perché questa volta “il dialetto non è più un tramite verso origini che a Pasolini sono estranee, ma verso una naturalità terragna, faziosa, esibizionista, da esasperare semmai in modo espressionistico”161. È colpito dal vigore espressivo del gergo dei borgatari che ritiene coriaceo, aggressivo e volgare, saccente, conciso ed essenziale. Dalle prime esperienze romane nascono dei veri capolavori: dal romanzo Ragazzi di vita del 1955 a Una vita violenta del 1959 ai primi film, Accattone e Mamma Roma, la cui dimensione Pasolini dipinge come “epica, quasi sacrale” con quei “primi piani, quelle scoperte fatte per piccole panoramiche, quel mondo lasciato alla sua innocenza di poema”. Il tentativo culturale di Pasolini è quello di inverare per forza poetica tutto il reale, cercare il “regresso lungo i gradi dell’essere” attraversando la realtà umile, degradata, vilipesa con la forza vitalistica della poesia. A partire dall’ Usignolo della chiesa cattolica (1958) cerca quasi di risalire quei gradi dell’essere, scegliendo l’italiano ma mantenendo l’idea di genuinità e della totalità. Sono anni di intenso furore politico e Pasolini non può sottrarsi alla responsabilità, intellettuale di improntare un discorso razionale e ideologicamente orientato. Questa urgenza lo porta alla stagione matura della sua poesia che ha l’intento di tenere insieme un discorso preideologico e uno politico. La sua poesia, a partire dagli epigrammi di Religione del mio tempo (1961) si impregna di toni predicatori, quasi saggistici, che a tratti degradano in oratoria. Ma ciò stimola una più intensa riflessione antropologica, una commistione tra la prosaicità del mondo e della storia e la liricità della poesia. La tensione del poeta pervade l’opera dedicata all’amica Elsa Morante: è un individuo “umiliato e offeso” ma non acrimonioso e rabbioso verso il genere umano, il suo rancore non è misantropia ma sembra quasi essere strumentale, serve ad indicare una strada ai suoi lettori ideali affinché questi, guardando al suo esempio esistenziale, abbandonino velleità di compromesso con il potere e trovino l’energia per vivere felici nel “Gran Rifiuto” del “Barocco (che) ridiscende a dare irrealtà agli uomini . Proprio insieme al Barocco del Neocapitalismo - incomincia la Nuova Preistoria”.
La Storia è la Realtà dei valori della tradizione umanistica ma anche la cultura popolare e dialettale. L’imborghesimento del neocapitalismo con i falsi valori del consumismo fanno cessare la Storia e iniziare una Nuova Preistoria. Qui si innesca l’impegno di Pasolini, “poeta civile”: nel preservare dalla nefanda mutazione culturale un numero quanto più elevato dei suoi lettori, mantenendoli saldi nella Realtà. Anche la sua diversità sessuale può apparire strumentale, mira allo scandalo, a scuotere anime e cuori che sembrano intorpiditi dalla modernizzazione e dalla sua ideologia omologante. “Per redimerci Cristo / non è stato innocente ma diverso”: la diversità come sacrificio dunque. Questo verso ci permette di riflettere anche su un altro liet motiv che endemicamente attraversa la sua intera produzione culturale: il suo rapporto con la religione. Cos’è per Pasolini la religione? È legame disinteressato tra gli uomini, è amore oblativo, che nulla richiede in cambio. Dio vive un amore sensuale per la realtà che lo circonda. In Pasolini la realtà è teofania: tutto è sacro, allora. Il suo opposto, l’irrealtà, è incarnato dalla società contro la quale Pasolini lancia le “potenze infere castigatrici” (Ceronetti). Pasolini sperava nelle “eccezioni”, rintracciati in alcuni sottoproletari sensibili e ingenui, ma la disillusione presto prenderà il sopravvento: la “mutazione antropologica” trasforma il popolo in massa dietro le sirene piccolo-borghesi della modernizzazione consumistica. Non abbandona la speranza, questa cambia solo volto: diventa disperata e si rivolge ai giovani colti e sensibili perché comprendano la necessità urgente di una svolta da attuarsi giocando su due piani: obbedienza ai valori tradizionali della cultura e degli affetti e