Giovanni Cardone Giugno 2025
Fino al 30 Settembre 2025 si potrà ammirare presso la Galleria Area 24space di Napoli una mostra dedicate alle Avanguardie Storiche a Napoli tra gli anni ’50 e ’60 a cura di Andrea Della Rossa testo di Jacopo Ricciardi. L’esposizione è dedicata a sette protagonisti della scena artistica napoletana tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ovvero Renato Barisani, Guido Biasi, LUCA (Luigi Castellano), Lucio Del Pezzo, Sergio Fergola, Mario Persico e Guido Tatafiore. Come scrive nel suo testo Jacopo Ricciardi : Quanto Andrea Della Rossa, curatore della mostra “Avanguardie artistiche a Napoli negli anni ’50 e ’60”, abbia caro questo periodo e gli artisti che lo animano, tanto da dedicar loro una seconda esposizione presso lo spazio napoletano Area24, lo si può riscontrare nella sublime qualità delle opere, scelte con amoroso desiderio. Del “Gruppo 58” gli artisti presenti sono Lucio del Pezzo, Mario Persico e Guido Biasi. Ma il racconto inizia sette anni prima: È del 1951 il dipinto di Guido Tatafiore, napoletano come tutti i pittori in mostra, e ciò che colpisce della sua astrazione geometrica, tagliata in forme colorate senza curve, è un contrasto oggettuale che trasforma la piatta superfice rivelando il gioco ‘occupazionale’ compositivo; quattro livelli ritagliano un proprio spazio in una profondità mentale, da una sola superfice, e sono: il fondo marrone, giallo e grigio scuro; la forma irregolare nera con triangoli bianchi; il riquadro con due verdi scuri, rosso e nero; e infine il taglio ampio del grigio chiaro, all’angolo destro in basso.

Da questo dipinto si salta alla fine degli anni Cinquanta, precisamente nel 1957, con un’opera “Nucleare” di Guido Biasi, che bene annuncia l’infinitesimo come mondo di partenza di una nuova rappresentazione umana: l’infinitesimo è quindi una grotta ignota che offre i suoi reperti, simboli perduti, materie in grumi, frammenti ritrovati (le manine aperte raggruppate), tracce come percorsi che implicano movimenti e storie che risalgono all’uomo (“Lieuperdu”, ‘61); in “Ritratto equivoco di un alchimista”, del ’62, siamo portati in un mondo di immagini rupestri dall’origine sconosciuta, in un’esecuzione di finissima elaborazione, in uno spiccato realismo che va dal fondo alla linea. Torniamo indietro al 1958 con il dipinto di Fergola “Studio n.13”, nel quale l’assetto ‘Nucleare’ è una lotta: il fondo nero materico risucchia, nel proprio vuoto concreto, il
dripping dorato con la sua gravità spaziale. Mario Persico crea popolazioni in attesa, colloquianti, dorate anch’esse, emerse su un piano in un cielo notturno che, aprendosi, resta grotta che le contiene ancora, in voli di linee e incrostazioni liriche assai gentili e sognanti, come digressioni Ernestiane; in “Personaggio con due finestre” genera un robot pieno di
rèveries materiche che come in un fregio continuo sussultano sorprese, disegnando in una larga fascia la figura la cui testa è un 2, con un occhio di Horus che vola lì accanto (ecco un’alternativa a Dubuffet!). Pieno di filamenti biologici è il corpicino massiccio contenente un cosmo di concretezze oggettuali misteriose, come il senso sfuggente di una J irraggiante in campo nero dentro di lui (“Bimbo con il cuore ipsilon”, ’61). Il realismo del muro che regge la “Cronaca di un re braccato”, del ’62, emana una profonda goduria sensibile. LUCA (Luigi Castellano): una rete nera giocata morbida nell’ombra del colore con accensioni rosse e blu (”S.T arcipelago della memoria, ’60), e, in un’altra opera, il nero del reticolato, indurito, su differente nero del fondo, crea una seduzione percettiva della presenza (“O guarracino”, ’60). La trama non fittissima, calma, ondulata in pieghe, è liberazione e costrizione d’aria: la materia ha quindi un respiro (forse questo è già un superamento dell’unità drammatica materiale nelle opere degli anni Cinquanta di Dubuffet). Delle tre opere del 1961, di Renato Barisani, sconcerta la bellezza delle diverse matericità dei fondi, dove presenze estranee e complesse si fissano, anche loro nell’aspetto fortemente dissimili, creando eclettismi universali: in un grigio luminoso, dalla crosta fina e friabile, porosa al tocco voluttuoso dello sguardo che desidera la mano, emergono caselle lucide carbonizzate in parte, inquietanti quanto attiranti anch’esse (“Quasi scultura”). In “Segni sulla sabbia”, su un fondo sabbioso di profondità smeraldo-cupo, si traccia una grafia antropologica in nero bianco verde e giallo, come se un gessetto lavorasse sulle asperità di un piano non del tutto levigato epperò spianato. La sabbiosità ferrosa del fondo è uniforme in “Fascia metallica”, e lì passa, scavata e orizzontale, con bagliori neri verdi e bianchi, una zona di memoria terrestre (lo è anche l’isola simile a un sasso o a un osso, rimasta lì immersa e galleggiante) che svuota la materia del fondo. Per Lucio del Pezzo, l’organico e il meccanico si innestano estranei e corporei, polposo il primo, volume grigio sezionato il secondo: un esofago che scende in una sacca, con degli ingranaggi accerchiati e assicelle che scivolano dietro la sua centralità, intrappolati tra esso e il fondo: l’artista, qui, in “Il giorno appartiene a qualcuno”, del ‘61, si interroga su cosa sia l’essere vivente, lo spazio vivente, all’interno di un uomo, sondando il legame tra la persona e il pianeta che lo contiene, che gli sta addosso. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle Avanguardie Storiche a Napoli apro il mio saggio dicendo: Caduto il fascismo, nascevano associazioni come quella intitolata ai Liberi Artisti nelle mostre organizzate nel ’44 e ’45 presso la galleria Forti in cui troviamo ancora gomito a gomito artisti che avevano combattuto nella Resistenza e artisti che avevano militato nelle organizzazioni fasciste. Vennero istituiti due importanti Premi, Bergamo e Cremona, nel 1939. L’idea dei premi era strettamente correlata ad una politica di incentivi che valeva e legare sempre di più gli artisti al carro del regime. Alle tre edizioni dei due Premi Bergamo e Cremona, naturalmente parteciparono anche alcuni napoletani. Al premio Bergamo i temi assegnati erano abbastanza generali: un paesaggio, nella prima edizione, due figure umane nella seconda, una natura morta nella terza pertanto anche gli artisti napoletani non ebbero nessuna difficoltà a interpretare liberamente i soggetti indicati. Nel primo Premio Cremona, vi era il tema di ascoltare alla radio un discorso del duce, scelto con l’intento di indurre gli artisti a rappresentare un soggetto moderno e tecnologico oltre che fascista. Brando con la sua pennellata sciolta e piacevole si limitò a rappresentare un ambiente domestico intimo dove una mamma sta allattando il suo bambino mentre ascolta la radio. Il soggetto della seconda edizione, indicato da Mussolini in persona nella ‘Battaglia del grano’, si traduceva nella pittura solare di Mercadante in una rappresentazione della vita rurale delle campagne del Cilento in cui l’artista raffigurava “Le vagliatrici”. A Napoli sullo scorcio degli anni ’30, fra le varie opere pubbliche spiccano la Stazione Marittima e la Mostra d’Oltremare. Il concorso per la Stazione Marittima fu vinto da Cesare Bazzani con un progetto che mediava fra avanguardia e tradizione, gli edifici furono completati nel 1936, subito dopo fu bandito il concorso per la parte decorativa. Il concorso per gli affreschi fu vinto da Chiancone che realizzò “Africa e America” e da Barillà autore delle raffigurazioni di “Europa e Asia”. Ciascun opera viene rappresentata in tre fasce: quella in alto ospita personalità allegoriche o mitologiche; il registro centrale raffigura scene di vita del continente a cui è dedicato e in quella in basso la città italiana a esso collegato. Più complessi sono il progetto e la realizzazione della Mostra D’Oltremare Vincenzo Tecchio Commissario generale governativo della Triennale delle Terre Italiane D’Oltremare, seguì un programma articolato che prevedeva subito dopo l’edificazione degli immobili commissionati a importanti architetti del tempo, il loro abbellimento con elementi decorativi sia pittorici che scultorei. Purtroppo a un mese dall’inaugurazione nel 1940 l’Italia entrò in guerra e la mostra fu chiusa. In questa impresa notevole troviamo tutti i più importanti artisti napoletani, a Brancaccio fu affidata la decorazione ad affresco della sala interna al cosiddetto Cubo d’oro mentre a Girosi e a Notte spettò la decorazione del Palazzo degli Uffici, a Barillà e a Chiancone fu commissionata la decorazione del Palazzo dell’Arte annesso al Teatro Mediterraneo e infine a Fabbricatore il mosaico con motivi classici che doveva ornare l’Arena Flegrea progettata da De Luca. Le opere decorative erano veramente in gran numero molte si sono danneggiate o sono andate distrutte per effetto dei bombardamenti. Con il secondo dopoguerra la Mostra d’Oltremare viene modificato in parte il suo assetto. Dopo la guerra il clima della ricostruzione era ricco di fermenti positivi, ma emergeva una netta distanza dalle esperienze artistiche europee . Nacquero nuove associazioni e gallerie d’arte. Sia l’Accademia delle Belle Arti e l’Istituto d’arte che erano ancora attivi e operanti fra le due guerre, hanno sicuramente lasciato un’impronta nella formazione delle generazioni successive, Emilio Notte, Giovanni Brancaccio e Manlio Giarrizzo. Si distinguevano per la loro capacità di rinnovarsi negli anni quaranta e cinquanta, il primo era un autentico maestro d’Accademia, nel senso aulico del termine, capace di aprire finestre significative su parecchie delle avanguardie storiche. Negli anni ’40 Emilio Notte aveva ripreso l’Impressionismo alla Renoir ed era passato al picassismo da ‘periodo rosa’. Il neocezannismo sarà senza dubbio il linguaggio prevalente nella sua produzione tarda, negli anni ’50 è stato da lui rivisitato con lo spirito tagliente dei neorealisti in dipinti che ci testimoniavano un altro aspetto del suo percorso il forte impegno politico, con una militanza attiva nelle file del P.C.I. ricordiamo ad esempio, l’opera, di grande potenza espressiva, con cui rievocava gli episodi drammatici legati all’occupazione delle terre in Sicilia, “La strage di Melissa”. Giarrizzo, relegato a Napoli nell’insegnamento di Scenografia, ottenne molto tardi una cattedra di pittura, viene ricordato dagli artisti più giovani come un compagno di strada che attraverso le sue ricerche lo aveva condotto all’astrattismo ed in seguito ha quelle postcubiste. Il punto di arrivo del suo percorso saranno opere di una estrema essenzialità formale, come “Segmenti” o “Composizione in giallo”. I primi timidi tentativi di rinnovamento si cominciarono a intravedere quando nel 1944 si formò una Libera Associazione degli Artisti Napoletani. Furono ammessi anche artisti che durante il ventennio si erano inseriti bene nelle organizzazioni culturali fasciste. L’intento era quello di una sorta di educazione all’esercizio della libertà e per questo motivo la mostra ospitò due ritratti emblematici, quello del colonnello “Edgar Erskine Hume”, “il liberatore”, a firma di Brancaccio e quello di “Benedetto Croce” baluardo del liberalismo antifascista, realizzato da Ricci. La politica della galleria di Giulio Forti in via dei Mille, si orientava alternativamente verso autori dell’800 napoletano già collaudati e verso artisti contemporanei. Nel marzo 1945 si tenne il Premio Forti, secondo Paolo Ricci si distinguevano soltanto Tarchetti, Tatafiore col suo “Autoritratto” e pochi altri. In polemica con questo premio, molti giovani capeggiati da Federico Starnone organizzarono una “mostra di rifiutati”. Mentre riapriva i battenti la Società Promotrice ‘Salvator Rosa’ e si avvicendavano varie aggregazioni di artisti, i primi veri segnali di rinnovamento vennero dalla rivista ‘Sud’. Redattore capo era Carla De Riso, sulla rivista uscivano racconti e poesie di Antonio Ghirelli, di Giuseppe Patroni Griffi, di Franco Rosi, di Vasco Pratolini, di Alfonso Gatto e poi recensioni di Paolo Ricci, di Arturo Bovi, di Gianni Scognamiglio articoli di fondo e cronache cinematografiche, musicali e critiche teatrali, oltre ai versi di un poeta lucano allora sconosciuto Rocco Scotellaro. Il Programma ambizioso era quello di riannodare i fili della cultura napoletana con quella italiana ed europea con la convinzione che fare della letteratura significa assolvere un dovere sociale e politico. L’impegno ideologico non diventò comunque settarismo politico col risultato che il giornale diventò scomodo per tutti, per la cultura ufficiale di marca reazionaria, ma anche per il P.C.I. Nel 1947 all’epoca della querelle tra il P.C.I. e Vittorini conclusasi con la sua fuoriuscita dallo schieramento comunista nel 1951, la rivista appoggiò le posizioni di quest’ultimo. Con Vittorini le riviste il ‘Politecnico’ e il ‘Sud’ si condividevano l’interesse per la letteratura americana contemporanea, la curiosità verso tutti i movimenti che indagavano la natura dell’uomo, l’interesse verso tutte le arti, l’importanza accordata alla veste tragica del giornale, come moderno strumento comunicativo e in particolare al ruolo assegnato alle immagini come un vero contrappunto al testo verbale e non solo in funzione decorativa, era diversa la scelta specifica della grafica che nel ‘Politecnico’ seguiva un andamento verticale nella pagina, mente in “Sud” si atteneva ad uno schema prevalentemente orizzontale. “Sud” avviò anche all’esterno delle iniziative promozionali, con l’organizzazione di varie attività culturali, dai concerti alle mostre, ai cicli di proiezioni cinematografiche, alla pubblicazione di una “Collezione Sud di Cultura” e di una collana letteraria.

Ben preso i migliori collaboratori si allontanarono nel 1947 la rivista cessò la pubblicazione, ma Prunas fino al 1950 cercò di tenere in piedi la redazione, grazie a Prunas nacque il Gruppo Sud di cui era stata programmata una mostra. Il Gruppo non aveva un programma preciso e raccoglieva artisti di tendenze diverse, che erano innanzitutto amici, preoccuparsi di farsi spazio in un mondo monopolizzato dai vecchi detentori del potere accademico e mercantile. Prunas e Scognamiglio in attesa di dare vita ad una galleria Sud progettata ma mai aperta, organizzavano mostre, appoggiandosi alle varie gallerie napoletane. La prima mostra del Gruppo Sud ebbe luogo nel dicembre 1947 al Circolo degli Ingegneri e degli Architetti. La risposta della critica fu positiva. In quegli anni in Italia si cominciavano profilare due schieramenti: i realisti, paladini del contenuto, e gli astrattisti fautori della forma, tuttavia anche fra i realisti non c’era una visione unitaria ma una contrapposizione tra i seguaci di un’arte nazional-popolare e i picassisti, come dimostrano i due manifesti “Realismo e poesia” e “Oltre Guernica”. Questo secondo manifesto fu sottoscritto anche da Morlotti e Vedova, promotori di lì a poco della Secessione. Nell’aprile del 1947 a Napoli un gruppo di artisti firmava un manifesto della Seconda Secessione delle arti figurative e plastiche. Questo manifesto reso pubblico da Barisani che dall’aprile 1947 il Gruppo Sud era in gestazione ma non ancora formato, il manifesto della Secessione degli artisti napoletani è chiaro che riecheggia quello del ’46 redatto al Nord e presenta lo stesso carattere conciliatorio del Fronte nuovo, ma con una posizione più moderata e ambigua, tanto è vero che non si esprime né a favore dell’astrattismo, né a favore del realismo, ma si limita ad avanzare una posizione genericamente antitradizionalista ponendo fra i suoi obiettivi una creazione artistica che importi la partecipazione dell’individuo alla vita del suo tempo. Dopo la spaccatura del Fronte si recupera la tradizione ottocentesca si dà una lettura in chiave neorealista addirittura di Caravaggio si apre un lungo processo a Picasso che si chiude solo con le grandi mostre di Roma e Milano del 1953 quando vengono banditi Surrealismo ed Espressionismo considerati eccessivamente inclini a un lirismo individualistico. Al confronto gli artisti di Sud operarono scelte decisamente più libere, pur senza rinunciare alla loro formazione figurativa. Per loro il problema di una presa di posizione si poneva nei confronti della tradizione locale. Un ruolo importante ha Tarchetti sia come elemento coagulante del gruppo sia per la sua preziosa funzione di tramite tanto con la Scuola romana quanto con le ricerche francesi da lui conosciute direttamente nei suoi soggiorni a Parigi. Per aggiornarsi gli artisti consultavano le riviste che arrivavano alla biblioteca dell’istituto francese Grenoble e a quella dell’USIS americana. Quando nel 1948 aprì i battenti la Quadriennale, nessuno degli artisti del Gruppo Sud fu invitato. Gli artisti di “Sud” intensificarono la loro attività espositiva a Napoli appoggiandosi alla galleria ‘Al Blu di Prussia’ di Guido Mannaiuolo, uomo colto e sensibile, disposto a ospitare i giovani senza compensi, altro punto di riferimento per i giovani fu anche la galleria di Errico Accinni, ‘La Florida’. Nel 1948 per i giovani napoletani cominciavano alcune modeste affermazioni fuori di Napoli gli artisti del Gruppo Sud si presentavano per la prima volta a Milano in una mostra alla Casa della Cultura, “I pittori di Napoli”, organizzata dall’Associazione Meridionali, con la compresenza di artisti di due generazioni, nel contempo ebbero una buona affermazione al Premio Formia del 1948, dove furono premiati Corrado Russo e Tarchetti insieme ad altri sei pittori italiani. Una piccola rappresentanza di “Sud” espose nella mostra nazionale che nello stesso anno si tenne a Cava dei Tirreni. In quella sede emergevano con più evidenza alcuni caratteri proprio della cultura visiva del Sud esempio i legami sotterranei con la tradizione secentesca, di un espressionista convinto come Lippi. In quegli anni furono parecchie le iniziative culturali promosse da “Cultura Nuova”, fra queste la mostra realizzata nel 1953 da Guttuso all’Università, in occasione di una conferenza del pittore siciliano sull’importanza di Picasso. Alla fine del 1948 il Gruppo Sud espone al Boheme Club di via dei Mille. Nel 1949 si delineano in modo chiaro i due schieramenti all’interno del gruppo: i realisti Tarchetti, De Stefano, Lippi, Montefusco, Florio e gli astrattisti De Fusco e Tatafiore che cominciano ad approfondire il nesso strutturale tra forma-colore di derivazione cubista. Nel 1950 la scissione del Gruppo Sud è una realtà. All’inizio la separazione non fu traumatica, ma il progetto non andò in porto e ben presto il confronto diventò contrapposizione. Dalle esperienze culturali maturate nell’ambiente di “Sud” ci fu il romanzo della Ortese “Il mare non bagna Napoli”, il titolo fu trovato da Prunas che ne doveva essere l’editore e che ci ha lasciato vari schizzi per il progetto grafico della copertina. Passato il libro a Einaudi, Vittorini allora direttore della ‘collana 2I gettoni’, volle che la Ortese lasciasse i nomi veri dei personaggi degli ambienti napoletani cui faceva riferimento. Il libro, che con i suoi toni aspri ricostruiva il clima di quegli anni e il fallimento di “Sud” e delle speranze degli intellettuali napoletani che si erano identificati nella rivista, suscitò molte polemiche e segnò veramente la fine dell’avventura di “Sud”. De Stefano, Lippi e Montefusco, usciti dal gruppo si avvicinarono alle esperienze nazionali del Neorealismo alcuni di loro strinsero rapporti con il P.C.I. Non sempre i risultati furono felici, tanto che Lippi che aveva mortificato le complesse ricerche coloristiche a favore di una figurazione schematica, di una composizione illustrativa fino a essere didascalica, sarà indotto negli anni successivi a distruggere qualunque traccia delle opere di quegli anni che possiamo oggi conoscere solo in fotografia. Nel caso di De Stefano, il Neorealismo gli offrì l’occasione per la sua prima affermazione autentica, è in questa fase che De Stefano matura le sue convinzioni più profonde, di una sua vocazione rappresentativa è della necessità di non perdere le proprie radici etniche e culturali. Nella sua produzione il Neorealismo è alla base come il dipinto “La ragazza nel canneto” che introduceva accanto ai temi del lavoro e del disagio anche la scoperta di una femminilità esuberante non troppo lontana da quella fissata ormai nella memoria collettiva, come descritto nel film “Riso amaro”. Nell’adesione al Neorealismo Montefusco invece, mantenne intatta tutta la sua feconda irrequietezza pur aderendo alle tematiche sociali, non si fece irretire dal sogno di un ‘realismo socialista’, al punto da adottare un linguaggio schiettamente espressionistico, sia quando dipingeva le sue “tragiche - Nature morte”, in cui un cavolo o una cipolla riuscivano a esprimere tutto lo sfacelo di un’umanità da poco uscita dalla guerra, sia quando ritraeva Mannaiuolo come “Jack lo squartatore”, sia quando affrontava temi come “Pace e lavoro” o “Il disoccupato”. Il punto più alto della sua visione pessimista ed esaltata è “Orrori della guerra”. Il dibattito apertosi in Italia nel movimento realista dopo la pubblicazione di Einaudi nel 1950 del testo di Gramsci “Letteratura e vita nazionale”, sui grandi temi del carattere nazionalpopolare dell’arte e quindi del rifiuto del cosmopolitismo delle avanguardie, contribuì ad accelerare la spaccatura fra realisti e astrattisti, con riflessi significativi anche sulla situazione napoletana. Un’ eco antiavanguardista si coglie pure nelle parole finali dello scritto di Prunas ed è su questo che all’interno del Gruppo Sud avviene la frattura da una parte, presso i realisti, si afferma l’immagine di una Napoli dei vicoli e della povera gente, dei contadini e degli ambulanti, secondo un linguaggio sempre più legato alle matrici ottocentesche dall’altra presso gli astrattisti, c’è l’aspirazione a saldare i destini della città alla moderna società industriale dell’Italia e dell’Europa. Gli astrattisti adottarono una diversa strategia rispetto ai realisti e cercarono al più presto di collegarsi al dibattito sul concretismo che si era aperto in Italia con un articolo di Lionello Venturi. Uno dei protagonisti delle vicende napoletane di questi anni, Renato De Fusco, ha dato una sua definizione del concetto d’arte concreta: “un’opera d’arte può definirsi concreta perché possiede una progettualità in grado di produrre qualcosa che superi i tradizionali generi della pittura e della scultura”. Su queste basi fu fondato nel 1948 a Milano il Movimento arte concreta ad opera di Monnet, Dorfles, di Munari e di Soldati. Al M.A.C. milanese si collegarono, allineandosi, gli astrattisti napoletani: Barisani, De Fusco, Tatafiore e Venditti, che assunsero la denominazione di Gruppo napoletano arte concreta.

L’adesione ufficiale al M.A.C. si ebbe solo nel 1954 col manifesto “Perché arte concreta” redatto da De Fusco. Intanto si erano moltiplicate dal 1945 le iniziative espositive che consentivano di conoscere gli orientamenti dell’astrattismo e del concretismo. I napoletani parteciparono per la prima volta ad un’esposizione nazionale, quando si organizzò la seconda “Mostra Nazionale di Arte Astratta e Concreta”, curata dall’Art Club e dall’Age d’or presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1951. L’invito partì da Prampolini, animatore dell’Art Club e da tempo in stretto contatto con la città partenopea. Nel 1951 Prampolini aveva rilasciato un’intervista al “Mattino” di Napoli in cui da una parte sosteneva che il Neorealismo non offriva un serio e sostanziale contributo al rinnovamento. La sua posizione ambigua ebbe inevitabilmente dei riflessi sul carattere della mostra romana, dove l’unico punto di reale convergenza fra i vari espositori fu il rifiuto dell’iconismo. L’incertezza e l’indecisione rispetto a un netto ed esclusivo orientamento concretista non erano solo dei napoletani, ma affioravano in quel momento storico anche all’interno del M.A.C. milanese. E’ indicativo in tal senso uno scritto teorico di Dorfles, che parte dalla distinzione fra arte concreta e arte astratta, comprendendo nel primo concetto la ricerca di forme pure, primordiali come nel secondo cubismo, e nel secondo futurismo e si possono trovare anche nel surrealismo astratto. Si vengono delineando due anime una più razionale e legata al concretismo storico e un’altra più fantasiosa, tesa a introdurre sottili squilibri e tensioni dinamiche. Nel 1951 si presentano altre occasioni espositive importanti fuori di Napoli, come la “Mostra d’arte in vetrina”, una rassegna nazionale dell’astrattismo, organizzata dalla rivista “Numero” di Firenze nel gennaio dell’anno successivo il gruppo napoletano espose nella galleria ‘Al Blu di Prussia’ di Mannaiuolo. Nella mostra emergono le nuove originali ricerche del gruppo napoletano volte soprattutto all’individuazione di elementi grafici capaci di suggerire attraverso sovrapposizioni e trasparenze una notevole articolazione di piani e di direttrici di lettura: in tal senso erano orientati i lavori di Tatafiore mentre De Fusco invece, esponeva delle opere che sondavano i piani nello spazio solo attraverso la sovrapposizione di sagome piatte di colore, secondo gli insegnamenti che già nella fase tarda del Bauhaus. Tali opere puntavano a suggestioni ottico-percettive di profondità e movimento, i napoletani si distinsero nella mostra “L’arte nella vita del Mezzogiorno d’Italia” che si era aperta al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1953, e ancora prima nella mostra presso la galleria Krampen di Firenze. In questa fase le ricerche in pittura e scultura andavano di pari passo in particolare Barisani e Tatafiore operavano su entrambi i fronti in pittura si liberarono gradualmente del fondo del quadro, così come già si erano liberati del chiaroscuro e in scultura rinunciarono al tutto tondo. Continua ad indagare la tridimensionalità e lo spazio reale attraverso elementi utilizzati tradizionalmente in pittura come i segni lineari e piani. Il richiamo al Futurismo in Barisani è evidente, oltre che nelle sue “Strutture a punta”, nelle tempere su carta del 1951, dove la composizione risulta da incastri di forme triangolari, a cuneo che proprio per la scelta delle forme producono un effetto dinamico. Tatafiore evolve nella direzione di un astrattismo geometrico di inflessioni futuriste: comincia a porre in rapporto dialettico i piani di colore con un gioco di forme negativo-positive che ricordano gli sperimentalismi delle connessioni ottico-percettive della forma colore in Balla. Questi viene riscoperto dagli artisti del M.A.C. che nel novembre-dicembre del 1951 organizzano una mostra delle sue “Compenetrazioni iridescenti” a Milano, presso il Club Amici della Francia. Al concetto di ‘sintesi delle arti’ viene enunciato ufficialmente nel manifesto “Perché arte concreta”, che accompagna la loro seconda esposizione tenuta a Napoli presso la galleria Medea nel gennaio 1954. Ciò che colpisce il pubblico e i critici napoletani è l’allestimento della mostra, dovuto soprattutto a Tatafiore. Questo non consiste solo nell’appendere al muro con fusto ed equilibro i quadri e nel disporre sui piedistalli le sculture, ma traduce gli assunti teorici del manifesto. La mostra si presenta come un’opera totale da cui risulta conformato e trasformato l’intero spazio architettonico degli ambienti della galleria secondo un criterio di utilizzazione in funzione espositiva di tutte le superfici esistenti, più altre appositamente realizzate. Precedenti storici illustri sono gli allestimenti futuristi e ancor più quelli costruttivisti di Tatlin, che puntavano ad una interazione delle opere e dell’ambiente in modo da fornire allo spettatore una serie molto ricca di sollecitazioni visive, secondo direttrici multiple di lettura e di fruizione. Gli architetti sempre più spesso cominciano a richiedere l’intervento di artisti per decorazioni che non poche volte devono incidere sulla lettura spaziale complessiva del pezzo architettonico. Un’occasione importante è fornita dai lavori di completamento della Mostra d’Oltremare nei primi anni ’50: qui troviamo decorazioni di De Fusco per il Padiglione Africa un murale eseguito nel 1952 da Tatafiore all’ingresso del Padiglione di Credito e Commercio la decorazione di un soffitto ed un murale, ancora di Tatafiore per il Padiglione dell’Ente Porto. Nel 1954 il M.A.C. napoletano aderisce al Groupe Espace parigino. Tale adesione andava nella direzione di un approfondimento proprio della ‘sintesi delle arti’ nel maggio del 1955 si organizzò infatti a Milano una mostra, “Esperimenti di sintesi delle arti” alla galleria del Fiore, cui parteciparono tutti i gruppi Espace europei dei napoletani è tuttavia presente solo Barisani, oltre a Bisanzio e Giordano, ormai inseriti nelle attività milanesi. Alla fine del 1955 il gruppo napoletano si scioglie. Le nuove tendenze nelle arti a Napoli dal 1945 al 1965 curata da Nicola Spinosa , dove per la prima volta fu dedicato ampio spazio alla pittura d’avanguardia oltre che alla scultura. Dal confronto fra le due discipline artistiche fu proprio nell’ambito della scultura che si manifestarono le migliori prove di un’arte che potesse essere definita di ricerca e d’avanguardia, frutto del lavoro di numerosi artisti, fra cui ricordiamo Franco Palumbo, Mario Persico, Lucio del Pezzo, Gianni Pisani, Tony Stefanucci, Gerardo di Fiore, Enrico Ruotolo, Carmine di Ruggiero, oltre i già citati Tatafiore e Venditti. Molti di questi artisti si cimentarono oltre che nella produzione plastica anche in quella pittorica, giungendo a risultati eccellenti, inoltre alcuni di questi maestri fecero parte diversi movimenti artistici che vennero recepiti sul territorio. In questo variegato panorama della scultura neoavanguardista due furono le personalità di maggiore spicco, Renato Barisani e Augusto Perez che rappresentavano, tra l’altro, i due diversi poli della ricerca plastica a Napoli. La prolifica produzione plastica di Barisani, caratterizzata da una portata fortemente innovativa, riscosse per un lungo arco di tempo, grossi riconoscimenti da parte della critica. Il corpus più nutrito di contributi critici sull’attività di Barisani è costituito dagli scritti di Enrico Crispolti, databili dalla metà degli anni Cinquanta fino ai primi anni del XXI secolo, che ripercorrono la lunga attività del maestro in relazione al coevo clima culturale partenopeo.

A questi vanno aggiunti, per il rilevante spessore critico, i contributi pubblicati da Filiberto Menna, Ciro Ruju, Gillo Dorfles, Angelo Trimarco, Achille Bonito Oliva e Stefania Zuliani, che delineano in maniera chiara i punti di forza dell’attività del maestro. Renato Barisani, scultore, pittore e designer, nel corso della sua lunga esistenza,ha attraversato diversi movimenti artistici, sperimentando diversi linguaggi visivi con opere realizzate talvolta con materiali inusuali nel campo dell’arte, a differenza di Augusto Perez che,attraverso la scultura, elaborò uno stile figurativo personale ed unico con opere in bronzo eseguite attraverso le tecniche tradizionali della statuaria. Agli inizi degli anni Sessanta la produzione di Barisani subì un’ulteriore metamorfosi. Crispolti infatti scrive: “Naturalmente si pensa ancora particolarmente alla ricerca di Del Pezzo di questo momento, come possibile rapporto di dialogo, tuttavia è chiaro che in un orizzonte più ampio Barisani sta operando dal territorio informale quell’inflessione di utilizzazione oggettuale che è il momento europeo e nordamericano del New Dada fra lo scorcio degli anni Cinquanta e l’esordio appena dei Sessanta. Quel momento intendo che per Rauschenberg fu dei ‘combine-paintings’, nei quali profondeva la propria confessione esistenziale. A questo livello Barisani è ancora informale, dunque, tuttavia è il canto del cigno del suo informalismo. Nel 1963 infatti la presentazione d’oggetto, che è ora meccanico, avviene in zone non solo ordinate,a quasi geometrizzanti, e con ampie spartiture, pur essendo ancora materiche. Il riferimento alla conoscenza del New Dada e delle opere di Rauschenberg non sono totalmente da escludere in quanto Barisani poté aggiornarsi sulle novità dell’arte americana attraverso lo scambio di idee con alcuni suoi amici artisti che militavano nel Gruppo ’58, di cui facevano parte Mario Colucci, Lucio Del Pezzo, Guido Biasi, Bruno Di Bello, Sergio Fergola, Luigi Castellano (Luca) e Mario Persico. Documento Sud testimonia della più assoluta fiducia in una maniera di pensare e di essere aperta illimitatamente a tutto ciò che è attuale, nel senso di una adesione a quelle forze attive che operano nella realtà spirituale del nostro tempo del quale continuamente rivelano le intime ragioni e le strutture e rispondendo con ogni mezzo alle sue urgenze. Questa edizione dà inizio, nel Mezzogiorno d’Italia a un programma di divulgazione delle forme più nuove (e per questo più vitali) dell’arte del nostro tempo, nel quadro unitario e completo della conoscenza che l’uomo moderno deve avere della sua civiltà. È con queste parole che si apre la vicenda editoriale di Documento Sud, rivista promossa dal Gruppo 58 a Napoli, e in particolare da uno dei protagonisti dell’avanguardia napoletana di quegli anni, LUCA, pseudonimo di Luigi Castellano. Il periodico, come sottolinea ulteriormente il titolo dell’editoriale appena citato, “Non una rivista, ma un documento”, vuole evidentemente richiamare l’importante esperimento editoriale sviluppato da Georges Bataille tra 1929 e 1930, Documents, rivendicando un dialogo con la cultura surrealista francese che si arricchirà, come vedremo, di ulteriori spunti e suggestioni. La sensazione che Documento Sud voglia aprirsi in modo dialettico e composito a una dimensione europea viene confermata anche semplicemente dando una rapida occhiata ai nomi che, oltre naturalmente a citazioni da André Breton e Guillaume Apollinaire, compaiono sulle pagine del periodico, siano essi autori dei testi (in diverse occasioni già pubblicati altrove) o prestatori dei clichés fotografici: tra gli altri Francis Picabia e Gaston Fidèle, Edouard Léon Théodore Mesens ed Edoardo Sanguineti, Édouard Jaguer e Guido Biasi, Emilio Villa e Jacques Lacomblez. Tra i corrispondenti compaiono poi Enrico Baj (per Milano), Edoardo Sanguineti (Torino), Valeriano Trubbiani (Roma), Jacques Lacomblez (Bruxelles), Guido Biasi, Édouard Jaguer e J.J. Lebel (Parigi), E. L. T. Mesens (Londra), Julio Llinas (Buenos Aires), Ragnar van Holten (Stoccolma). Una formazione ampia dunque, in linea con l’obiettivo di Documento Sud: portare la cultura italiana, e meridionale in particolare, a un livello internazionale, innestando propositi di innovazione artistica sulla volontà di riformare il tessuto sociale del Meridione. Sicuramente un progetto ambizioso, che Documento Sud cercherà di perseguire nel migliore dei modi, dando un respiro largo alle sue pagine, che nel presente contributo saranno analizzate con la finalità di fornire al lettore, dando per acquisiti gli studi sull’avanguardia napoletana degli ultimi anni, un’introduzione critica alla rivista, individuandone le linee programmatiche e suggerendo futuri studi e approfondimenti. Fondamentale per capire la genesi del movimento e l’origine della rivista è l’articolo, anonimo ma verosimilmente redazionale, “Il ponte dell’avanguardia Napoli – Milano – Bruxelles – Paris”, che già nel titolo contiene la genealogia artistica del gruppo, ponendo Napoli in fila con alcune delle principali città europee. Ma l’ordine di scrittura rispecchia anche il processo di avvicinamento di Napoli prima verso il nord Italia e poi verso l’Europa: è infatti al 1953 che risalgono, come ricorda l’articolo, i primi contatti milanesi tra l’avanguardia napoletana in particolare Mario Colucci e Guido Biasi ed Enrico Baj, portando all’adesione degli stessi Colucci e Biasi alla Pittura Nucleare, firmando dapprima il manifesto Per una pittura organica (1957) e condividendo successivamente l’esperienza di Albissola Marina. Come l’articolo tiene a precisare, la condivisione avviene sulla base della seconda fase nucleare, in cui si accentua la materialità organica della pittura di Baj. Ma è Luigi Castellano a dettare il passo successivo, promuovendo nel 1958 l’omonimo gruppo formato da giovani artisti napoletani: Biasi, Del Pezzo, Di Bello, Fergola, Luca, Persico, e pubblicando nel giugno dello stesso anno il primo manifesto collettivo, accolto “in un clima di sgomento, di ostilità e di scandalo”. Punti di riferimento esterni alla città rimangono Baj e il gruppo nucleare, trovando inoltre una sponda utile e prestigiosa nella rivista Il Gesto, cui Biasi collabora negli stessi anni. Altro momento chiave giunge nel gennaio 1959, quando la mostra gruppo ’58+Baj alla galleria S. Carlo (l’unica galleria che sostiene il gruppo, come viene sottolineato) e il parallelo Manifeste de Naples, sanciscono definitivamente il connubio artistico tra la sperimentazione napoletana e quella nucleare, guardando contestualmente alle esperienze di Phases a Parigi e di Edda a Bruxelles: non a caso tra i corrispondenti di Documento Sud compaiono proprio Edouard Jaguer e Jacques Lacomblez, direttori delle due riviste. Contestualmente, è chiaro il ruolo strategico che in Italia svolgono periodici come i già citati Il Gesto e L’esperienza moderna, che non a caso condividono con la pubblicazione napoletana contraddistinta però da una maggiore “intransigenza” e autoreferenzialità autori e artisti, e rimandano nelle pagine pubblicitarie alle stesse riviste internazionali menzionate da Documento Sud, a sua volta posto tra le “riviste raccomandate” da Il Gesto. La rivista diretta da Castellano, in tale contesto, si propone di essere “il ponte” tra varie esperienze, “servendosi soprattutto (e non è un paradosso), di molte inedite tradizioni locali e del materiale di “colore” del vecchio Sud”, cui va aggiunto un certo orientamento generale verso tutto quello sperimentalismo centro-europeo dalla seconda “vague” surrealista ai “Cobra”, ai “nucleari” ecc. il quale sottolinea una certa aspirazione universale alla più spregiudicata libertà delle forme, così come è facilmente riconoscibile nel programma dell’avanguardia napoletana e quindi nel suo organo) una ben precisa simpatia verso tutti i tentativi di instaurazione di una nuova infanzia figurativa (seconda una riscoperta in chiave “magica” del repertorio figurale. Così come vengono dichiarate le fonti ispiratrici, nella mappa culturale redatta all’interno di Documento Sud sono ben chiari anche i poli negativi e i riferimenti artistici da cui differenziarsi. È così che Mario Persico, in “Prima idea per una etica dello scandalo”, invita a superare le “ricette alla Fautrier o alla Wols” che portano ad allontanarsi da una adesione epidermica alla realtà, uccidendo “ogni percezione e sintomologia esistenziale”, e sostenendo invece “una mostruosa unità di pensiero”. Il pericolo, continua Persico, è di “schematizzare delle sensazioni”, riducendo “in formula ogni mistero . Ogni cosa è registrata, lo stupore quasi non esiste, ogni immagine ha il suo freddo cifrario”. La “condanna” di Wols e Fautrier nasce ovviamente dalla necessità di prendere le distanze da un tipo di pittura che, per le crettature della superficie e l’immersione materica del colore, avrebbe potuto essere avvicinata alle sperimentazioni degli artisti napoletani, che invece evidenziavano orgogliosamente la collaborazione con l’ambito nucleare, arricchito da risonanze surrealiste francesi e da un empito panico soggettivo unito alla riscoperta di una materia pittorica pulsante. Ne è chiaro esempio l’articolo “valore delle cose”, dello stesso Mario Persico, che si serve della pittura per spiegare il testo e viceversa, in un dialogo tipografico che costituisce uno dei tratti distintivi di Documento Sud. Gesto pittorico e scavo euristico procedono di pari passo, Persico si concentra sulla valorizzazione e riscoperta di “presenze paleontologiche ancora palpitanti” che progressivamente si impongono sulla superficie dell’opera, dando luogo a un incessante susseguirsi di “Fatti emozionali” enigmatici e sorprendenti di cui percepisco soltanto il fascino, Fatti o Cose che io definisco presenze ancestrali. Un naso, una bocca, un braccio, un organo genitale, o qualsiasi altra cosa può trasformarsi in un essere avente una propria “spina dorsale”. Siamo in effetti sempre all’interno di una dimensione figurativa che viene allentata e fratturata, percorsa da scoppi di colore, ma che pure resiste e riemerge. È una concezione che trova significativamente una stretta corrispondenza con le “immagini attive” teorizzate da Jaguer nell’articolo “Matiere + Mouvement = Feu” pubblicato nel primo numero de Il Gesto (giugno 1955). Una tale volontà artistica non può che confliggere con un altro indirizzo coevo, cioè gli ultimi esiti dell’Informale, oggetto di specifici attacchi sia su Il Gesto che su Documento Sud: in particolare nel contributo “Così come vi furono un tempo dei poeti maledetti” di Edouard Jaguer per quanto riguarda il primo; nell’articolo “invettive” di Guido Biasi e nel commento di Toni Toniato dedicato a Sergio Fergola per quanto riguarda il secondo. In particolare l’articolo di Jaguer, pur risalente al 1957, sembra funzionare da cornice di quanto emerso fino ad ora, affrontando una ricostruzione più ampia dello sviluppo storico artistico coevo, a partire dalla necessaria rivalutazione del Surrealismo e di Dada e dalla constatazione che le ultime urgenze artistiche nascono dall’“insurrezione contro la trascrizione puramente oggettiva della realtà”. Eppure, “questo movimento che va sotto il nome abusivo di ‘TACHISME’ o di ‘INFORME’ è evidente che non può minimamente pretendere di aver superato il surrealismo e l’arte astratta dei tempi eroici”. Aperture e chiusure seguono nel raggio di poche righe: Jaguer da un lato concede a Pollock di essere animato “da una foga spettacolare, da una specie di rabbia sacra introducendo tecniche ancora poco usate”, ma dall’altro precisa subito che tuttavia tali tecniche erano “procedenti in gran parte da scoperte anteriori, sovente di marca surrealista”, e che in ogni caso “non si trovava ‘LA’ questa ‘ART AUTRE’ di cui si è tanto parlato . O piuttosto, si, fu questo ‘ART AUTRE’, ma di fatto esisteva già dall’avvento di Dada”. Se nei primi artisti “informali” Jaguer ravvisa dunque delle note positive (pur circoscritte e definite), è contro le derive attuali che viene puntato il dito “oggi assistiamo ad un’orgia reiterata di macchie colorate, sempre più aleatorie sprovviste delle connessioni psichiche che drammatizzavano l’opera di Wols o di De Kooning”, individuando invece le radici di un’avanguardia genuinamente rivoluzionaria nell’“azione considerevole del gruppo ‘REFLEX’, del movimento Cobra (1948-1951) e l’attività vigorosamente polemica del Movimento Nucleare e di Milano”. È grazie a questi movimenti che: Ritroviamo finalmente l’imprevisto e l’arte tornerà ad essere quello che deve essere: non soltanto immagini, choc o esplosioni di immagini, ma ineguagliabile strumento grazie al quale l’uomo può decifrare un impero mentale senza limiti o costrizioni; comunicazione e scambio fecondo tra questo impero mentale e i trabocchetti, i drammi, gli abissi del mondo quotidiano, dell’universo sociale. Analogamente a Jaguer, Biasi evidenzia come sia “difficile tollerare le esibizioni di quegli ambigui e pazzi araldi di un gioco detto ‘informale’ basato sull’equivoco dell’astrazione-commossa o della commozione-astratta”: non è possibile, precisa ancora l’artista napoletano, aggiornare la cristallina geometria di Mondrian o di Kandinsky [sic] immergendola in un bagno di acido solforico. Queste follie hanno prodotto oggi una moda, un gusto che, lungi dal nascondere e dal dimenticare la provenienza dei neutri e aridi campi del formalismo, si reggono unicamente sulle superfici rugose, sui sacchi ricuciti insieme, sulle spatolate grasse, sui segni, sulle macchie e sui giochi polimaterici fini a se stessi. Il commento di Toniato, accompagnato da due opere di Fergola , si concentra sulla definizione della pittura come espressione di un dettato interiore, capace di tradurre “una aderenza assoluta alle strutture fenomenologiche e psicologiche” del mondo contemporaneo in “presenze emergenti di una concreta esperienza, di una situazione vissuta nelle sue varie dimensioni ed implicazioni”. Non c’è più il simbolo allora, quanto piuttosto “segni” che nascono da una “de-simbolizzazione dell’oggetto” e che portano in sé memoria del “mimetismo surreale di una loro originaria relazione”. In sostanza, Toniato vuole marcare la lontananza rispetto alla “sensibilità inerte di una incontrollata visione informale”,rispetto alla quale, a suo parere, le opere di Fergola, così come quelle degli altri pittori d’avanguardia napoletani, portano evidenti le tracce di un’archeologia visuale, da ritrovare sia nei ricordi personali, sia negli archetipi mitici meridionali: elementi questi che emergono anche nella scelta di disseminare la rivista di proverbi napoletani e di inserire spesso una foto dedicata a squarci di vita partenopei nelle prime pagine dei diversi numeri. Del resto, il ruolo chiave della figurazione viene giocato anche nel campo della scultura, come dimostra l’articolo di Marcello Andriani su Antonio Venditti , capace di riscoprire temi arcaici, perfino legati “allo stupore religioso del primo uomo: animali, gruppi di figure, e ancora figure, figure, figure”, e di ridefinirli all’interno “di una mitologia nuova, complessa, misteriosa”. Venditti, sottolinea ancora Andriani, è “uscito sano e salvo dall’incubo dell’astrazione più amorfa”, facendo ritorno a una scultura in grado, oltreché di valorizzare gli aspetti formali, artigianali, della materia, anche di essere “metafora dei propri sentimenti” ancora una volta figurazione, elaborazione di un universo mitico ed echi di memorie personali si amalgamano all’interno di un’articolata ermeneutica interpretativa. Fedele controcanto di questo articolo è un’“invettiva” di Biasi, rivolta precisamente alla scultura contemporanea, ridotta a lamiere dai margini rosi, rosicchiati, corrosi, dentellati, arricciati, smangiucchiati, sfrangiati; ecco i fili contorti, mossi, commossi, bruciati, ecco i grovigli impastati, le materie nuove per il piacere delle dita e quello dell’occhio, le fasce e i fasci di ferro, il ruvido, l’aspro, la saldatura, il colore, lo smalto, la cromatura, la limatura, il verde-rame, le patine più svariate; ecco le mille e mille trovate farmaceutiche per il grande teatro della suggestione e della libidine dell’occhio, l’apparecchiatura della forma, la materia per la materia, il gusto per il gusto. La materia dà spettacolo da sola, senza eccessivi interventi una paralisi davvero preoccupante. Ma figurazione non vuole dire ovviamente scadere nel realismo, visto come conseguenza della negazione della libertà espressiva nei paesi socialisti. Lo testimoniano almeno due articoli: “L’avantgarde en Pologne” di Alexandre Henisz e “Realismo socialista nella Repubblica Democratica Tedesca” di Walter Fedler. Nel primo l’autore, parlando dell’Esposizione d’Arte delle 32 Repubbliche Popolari svoltasi a Mosca nel dicembre 1958, sostiene che il padiglione polacco fosse stato il più visitato, scandalizzando gli “ortodossi” del partito ed esaltando invece il pubblico per il tentativo di riprendere il dialogo con le avanguardie europee, interrottosi dapprima a causa della guerra e poi per le imposizioni staliniste di sviluppare un’arte di impronta realista. Anche Fedler, nel suo pezzo centrato sulla situazione delle arti nella Germania Est, non esita a denunciare una situazione in cui tutto è stato ridotto al livello di “una cattiva arte di fare manifesti”, soggetta alle volontà “dell’onnipotente funzionario culturale” e succube di un contenuto che non deve essere “in disaccordo con le direttive dell’ufficio politico. Vive soltanto il ‘realismo socialista’, l’arte di fare manifesti del pittore politico”. L’obiettivo dei due articoli è evidentemente quello di funzionare da raccordo con quelli rivolti contro l’Informale, per evitare che si ingenerasse nei lettori l’equivoco di assimilare la volontà di sovversione culturale del Gruppo 58, a quella militante partitica degli artisti legati al P.C.I.. Quella promossa dall’avanguardia napoletana è invece una lotta morale che nasce prima di tutto da un’esigenza personale e intima di “liberare” il Mezzogiorno da un’asfissia morale e culturale, con il proposito di “realizzare una graduale ibridazione dei diversi modi di pensare e di essere, tanto necessari a restituirci un individuo più vivo e sensibile”. L’accusa di essere provinciali viene ribaltata dagli artisti napoletani ammettendo da un lato il legame inscindibile con il territorio di provenienza sottolineato anche nel lessico: “ovemai fossimo ‘guappi di cartone’ il nostro agire sarà sempre meno mortificante che se fossimo artisti disonesti e uommene e niente”, e dall’altro enfatizzando la necessità di promuovere un’arte che non sia imbrigliata in griglie omologanti . D’altra parte, i termini “provinciale” e “dialettale”, intesi in senso provocatorio e positivo, possono essere utili per leggere alcune delle caratteristiche della poetica portata avanti negli anni da Documento Sud, che tra i suoi obiettivi pone anche quello di valorizzare e risemantizzare la tradizione popolare napoletana: non a caso, in uno degli editoriali precedentemente citati si dichiarava di voler dare vita a “un sud laico e popolare”. È così che nascono, in senso antifrastico, i continui richiami alla superstizione e alla numerologia, riletti però secondo un’ottica surrealista, in grado cioè di attivare memorie recondite e creare cortocircuiti inventivi. Ne è un chiaro esempio l’inserto in cartoncino rosso di quattro pagine dedicato alla prima mostra del Gruppo 58+Baj , la cui copertina è riquadrata dalla scritta “La superstizione contro la ragione”, commentata a sua volta dall’aforisma di Goethe che recita “La superstizione è la poesia della vita: in modo da non ferire il poeta di essere superstiziosi”. Funziona da controcanto giocoso il trafiletto intitolato “Il vostro destino” al centro della pagina, in cui la superstizione, dopo l’apertura a Goethe, torna a essere ricompresa nel suo senso tradizionale legato appunto alla numerologia e alle previsioni astrologiche. È evidente però che per Documento Sud, nella prospettiva di rileggere e valorizzare le credenze meridionali, la superstizione sia vista innanzi tutto come la capacità poetica di trasfigurare la realtà, facendo emergere sulla superficie significati arcani e reconditi: l’allusione all’arte degli aderenti al Gruppo 58 è lampante, e infatti molti commenti ruotano attorno al potere immaginifico delle pitture degli avanguardisti napoletani, in grado di filtrare e trasfigurare la realtà attraverso la propria sensibilità. La superstizione allora non sarà più un retaggio culturale da nascondere e lasciare nell’oblio, quanto piuttosto un’anticipazione, per certi versi, degli studi psicanalitici. A questo sembra almeno alludere Mario Persico nell’articolo “Gli atti deformanti”, accompagnato da una sua opera del 1959 . Persico sostiene che ogni trasformazione, innovazione decisiva, risieda “in un ‘atto’ o in una ‘deformazione’, indipendenti dalla realtà fino a quel punto concepita; vale a dire in una relazione illogica con essa”: da qui nascono dipinti e lavori in grado di trovare rapporti nuovi con la contemporaneità, a partire da una lettura personale del reale. È un percorso evolutivo che avviene in prima battuta nell’interiorità dell’artista, seguendo un processo euristico che deve molto alla psicanalisi e alle letture surrealiste ad essa connesse: “Freud ebbe coscienza della forza e delle conseguenze di quel ‘non logico’, e mosse da ‘esso’ per esplorare i labirinti dell’IO”. Associazioni mentali incongruenti, capacità inventive fantastiche: è la stessa interpretazione che Henry Delau offre delle pitture di Luca nell’articolo Imagerie cosmica meravigliosa . Delau spiega infatti che una delle principali qualità di Castellano è quella di trasportare l’osservatore in una dimensione arcana, solcando territori inesplorati eppure visibili, superfici artificiali eppure memori di una loro profonda naturalità, esistenti da sempre. Un ruolo chiave, in questa dinamica di riti arcani e tradizioni riaffioranti, è svolto dalla città di Napoli che permea di sé la rivista, sia attraverso la pubblicazione di proverbi e detti locali, sia attraverso opere d’arte che la presuppongono o la ritraggono direttamente. Ad esempio Castellano in Napulione e’ Napule , pubblicata sul secondo numero della rivista, con procedimento simile a quello di Baj di cui si dirà a breve, sovrappone una sua fotografia su una cartolina con il golfo di Napoli: il busto dell’artista emerge dal Vesuvio sullo sfondo, esprimendo un legame indissolubile con la città, e rendendo manifeste quelle intersezioni tra razionale e irrazionale, visibile e invisibile, di cui parla Delau nel suo articolo. Ma questa rilettura in chiave surrealista di Napoli contraddistingue tutto il periodico, a partire dalle foto inserite a fianco dell’editoriale nei primi quattro numeri, e raffiguranti aspetti tipici, folkloristici o legati all’ambito religioso popolare: nel primo numero una fila di reggiseni, nel secondo un teschio sormontato da una candela in quello che sembrerebbe un sepolcro sotterraneo, nel terzo un “madonnaro” all’opera, nel quarto una strada o un cortile con vari oggetti disposti alla rinfusa. L’intento è evidentemente quello di far scattare nel lettore collegamenti visivi e mentali inaspettati, cercando di rendere tangibile, come scrive Mario Persico in un’altra circostanza, “questa compenetrazione di ‘essenze’, facendo convivere il pessimo e l’ottimo, il brutto e il bello, il bene e il male (in tutte le loro accezioni) e tutte le apparenti antitesi che si possano immaginare”. Ideali antenati di simile operazione non possono dunque che essere “i Duchamp, i Max Ernst, gli Schwitters e altri, quando introdussero nel surrealismo il ‘readymade’ e ‘l’objet trouvé’”. Tuttavia, spiega ancora Persico, “essi miravano a produrre una serie di ‘schoc’ [sic] del tipo più generale, a trasferire sulla tela quel ‘fortuito incontro di un ombrello e una macchina da cucire su di un tavolo operatorio’ profetizzato da Lautreamont [sic]”, mentre finalità del Gruppo 58 è “annullare ‘il giudizio di valore’, formulare un’estetica dell’accettazione totale”. Ancora più diretto è Guido Biasi che nel suo “Elogio del rifiuto”, partendo dall’assunto secondo cui “oggi il rifiuto è ormai irrifiutabile”, sostiene la centralità poetica e artistica “di oggetti in disuso, di cose usate e smesse, di rottami in disordine, di avanzi confusi”, capaci di riscattare la loro precedente destinazione funzionale attraverso una vita postuma, purificandosi, e tornando a essere “significato” e non più “funzione”: “Il rifiuto è la vendetta fantastica delle cose che si ribellano”. Le carte sono così definitivamente svelate ed è di nuovo Biasi, nelle “invettive” del quarto numero, ad affermare con decisione che “sia inutile negare che il Surrealismo abbia deposto le sue uova segrete in un luogo da noi ereditato, e che esse abbiano maturato il senso delle formidabili avventure che noi ci apprestiamo a vivere. Assistiamo oggi alla metamorfosi del fumoso fantasma onirico in allucinante Realtà di carne”. Quello che viene reclamato è dunque il permanere dell’immagine che segue sentieri associativi e meccanismi visivi surrealisti, abbinati a un senso tattile della pittura ma nel caso del rifiuto e del reimpiego entrano in gioco necessariamente anche Pierre Restany, il Nouveau Réalisme e il suo sviluppo successivo, ovvero la Mec-art, di cui infatti farà parte anche Bruno Di Bello. Snodo fondamentale sono in questo senso le sperimentazioni portate avanti da Baj, tra cui gli “specchi”, che vengono interpretati da Andriani come metafora della fantasia inventiva dell’artista “che ‘specula’, al momento, sulla magia delle superfici ‘speculari’”, ma soprattutto come manifestazione eclatante “di una visione violentata dalle crepe e moltiplicata dai frammenti apparentemente sconvolti”, che rivela a sua volta “un altro aspetto (magico ma presente fino alla più spiccata suggestione e sensazione delle dita) di quella ambiguità e plurivocità fantastica che lo affascinano fin dal fortunato e fortunoso periodo delle ‘montagne’ (1957-58)”. Non sorprende allora che nello stesso numero le opere di Colucci siano lette alla stregua di “larve e immagini di larve; larve future di prefigurazioni presenti, simboli di fatti senza data – la sua bicicletta di smalti pedala dentro liquidi soli verso violenze cromatiche dalle cifre inaudite”, in cui dunque dato pittorico e contenutistico si innervano l’un l’altro. Non diversamente, i lavori di Cena sono frutto di una profonda riflessione interiore “i suoi segni sono dettati da un impulso interno, per un discorso intimo con una realtà dello spirito”, che attraverso un “lungo processo formativo” si concretizza in un “mondo fatto di un messaggio di segni e forme” che “materializza sensazioni e percezioni nuove per un’epoca nuova”. È un sovrapporsi di stati emotivi e di materia pittorica che arriva a concretizzarsi visivamente in alcune opere presentate sul periodico, a partire dai quadri di Enrico Baj. È lo stesso artista a presentare una delle sue opere nate dalla sovrapposizione di oggetti incongruenti su pitture precedenti , facendo “apparire l’arrivo di alcuni sputnik o di personaggi di altri mondi su fondi assolutamente convenzionali”. L’effetto di spaesamento era accresciuto appunto dallo stratagemma di ricorrere a “fondi dipinti da altri pittori artigianali”, quanto di più “convenzionale e antiemozionale esista nel campo della visione”: un effetto simile, aggiunge Baj, a quello provato quotidianamente da ciascuno di noi allorché, uscendo di casa, si immette in un sistema preesistente, prendendovi parte riferimento eclatante alle “passeggiate” surrealiste. Dall’ambito surrealista il Gruppo 58 eredita anche le allusioni e un linguaggio critico afferente alla sfera sessuale, come dimostra, tra l’altro, l’articolo “L’Eden e la satrapia del sesso” che Riccardo Barletta dedica a un dipinto di Sergio Fergola (Elegia) . Tutto il commento, rispettando del resto l’iconografia del quadro, si sviluppa sui poli centrali della composizione l’elemento fallico accanto a Eva, “esaltato da un alone luminoso”, e invece “l’esplosione vitalistica di una macchia di rosso acceso”, accanto ad Adamo, che arrivano a enucleare “il mito della caduta, il valore del sacro, il destino del mondo, l’antitesi tra sesso ed amore”. A livello pittorico, Fergola sviluppa invece un denso “simbolismo realistico” in cui riesce a conciliare il rispetto della forma e della figurazione con un uso espressivo del colore, rendendo “esperibili esistenzialmente le realtà rappresentate”. Una pagina propriamente surrealista è poi quella in cui a Il tagliatore di teste (collage del 1960) di Mario Persico viene affiancato uno scritto di Marcello Andriani , che svolge il tema della decapitazione dando vita a diversi micro racconti di poche righe: dalla richiesta di un marito che cerca “Tagliatore di Teste Anche Non Autorizzato Disposto Sopprimere Mia Moglie” alla narrazione postuma di un condannato a morte (“Sentii la lama fredda dividere in un istante più rapido degli istanti normali la mia testa dal mio busto. La mia nuca batté con forza contro il fondo del paniere di vimini”), dall’elenco di decapitati “celebri” (Luigi XVI, Golia, Maria Antonietta, Tommaso Moro, Oloferne) alla redazione di un verbale poliziesco con finale satirico “La perizia necroscopica ha potuto stabilire che la decapitazione è stata eseguita in maniera pressoché perfetta, si ha ragione dunque di sospettare che l’assassino sia un macellaio o un chirurgo”. In un simile contesto non poteva poi mancare un esplicito riferimento al librocollage surrealista forse più famoso: La Femme 100 Têtes di Max Ernst. Ragnar van Holten nel suo pezzo affianca un’incisione di François Boucher tratta da Faunillane ou l’Infante Jaune, di Carl Gustaf Tessin, in cui il principe Perce-Bourse ritrova, passeggiando nel parco, la testa di una statua femminile, che poi ricomporrà per intero, a una delle incisioni di tema analogo di Max Ernst, ricavandone, a suo dire, un documento storico sui diversi atteggiamenti e comportamenti. Se Ernst è richiamato in questi articoli, evidenti ricordi duchampiani giocano d’altra parte un ruolo decisivo nella “Lunga lettera da Paris” di Guido Biasi a Mario Persico, in cui il primo racconta al secondo il suo incontro nella metropolitana parigina con la “Giovane Masturbatrice presso il finestrino, sonnolenta, con l’ultimo piacere spento come una cicca sotto gli occhi fumosi. Aveva le unghie tutte lunghe, eccezion fatta per il medio della destra dove l’aveva cortissima”. Ricordi surrealisti, ambizioni poetiche, avanguardie artistiche dialogano dunque sulle pagine di Documento Sud che tra 1959 e 1961, come visto, prova ad attirare l’attenzione del mondo culturale sul Meridione d’Italia, collegandolo alle grandi imprese artistiche italiane ed europee, in particolare milanesi, francesi e belghe. Il tentativo sicuramente in parte riesce, anche grazie alla preziosa collaborazione con artisti e critici del calibro dei vari Jaguer e Lacomblez citati in apertura, ma non avrà forza a sufficienza per andare oltre i sei numeri del periodico. Tuttavia, il seme della rinascita era stato piantato e crescerà negli anni seguenti attraverso gli esperimenti editoriali di Quaderno tre fascicoli concentrati nel 1962, promossi da Stelio Martini e maggiormente virati sull’ambito della Poesia Visiva e Linea Sud sei numeri tra 1963 e 1967 promossi di nuovo da Castellano riviste diverse tra loro e anche rispetto a Documento Sud, che perfino nel suo aspetto tipografico aveva cercato di funzionare da ponte con altre esperienze d’avanguardia. Nel presente contributo si è cercato di offrire una prima panoramica d’insieme della rivista, evidenziandone gli apporti surrealisti e la parabola creativa, ma naturalmente molte altre piste d’indagine sarebbero ancora percorribili, analizzando ad esempio in profondità l’impatto della rivista sugli artisti napoletani intorno al 1960, considerando anche che molti degli aderenti al Gruppo 58 lasciarono poi la città. Un filo che però in qualche modo non si interruppe, grazie ancora una volta a Luigi Castellano e alla sua Linea Sud.
Renato Barisani
Sperimentatore di tecniche e materiali – pittura, scultura, design, fotogrammi, gioielli, ferro, ceramica, formica, plexiglas, neon –
Renato Barisani (Napoli, 1918-2011) sviluppa una ricerca basata su rigorose regole interne. Dopo aver aderito e partecipato alla mostre del
Gruppo Sud alla galleria Al Blu di Prussia, Barisani costituisce nel 1950 il
Gruppo Napoletano Arte Concreta con Renato De Fusco, Guido Tatafiore e Antonio Venditti, con cui firma nel 1954 il manifesto
Perché arte concreta. Il gruppo si muove nell’ambito di una ricerca astratto-geometrica di respiro internazionale, esponendo alle mostre del MAC milanese. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, realizza i primi fotogrammi e gioielli e utilizza materiali artificiali ed extrapittorici come ingranaggi, strutture e frammenti metallici, aprendosi ben presto a soluzioni artistiche informali, sviluppate soprattutto sul versante materico. Di questi anni sono i lavori in cui frequente è l’uso di materie naturali legati al territorio, tra cui sabbia, lapilli, conchiglie, con cui realizza opere come quella in collezione, Imprevisto (1961). Dal 1960 al 1963 aderisce alla
Nuova Scuola Europea di Losanna fondata da George Kasper. Dopo le prime prove di decorazione ceramica (dal 1964) e dopo aver utilizzato il neon per costruire sculture e altri oggetti luminosi (primi anni Settanta), Barisani ritorna a un’asciuttezza geometrica formale che prosegue anche con l’adesione, tra il 1975 al 1980, al gruppo napoletano
Geometria e Ricerca. Negli anni Ottanta la sperimentazione prosegue con nuovi materiali tra cui pittura spray, acquerello, pastello, vinavil, carte e cartoni, fotocopie e sagome di legno con cui realizza collage, articolando un linguaggio astratto di matrice non più geometrica, ma che si orienta a un nuovo biomorfismo di tipo organico (
Astrazione organica). Barisani ha partecipato a importanti esposizioni internazionali (Biennale di Venezia nel 1962 e nel 1972), ha vinto il premio
Pollock della Pollock-Krasner Foundation di New York (1993) e ha insegnato design all’Accademia di Belle Arti di Napoli dal 1978 al 1984, dopo la docenza all’Istituto d’Arte. Sue antologiche sono state presentate a Napoli a Villa Pignatelli nel 1977, mentre nel 2000 viene installata in permanenza a Castel dell’Ovo la grande scultura in metallo all’ingresso del castello. Nel 1999 sono presentati il mosaico e la scultura monumentale per la stazione di Salvator Rosa e la grande scultura antistante la stazione di Quattro Giornate della Metropolitana di Napoli, a cui seguono le opere realizzate per i Comuni di San Giorgio a Cremano (2001), Giffoni Sei Casali (2003) e Casoria (2004). Nel 2008 le sue opere più recenti sono esposte in una mostra al PAN | Palazzo delle Arti Napoli.
Guido Biasi
Si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli sotto la direzione di Emilio Notte. Nel capoluogo partenopeo ha modo, giovanissimo, di frequentare l’ambiente avanguardistico locale, in quegli anni vicino alle posizioni della Pittura Nucleare milanese. È in questo modo che Biasi viene a diretto contatto con il gruppo lombardo costituito attorno a Enrico Baj e, nel 1957, redige il Il manifesto per la pittura organica e il Manifesto di Albisola Marina assieme a Mario Colucci, Piero Manzoni, Ettore Sordini e Angelo Verga. Nel 1958 partecipa alla fondazione del Gruppo 58 con Luca (Luigi Castellano), