Giovanni Cardone Ottobre 2022
Fino al 22 Gennaio 2023 si potrà ammirare al Palazzo Ducale di Genova la mostra Rubens a Genova a cura di Nils Büttner, docente della Staatliche Akademie der Bildenden Künste Stuttgart nonché Chairman del Centrum Rubenianum di Anversa, e di Anna Orlando, independent scholar genovese, co-curatrice della mostra L’Età di Rubens tenutasi a Palazzo Ducale nel 2004. L’esposizione è prodotta dal Comune di Genova con Fondazione Palazzo Ducale per la Cultura e la casa editrice Electa, e grazie al supporto e alla partecipazione dello Sponsor Unico Rimorchiatori Riuniti S.p.A.  Questa mostra attraverso le sedici le sezioni della mostra che sono state allestite nelle sale dell’appartamento ducale al piano nobile del palazzo dove sono esposti insieme a dipinti anche disegni, arazzi, arredi, accessori preziosi e volumi antichi. Oltre cento opere a dimostrare la grandezza di una capitale artistica visitata da uno dei maggiori artisti di tutti i tempi. Una selezione che conferma quell’appellativo di Superba dato a Genova, dove Rubens ha soggiornato più volte tra il 1600 e il 1607. Una scelta che consente, inoltre, di ripercorrere e in molti casi di ricomporre i rapporti con il patriziato genovese, che si sono protratti anche dopo il ritorno ad Anversa del maestro. Trenta le opere ascrivibili all’universo artistico rubensiano: ben diciotto gli autografi, insieme a dipinti certamente usciti dalla bottega del pittore sotto la sua supervisione e con interventi diretti, oltre a due preziose testimonianze di opere perdute e note attraverso esecuzioni successive. Un insieme mai così consistente a Genova dal Settecento, città che ancora oggi custodisce opere di Rubens tra chiese, musei e collezioni private. A corollario, una straordinaria selezione di 80 opere completa il racconto del contesto culturale e artistico della città ligure nell’epoca del suo maggiore splendore. Rubens durante il suo viaggio in Italia (1600–1608) ha certamente visto e studiato Tintoretto e Luca Cambiaso; ha incontrato, e in particolare a Genova durante il suo soggiorno, Sofonisba Anguissola, Giovanni Battista Paggi e Bernardo Castello; ha collaborato con Jan Wildens e Frans Snyders. Tutti questi artisti sono presenti in mostra. Come afferma Giovanni Toti Presidente della Regione Liguria: “Dopo “Superbarocco: la forma della meraviglia”, il Barocco torna protagonista a Palazzo Ducale con “Rubens a Genova”, una nuova mostra in grado di illustrare, con appassionanti approfondimenti tecnici, la grandezza del Maestro fiammingo e il suo rapporto con la città. Il Barocco con la sua ricchezza figurativa ci dà la percezione di un ritorno alla vita, quella vita che il Covid ci ha tolto ma che la nostra regione si sta riprendendo, tornando ad essere la capitale del Mediterraneo attraverso l’economia, il turismo ma anche la straordinaria qualità della proposta culturale. Anche questa volta l’offerta espositiva, realizzata attraverso una rete che coinvolge oltre 25 Istituzioni cittadine e non, è molto raffinata e, considerata la concomitante apertura al pubblico dei Rolli autunnali, in occasione della quale sarà possibile ammirare quei palazzi che seppero destare in Rubens l’incanto e suggerirgli la felice espressione “… la comodità degli edifici quasi sempre concorre colla bellezza e meglior forma di quelli”, sono certo che costituirà una grande occasione di promozione culturale e turistica non solo per il capoluogo ma per tutta la Liguria. Un ringraziamento e un elogio ai curatori Nils Büttner e Anna Orlando e a quanti hanno collaborato al progetto per il raggiungimento del risultato di cui il catalogo è testimonianza”. Mentre il Sindaco di Genova Marco Bucci dichiara: “Genova si apre ancora una volta al mondo con una mostra che attraverso le opere di Rubens vuole raccontare la superba bellezza di una città che, nel Seicento, raggiunse il punto più alto della sua storia millenaria. L’esposizione “Rubens a Genova” è uno scrigno adorno e pregno di alcune delle opere più significative che il celebre pittore fiammingo realizzò durante il suo periodo genovese, ospite delle famiglie patrizie della città che ci hanno trasmesso un’eredità di incommensurabile valore culturale, storico e artistico: un patrimonio che Genova sta facendo conoscere ovunque attraverso l’impegno che le istituzioni culturali e politiche cittadine stanno mettendo in campo per raccontare, diffondere e divulgare in tutto il mondo quanto di importante e bello abbiamo saputo costruire e regalare all’umanità nel corso dei secoli. Nel Seicento, in particolare, Genova toccò l’apice economico e politico della sua straordinaria storia, trasformando il suo ruolo e primato di “potenza” internazionale della finanza e del commercio in una “calamita” capace di attirare in città alcuni dei più influenti artisti dell’epoca barocca. Del Barocco, Genova è stata indubbiamente una delle capitali internazionali, favorita dall’amore per le belle arti che i nobili genovesi tradussero da un lato nella costruzione dei palazzi cosiddetti “dei Rolli”, le sontuose dimore private del patriziato genovese preposte dal governo della Repubblica per l’ospitalità delle autorità in visita, che oggi si aprono al pubblico in un evento, i “Rolli Days”, tra i più attesi e di successo del panorama culturale non solo italiano; dall’altro nell’acquisto di dipinti, sculture ed arazzi commissionati ai grandi maestri del tempo. Tra loro merita una menzione speciale Pietro Paolo Rubens, interprete unico e straordinario di una stagione artistica irripetibile di cui Genova fu protagonista indiscussa. Ed è proprio il rapporto tra Rubens e la città ad essere scandagliato dalle opere in esposizione a Palazzo Ducale, oltre cento, tra le quali molte provenienti da musei e collezioni europee e italiane. Un’occasione unica per ammirare la magnificenza dello stile pittorico dell’artista fiammingo, superbo come superba fu Genova nel XVII secolo. Il “Siglo de los Genoveses”, un periodo unico della nostra storia per vivacità culturale e artistica, che stiamo facendo scoprire e riscoprire attraverso una serie di mostre ad hoc, come quelle del “Superbarocco”, che rappresentano uno straordinario biglietto da visita per l’evento sportivo internazionale più importante del 2023: “The Ocean Race”, la più celebre regata velica attorno al mondo che, nel giugno dell’anno prossimo, farà tappa a Genova per i dieci giorni del “Grand Finale”, destinato a far convergere gli occhi di tutto il mondo sulla nostra città. Un connubio, quello tra sport e cultura, che aiuterà Genova ad avere la sua posizione nel mondo: quella di una città consapevole del proprio grande passato e vogliosa di costruire un futuro radioso all’insegna di tre drivers: crescita culturale, progresso sociale e sviluppo economico.” Quindici le opere rubensiane mai esposte a Genova e dieci per la prima volta in Italia. Due esempi tra queste ultime. Il primo, un Autoritratto del 1604–1605, da collezione privata. Riscoperto solo di recente, è uno studio a olio in preparazione di un autoritratto che Rubens ha incluso in una pala d’altare mantovana oggi dispersa. Il secondo, San Sebastiano medicato dagli angeli, 1615 circa, da collezione privata, è adesso riferito alla committenza del celebre condottiero Ambrogio Spinola, grazie ad un recente e importante ritrovamento documentario.  Mai esposto in assoluto Cristo risorto appare alla Madre (con una figura da una composizione sottostante), 1612–1616 circa. Questo dipinto, proveniente da una collezione privata, raffigura il Cristo risorto in piedi davanti a due donne inginocchiate. Entrambe le figure femminili rappresentano la Madre di Gesù. Una recente radiografia ha rilevato sotto la superficie pittorica la presenza di una seconda immagine femminile, simile dal punto di vista compositivo, ma iconograficamente diversa. Attualmente sono visibili entrambe le figure. In questa occasione vengono presentati gli studi e i confronti con l’iconografia rubensiana nota. Tra le novità anche due splendidi ritratti: Violante Maria Spinola Serra, 1607 circa, da Buscot Park (Oxfordshire-The Faringdon Trust) e Geronima Spinola Spinola con la nipote Maria Giovanna Serra, 1605–1606 circa, da Stoccarda, Staatsgalerie.

Capolavori assoluti della ritrattistica del barocco europeo, sono entrambi esposti per la prima volta con la ritrovata identità. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Peter Paul Rubens apro il mio saggio dicendo : Il 6 maggio 1598, il re di Spagna Filippo II ratificò un atto di cessione, in favore dell’arciduca d’Austria Alberto d’Asburgo, figlio dell’imperatore Massimiliano II, con il quale lo nominava governatore delle Fiandre meridionali. Questa consegna faceva parte della dote di sua figlia, l’Infanta maggiore Isabella Clara Eugenia, precedentemente promessa sposa di Ernesto d’Austria, fratello più anziano di Alberto morto prematuramente. L’arciduca e l’Infanta erano cugini primi e, prima di celebrare le loro nozze, a seguito delle quali divennero appunto principi delle Fiandre cattoliche, Alberto dovette rinunciare alla già intrapresa carriera ecclesiastica, per dispensa del papa Clemente VIII, spogliandosi della porpora cardinalizia per la quale era stato ventisettesimo titolare della Basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme. L’atto di cessione non prevedeva una totale indipendenza dei Paesi Bassi meridionali dalla Spagna, ma un’autonomia di governo con delle specifiche clausole di fedeltà e sottomissione alla corona di Madrid: gli arciduchi e i loro discendenti, diretti o indiretti, dovevano mantenere e professare la fede cattolica; nessuno di altra religione avrebbe potuto lavorare per la corte o farne parte; i possedimenti territoriali erano inalienabili previa autorizzazione del re spagnolo. In caso di inadempienza di una di queste regole, le Fiandre meridionali sarebbero tornate immediatamente sotto l’egida diretta del sovrano iberico. Inoltre, in mancanza di eredi, alla morte della coppia arciducale tutti i territori dei Paesi Bassi del sud, comprese le annessioni conquistate durante gli anni di reggenza di Alberto e Isabella, sarebbero comunque state annesse ai possedimenti controllati direttamente dalla Spagna . Alberto e Isabella governarono con una sapientissima strategia politica che li vide, da una parte consolidare la posizione economica e diplomatica dei territori da loro gestiti, anche attraverso una fitta rete di alleanze con altri dignitari europei, dall’altra stabilire un’intensa coesione interna con tutti gli strati sociali, in particolare con la ricchissima classe media composta da commercianti e amministratori locali, cui garantirono decenni di prosperità economica e culturale . A loro fianco, a partire dal 1609, in qualità non solo di principale pittore di corte, ma anche di consulente artistico, consigliere e infine diplomatico, ci fu sempre Peter Paul Rubens, vero e proprio attuatore della strategia politica e culturale degli arciduchi. Un quesito centrale per inquadrare il rapporto tra Peter Paul Rubens e gli arciduchi delle Fiandre meridionali, Alberto VII d’Asburgo e l’Infanta di Spagna Isabella Clara Eugenia, riguarda i motivi di contatto precedenti al ritorno del pittore in patria dopo il lungo soggiorno italiano. In meno di un anno dal rientro, 8 agosto 1609, Rubens riuscì a diventare il principale pittore di corte dei Paesi Bassi cattolici , con uno stipendio annuo senza precedenti (oltre 500 ponden), più del doppio di quanto era stato concesso al più anziano Wenzel Coebergher, principale architetto di corte. Non solo, ottenne anche privilegi mai concessi prima: continuò a risiedere ad Anversa e non nella capitale Bruxelles e, contrariamente a quanto prescritto dalla Gilda cittadina di San Luca, ebbe il permesso di avere un numero illimitato di allievi presso la propria bottega. È lampante che tutto questo favore non sarebbe stao possibile se non ci fossero stati precedenti contatti, né è plausibile che la committenza di Alberto VII per la decorazione della cappella ipogeica dedicata a Sant’Elena presso la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme di Roma (durante il primo soggiorno del pittore nella città papale), per altro ottenuta non direttamente, possa essere stato il primo motivo di relazione, bastevole per una così entusiastica accoglienza in patria dopo otto anni di assenza. Gli artisti che lavoravano per la corte di Bruxelles non godevano tutti degli stessi privilegi e benefici, né ricevevano lo stesso trattamento economico: dai documenti ufficiali pubblicati da de Mayer , si ricostruiscono tre categorie principali di pittori coinvolti nelle committenze arciducali, riviste e commentate recentemente da Sabine van Sprang : coloro che lavoravano occasionalmente per la corte, ma non godevano di alcun beneficio o privilegio, come Antoon Sallaert o Gisbertus Venius (fratello del più noto Otto, maestro di Rubens); coloro che beneficiavano di alcuni diritti e concessioni, ma non avevano un ruolo ufficiale a palazzo (una sorta di fornitori privilegiati esterni) come Jan Brueghel il Vecchio e Joos de Momper II; infine i veri e propri “pittori di corte”, tra cui ovviamente Peter Paul Rubens. Un caso a parte è costituito da Otto van Veen, ultimo maestro di Rubens, ricordato dalle fonti come “ingegnere del castello” della città portuale (prima del 1604) e, a partire dal 1612, con il titolo di “custode della moneta delle loro Altezze a Bruxelles”.

Questi due titoli indicano verosimilmente uno stato ancor più privilegiato di Otto van Veen, dovuto anche alla sua amicizia con Alberto VII. Sebbene ufficialmente fu “pittore di corte”, anche la posizione di Peter Paul Rubens fu indubbiamente favorita fin dagli esordi rispetto agli altri artisti, come nota anche Sabine van Sprang : oltre ai benefici già citati il permesso di risiedere ad Anversa e la facoltà di avere un numero illimitato di allievi e collaboratori, oltre a uno stipendio senza precedenti, ricevette regali da parte degli arciduchi, come la catena d’oro donata in occasione dell’esecuzione dei primi ritratti ufficiali dei dignitari, concessa ancor prima di essere nominato “pittore di corte” ; verosimilmente ebbe anche il ruolo di consigliere artistico, come si evince dalla valutazione di alcuni dipinti eseguiti da David Noveliers. Dal titolo di “pittore di corte”, in ogni caso, il maestro d’Anversa fu elevato dapprima a “gentiluomo dell’Infanta”, nel 1627, e due anni dopo, per concessione del re Filippo IV, a “segretario del Consiglio privato di Fiandra”.

È noto che nel 1599 Peter Paul Rubens aiutò il suo maestro Otto van Veen per la decorazione degli arredi urbani in occasione dell’ingresso trionfale degli arciduchi nella città di Anversa e che qualche anno prima, nel 1596, aveva collaborato con il maestro più anziano per l’esecuzione del ritratto di Alberto VII ancora in abito cardinalizio. Se queste occasioni furono verosimilmente alla base di un primo apprezzamento dell’abilità del giovane pittore da parte degli arciduchi, per altro pupillo dell’artista che fino a quel momento più di ogni altro godeva di una certa confidenza con Alberto VII e di titoli e benefici mai concessi prima, la fortuna che Peter Paul Rubens ebbe all’interno della corte fiamminga deve essere inquadrata nel più ampio scenario di amicizie politiche e intellettuali di cui fece parte. Non è un caso che la carriera di Peter Paul, almeno per tutto il primo decennio del XVII secolo, corra parallela a quella del fratello maggiore Philip, diplomatico e letterato, con cui condivise ideali morali, scelte di vita e, soprattutto, amicizie da frequentare. I due fratelli, nati con tre anni di distanza a Siegen, in Westfalia, durante l’esilio cui fu costretto il loro padre, Jan, scabino di simpatie calviniste, furono allevati secondo la più rigida educazione cattolica dalla madre Maria Pypelinckx che, dopo la morte del marito, tornò ad Anversa nel 1589. Philip e Peter Paul frequentarono la scuola del letterato Romuldus Verdonk, insieme a Balthasar Moretus, erede della celebre stamperia Officina Plantiniana con cui Peter Paul collaborò durante tutta la sua vita. Nove anni dopo, nel 1598, Peter Paul venne accolto come maestro di pittura nella gilda cittadina di San Luca, mentre Philip si era stabilito nella prestigiosa città universitaria di Lovanio per frequentare i corsi del professore di filosofia Justus Lipsius. Quanto il rapporto di entrambi i fratelli Rubens con Lipsius sia stato fondamentale ne è manifesto il dipinto detto I quattro filosofi, che Peter Paul eseguì intorno al 1612 e in cui egli stesso e Philip sono ritratti come allievi dell’umanista, insieme a Jan Woverius. La loro amicizia e l’aderenza alla filosofia neo-stoica propugnata da Lipsius furono fattori determinanti nelle fasi iniziali della carriera dei due giovani fratelli. Il letterato di Lovanio, infatti, fu intimo amico sia di Otto van Veen, che aveva discendenze nobili in quanto pronipote di Joan, figlio naturale di Joan III duca di Brabante, ma soprattutto di Alberto VII il quale, proprio nel 1598, appena nominato principe delle Fiandre meridionali dal re di Spagna Filippo III, sostenne materialmente una rinnovata valorizzazione dell’Università di Lovanio, di cui Justus Lipsius era membro. Sicuramente, nel 1599, Philip Rubens conobbe di persona l’arciduca d’Asburgo poiché quest’ultimo fu a Lovanio per assistere alla sessione di laurea in teologia di Peter Richardot, figlio del presidente del consiglio di Stato delle Fiandre Jan Richardot il Vecchio. Verosimilmente grazie all’amicizia con Lipsius, Philip Rubens era diventato segretario particolare dell’influente diplomatico e tutore dei due figli più piccoli, Willelm e Antoon Richardot. Justus Lipsius, la potente famiglia Richardot, Otto van Veen, ma anche l’aderenza alla più osservante fede cattolica furono fattori determinanti per far sì che Philip e Peter Paul fossero avviati verso due diverse ma altrettanto brillanti carriere. Secondo Joachim von Sandrart, che conobbe personalmente Peter Paul Rubens nel 1627, quando il 9 maggio 1600 il giovane pittore, appena ventitreenne, partì per l’Italia, aveva con sé una lettera di referenza scritta da Alberto VII: è indubitabile, come osservò già Sainsbury, che tale raccomandazione fu ottenuta grazie ai buoni uffici di Otto van Veen. Il rapporto che legava i due fratelli Rubens, la condivisione dell’ideale neo-stoico di vita di saggia fermezza, di applicazione allo studio, l’amore per le antichità, la prodigalità per gli affetti che sempre li contraddistinse, ma anche un continuo sostegno reciproco e l’assidua frequentazione di ambienti di potere portarono in pochi anni Philip, ma soprattutto Peter Paul all’ottenimento di un successo sempre più forte e consolidato. Senza questa fitta rete di contatti intellettuali e politici, che entrambi i fratelli mantennero assiduamente, non sarebbero spiegabili gli avvenimenti che occorsero nella vita del pittore nel primo decennio del XVII secolo. Il soggiorno italiano  dal 1600  al 1608,  di Rubens  fa si che si pone una domanda, quanto affetto legasse i due giovani fratelli? Si può ben comprendere dalla lettera che Philip spedì a Peter Paul il 21 maggio 1601: il pittore era partito per l’Italia circa un anno prima e il letterato si rammarica della lontananza che li separa. In realtà, pochi mesi più tardi, anche Philip lasciò la patria per recarsi in Italia poiché doveva accompagnare il suo pupillo Willelm nel consueto viaggio di istruzione. Pochi mesi dopo il suo arrivo, Rubens incontrò un ambasciatore del duca di Mantova a Venezia, presumibilmente Annibale Iberti, che gli offrì di diventare ritrattista di corte. Questo fu un evento molto importante nella vita del maestro d’Anversa, poiché sancì non solo l’opportunità di avere un patrono potente durante tutti gli anni di soggiorno in Italia, sebbene Rubens si lamentò sovente della paga poco generosa del duca, ma anche perché è la testimonianza di un altro fondamentale punto di contatto con Alberto VII. Vincenzo I Gonzaga e l’arciduca d’Austria erano cugini primi, per cui, come ipotizzò Sainsbury, ripreso anche dalla critica contemporanea, la lettera di raccomandazione che Otto van Veen fece ottenere al suo giovane allievo da parte del governatore delle Fiandre aveva lo scopo di indirizzarlo proprio al duca di Mantova; non solo, Baschet, ripreso da Navarrini, e Bodart ipotizzano che il pittore conosciuto dal duca di Mantova durante il suo viaggio a Bruxelles nel 1599 possa essere proprio Peter Paul Rubens, anche se è più probabile si tratti di Frans Pourbus il Giovane, che fu accolto alla corte gonzaghesca tre mesi dopo l’arrivo del conterraneo più giovane, in autunno. In ogni caso, anche presso Vincenzo I Gonzaga vennero accordate a Rubens concessioni molto favorevoli: il permesso di viaggiare per studiare l’arte antica e rinascimentale italiana e la possibilità di ricevere committenze da altri mecenati, oltre allo stipendio e ai compensi per le opere ordinate dal duca. In un primo tempo, dunque, la permanenza di Peter Paul presso la corte mantovana fu breve: l’otto luglio 1601 Vincenzo Gonzaga scrisse una lettera di raccomandazione per inviare il suo giovane ritrattista al cardinal Alessandro Damasceni Peretti di Montalto, vicecancelliere pontificio, affinché potesse copiare e studiare alcune famose pitture conservate nella città del papa; la risposta del potente cardinal Montalto fu scritta il 15 agosto, a conferma che Peter Paul era già stato accolto. Nel frattempo, si trovava a Roma anche Jean Richardot il Giovane (figlio dell’omonimo presidente del consiglio di Fiandra), avviato alla carriera ecclesiastica e mandato presso la Santa Sede come ambasciatore delle Fiandre dal re Filippo II di Spagna, che l’aveva voluto, nonostante la sua giovinezza, come membro del suo consiglio privato. Questa coincidenza è fondamentale, poiché la presenza di Jean Richardot a Roma fu importantissima sia per Peter Paul che per Philip. L’otto giugno 1601, infatti, Alberto VII scrisse al giovane delegato per affidargli l’incarico di trovare un pittore che fosse degno, ma che si accontentasse di duecento scudi al massimo, per decorare la cappella di Sant’Elena presso Santa Croce in Gerusalemme a Roma, di cui lo stesso arciduca fu cardinale titolare prima di rinunciare alla porpora per sposare sua cugina l’Infanta di Spagna. Benché, come detto, la corte di Bruxelles dovette conoscere Peter Paul Rubens già prima della sua partenza per l’Italia, fu direttamente Jean Richardot ad affidare tale compito al giovane connazionale. Nello svolgimento dei lavori dovette essere coinvolto in qualche modo anche il padre consigliere, giacché viene espressamente menzionato nella suddetta lettera dell’arciduca e, in una missiva del 30 giugno, è lo stesso Jean Richardot che ragguaglia il genitore sullo stato dei lavori richiesti per la chiesa di Santa Croce. Evidentemente, a causa di questa prestigiosa committenza, il soggiorno di Peter Paul nella città pontificia si prolungò per un tempo più lungo rispetto a quanto era stato previsto da Vincenzo Gonzaga, poiché il 12 gennaio 1602 Lelio Arrigoni, ambasciatore a Roma della corte gonzaghesca, scrisse ad Annibale Chieppio, segretario di Stato di Mantova, per ottenere il permesso di far rimanere a Roma il suo giovane ritrattista per altri quindici o venti giorni al fine completare la pala d’altare raffigurante il Trionfo di Sant’Elena. Nemmeno questa proroga, però, fu sufficiente, anche perché, contrariamente al progetto originario, furono aggiunte alla pala centrale altri due dipinti, l’Incoronazione di Cristo  e l’Innalzamento della Croce , non si sa se per volontà di Peter Paul oppure di Richardot ma sicuramente per compiacere l’arciduca Alberto. Questa volta il permesso al duca di Mantova fu richiesto direttamente da Jean Richardot il 26 gennaio 1602 e di fatto l’ulteriore dilazione fu accordata, sicuramente in virtù della parentela con il cugino d’Asburgo, poiché Peter Paul non fece ritorno a Mantova prima del mese di aprile. Appena tornato, nel 1603, Vincenzo Gonzaga spedì il giovane pittore di corte presso il re di Spagna Filippo III, per una missione diplomatica, al posto del più anziano Frans Pourbus il Giovane, richiamato in patria. Per questo motivo, Peter Paul non assistette a due importantissimi eventi che investirono la vita del fratello, entrambi determinati dalla presenza di Jean Richardot a Roma. Il 20 marzo 1603, Philip Rubens iniziò la sua carriera ecclesiastica ottenendo la “prima tonsura” presso il palazzo del cardinal Girolamo Rusticucci, vicario di Roma: il documento comprovante questo avvenimento si trova presso l’archivio del Vicariato, nell’ottavo volume del Liber Ordinationes Sacerdoti, editato per la prima volta dall’autore della presente pubblicazione e riprodotto in appendice. Questo documento costituisce la spiegazione di una menzione che Peter Paul stesso scrive all’amico Johan Faber, una volta tornato in patria, a proposito del matrimonio del fratello con Maria de Moy: “In buon hora egli si spogliò la tonica et si dedicò alla servitù di Cupidine”. A tal proposito, Magurn interpreta la parola “tonica” con “abito da studente” (“scholar’s grown”), ma è chiaro dalla documentazione archivistica ritrovata che il riferimento ha un’attinenza letterale con la carriera ecclesiastica. Anche nell’atto di procura editato da Bertolotti, dal quale sappiamo che durante il secondo soggiorno romano i due fratelli abitarono insieme in via della Croce, Philip è nominato con l’appellativo di “revedendo”. Il 13 giugno 1603, Philip ottenne a Roma il dottorato in utroque iure: al certificato conservato nelle carte private del barone Henry van Havre, ultimo erede della famiglia Rubens, pubblicato da Genard, si aggiunge la segnatura dell’atto ufficiale registrato presso l’Università di Roma. In realtà, le scelte di intraprendere la carriera ecclesiastica, almeno in un primo momento giacché in patria convolò a nozze, e di ottenere il dottorato presso l’Avvocatura concistoriale dell’Università di Roma, furono probabilmente dettate dall’opportunità che si presentò proprio in quei mesi e che coinvolse l’amico Jean Richardot: il figlio del consigliere di Fiandra, infatti, era stato nominato vescovo di Arras dall’arciduca Alberto VII nel 1602, subito dopo la morte del predecessore Jean du Ploich, ricevendo la ratifica da parte del concistoro vaticano il 20 aprile 1603; è da considerare che fino a quel momento Jean Richardot non aveva ricevuto gli ordini minori e che ebbe accesso al sacro diaconato e presbiterato a Roma, dopo essere stato nominato vescovo. Questa coincidenza è importante perché il nuovo vescovo attrebatense concesse una pensione all’amico chierico, verosimilmente prima del rientro in patria di Richardot e Philip Rubens Jean prese possesso pubblicamente del titolo vescovile della cattedrale di Arras l’otto febbraio 1604, stesso anno in cui Philip fece ritorno a Lovanio.

È da puntualizzare che, a seguito del Concilio di Trento, non venivano più concesse prebende a coloro i quali, nella carriera ecclesiastica, non avevano avuto accesso almeno agli ordini minori (la “prima tonsura” costituiva di fatto solo l’accettazione del candidato nella Curia romana da parte della Chiesa); il dottorato in utroque iure, e la conseguente ammissione all’avvocatura concistoriale di Roma, però, permetteva anche ai laici di ottenere un beneficio ecclesiastico, in base a una specifica regola contenuta nello “Statuto del Collegio degli Avvocati Concistoriali”,  poiché si presupponeva che la formazione in diritto canonico e civile dell’Università di Roma preparasse specificatamente alla divulgazione della dottrina cattolica. Il documento comprovante la pensione accordata a Philip Rubens analizzato approfonditamente più avanti, è stato editato per la prima volta dall’autore di questo studio. La rete di contatti che i due fratelli riuscirono a stabilire a Roma fruttò anche in favore della loro famiglia, cui furono sempre affettuosamente legati: il 30 marzo 1602 fu concessa da papa Clemente VIII la licenza di mangiare cibi proibiti in periodi di divieto a Maria Pipelynckx, vedova di Jan Rubens, poiché malata, e a sua figlia Blandina Rubens, poiché incinta; tale licenza era concessa raramente per diretto privilegio pontificio a persone non di rango nobile. Inoltre, questi due documenti, riportati in “Appendice documentaria”, suggeriscono lo stato sociale della famiglia Rubens: anche se non di rango nobile (Jan Rubens nell’intestazione del Breve pontificio viene definito “patrizio”), la famiglia di Peter Paul e Philip era economicamente molto solida, giacché la dispensa di mangiare alimenti di natura animale sarebbe stata di fatto inutile per la maggior parte della popolazione, che raramente (se non mai) poteva inserire la carne nella dieta quotidiana; è da notare che fu proprio Blandina Rubens ad accedere per prima al rango nobiliare: come si evince dall’intestazione del Breve pontificio, la donna era andata in sposa a Simone de Parq, definito “nobile”. Come noto, dopo più di un anno di assenza da Roma, tra il 1605 e il 1607 i due fratelli Rubens tornarono nella città papale e andarono ad abitare insieme presso via della Croce, vicino piazza di Spagna: fu l’occasione per frequentare l’ambiente dotto di Johan Faber, medico di papa Paolo V e membro della neonata Accademia dei Lincei, e di studiare insieme le antichità classiche, attraverso una proficua collaborazione che portò alla pubblicazione del testo Electorum Libri II, scritto da Philip e illustrato da Peter Paul. In quel tempo le carriere di entrambi si stavano arricchendo di due esperienze considerevoli: grazie all’aiuto di Justus Lipsius, Philip era stato nominato bibliotecario del cardinal Ascanio Colonna, mentre Peter Paul, il 25 settembre 1606, firmò la sua seconda, importantissima committenza pubblica romana: la decorazione per l’altare maggiore di Santa Maria della Vallicella per i padri filippini. Come è noto, il prestigioso incarico costituì anche l’unico fallimento che il maestro fiammingo ricevette nella propria carriera: la prima versione, oggi nel Museo di Belle Arti di Grenoble, non venne messo in opera, ufficialmente perché non convinse gli Oratoriani, forse anche per un problema di scarsa illuminazione (come lo stesso Rubens scrisse ad Annibale Chieppio, segretario del duca di Mantova), ma probabilmente perché l’iconografia non dava abbastanza importanza all’icona della Vallicella; una nuova prospettiva della vicenda viene data da Ruth S. Noyes che imputa l’insuccesso alla troppa somiglianza tra San Gregorio in primo piano e le sembianze di Filippo Neri: sarebbe stata, da parte dei padri filippini, una sorta di autocensura in quanto sarebbe stato venerato come santo, seppur “mascherato” da San Gregorio, il loro fondatore che, però, all’epoca non era ancora stato canonizzato, quindi, secondo i dettami della Controriforma, non avrebbe potuto essere oggetto di culto. A mio parere, laddove la somiglianza tra San Gregorio e Filippo Neri sembra convincente, soprattutto in relazione al disegno rubensiano raffigurante il fondatore degli Oratoriani conservato al Louvre, la decisione della non messa in opera ebbe motivazioni iconografiche più profonde da un punto di vista teologico: per quanto vivo fosse il ricordo fisico di Filippo Neri, di fatto labile sarebbe stata la traslazione tra San Gregorio e il padre fondatore.

Come accennato, in quegli anni Philip godeva di una pensione annua, esente da qualsiasi tipo di tassazione, di cento ducati d’oro della camera apostolica dalle prebende della diocesi di Arras, dove era ancora vescovo il suo amico Jean Richardot il Giovane: lo sappiamo perché in un documento datato 24 marzo 1607, Philip rinuncia a questo beneficio ecclesiastico nominando suo procuratore universale il fratello Peter Paul. Per capire i motivi di tale rinuncia, bisogna necessariamente fare riferimento di nuovo ai rapporti che nel frattempo entrambi i fratelli erano riusciti ad avviare con l’arciduca Alberto VII: mentre ancora si trovavano a Roma, si aprì per Philip la possibilità di una carriera politica nella città di Anversa, probabilmente, anche in questo caso, grazie ai buoni uffici di Justus Lipsius presso il governatore delle Fiandre la rinuncia alla carriera ecclesiastica, dunque, era un atto dovuto. La questione non era semplice in quanto né Philip né Peter Paul avevano il requisito fondamentale per accedere alle cariche pubbliche nelle Fiandre meridionali: erano nati a Siegen, quindi di fatto erano tedeschi, non fiamminghi! Per superare questo ostacolo, il 15 novembre 1606 Alberto VII ratificò a Philip l’atto di “brabantizzazione”, una sorta di permesso di soggiorno permanente, in virtù della nascita ad Anversa del padre, Jan Rubens: in questo documento è ancora una volta Justus Lipsius che si rende garante del buon reddito e delle qualità civili e morali del suo pupillo. Il quattro agosto 1607, Alberto VII scrisse a suo cugino Vincenzo Gonzaga per chiedere il permesso di far rientrare Peter Paul Rubens in patria, avanzando la supplica della sua famiglia che lo voleva ad Anversa: di fatto, però, apparve evidente anche al duca di Mantova che l’interesse del principe delle Fiandre presupponeva l’opportunità per il pittore fiammingo di servire la corte di Bruxelles, tanto che il Gonzaga, nella risposta del 13 settembre, ribadita da un’altra missiva del 16, espresse il rammarico di perdere un così valido artista ma il piacere di sapere che avrebbe servito il suo illustre cugino. Effettivamente ci fu una ragione per cui Philip fu costretto a lasciare l’amata Roma abbastanza frettolosamente: la madre, Maria Pipelynckx, sola dopo la morte dell’ultima figlia rimasta in patria, Blandina, si stava ammalando sempre di più, per cui Philip partì a luglio del 1607, lasciando al fratello, nominato suo procuratore universale, l’incombenza di concludere le conseguenze amministrative della rinuncia al suo beneficio ecclesiastico. Peter Paul, avendo saputo del peggioramento delle condizioni di salute della madre, partì nell’ottobre dell’anno successivo, appena finita la committenza della Vallicella, senza neppure aspettare di prendere l’ultima parte del denaro a saldo del suo compenso. Il rapporto diretto e privilegiato con il Gonzaga, come ora indagato più puntualmente, può forse spiegare la facilità con cui Nicolò Pallavicino e i suoi più stretti famigliari ottennero opere da Rubens. I viaggi del duca a Genova, relativamente facili da tracciare grazie alle testimonianze dei Libri Cerimoniali trattandosi di visite ufficiali, possono essere utili per meglio dettagliare, a livello ipotetico ma credibile, i diversi soggiorni del pittore in città. Per una serie di ragioni la presenza di Rubens non può limitarsi alle settimane di inizio 1604 accertate su basi documentarie. Innanzitutto è lui stesso a dichiarare di essere «stato più volte a Genova et avuto intrinsichezza gran(demen)te con alcuni personaggi eminenti di quella repubblica» . Anche Bellori scrive: «fermossi più che in altro luogo d’Italia» . Inoltre, va considerato il tempo necessario se non a eseguire, almeno a prendere appunti per i numerosi ritratti che cadono per lo più negli anni 1606-1607. A supporto della tesi che Rubens sia stato più volte a Genova di quelle accertabili vi sono due ulteriori elementi: da un lato, la consuetudine ad accompagnare il duca nei viaggi che le fonti locali possono registrare per il Gonzaga, omettendo la presenza del pittore al suo seguito; dall’altro, la nostra attuale conoscenza del suo modo di lavorare, e quindi, per esempio, la necessità di supervisionare la messa in opera di una pala d’altare . Come qui di seguito si ipotizza, intrecciando i dati relativi ai soggiorni del Gonzaga a Genova con la datazione di opere destinate a genovesi già nel 1602-1603, è più che probabile che Rubens sia giunto una prima volta nell’ottobre del 1600 e non già all’inizio 1604, e poi ancora nel 1605, 1606 e 1607. Ben «più volte», cioè, di quelle esplicitamente registrate da fonti e documenti. La presenza del duca di Mantova a Genova, trattandosi di una visita che prevedeva un hospitaggio a spese pubbliche, sebbene in dimore di privati, selezionate in base alle diverse categorie secondo il già ricordato sistema dei “rolli”, è registrata nei Libri Cerimoniali, dai quali siamo informati anche del coinvolgimento, quasi sempre, di qualche membro della famiglia Pallavicino o Serra. Si è già detto del viaggio del maggio 1592, quando Vincenzo I viene ospitato in casa di Francesco, fratello di Nicolò, e quest’ultimo ha un ruolo di rilievo durante i quattro giorni della visita. Nell’ottobre del 1600 i Cerimoniali registrano l’arrivo del duca di Mantova a Sampierdarena , quel «luogo, che prima di trasformarsi in città industre e manifatturiera, era sontuoso albergo di patrizi genovesi i quali v’aveano erette splendide dimore» , meta molto amata dal duca. Questo soggiorno, inspiegabilmente non considerato dagli storici dell’arte, potrebbe avere in realtà costituito la prima venuta del pittore a Genova. L’arrivo del Gonzaga è strettamente legato al viaggio della «Serenissima madama Maria de Medici regina di Francia, da Livorno, ove si imbarcò per andare a Marsiglia, passando per loro Dominio» durante il quale la Repubblica si adoperò invano di invitarla ad alloggiarlo presso di loro. Rubens e all’Iberti ed è del tutto probabile che abbiano fatto rientro via mare insieme. Ritengo credibile che un accordo per il primo dei due ritratti della moglie Veronica possa essere avvenuto in questo viaggio  Alla luce dell’ipotesi di un precedente passaggio di Rubens da Genova nell’ottobre del 1600 è a questo punto lecito chiedersi anche se i rapporti di committenza con i Pallavicino per la pala dell’altar maggiore del Gesù si debbano al 1604 o possano avere origine fin dal 1600. È noto, infatti, che la chiesa era già agibile dal 1592 anno in cui, terminata la crociera, i Cerimoniali, il 17 agosto, registrano la celebrazione di una «messa grande nella nuova chiesa di Sant’Ambrogio de’ Padri gesuiti». Ed è altresì noto che padre Marcello Pallavicino aveva già stabilito con un atto notarile del 27 settembre del 1596 il soggetto della pala dell’altar maggiore. Sappiamo dalle fonti che nel soggiorno del 1607 il duca fu accompagnato da Nicolò Pallavicino a vedere la chiesa «nuovamente fabricata». È del tutto probabile che Nicolò e il fratello Marcello lo abbiano accompagnato già nel 1600 a vedere il cantiere dell’imponente nuova chiesa della quale la loro famiglia (i figli di Agostino e loro madre) era la fondatrice. Se non si poté entrare nel dettaglio della realizzazione della pala, è possibile che si iniziasse a discutere del soggetto, su cui Marcello aveva idee molto chiare da anni. L’altar maggiore fu consacrato nell’ottobre del 1604, rimase sguarnito per oltre un anno, fino al giorno di capodanno del 1606 quando fu scoperta la pala della Circoncisione. Come giustamente nota Raffaella Morselli «è verosimile ipotizzare che nove metri quadri di pala avessero avuto bisogno della presenza del pittore a Genova per i ritocchi finali una volta posta sull’altare» . La studiosa legge un indizio importante in tal senso nella lettera di Rubens del 9 giugno 1607 in cui spiega che una pala d’altare come quella della Vallicella e dunque come quella della Circoncisione necessitava la presenza del pittore al momento in cui la si posizionava sull’altare: «sarà necessario che io ritocci la pittura una al luoco istezzo prima che scoprirla come s’usa di fare non volendo ingannarsi», dichiara Rubens stesso.

Sul fronte documentario, lo spoglio delle Minute dell’Archivio Gonzaga ha consentito a Cecilia Paolini di ipotizzare un breve soggiorno del pittore a Genova, verisimilmente tra ottobre e novembre 1605, prima di tornare una seconda volta a Roma. Come ricorda la Morselli, anche una lettera di Annibale Iberti da Nizza del 29 novembre di quell’anno porta a supporre questo soggiorno  ed è ora possibile attestare la partenza dell’Iberti da Mantova per Genova, per incontrare Nicolò Pallavicino per volere del duca e per «versar il credito», come recita una minuta del 27 ottobre 1605 rintracciata dalla Paolini.

Grazie alle ricerche legate alla preparazione della mostra, si deve anche la riscoperta di un dipinto di Rubens di cui si erano perse le tracce da due secoli, e certamente presente a Genova nel Seicento. In questa occasione viene sottoposto al vaglio degli studiosi internazionali che non lo hanno mai visto prima d’ora per dimostrarne l’attribuzione. Si tratta di uno studio per la pala d’altare I miracoli del Beato Ignazio di Loyola, ancora nella Chiesa del Gesù a Genova. Queste e molte altre le novità presentate al pubblico in una mostra che nasce in occasione del quarto centenario dalla pubblicazione del libro Palazzi di Genova di Pietro Paolo Rubens, stampato ad Anversa nel 1622. Anniversario celebrato nella prima sala, dove sono esposte due copie originali, tra le quali un raro esemplare della prima edizione, senza aggiunte posteriori.

Tre i volumi pubblicati da Electa in occasione della mostra, con la curatela di Anna Orlando: il catalogo, anche a cura di Nils Büttner, presenta tutte le novità dovute alle nuove ricerche e gli importanti aggiornamenti frutto della preparazione dell’esposizione; la guida alla mostra, un agile strumento per seguire il percorso di visita; la guida A Genova con Rubens che accompagna nell’itinerario rubensiano alla scoperta dei capolavori nei palazzi genovesi e nelle chiese che certamente Rubens visitò. Ed infine musei stranieri e italiani, così come collezionisti privati, hanno concesso prestiti eccezionali riconoscendo al progetto una grande validità basato su studi e approfondimenti scientifici dei curatori, e di un prestigioso comitato scientifico onorario internazionale.
 
Il percorso della mostra è suddiviso in sedici sezioni:

Prima Sezione
I Palazzi di Genova
 Nel quarto centenario dalla pubblicazione del libro Palazzi di Genova di Pietro Paolo Rubens, stampato ad Anversa, a proprie spese, nel 1622, la mostra vuole raccontare non solo di lui, della sua arte magistrale che prende forma proprio negli anni del soggiorno italiano (1600–1608), ma anche di una città che lo accolse più volte e della quale si innamorò. Il celebre libro è del tutto singolare dal punto di vista editoriale e anche per questo così famoso, perché è di fatto la raccolta di una serie di modelli architettonici presentati non da un architetto, ma da un pittore, e ancor più perché è lo stesso artista che si fa imprenditore dell’iniziativa, sostenendone i costi di stampa. Per certi versi, la sua storia è ancora misteriosa. L’opera ha avuto una genesi complessa e non sappiamo ancora chi abbia fornito i disegni da Genova. L’anniversario 1622–2022 vale in realtà solo per la prima parte, cioè la sequenza di 72 tavole relative a 12 palazzi, tra quelli collocati soprattutto nell’area tra “Strada Nuova” (via Garibaldi) e il “Fonte moroso” (piazza Fontane Marose), con alcune ville fuori le mura. Ulteriori 12 palazzi, insieme a 4 chiese – per un totale di altre 77 tavole – sono state aggiunte nella ristampa del 1626 circa, che curiosamente reca in frontespizio la stessa data 1622. È importante distinguere le due fasi di realizzazione, poiché parrebbe diverso lo spirito con cui Rubens ha selezionato gli edifici. I primi dodici sono stati scelti tra quelli i cui proprietari sono aristocratici della “nobiltà vecchia”, come i Pallavicino, gli Spinola, i Doria, i Grimaldi, da sempre le più celebri casate della Repubblica di Genova e da sempre al potere nella guida della città. Rubens aveva conosciuto i padroni di casa direttamente, da quanto è possibile ricostruire circa le frequentazioni del duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga con cui egli si reca a Genova, o per le relazioni dirette con alcuni suoi committenti. La seconda parte, o edizione che dir si voglia, include edifici moderni, soprattutto appartenenti a famiglie della “nobiltà nuova”, come i ricchissimi Balbi e Sauli. Non si tratta di palazzi necessariamente ubicati nei quartieri recenti della città, ma anche nel centro storico, dove con operazioni di accorpamenti e annessioni si trasformavano edifici più antichi. Di questi non vi sono le sezioni, ma solo le facciate e le piante. Anche le quattro chiese selezionate sono le più “moderne”: non c’è per questo la cattedrale di San Lorenzo in questa sceltissima antologia. Il duomo si presentava allora come è ora, palesando la sovrapposizione di stili diversi, che appare così affascinante a noi, oggi, perché rende evidente la sua storia; ma che tale non era agli occhi del giovane europeo, alla ricerca, in tutto, di novità. Quanto a numero di tavole, fa eccezione la chiesa del Gesù, dove Rubens inserisce anche due sezioni. La ragione è evidente: voleva che si vedesse bene dove erano stati collocati i suoi due capolavori che ancora oggi sono eccezionalmente conservati nel loro altare originario: la Circoncisione del 1605, sull’altar maggiore della chiesa nuova dei Gesuiti, e I miracoli del beato Ignazio di Loyola, posto nel 1620 sull’altare della cappella di Nicolò Pallavicino, sulla testata del transetto sinistro.

Seconda Sezione
Genova meravigliosa

Pietro Paolo Paul Rubens nasce il 28 giugno 1577 a Siegen, in Germania, da una famiglia che tornerà ad Anversa alla fine degli anni ottanta, quando il futuro pittore rimarrà orfano del padre. La famiglia fa parte dell’élite politica di una città cosmopolita che da generazioni era governata dalle stesse casate, legate da matrimoni e relazioni commerciali, proprio come accadeva a Genova. Pietro Paolo, che ci piace chiamare con il suo nome all’italiana perché è quello con cui firma la prefazione del libro Palazzi di Genova del 1622, era destinato alla carriera del padre, dottore in legge. La intraprese invece il fratello Philipp, più giovane di tre anni (1574–1611), da lui amatissimo. Trascorsero insieme diversi mesi anche quando erano entrambi in Italia. Comunque indirizzato allo studio, il nostro Rubens si forma a Colonia e poi ad Anversa; impara il latino, studia il greco, e brilla al punto da entrare nella Communitas literaria, l’élite intellettuale formata da esperti di lingua e scrittura latina. Negli anni di scuola conosce Balthasar Moretus (1574–1641), che diventerà un editore di fama mondiale e che pubblicherà il celebre Palazzi di Genova. Chi lo voleva avvocato, chi politico… nel 1590, quando, a 13 anni, viene mandato in qualità di paggio alla corte di Marguerite de Ligne al castello di Escornaix, nelle Fiandre orientali. Può vedere la ricchissima collezione di Charles de Ligne, principe di Arenberg, duca di Aarschot e fratello di Marguerite. Lì può anche incontrare politici eminenti. A corte si parlava francese, lingua che Rubens conosce benissimo, come sappiamo dalle sue lettere: se ne conservano 252, in originale o in copia, di cui circa 200 in italiano, 35 in francese, 15 in olandese e una interamente in latino. Nel 1592 inizia la carriera di pittore, formandosi con tre diversi maestri, fino ad entrare nel 1598 nella gilda di San Luca ad Anversa: ora può avere una bottega e vendere le sue opere. Poco meno di due anni dopo, ha occasione di partire per l’Italia. Come ogni giovane artista dotato e speranzoso, certamente non disdegna l’idea di uno stipendio fisso, ma soprattutto desidera viaggiare, vedere, imparare. Il duca Vincenzo I Gonzaga lo vuole per sé alla corte di Mantova, ma passerà anche molti mesi a Roma. Tuttavia, il suo vero amore è per Genova. La città, vocata ai commerci e alle finanze, è ricchissima, colta, raffinata. La classe dirigente è intraprendente e laboriosa, come nella sua Anversa. Rubens vi arriva già alla fine del 1600, al seguito del duca. Vi trova gli “ingredienti” che miscelerà con le ispirazioni tratte delle antichità, per proporre un’arte innovativa e seducente. La grande bellezza che spinge Rubens a tornare più volte era sotto gli occhi di tutti. La ricordano fonti letterarie e figurative, siano esse tele dipinte o stampe, poesie o poemi. Sono in particolare i giardini a sorprendere. Dai parchi delle ville suburbane si vede il mare. Lì, fontane scenografiche e spettacolari grotte che fingono la natura affascinano ogni visitatore. Genova accoglie ospiti illustri, come registrano le cronache cittadine e i Libri Cerimoniali della Repubblica: il duca di Mantova approfitta del clima mite e dell’ospitalità dei proprietari di dimore sontuose ed eleganti. Qui Rubens ha la libertà di esprimersi oltre gli schemi, e i limiti imposti dalla Controriforma. Qui può inaugurare un nuovo corso della pittura europea.

Terza Sezione
Alla corte di Mantova Da Mantova a Genova con il suo duca
Appena arrivato in Italia, il giovane pittore di talento Pietro Paolo Rubens viene assunto dal duca di Mantova. Vincenzo I Gonzaga riesce a ingaggiarlo come suo pittore di corte, con lo stipendio annuo di 400 ducati. Nell’ottobre del 1600 Vincenzo I partecipa alle nozze (per procura) della cognata Maria de’ Medici con il re di Francia. Rubens è al suo seguito. Dopo i lunghi festeggiamenti, da Livorno, Maria s’imbarca per Marsiglia e il duca per Genova, prima di raggiungere i suoi feudi in Monferrato. Ospite in villa Centurione a Sampierdarena, prende i bagni di mare, salutari per il suo ginocchio malandato, gioca a dadi (perdendo molti soldi!) e s’intrattiene con bellissime dame. Rubens, paggio da bambino in un’elegante corte europea, nonché poliglotta, gli fa fare un figurone!
I ritrattisti di corte
 Il duca amava il lusso ed era molto vanitoso. Lo dimostrano i molti ritratti suoi e dei suoi famigliari, raffigurati sempre con sfarzo. Jeannin Bahuet era il ritrattista di corte, ma alla sua morte (1597) viene rimpiazzato con Frans Pourbus il Giovane. Di Bahuet è esposto uno sfarzoso ritratto del duca Vincenzo il giorno dell’incoronazione, che nella cura di ogni dettaglio – vesti intessute d’oro, raso bianco, cappa d’ermellino, corona carica di gioie – ben ripaga la vanità del duca, desideroso di risplendere come un astro fra le corti d’Europa. Un altro artista, Sebastiano Filippi detto il Bastianino, viene inviato da Ferrara per ritrarre la giovane e amatissima sorella del duca Vincenzo, Margherita. La vediamo in abito da sposa, accompagnata dalla sua inseparabile dama di corte nana, Isabella, una vera star all’epoca celebrata dai poeti. Il ritratto è realizzato prima delle nozze, come si usava, dal pittore di fiducia del suo futuro marito, l’anziano duca Alfonso II d’Este (al suo terzo matrimonio). Fortemente voluto da Vincenzo I e fatto appositamente venire dalle Fiandre, Pourbus resta un decennio a corte. È un esponente della più tipica “ritrattistica internazionale”. Le sue opere sono stupende, ma molto più tradizionali rispetto al realismo vivace di Rubens, che dà vita a una vera rivoluzione nel genere. Lo si nota subito se si osserva il volto “vivo” del piccolo Ferdinando, secondogenito del duca. Già avviato alla carriera religiosa, Ferdinando è ritratto in occasione della sua fresca nomina a cardinale, nel dipinto poco noto, ma bellissimo, della Pinacoteca di Bologna. Il giovane è però presto costretto a tornare alla corte di Mantova e vestire gli abiti del duca, perché muoiono a poca distanza di mesi sia il padre (1612) che il fratello primogenito.

Una Trinità… frammentaria
Un altro ritratto di Ferdinando è contenuto in un frammento della monumentale pala centrale di un grande trittico che il duca Vincenzo I chiese a Rubens per la chiesa della Trinità di Mantova e che includeva i ritratti dell’intera famiglia Gonzaga. Ciascuno di loro indossa abiti spettacolari e il timido Ferdinando sfoggia la croce dei Cavalieri di Malta, prestigioso ordine al quale appartiene fin dall’età di quattro anni. È uno dei pochi lacerti superstiti dopo lo scellerato frazionamento del trittico operato in epoca napoleonica dalle truppe francesi.

Quarta Sezione
Genova coltissima
Non è solo la bellezza a fare innamorare Rubens di Genova, ma anche il clima colto che vi trova. Colto lui stesso, è a proprio agio in una città incredibilmente vivace da un punto di vista intellettuale; tutto un pullulare di accademie: aristocratici, poeti, pittori, letterati e accademici si incontrano, si scambiano idee, si interrogano, discutono. Tali accademie hanno nomi improbabili – Annuvolati, Addormentati, Gelati, Intrepidi – e anche i soci portano curiosi soprannomi. In questi elitari consessi si organizzano anche spettacoli teatrali: gli attori sono gli stessi soci aristocratici e la scenografia è, scontato dirlo, lo scenario meraviglioso delle ville. Rubens è un giovane colto e ben istruito; conosce diverse lingue e le citazioni classiche che inserisce nei suoi dipinti sono la prova tangibile della sua buona cultura e di quanto abbia imparato velocemente nei soggiorni a Roma. Tra i promotori delle accademie troviamo i maggiori committenti di Rubens, da Gio. Carlo Doria ai fratelli Pallavicino di Strada Nuova, a Gio. Vincenzo Imperiale. Questi aristocratici paiono contendersi il fiammingo e, di riflesso, Rubens si compiace di frequentare persone di tale rango sociale e culturale. Non deve sfuggire che le dediche dei principali volumi pubblicati all’epoca sono spesso a membri delle celebri casate della nobiltà “vecchia” della Repubblica. Gio. Vincenzo Imperiale è poeta e collezionista ed è il committente della prima opera di Rubens per un genovese, Il compianto di Venere per la morte di Adone (sala 16). Giulio Pallavicino, ritratto da Rubens in uno dei suoi rari ritratti genovesi maschili, era anche un letterato, oltre che un ricco rampollo dell’aristocrazia genovese. Membro dell’Accademia degli Addormentati con il soprannome di “Il Timido”, Giulio è fratello del Nicolò che rappresenta il principale anello di congiunzione tra Rubens, il duca di Mantova e la committenza genovese. Incarna il prototipo dell’intellettuale di primo Seicento: nato cadetto (il primogenito è Francesco), può dedicarsi alla sua passione, le lettere. A confermare la sua innata vena intellettuale, basti pensare che la sua biblioteca, di cui redige personalmente un inventario (qui esposto), annovera oltre 2.000 volumi.

Poeti e pittori
Le frequentazioni tra poeti e pittori sono molto comuni. Con parole e versi capita anche che i poeti “dipingano” quadri realmente visti, come Giovanni Battista Marino, che, da poeta barocco per eccellenza, è ovviamente ispirato da alcune opere rivoluzionarie di Rubens. È il caso della storia di Ero e Leandro, di cui una versione era certamente in Italia, perché Marino la inserisce tra le “Favole” della sua Galleria. L’artista genovese Bernardo Castello si trasforma in imprenditore e pubblica a proprie spese tre edizioni del best seller dell’epoca, la Gerusalemme liberata dell’amico poeta Torquato Tasso, con tavole figurate, alcune su suo disegno, che ebbero grande successo. La prima edizione risale al 1590; proprio negli anni genovesi di Rubens, nel 1604, esce la seconda, cui seguirà la terza nel 1617. Vi sono poi pittori aristocratici, come Giovanni Battista Paggi e Sinibaldo Scorza, che Rubens probabilmente incontra. Non è un caso se il primo genovese per cui dipinge è Gio. Vincenzo Imperiale, noto poeta e raffinato collezionista.

Quinta Sezione
Genova città di famiglie
Genova è Repubblica oligarchica. Il gran numero di casate di nobiltà più o meno recente e spesso in conflitto l’una con l’altra aveva portato nel 1528 a ben due riforme promosse da Andrea Doria per mettere fine alle lotte tra fazioni. Oltre al dogato biennale invece che a vita, vengono introdotti gli “Alberghi”, clan composti da una famiglia principale a cui se ne aggregano altre. Alcune predominano, come gli Spinola o i Doria, che per la loro antichità sono più numerose e conservano un coté feudale. Altre “nuove”, si costruiscono uno status tramite i commerci o l’attività bancaria, come per esempio i Sauli, a cui appartiene il doge Lorenzo, in carica quando Rubens arriva la prima volta in città nel 1600. Per l’arciduca Alberto e l’infanta di Spagna Isabella d’Asburgo, di passaggio a Genova, il doge organizza un intrattenimento musicale all’aperto, in Albaro, a est della città, una delle località preferite dagli aristocratici per costruire le loro ville. Chiama Guilliam van Deynen, un pittore stabilitosi a Genova prima di Rubens, per immortalare questa giornata storica. È una sorta di fotografia, “scattata” il 10 febbraio 1599. Da “fotoreporter”, descrive l’evento con la necessaria cura dei dettagli. Suo fratello Antonio, paesaggista, lo aiuta nella meravigliosa descrizione della natura.

La memoria famigliare
Chi per accrescere le proprie ricchezze, chi per imparentarsi con personaggi blasonati, tutti gli aristocratici combinavano matrimoni strategici e istituivano fedecommessi di primogenitura per garantirsi di mantenere indivisi (e anzi aumentare) patrimoni stratosferici. Le antiche famiglie genovesi facevano redigere alberi genealogici per poter dimostrare legalmente quali discendenti avessero diritto a fruire dei patrimoni. Redatti dai notai sulla base di documenti per attestare diritti patrimoniali e appartenenze potevano trasformarsi in vere e proprie opere d’arte. Lo sono l’eccezionale albero della famiglia Doria o quello della famiglia Spinola, pezzi straordinari in mostra, il primo esposto per la prima volta in assoluto. Gli Spinola ci tengono particolarmente a mostrare un po’ ovunque il proprio blasone, che presenta una spina (“spinula”) conficcata nella scacchiera bianco-rossa, i colori di Genova. Lo vediamo addirittura su un grande guscio di tartaruga!
  
Due protagonisti: Ambrogio Spinola e Pietro Maria Gentile
La vera e propria celebrity dell’epoca di Rubens è Ambrogio Spinola, grande condottiero militare, pluridecorato del re di Spagna, governatore di Milano e, proprio in questa veste, ricordato da Manzoni nei Promessi sposi. Ambrogio sposa una Pallavicino, la sorella di quel Nicolò già più volte menzionato. Ambrogio diventa molto amico del pittore e si rivolge a lui per il suo ritratto, ma anche per il San Sebastiano. Il tema è perfetto: celebrare il guerriero che difende la fede cristiana, come Ambrogio si batte in difesa della patria. Un altro committente di Rubens molto importante è Pietro Maria Gentile, genero di Nicolò Pallavicino. Anche lui è un eroe della patria, per cinque anni prigioniero dei Savoia dopo la nota guerra della Repubblica nel 1625. Una decina di anni dopo ottiene da Rubens due tele monumentali che raffigurano Ercole e Deianira. Allora a Genova, oggi alla Pinacoteca Sabauda di Torino.

Sesta Sezione
L’altra faccia della medaglia
Il popolo di Genova ai tempi di Rubens
I molti pittori fiamminghi che, poco dopo Rubens, giungono in città e vi si stabilizzano più o meno a lungo ci hanno lasciato alcune “istantanee” dell’epoca, animate dal gradevole spirito cronachistico. Accanto alla pittura celebrativa, con soggetti storici, sacri o ritratti, la committenza genovese ama molto anche temi meno aulici, tratti dalla vita quotidiana. Questi dipinti, talvolta di dimensioni considerevoli, potevano arredare ambienti vissuti; magari anche in villa invece che nel palazzo di città, visto che erano molto gradevoli e allegri. In questo campo i fiamminghigenovesi sono maestri. Alcuni di loro diventano capiscuola e punto di riferimento per tutta la “colonia” di loro connazionali che tentano la fortuna. Persino Van Dyck, il più talentuoso allievo di Rubens, si appoggerà all’avviata bottega di Jan Roos e a quella degli amici Cornelis e Lucas De Wael. Addirittura alcuni pittori genovesi entrano a bottega dai fiamminghi. Ma non si dimentichi che anche queste opere possono celare messaggi trasversali: innanzitutto l’abbondanza di frutta e verdura dei grandi mercati ricorda che Genova è una città ricca e che sulle tavole nobiliari non mancano costosi ortaggi, magari quelli giunti dalle Americhe. Spesso queste composizioni sono anche allegoriche: alludono, per esempio, al piacere e al concetto di vanitas e quindi di caducità. La Genova di inizio Seicento è ricca, ma assai popolosa. L’aristocrazia è una élite. Ma vi sono anche mercanti laboriosi o artigiani capaci che aspirano all’iscrizione all’albo d’oro della nobiltà, nonché molti indigenti, che peraltro subiscono più direttamente i contraccolpi delle ricorrenti carestie. Il clima che si respira è comunque di convivenza sociale. Ciò si deve forse grazie alla prodigalità degli aristocratici. La proverbiale parsimonia genovese va in parte smentita, alla luce dei grandi episodi di carità e della politica di assistenzialismo che si registrano nel XVII secolo. Tra i protagonisti di questo capitolo della storia artistica ligure vanno ricordati innanzitutto i fratelli De Wael già ricordati: offrono le migliori cronache della quotidianità, in un clima di sostanziale pace sociale, ritraendo una serena convivenza tra nobili e contadini, priva di denuncia. Come i fratelli Guilliam e Anton Van Deynen, anche loro adottano la prassi, tipica delle botteghe nordiche, di dividersi le competenze (vedi sala 8): Lucas è il paesaggista e Cornelis il “figurista”, abilissimo e molto amato dalla committenza, anche aristocratica. Sono celebri proprio le sue serie con Le sette opere di misericordia. Altro artista molto importante è Jan Roos, a Genova tutta la vita, dall’età di 25 anni circa fino alla morte (1638), tanto che sposa una ragazza genovese, figlia di un ricco mercante di seta. Ritrattista e autore di dipinti allegorici, si distingue per gli splendidi brani di natura morta, che inserisce, talvolta, come “divagazioni”, anche in dipinti di altro genere. Suo cognato Giacomo Legi lo raggiunge a Genova per qualche anno, dopo essere stato a Roma; grazie a questo soggiorno nella capitale le sue animate scene si distinguono per un gioco luministico caravaggesco ignoto al Roos.

Settima Sezione
La rivoluzione del ritratto
Dalla ritrattistica “internazionale” alla rivoluzione
Nella storia del ritratto c’è un “prima” e un “dopo” Rubens. Il fiammingo inizia a Genova la sua rivoluzione, mentre ancora andava in voga il cosiddetto “ritratto internazionale”, dove l’effigiato posa frontalmente ed è statico; definito così poiché diffuso in tutte le corti da Madrid, a Praga, a Mantova. Rubens ribalta i canoni precostituiti e innova, recependo e trasformando gli stimoli dei geni del secolo precedente: il veneto Tiziano (un must nelle collezioni sia spagnole che genovesi) e Luca Cambiaso (impareggiabile genio). Rubens apprezza anche il naturalismo di tre capaci protagonisti della ritrattistica internazionale suoi contemporanei: Sofonisba Anguissola (la cremonese che lavora alla corte di Spagna e poi sposa un nobile genovese, abitando a Genova per oltre trent’anni); Jacopo Tintoretto (che opera sulla scia di Tiziano); Guilliam Van Deynen (a Genova prima e durante i soggiorni di Rubens); Frans Pourbus il giovane (ritrattista di corte a Mantova negli stessi anni in cui vi soggiornò Rubens). Lo scatto rubensiano in avanti matura nell’arco di pochissimi anni: dal 1604–1607 circa, con una dozzina di ritratti di genovesi (tra noti e perduti). Dagli studi più recenti possiamo ragionevolmente sostenere che la maggior parte di essi, capolavori assoluti della ritrattistica del barocco europeo, non furono mai pagati al pittore, ma furono doni del duca di Mantova ai suoi banchieri (e creditori) ai quali il Gonzaga “cedeva” per qualche mese il suo pittore di corte (vedi sala 13).

Precedenti genovesi e “scatto in avanti”
Cosa vede Rubens a Genova, in materia di ritratti? Di sicuro ammira Luca Cambiaso, vero genio della scuola genovese. Le sue qualità sono già evidenti nei ritratti inseriti nei tanti affreschi, ma quello proveniente dalla famiglia Balbi, esposto in mostra per la prima volta, giunge a esiti altissimi. La tensione, la concentrazione, la fedeltà fisionomica di questo anonimo giovane armato deve aver colpito tanto Caravaggio quanto Rubens. Anche Bernardo Castello, di una generazione successiva al Cambiaso e quindi un contemporaneo di Rubens, appartiene al più colto ambiente intellettuale che vede riunirsi poeti e letterati, pittori e aristocratici (vedi sala 4). Possiamo dare per certo l’incontro tra Castello e Rubens, ma l’arte del genovese nell’ambito del ritratto non dovette colpirlo: egli è ancora molto “imbrigliato” dal rigore della Controriforma. A esemplare in mostra la rivoluzione rubensiana in questo genere pittorico vi sono la Dama mantovana, dal volto espressivo e vivo; il ritratto dell’amico pittore Jan Wildens, con il movimento verso di noi che anima il “mezzo busto” dell’effigiato (nella sala successiva); e, soprattutto quello di Giovanna Spinola Pavese, eccezionalmente in prestito da Bucarest, Romania. Si conosce un secondo dipinto del tutto simile, di due dame abbigliate nello stesso modo e inserite nel medesimo setting, ma dal volto differente. Si tratta di due cognate, due aristocratiche della nobiltà “vecchia” sposate a due fratelli della nobiltà “nuova”, ritratte nel giardino del suocero Nicolò Pavese (un aristocratico originario di Savona). Lì, per quanto compromessa dal passare del tempo e dell’incuria, ancora si vede la celebre grotta di villa Spinola Pavese a Sampierdarena (a ovest del centro cittadino).
 
Ottava Sezione
I quattro elementi: terra
L’universo animato di Rubens
Le opere di Rubens ci travolgono in un vero e proprio universo dei sensi: la sua arte è coinvolgente a 360 gradi: con il colore, la luce e il movimento che innesca forze centrifughe nello spazio. Analogamente, i soggiorni in Italia e in particolare a Genova dovettero essere per lui una full immersion plurisensoriale nella bellezza. Il rapporto con la natura, emblematizzata in queste prossime sale con i quattro elementi, è un tema centrale nell’arte del maestro anversano. Si comincia con la terra, con il senso tattile, con i piedi nella realtà: non solo la “pittura di genere”, ossia la cronaca del quotidiano (vedi sala 6), ma la verità in pittura in senso più ampio, la concretezza di ciò che vediamo e sentiamo. La terra produce i suoi frutti che sono il sostentamento del genere umano. Ecco perché la sezione si apre con la raffigurazione di Cerere, dea della terra appunto, della fertilità e dell’abbondanza. Ma qui Rubens non ci offre una rappresentazione fantasiosa; non dimentichiamo che ha una solida formazione culturale e a Roma osserva e studia il mondo classico. La sua Cerere è ricca di citazioni ed è una personale e sapiente rivisitazione, di gusto antiquariale, di una statua realmente vista a Roma.

A quattro mani
La teletta con Cerere testimonia uno dei frequenti momenti di collaborazione con Frans Snyders, specialista in nature morte. In questo momento storico inizia ad affermarsi la pittura di paesaggio: il fiammingo Jan Wildens si specializza in questo genere pittorico che a inizio Seicento ha ormai acquisito una propria autonomia. Anch’egli collabora abitualmente con Rubens, come si vede nella grande tela della Pietà di Rodolfo d’Asburgo esposto per la prima volta in una mostra. Della composizione conosciamo più di una versione. La prima probabilmente è quella del Prado a Madrid. La stupenda versione esposta qui per la prima volta in ambito scientifico fu inviata da Anversa in Spagna, con Rubens e Wildens viventi, a Don Diego Messía marchese di Leganés. Oltre ad essere un’autorità, questi aveva sposato la genovese Polissena Spinola, figlia del celebre generale Ambrogio (vedi sala 5). Ritroviamo il dipinto in Inghilterra, a partire dall’Ottocento, nella galleria della splendida dimora degli Spencer-Churchill. Certamente lo vide da bambina Diana Spencer, Lady D.! La divisione del lavoro tra i due pittori – le figure di Rubens, paesaggio di Wildens – è evidente all’occhio del conoscitore; un po’ meno per chi non è del mestiere, per un semplice motivo: l’intento dei due pittori è sempre quello di creare la massima armonia anche stilistica tre le due diverse “mani”.

En plein air
Nella natura rigogliosa gli animali contribuiscono a creare un contesto idilliaco e paradisiaco. I pittori “animalisti” si esercitano en plein air, appuntando sulla carta o su piccole tele le pose e ogni dettaglio degli animali osservati dal vero. Proprio come faranno gli Impressionisti che, impropriamente vengono indicati come gli “inventori” della pittura di paesaggio dal vero. Certamente l’invenzione del colore in tubetti, ai loro tempi, fa aumentare di molto il numero degli artisti che eseguono opere fuori dall’atelier. Sinibaldo Scorza è in questo senso un antesignano tra i genovesi e certamente si ispirò ai fiamminghi. Nella sua miriade di schizzi si specializza nella pittura di animali, come altri fiamminghi-genovesi: Pieter Boel, ad esempio, nipote di Cornelis de Wael, che lo raggiunge a Genova per un paio d’anni, prima di diventare un celebre animalier alla corte del re di Francia, dove realizza soprattutto disegni per i cartoni utilizzati dalla celebre manifattura di arazzi di Aubusson. I fogli di Scorza testimoniano l’esigenza, da parte dei pittori, di crearsi dei personali repertori di immagini, dai quali attingere ogni volta che veniva loro commissionato un dipinto di soggetto analogo a uno già eseguito in precedenza. Frans Snyders, per esempio, replica moltissime volte, sempre con qualche variante, scene di caccia come quella esposta in mostra. Il suo ricco repertorio di animali in diverse pose gli consente di variare sempre e non perdere così la vivacità e naturalezza della scena.

Animali in dono
Rubens cavalcava “per la città, come gli altri cavalieri”, quando si trovava a Roma, come ci ricorda Pietro Bellori (1672). È noto che regalò un cavallo al suo allievo prediletto Antoon Van Dyck, in vista della sua lunga cavalcata verso l’Italia. Nicolò Pallavicino ne procura alcuni “di Spagna” per il duca Vincenzo Gonzaga, ma gli fa avere persino “un cammello novellino” per arricchire il suo “bestiario”. Quando Rubens viene mandato dal duca in Spagna con vari doni per la casa reale nel 1603, tra questi vi è un “carroccino” con “sei cavalli”, insieme a profumi, vasi di cristallo e d’argento. E, ovviamente, quadri. Gli animali rari e di razza erano dunque abitualmente considerati doni preziosi. Fra i doni di Nicolò al duca non mancavano, insieme alle piante d’arancio e ai costosissimi collari “a lattuga” (che erano i colletti in voga tra i nobili del tempo per sfoggiare, anche in questo dettaglio, la loro ricchezza) i “cani inglesi”. Questo amico dell’uomo, la cui presenza è così frequente nelle nostre case, era allora un vero e proprio lusso per pochi. In sala vediamo, in un dipinto di Aurelio Lomi, un molosso bianco, curato e vezzeggiato come una star. Si chiama Roldano. Il suo “cognome” è… Doria. Era stato donato dal re di Spagna Filippo II al fidato Giovanni Andrea Doria, successore del celebre ammiraglio Andrea, che dallo zio aveva ereditato anche l’amore per gli animali. Sappiamo perfino che Roldano fu sepolto nei giardini di Palazzo del Principe, la loro dimora quasi regale a Genova (che Rubens non include nel suo libro Palazzi di Genova, proprio perché impostata su uno schema antico e non adatto alla moderna borghesia d’Europa). Un cane in un quadro è spesso allegoria di fedeltà; significato che qui si aggiunge al fatto che si tratta di un vero e proprio ritratto… del cane, non del bambino!

Nona Sezione
I quattro elementi: aria
Prosegue il viaggio tra le meraviglie della natura, guidati dai sensi e dai quattro elementi. Il filo conduttore ora è l’aria: e chi meglio degli uccelli può simboleggiarla? La grande tela di Jan Roos esposta in mostra è chiaramente una scena troppo improbabile per essere un episodio davvero accaduto al giovane che posa tra una miriade di uccelli. È una vera e propria allegoria dell’aria, secondo il gusto barocco della favola che si fa figura in modo così vivo e coinvolgente. In questo dipinto vediamo bene come il Roos si “italianizzi”, sia nella scelta dei soggetti che nella resa delle figure. Non sono rare le sue scene, apparentemente “di genere”, che sottendono un’allegoria. Sono spesso realizzate su commissione, specie se in grandi dimensioni come questa. È molto probabile che facesse parte di una serie dedicata agli elementi della natura.
 
All’inseguimento dei pappagalli
A questo punto viene da chiedersi dove i pittori potessero vedere gli uccelli esotici che spesso compaiono e impreziosiscono i dipinti in quest’epoca. Sì, li impreziosiscono, perché, per esempio, il pappagallo onnipresente nei ritratti di Rubens, come accadrà in quelli di Van Dyck, è un simbolo di ricchezza: quegli uccelli erano bellissimi e molto rari, tanto che abbiamo testimonianza che anche il duca di Mantova li cerca e chiede aiuto ai genovesi perché gliene procurino qualche esemplare. Gli uccelli esotici venivano infatti “collezionati” nei giardini delle ville aristocratiche per essere esibiti agli ospiti in preziose voliere, e destare, una volta di più, grande meraviglia. Possedere un animale raro era uno status symbol. Anche se di epoca più tarda, la grande voliera d’argento esposta in mostra rievoca gli esemplari, ovviamente molto più grandi e non in argento, che ai tempi di Rubens si potevano vedere nei lussureggianti giardini dei ricchi genovesi.

Decima Sezione
Giardini incantati
Rubens ambienta all’aperto le proprie storie, siano esse sacre o profane.
La natura che raffigura non è però selvaggia: sono piuttosto giardini molto curati, ricchi di elementi decorativi e architettonici. Non è difficile immaginare quanto siano rimasti impressi nella sua mente i parchi delle ville genovesi, frequentati insieme al duca di Mantova durante i ripetuti soggiorni in città. Si dice, ad esempio, che per uno dei suoi dipinti più celebri, il Giardino dell’amore del Prado, l’ispirazione gli sia venuta proprio da un giardino di Genova. E nelle sue “Susanne”, come nel ritratto di dama presso una fontana di cui si è già detto, è evidente il mix tra la sua fantasia e ciò che vide davvero. Non manca mai una citazione classica. La miscela di ricordi di viaggi, contaminazioni fantasiose e uniche, rende la sua arte piacevole e colta.

La casta Susanna
A Genova, l’acqua è il mare, essenza dei commerci e delle scoperte geografiche, ma anche fonte di salubrità: Vincenzo I Gonzaga viene qui per curare il suo ginocchio malandato! Le fontane scenografiche ricordano i giardini genovesi, ma sono anche allegoria della purezza. L’acqua è l’antitesi (e antidoto) del fuoco che vedremo nel prossimo step di questo immaginario viaggio nei quattro elementi dell’universo rubensiano. Se il fuoco è la passione, l’acqua è la ragione. Ma nel Seicento – anche per merito di Rubens – i confini non sono così netti e nei temi sacri troviamo allusioni alla seduzione, oculatamente mascherati dal rimando a un soggetto biblico. Esemplare in tal senso è l’episodio del Vecchio testamento, Susanna e i vecchioni. Era molto amato dai collezionisti, perché consentiva di ammirare le bellezze femminili nonostante la pudicizia imposta dalla Controriforma tra fine Cinquecento e inizio Seicento. In mostra sono stati assemblati dipinti che presentano diverse interpretazioni del soggetto, utili a comprendere meglio la rivoluzione di Rubens. Si veda il contrasto con Frans Floris, fiammingo come Rubens, ma di una generazione precedente, pittore colto che intraprende un lungo viaggio di studio in Italia e soggiorna anche a Genova. Il meraviglioso dipinto è impregnato di cultura italiana e immerso in un’aura di classicità. I due vecchioni sono nascosti nella siepe e quasi non si vedono, mentre la composizione è un elegante divagare in un giardino rinascimentale ricco di citazioni dalla statuaria antica: il grande gruppo scultoreo era a Roma nel Cortile del Belvedere. Egli offre con la sua Susanna una visione più aderente allo spirito controriformista. Rubens invece mostra, in entrambe le versioni, della Galleria Borghese di Roma e della Galleria Sabauda di Torino, gli intenti poco nobili dei vecchioni, dando vita anche qui, di fatto, alla pittura sensuale con nudi femminili dalle forme generose per cui è noto. In equilibrio fra sensualità e cultura, Rubens trae ispirazione dalla statuaria classica e dalla pittura veneta del Cinquecento, piuttosto che da studi dal vero. La tela di Roma è la prima delle versioni di questo soggetto di Rubens e apparteneva al raffinato mecenate romano, nonché cardinale Scipione Borghese. Per difendersi dalle critiche sulla eccessiva sensualità dell’opera della sua collezione, il cardinale scrisse dei versi per difenderne la legittimità morale.
 
Undicesima Sezione
I quattro elementi: il fuoco
Nudo d’autore tra classicità e passione Il fuoco richiama immediatamente la passione e l’amore.
Maestra assoluta in questo campo è Venere. La vediamo rappresentata – naturalmente sempre svestita – in tre dipinti che ci mostrano come sia cambiata nell’arco di neanche cinquant’anni la raffigurazione del nudo. Per il grande maestro del Cinquecento genovese Luca Cambiaso, pur essendo centrale il tema della seduzione, la priorità è la rappresentazione del movimento e la sfida consiste nell’inserirvi figure dagli scorci arditi. Si guardi poi un artista raffinatissimo come Giovanni Battista Paggi che, alla fine del XVI secolo, reinterpreta il naturalismo di Cambiaso aggiungendo un prezioso ingrediente: le finezze della pittura toscana, assorbita durante un ventennale esilio lontano da Genova. La situazione “esplode” con Rubens: le donne si fanno sempre più formose, simbolo certo di abbondanza e ricchezza, ma anche di corpi che prendono vita e si fanno carne. A questo naturalismo egli associa numerose citazioni classiche, che per il suo pubblico cortese dovevano essere sicuramente un valore aggiunto. Nel capolavoro con Venere, Cupido, Bacco e Cerere, non solo il tema si ispira all’antichità, ma anche l’andamento orizzontale della composizione rimanda ai fregi scolpiti sui sarcofagi romani e rivela la profonda conoscenza da parte di Rubens della scultura classica. Rubens si serve di un repertorio di figure antiche – la Cerere si ispira alla statua romana dell’Afrodite accovacciata e la Venere alla Leda di Michelangelo – ponendole in un contesto nuovo. La composizione riccamente allusiva, in equilibrio fra pittura colta ed erotismo, incontrava il gusto dei suoi raffinati committenti.

Luca Cambiaso e le corti d’Europa
Ammirato da Rubens, Cambiaso è maestro indiscusso per la generazione dei pittori genovesi coetanei del fiammingo. Grande pittore internazionale, ambito dalle corti, viene chiamato dal re di Spagna Filippo II all’Escorial, la sua sontuosa residenza vicino a Madrid. Nonostante la sua modernità, resta però un pittore di Controriforma e si vede soprattutto nei nudi: più pudichi e controllati. Non è solo Venere a mostrarsi spesso senza veli. Nella mitologia anche Diana talvolta abbandona il suo cane, simbolo della caccia, per concedersi un bagno insieme alla ninfa Callisto. In mostra si possono ammirare due versioni realizzate da Luca Cambiaso. Quella di Kassel viene per la prima volta esposta accanto al Giudizio di Paride, con il quale condivide una nobilissima provenienza, ovvero l’incredibile collezione dell’imperatore Rodolfo II. Costui, vissuto – ma si potrebbe dire segregato – per gran parte della sua vita nel castello di Praga, era un collezionista quasi ossessivo: amante dell’occulto, curioso raccoglitore di oggetti da Wunderkammer, possedeva oltre mille dipinti, tra i quali due soli genovesi: quelli che abbiamo la fortuna di vedere qui. La possibilità, che ci viene offerta in questa occasione, di ammirare Rubens accanto a Cambiaso e a Paggi, così lontani e così vicini, fa emergere ancor di più le peculiarità del maestro fiammingo, come la sua colta sensualità, ma anche i suoi debiti nei confronti di un passato di ricerche formali, figure nello spazio nel primo caso, composta preziosità nel secondo.

Dodicesima Sezione
Il paradiso delle donne
“Grande è la libertà delle donne in questa città che, se qualcuno chiamasse Genova paradiso delle donne, non cadrebbe in errore”; “Sono certamente belle […] nobili e di grande candore. Hanno vesti costose, cariche di argento, oro e pietre preziose. Sulle dita smeraldi o diamanti, che sono estratti in tutta la Persia e l’India. Infatti, per qualsiasi motivo di ornamento, ogni spesa è giustificata”; parola di Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II (1432). Con il Cinquecento si esige via via maggior rigore, sia per la Controriforma, sia per l’entrata nella sfera politica della cattolicissima Spagna. Il governo della Repubblica promulga dunque leggi suntuarie che limitano l’esibizione di tessuti pregiati, gioielli e persino alcuni abbinamenti di colori. Si deroga in caso di visite illustri, quando si indicono feste e ricevimenti; occasioni fantastiche per sfoggiare splendidi abiti e gioielli mozzafiato. All’inizio del Seicento il potere di queste leggi si affievolisce e l’arredamento sontuoso delle dimore trova un degno corrispettivo nella sfarzosa eleganza delle belle genovesi.

Principesse spagnole e “principesse” genovesi
Le due elegantissime figlie del re Filippo II di Spagna, Isabella Clara Eugenia e Caterina Michaela, nate, a distanza di un anno l’una dall’altra, dal suo terzo matrimonio (su quattro!) con la figlia del re di Francia, vengono ritratte dalla cremonese Anguissola, che risiede per molti anni a corte (vedi sala 7). Non stupisce un outfit tanto prezioso (e costoso), trattandosi di due principesse. Sorprende piuttosto che anche le dame genovesi, adulte o bambine, potessero permettersi simili vesti e accessori. I documenti d’archivio sono utilissimi per comprendere il costo di tutto questo. L’inventario esposto in mostra, relativo ad abiti e gioie di Veronica Spinola Serra, ritratta da Guilliam Van Deynen, svela il valore di tutto ciò che indossa. La collana di 125 perle costa 8000 lire, l’equivalente di 6 anni e mezzo di stipendi a Rubens dal duca di Mantova; un bottone d’oro (ne vediamo ben 11) costava poco meno di una mucca! Moglie del ricchissimo Geronimo Serra (socio di Nicolò Pallavicino), la dama (di vent’anni più giovane di lui) indossa… un patrimonio!

Accessori del lusso
Oggetti d’uso, e quindi rarissimi a conservarsi, sono esposti nella sala intitolata “Paradiso delle donne”. Come la “ciappina”, un modello di calzatura diffuso nelle aree “spagnole” e usato sia a Genova che a Mantova. Era una zeppa in sughero, appannaggio sia delle cortigiane che delle nobildonne e poteva raggiungere un’altezza vertiginosa, fino a 45 cm: la dama aveva poi bisogno addirittura di due servitori che la accompagnassero per potersi muovere senza cadere. Non si è certi se zeppe così alte fossero in uso anche a Genova, anche se così sembrerebbero suggerire le proporzioni allungate nei ritratti dell’epoca. Come si vede nei dipinti di Rubens, i bottoni erano spesso veri e propri gioielli. Dal Tesoro dei Granduchi (Firenze), giungono in mostra quattro preziosi bottoni decorati con una minuzia sbalorditiva che si deve probabilmente a un fiammingo: non solo i pittori, ma anche numerosi argentieri si spostavano in Italia (e anche a Genova) dove ricevevano moltissime richieste dalle varie corti della Penisola, non ultima quella “corte sui generis” quale era di fatto la Repubblica di Genova.

Tredicesima Sezione
Tutte le dame di casa
Le ultime ricerche hanno dimostrato che oltre un terzo dei dipinti da Rubens per i genovesi erano destinati sostanzialmente a uno stesso “clan”: quello dei due soci in affari, Nicolò Pallavicino e Geronimo Serra. Non è un caso, visto che erano due finanziatori del duca di Mantova. È stato ricostruito una sorta di “albero genealogico figurato” che rende evidente gli incredibili incroci di parentela che uniscono le dame ritratte da Rubens. I matrimoni erano spesso dettati da ragioni patrimoniali e di prestigio familiare. La necessità di generare eredi portava a unioni sia con donne molto giovani o, al contrario, a far risposare vedove in età avanzata. Ecco perché sembrano appartenere a diverse generazioni dame pressappoco della stessa età. Le identità qui indicate sono in molti casi diverse da quelle che si sono associate per tempo ai ritratti: sono tra i risultati più importanti degli ultimi studi che la mostra vuole presentare e condividere.

I doni del duca
Questi ritratti, come si è detto, non furono mai pagati dai genovesi: erano un dono del Gonzaga che “cedeva” per qualche settimana il suo pittore di corte ai suoi banchieri e creditori. Non c’è da stupirsi, perché questa era una consuetudine. Il fiammingo, per esempio, era stato mandato in Spagna nel 1603, proprio per portare doni alla corte di Valladolid e vi si fermò a lungo per eseguire il ritratto del Duca di Lerma. Il Pallavicino e il Serra divengono entrambi feudatari del duca di Mantova: Vincenzo I si sdebita dei lori prestiti prima assegnando loro un feudo dei suoi territori del Monferrato (Mornese al Pallavicino e Strevi al Serra), così che, oltre ad avere delle rendite, i gentiluomini potessero fregiarsi anche di un titolo. Perché, va ricordato, i patrizi genovesi erano degli aristocratici, ma non potevano chiamarsi né marchesi né principi in mancanza di una terra associata a questo titolo. In mostra sono eccezionalmente esposte l’una accanto all’altra tre dame della stessa famiglia, di tre diverse generazioni. Sono la madre, la figlia e la sorella di Veronica Spinola Serra, la giovane bellissima moglie di Geronimo Serra (vedi sala 12). Salvo l’anziana Geronima, da poco vedova, sono tutte così somiglianti che si comprende la ragione delle molte confusioni verificatesi negli anni, sull’attribuzione delle identità di questi ritratti. Geronima Spinola Spinola (sia il padre che il marito appartenevano a questa celebre casata) rimane vedova alla fine del 1604 e decide di dedicare il resto della sua esistenza a Dio. Nel doppio ritratto vediamo che consiglia la stessa scelta alla nipote Maria Giovanna, che infatti entrerà in convento da lì a poco. Qui la giovane sfoggia, forse una delle ultime volte, i suoi abiti principeschi, mentre la nonna non ha alcun accessorio di lusso. Diversi indizi simboleggiano la loro vocazione religiosa: le due mani che si toccano, l’evidente nodo sullo sfondo che allude al legame con Dio; la colonna, ricorrente in Rubens ma qui esageratamente supportata da più ordini nel basamento, che allude alla solidità della fede. Violante Maria, forse in origine a figura intera come gli altri ritratti della serie, sposa anche lei un Serra e splende nel suo candore come la vera star di questa mostra.

Quattordicesima Sezione 
Lo spazio del sacro
La Cappella del Doge
Lo spirito della Controriforma suscita un nuovo tipo di religiosità, più immersiva ed emozionale. Rubens ne è ovviamente un interprete eccezionale e un innovatore. Nel palazzo ducale (o dogale) si svolgevano le attività istituzionali della Repubblica, ma vi era anche l’appartamento del doge (corrispondente alle sale che ospitano la mostra). L’edificio è quanto di più simile a una corte ci sia a Genova, ma con significative differenze. Sembra incredibile, ma l’appartamento non era arredato: la massima carica politica doveva portarsi i mobili da casa e provvedere anche ai costosi “robboni” (gli abiti), a carico del neoeletto. Il doge usciva poco e sempre scortato e nel palazzo, come in molte dimore aristocratiche, non mancava una cappella. Qui la decorazione è un tripudio di affreschi e stucchi con una decorazione che si deve alla regia di Giovanni Battista Carlone.

Rubens e la Chiesa
Rubens risiede a lungo a Roma, soprattutto nel 1606, anche con l’amato fratello Filippo, filosofo seguace di Justus Lipsius. La longa manus dei genovesi arriva anche qui. Giacomo Serra, nipote di Geronimo e Veronica Spinola (vedi sale 12 e 13) e cognato di Nicolò Pallavicino, è generale dell’esercito pontificio. È lui a mettere a disposizione 300 scudi perché venisse scelto Rubens al posto di Federico Barocci per la monumentale pala dell’altare maggiore della chiesa di Santa Maria in Vallicella, grande tempio sacro degli Oratoriani di San Filippo Neri. La commessa è molto travagliata. Il trittico doveva contenere l’icona centrale dipinta su rame con l’antica immagine della Madonna della Vallicella, un frammento di affresco ritenuto miracoloso. La prima versione, eseguita da Rubens, sebbene corrispondesse ai disegni e ai bozzetti approvati dalla Congregazione, gli viene rifiutata. Rubens tenta quindi di rivenderla al duca di Mantova, all’eccezionale prezzo di 800 scudi. Una somma esagerata, se si pensa che Rubens aveva fatto acquistare a Vincenzo Gonzaga la Morte della Vergine di Caravaggio (anch’essa rifiutata) per la metà! La pala non lo convince e oggi si trova a Grenoble.

Le chiese in “Palazzi di Genova”
A circa quattro anni di distanza della prima edizione del libro Palazzi di Genova del 1622, e curiosamente lasciando nel frontespizio la stessa data, Rubens aggiunge 19 palazzi e 4 chiese; quelle che considera più moderne. Non inserisce, per esempio, la cattedrale di San Lorenzo. Oltre alla chiesa Gesù (vedi sala 15), troviamo la SS. Annunziata, la Basilica di Santa Maria di Carignano e la chiesa di San Siro costruita per il nuovo ordine dei Teatini, in ascesa come quello dei Gesuiti, dove sorgeva la prima cattedrale di Genova e dove, non a caso, aveva la sua cappella Geronimo Serra. A differenza delle altre tre chiese inserite nella ristampa del 1626 del suo volume, illustrate solo con la pianta e la facciata, Rubens dedica uno spazio più importante per la chiesa “de Padri Gesuiti”, inserendo anche due sezioni. È evidente che il trattamento di riguardo si deve al fatto che a quella data vi erano già ospitate entrambe le sue due pale d’altare, ancora oggi eccezionalmente visibili nella loro collocazione d’origine, a pochi passi da qui.

Quindicesima Sezione 
Il miracolo Barocco della Circoncisione
Non è certo con la complessa pala della Vallicella (sala 14) che Rubens attua la sua “rivoluzione” nella concezione della pala d’altare, inaugurando l’epoca della pala barocca! La svolta avviene a Genova nel 1605: qui, come a Roma, la Compagnia di Gesù era un ordine nuovo e potentissimo. Non è un caso che fosse legato a una delle più influenti famiglie del patriziato genovese, i Pallavicino. All’iniziativa di uno dei fratelli del banchiere Nicolò, il padre gesuita Marcello, si deve la costruzione della chiesa (che troverete a pochi metri dall’uscita da Palazzo Ducale) e il successivo arredo. Il finanziamento però è di tutta la famiglia, la moglie di Agostino Pallavicino e i quattro figli maschi, che spendono oltre 400 mila scudi per l’edificazione e gli arredi. Essi ottengono il titolo di fondatori e il privilegio dell’altar maggiore, con funzione di cappella gentilizia e diritto di sepoltura. Il risultato di questo lavoro, svoltosi nell’arco di pochi anni, a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, è una chiesa di straordinaria ricchezza conservatasi pressoché integra nel suo sontuoso aspetto barocco, ricca di affreschi, stucchi dorati, marmi policromi e un’infilata di capolavori nelle cappelle assegnate alle più importanti famiglie del patriziato in quel momento. In seguito, come già ricordato, dopo la morte di Nicolò avvenuta nel 1619, la chiesa sarà arricchita da un’altra opera di Rubens: i fratelli Pallavicino si impegneranno a completare l’arredo della cappella di cui il celebre banchiere aveva il giuspatronato, posta sulla testata sinistra del transetto e dedicata al beato Ignazio di Loyola, commissionando per l’altare la pala con I miracoli del beato Ignazio di Loyola (bozzetto in sala 2), fondatore dell’ordine in procinto di diventare santo (1622). La sala 15 è dedicata alla prima pala, per l’altar maggiore, eseguita durante gli anni italiani di Rubens, nel 1605. Il dipinto doveva avere come iconografia la Circoncisione: il rito durante il quale a ciascun bambino ebreo veniva apposto il nome (Vangelo di Luca, 2:21) era centrale nella catechesi dell’ordine dei Gesuiti, perché collegato al tema del Nome di Gesù. Dipinta a Mantova e poi spedita a Genova, la pala fu posta tra due monumentali colonne in marmo nero estratto dalle cave di Framura (oggi una delle celebri “Cinque Terre” della Riviera Ligure di Levante), trasportate con un’operazione così complessa, per la loro dimensione e il loro peso, da essere registrata nelle cronache cittadine. L’artista, con ogni probabilità, tornò a Genova alla fine del 1605 per sovraintendere personalmente alla messa in posa del suo grande dipinto (quasi 5 metri in altezza). Rubens interpreta il soggetto come un evento drammatico, colorato ma orchestrato nel contrasto luce-ombra. Le figure sono disposte a semicerchio sotto un grappolo di angeli, tra i quali irrompe un raggio di luce divina. Le espressioni forti e concitate sono di un realismo inaudito. Tutto si muove e si fa teatro. Questo è il Barocco.

Sedicesima Sezione
Due casi-studio
 Il misterioso Rubens ritrovato
Nascosto per quattro secoli, il Cristo risorto di Pietro Paolo Rubens riaffiora dal nulla. È una delle sorprese che riserva la mostra. Il comitato scientifico ha deciso di fermare il restauro a metà, perché si cogliesse meglio la curiosa storia esecutiva del quadro. L’opera era data per dispersa, ma la sua esistenza era nota grazie all’incisione di Egbert van Panderen, che Rubens aveva autorizzato a riprodurre un dipinto visto nel suo atelier. Da lì a poco, intorno al 1615, Rubens stesso coprì la figura di sinistra, ridipingendo la Madonna in una posa diversa. L’episodio descritto non è presente nella Bibbia, ma nei cosiddetti “Vangeli Apocrifi”, molto diffusi e cari al credo popolare. Rubens dipinge sopra alla precedente una “nuova” Maria, con il manto azzurro invece che violaceo. Il volto è molto espressivo e assolutamente convincente e reca il tratto tipico del maestro. Ma era un originale anche la “prima” Maria. Altrimenti Rubens non avrebbe autorizzato la riproduzione con il suo nome. Forse non capiremo mai com’è andata davvero, né quando l’opera sia arrivata a Genova. Le fonti che la ricordano nel palazzo Grillo Cattaneo (già in via Interiano; distrutto), per poi passare in due dimore della famiglia Cambiaso. La ricerca archivistica non ha reso possibile finora documentarne una presenza anteriore in città, né tanto meno dimostrare che si tratti di una commessa diretta di un genovese al pittore – come nel caso di molte opere di questa mostra – o di un acquisto ad Anversa con Rubens in vita. Ma il dubbio su dove si trovasse l’opera dal secondo decennio del Seicento fino all’Ottocento non è l’unico mistero che ancora l’avvolge.

La copia
Emblematico dei rapporti di Rubens con gli ambienti più raffinati a Genova è quello con Gio. Vincenzo Imperiale, la cui moglie Brigida Spinola, ritratta da Rubens quando ancora era sposata con Giacomo Doria, è peraltro una delle icone femminili rubensiane (ora a Washington, National Gallery). Gio. Vincenzo, appartenente a una delle più importanti famiglie del patriziato, era dotato di una naturale propensione per le lettere e aveva il privilegio di potersi dedicare ai suoi interessi culturali, almeno fino alla morte del padre (1622). Gli inventari della quadreria e della biblioteca, oltre ai suoi stessi scritti, dimostrano le sue scelte raffinate; le stesse che lo portano a essere il primo committente genovese di Rubens, che incontra probabilmente già nell’ottobre del 1600. Il primo dipinto da lui richiesto raffigura Il compianto di Venere su Adone morto (1600–1601), a cui segue lo splendido Ercole e Onfale del Louvre (1605 circa). L’opera esposta, già presentata e pubblicata come autografa, è a detta di tutti gli studiosi di Rubens una copia, come si può vedere dal segno rigido, privo di energia, verve, e del tocco magico del maestro. L’originale, ancora disperso, è forse andato perduto in uno dei trasferimenti da una collazione all’altra: da quella Imperiale a quella di Francesco Maria Balbi-Senarega; da qui alla raccolta di Cristina di Svezia a Roma; poi venduto a Livio Odescalchi, duca di Bracciano. Nell’inventario di quest’ultimo (1713–1714) compaiono ben tre copie de La morte di Adone di Rubens. È quasi certo che una di esse sia il dipinto qui esposto.
 
Palazzo Ducale di Genova
Rubens a Genova
dal 6 Ottobre 2022 al 22 Gennaio 2023
Lunedì dalle ore 14.00 alle ore 19.00
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 21.00