disobbedienza verso chi rende precaria la loro indipendenza. La produzione culturale pasoliniana, dal teatro all’ultimo cinema in particolar modo- giocato su simbolismi colti e sottili-, non può che divenire elitista: non vuole rivolgersi all’aura mediocritas che disprezza e condanna e capisce che il sottoproletariato è vittima della dissolvenza, non esiste più la purezza spirituale, la gioia della e nella alterità, la “bellezza corporale” dei suoi borgatari. L’abiura pasoliniana in seguito al “ridicolo decennio” che sono gli anni Cinquanta è più che emblematica dello stato d’animo del poeta: ridicolo perché presto le speranze assumono l’aspetto di una visione meramente utopica e la realtà si muta nel suo contrario, in distopia. Il riscatto del sottoproletariato all’ombra dell’ideologia “rossa” è spazzata via dalla “mutazione antropologica” che trasforma gli uomini in piccolo borghesi attaccati solo al benessere economico e incapaci di qualsiasi azione disinteressata. Pasolini non può che guardare a quello che ancora pare essere un mondo incontaminato nell’universo informe e grigio del neo capitalismo incipiente, il Terzo Mondo. Il tema del sacro si legherà indissolubilmente all’Oriente pasoliniano. Poeta appassionato, il Pasolini “romano” si fa scrittore vigoroso, dotato di quell’abilità violenta e a tratti dissacrante che lo personalizza come autore. La “violenza” della sua narrativa si evince già dagli icastici titoli dei due “romanzi” romani: Ragazzi di vita e Una vita violenta, entrambi destinati a suscitare entusiasmi e scandali. Torna il tema caro a Pasolini, il sottobosco romano delle borgate e del sottoproletariato posto in una specie di realtà astorica dove regna la brutalità naturale ma genuina, un mondo senza il minimo barlume di possibilità di riscatto e per questo impenetrabile nella sua legge e nel suo linguaggio che si fa dileggio di qualsiasi convenzione. Ragazzi di vita non può essere considerato un vero e proprio romanzo con un protagonista, un deuteragonista, un antagonista e con un suo svolgimento narrativo lineare, dal momento che questa realtà è vista come “amorfa congerie di umanità irriducibile alle regole di una consueta psicologia o di una morale accettabile. La astoricità della condizione naturale rifiutava uno svolgimento e una fine, ma imponeva un groviglio di gesti e di parole, una somma di punti che non si facevano mai momenti di un’esperienza di una costruzione”. Tuttavia, resta l’opera alla quale Pasolini lavorò accanitamente per anni dal suo arrivo a Roma. Questo “pseudo-romanzo” o “quasi romanzo” sembra un documento socio- antropologico e un saggio linguistico e ci presenta il colpo di fulmine che Pasolini ebbe per gli ambienti delinquenti, degradati delle borgate, che smentivano la vulgata comune che voleva Roma capitale della cristianità evangelica: il mondo dei sottoproletari è amaro, in ombra, rigettato e abbandonato nella sua diversità, un ghetto che ospita reietti ma è solo qui che Pasolini coglie la purezza arcaica, atavica che rende quelle genti e quei giovani che riempiono le sue storie, eroi epici perché sopravvissuti alla storia e che la morte eternizzerà. La Roma immortalata da Pasolini è una Roma ancora inurbana, paesana e contadina: non è Roma che appare bensì le vite di questi ragazzi che non vivono e non contemplano Roma ma l’attraversano sempre fugacemente, ne assaporano le delizie frugalmente. Il professor Sobrero, in un suo intervento, si sofferma su questo aspetto e fa un’interessante riflessione antropologica: i ragazzi protagonisti di Ragazzi di vita volano da un fiume all’altro lungo le borgate e le strade consolari: toccano Ponte Bianco, Lungotevere, il Circo Massimo, Porta Metronia, Re di Roma, il Verano, Portonaccio, Tiburtina, Prenestina, Casilina ecc. l’attenzione dell’autore per simili particolari ne dipinge un profilo di “antropologo urbano”. Sempre Sobrero ricorda come l’antropologia urbana allora fosse, a livello accademico, un territorio quasi vergine in Italia (grande eccezione è solo De Martino forse). La città come oggetto di studi assume importanza per l’antropologia relativamente tardi nel nostro paese e questo perché è necessario “superare la prospettiva di uno strutturalismo rigido (specie in chiave marxista) perché ciò accadesse”. Pasolini aveva già espresso questa stringente necessità in un articolo del 1974 apparso sulla rivista Il Tempo: E’ inconcepibile uno studio come quello dedicato da Levi- Strauss ad alcuni piccoli selvaggi- isolati e puri- per il popolo di Napoli, per esempio. L’impurezza delle “strutture” della cultura popolare napoletana è fatta per scoraggiare uno strutturalista, che evidentemente non ama la storia con la sua confusione. Da simili premesse, la conclusione nell’analisi di Sobrero, che ritiene “senza dubbio doveroso riconoscere a Pasolini, non dico un qualche generale primato negli studi italiani di antropologia urbana, ma almeno una forte dose di originalità nella lettura antropologica di quella di Roma” . Una vita violenta è, al contrario, identificabile come romanzo perché Pasolini rigetta il fatalismo nato da una lettura ermeneutica prettamente naturalistica di questo mondo decidendo di narrare la picaresca, ma quanto mai realistica, parabola esistenziale di uno di questi diseredati, Tommaso, che da borgataro cerca un riscatto sociale che si mostrerà inutile: finirà immolato all’altare di questa nuova società. Pasolini non assume un tono apologetico e si mantiene al di fuori di ogni caratterizzazione politica, evita l’impianto tesi-antitesi-sintesi che avrebbe reso pesante il libro. Le condanne morali sono sicuramente evidenti ma delicate, celate, poste sullo sfondo oggettivo sul quale realmente si dispiegano certe esperienze. Non abbandona la vena realistica, non si lascia andare in giudizi etici, politici. L’unico neo che la critica, sotto questo aspetto, può e ha evidenziato, è l’unidimensionalità: la volontà cieca di superare il naturalismo neorealista all’insegna di un totale realismo che altera la dialettica interna del mondo che vuole rappresentare, una dimensione subalterna con proprie regole interne che per quanto la frequentazione sovente abbia permesso a Pasolini di investigarlo e di apprenderne i segreti, resta sempre ben circoscritto, ermetico. Questo limite conoscitivo sembrerebbe, allora, bloccare il romanzo pasoliniano in una visione troppo poco differenziata. Come una ring komposition, la narrazione è ricondotta, da alcune scene di violenza, nello stocastico mondo di Ragazzi di vita: non esiste ammenda, espiazione o riscatto che sottragga al proprio destino questi giovani sottoproletari. Il vigor realista della narrazione è dato sicuramente dall’uso della lingua che Pasolini vuole caricare di violenza in stretto rapporto mimetico con quello che è il gergo delle borgate, allegro, dalla battuta salace, sfrontato, diretto nella sua aggressività e asperità. Pasolini gioca molto su questo diverso piano linguistico italiano-dialetto, i suoi romanzi sono intrisi di sperimentalismo dialettico e espressivo bi o addirittura trilinguistico che disegna un quadro pittoresco, colorato e vitale nella sua amarezza. Queste prime produzioni romane contribuiscono a elaborare una sorta di mito dei contadini e del sottoproletariato, categorie sociali che intravede, almeno fino agli anni Sessanta, come le uniche interpreti del suo desiderio di realizzare una rivoluzione culturale e sociale (sogno che continuerà a coltivare con dolente struggimento fino alla fine della sua breve vita ma volgendo lo sguardo altrove). Il pubblico si troverà davanti alle stampe originali di scatti – in molti casi visti e rivisti in rete o altrove, ma sempre riprodotti, tagliati, ingranditi, corretti. Nel caso dell’immagine fotografica, la fisicità della stampa evidenzia contenuti che hanno a che fare con la tecnica e con la storia e con i modi in cui tutto ciò si stratifica, nel tempo, sul supporto fisico cartaceo. Anche gli articoli in riviste e quotidiani dell’epoca vengono esposti nella emozionante integrità della loro prima apparizione e “incarnazione” nel mondo. Di ogni citazione, quindi, è non solo indicata ma anche esibita, la fonte nella sua realtà materiale: ad esempio, la copia integrale del «Corriere della sera» del 19 gennaio 1975 dove apparve l’articolo di Pasolini “contro l’aborto”, oggetto effimero ma con un contenuto e una storia tuttora dinamitardi. In questa indagine, insieme ai giornali e alle riviste, il libro come oggetto si fa potente incarnazione della parola e assume forse la parte più importante del
corpus pasoliniano: si parte dal sogno adolescenziale, di stampare il proprio libretto di poesie (a proprie spese, artigianale, ingenuo, meraviglioso) fino alle grandi pubblicazioni, alle raccolte che segnano il sopraggiungere della notorietà. Per Pasolini la passione di stampare libri è legata al desiderio di diffondere pensieri, visioni e tormenti, in un dialogo continuo con le persone, con il pubblico, con la gente; un dialogo fatto, fra il 1960 e il 1975, di rubriche,interviste,interventi continui su giornali e settimanali. Le rubriche settimanali su «Vie Nuove» (“Dialoghi con Pasolini”) e su «Tempo» prima “Il caos” e poi “Letture” fino alla collaborazione con il «Corriere della sera», tracciano con evidenza un
Pasolini “corsaro” da sempre: tutta la sua produzione giornalistica ha la valenza di uno straordinario Zibaldone di pensieri e di lotta. È nel dialogo,nell’incontro con gli altri che avviene l’esperienza più poetica dei corpi. Attraverso l’opera di Pasolini appare il miracolo della diversità dei volti e di un pensare anarchico; la sacralità del femminile, delle negritudini, del Sud visto come orizzonte di alterità e salvezza. È la forza selvaggia, barbara ed estrema, del dire di Pasolini, e il feroce dileggio subito per la sua diversità; l’amore o lo struggimento per le lingue non addomesticate, per i dialetti e le parlate, per la progressiva scomparsa, causata dall'omologazione televisiva, delle voci e dei canti del popolo; per i vestimenti scomparsi dalla terra e per la centralità della povertà come dimensione umana reale di fronte all'irrealtà alienata del consumismo.
La mostra è suddivisa in sette sezioni :
VOLTO – Le persone sono santi
Nei film di Pasolini compare per l’ultima volta il volto dell’uomo, prima del tramonto definitivo di facce e visi, immolati alle esigenze dello spettacolo e all’imposizione degli stereotipi di una società? in cui l’unica ansia e? presentarsi e farsi vedere sani e salvi: modello borghese, di consumo e igiene e benessere, non ammette opposizioni. In questa sezione si trovano alcuni filmati di Pasolini in diverse fasi della sua vita e del suo lavoro: il modo di parlare, oltre al contenuto del suo discorso, rende in poche battute la forza barbara ed estrema della sua posizione poetica e politica. Un importante corpus di fotografielegate a diversi momenti e diversi fotografi –da Tazio Secchiaroli a Sandro Becchetti,Jerry Bauer, Giuseppe Pino, Dino Pedriali, Ugo Mulas, Mario Tursi, Angelo Novi – ci restituisce il volto di Pasolini, nelle sue espressioni, nelle sue pieghe, nelle sue parti, come una vera e propria incarnazione della poesia.
DILEGGIO – Il linguaggio dei padri
Pasolini e il suo corpo come offesaal genere maschile e sgomento per l’identità sessuale di una comunità. Gli innumerevoli procedimenti giudiziari che per 25 anni hanno fatto di Pasolini un ostaggio della magistraturasono stati accompagnati da una quotidiana operazione di dileggio e derisione, su giornali, riviste, cinegiornali, volantini. La lingua del disprezzo e dell’odio ha come bersaglio l’omosessualità del poeta: una diversità che offende la tradizione italiana, la famiglia, l’altare, e che minaccia, “insidia”, i figli maschi. Il dispetto e il rancore sono probabilmente alimentati non soltanto dalla notorietà pubblica, ma anche dal fascino
maschile di Pasolini, dalla sua indifferenza allo stereotipo dell’omosessuale che, pure, senza remore, dichiara di essere. Al centro di questa sezione, le
Note psichiatriche del professor Aldo Semerari affermano, con presunzione scientifica e ipocrisia paternalistica, che“Il Pasolini è uno psicopatico dell’istinto”.
FEMMINILE – Il sacro che ci è tolto
La donna come appartenente a una “razza sacra” che assume su di sé il dolore dei millenni, fatto di esclusione e pregiudizio, irrisione e demonizzazione
. La madre Susanna, Giovanna Bemporad, Laura Betti, Anna Magnani, Silvana Mangano, Maria Callas. Per Pasolini il femminile è una possibilità di libertà. Le donne di riferimento sono soggetti che non siano né madri di padri né figlie di padri e che, in una maniera o nell’altra, portino i segni dell’insofferenza e del non addomesticamento al modello patriarcale. Ogni assenso al potere e alle sue benedizioni è vergogna, e proprio per questo ognuna di loro è votata al non-adattamento e alla disperazione. Sarà Elsa Morante a insegnare a Pasolini la sacralità di questi corpi carichi di secoli di oppressione che niente, nessuna emancipazione, potrà cancellare, né basterà a riscattare.In questa sezione, un originale del
Manifesto femminista, e il testo di Carla Lonzi dedicato a Pasolini, “fratello proibito”.
ABITI – I costumi del corpo
Così come l’oggetto-libro si fa incarnazione della parola, l’abito, il costume per l’attore, è lo strumento potente di narrazione fra storia e corpo, fra la parola e la costruzione della sua rappresentazione: la scheda delle misure di Cristo per Enrique Irazoqui, nel
Vangelo SecondoMatteo, ne è prova/reliquia, l’estrema espressione dell’«In verità vi dico…» I costumi dei film di Pasolini realizzati da Danilo Donati sono in mostra come si trovano nei magazzini che li conservano, come testi da consultare e non da indossare, come opere dell’archivio di un museo dedicato al suo cinema. Solo due sono su manichino, di Piero Tosi per Medea e per Chirone che, al contrario degli altri, sono opere scultoree che non consentono un contatto, impongono una distanza come dal sacro o dal mito.L’abito appeso è documento anch’esso e, come gli altri cartacei e visivi, spiega chela mostra invita a guardare sia con gli occhi che con gli altri sensi: la materia portatrice di odori corporali, la forma che esalta il movimento del povero e l’immobilità del ricco, prigioniero di ciò che possiede. La follia artistica di Donati riuscì a materializzare la sua idea di bellezza lontana dal consumismo borghese della produzione industriale, per cui ogni pezzo era un unico esemplare: il lavoro manuale dell’artista-artigiano impediva la riproducibilità. Questa sezione è co-curata da Olivier Saillard.
VOCI – Di popolo e di poeta
Prima di essere portatrice di un linguaggio e dei suoi significati, la voce è un’espressione del corpo. La perdita più grave è l’omologazione della lingua e della musica; una forma di controllo del potere sui corpi, fino all’imposizione commerciale della musica “leggera”. In questa sezione incisioni discografiche di canti popolari, dei canti dei lavoratori, dei canti dialettali, dei canti rivoluzionari e di protesta, registrati e raccolti negli anni ’60 e ’70, attestano un patrimonio immenso che si è inabissato.Qui sarà presentata tutta la produzione sonora e musicale di Pasolini:
le incisioni discografiche in 33 e 45 giri della sua voce e delle sue canzoni e musiche, oltre ai libretti di sala e alle immagini degli spettacoli di Laura Betti, Sergio Endrigo, Domenico Modugno, Gabriella Ferri ecc. L’intrattenimento è uno dei dispositivi più offensivi e sprezzanti, e al contempo uno dei più efficaci, nella trasformazione dei cittadini in sudditi. Apparecchiare spettacoli e feste, canti e incantamenti, dagli anni Cinquanta del Novecento, diventa una macchina industriale che, mediata dall’apparecchio televisivo, fa passare le sere sul divano a guardare l’allegria e a parteciparvi sorridenti («Mia madre e mia zia sono tra i dannati che vedono la televisione tutte le sere», scriverà da lì a pochi anni Pasolini). In mostra ‘Canzonette’, un vinile realizzato espressamente da Bomba Dischi, in collaborazionecon GUCCI, sponsor del progetto, con Ariete, Franco126, CLAVDIO, Giorgio Poi, POP X & Giacomo Laser che rendono un omaggio alla musica scritta e amata da Pasolini.
PARTITELLA - La vera Italia, fuori dalle tenebre
La partitella del Trullo è una visione di Paradiso. Pasolini immagina che, scendendo da Monteverde e facendo la Portuense, per le strade cotte dal sole, arrivi fino al Trullo e qui si senta chiamare: «Fermate a Pa’, dà du' carcico'nnoi!». Nel cuore della borgata inizia la partitella, e tutto si trasfigura in un sogno d’amicizia: a giocare e a guardare sono i suoi amici, critici, narratori, poeti della Roma degli anni ’50 e ’60: i vivi e i morti, in difesa o all’attacco; in campoo a fare il tifo. «Chi ha detto - si chiede Pasolini - che il Trullo è una borgata abbandonata? / Le grida della quieta partitella, la muta primavera, / non è questa la vera Italia, fuori dalle tenebre?» Una intera sala sarà dedicata a questa partitella, con le foto di Pasolini giocatore, e tutta la “squadra” – da Moravia ai Bertolucci, da Dacia Maraini a Ungaretti, da Fabio Mauri a Laura Betti, da Roberto Longhi a Ingeborg Bachmann – sognata.
ROMA – La città in strada
Pasolini a Roma non scopre Roma ma scopre la gente di Roma, e scopre uno spazio nomade contrapposto a quello ingabbiato nella griglia del controllo sociale e politico. Le periferie sono il luogo barbarico che precede la “civiltà” borghese: luogo vibrante, odoroso, sonoro, vitale, mistico, popolare; segnato dalla gioia della festa. Il modello urbanistico di Pasolini è popolare: il suo centro è la strada, i suoni, le urla e la puzza, tutto ciò che la borghesia odia: essa non tollera più né la pressione della folla né il contatto con il popolo: tutta gente da igienizzare con i detersivi e da “ripulire” attraverso l’emancipazione economica.
Ci penserà
Carosello, ci penseranno i messaggi pubblicitari a deodorare e profumare, cioè non soltanto a togliere gli odori forti del popolo, ma soprattutto a connotare negativamente quegli odori, su cui invece Pasolini insiste, come segno di autenticità e di sensualità.
ROMA – Complice Sodoma
Dopo i fatti di Ramuscello del 1949 (l’imputazione di
atti osceni in luogo pubblico e di
corruzione di minore e l’espulsione per indegnità morale dal PCI), nella pena della fuga, del trasferimento precipitoso a Roma, e del disastro economico che l’accompagna, ci sarà, insopprimibile, la felicità e la stupefazione di Roma come luogo di libertà sessuale, bordello a cielo aperto: regno e gloria di Sodoma. Abitare Sodoma significa abitare fuori dalla città e dalla legge del padre, non integrarsi nel modello piccolo borghese della famiglia e della procreazione. I luoghi di Roma-Sodoma si riconoscono e sono annunciati dagli odori, in primo luogo i pisciatoi: quelli, intervallati dai platani, del Lungotevere davanti a Regina Coeli, ricordati in
Notti sull’Es, quelli sotterranei della stazione Termini, e poi il Circo Massimo, Caracalla, Monte Caprino, ecc. La mostra è accompagnata da tre volumi che riprendono l’intero progetto dedicato alla celebrazione dei cento anni dalla nascita del grande Pier Paolo Pasolini.
Palazzo delle Esposizioni Roma
Pier Paolo Pasolini. TUTTO È SANTO”. Il Corpo Poetico
dal 19 Ottobre 2022 al 26 Febbraio 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alla ore 20.00
Lunedì Chiuso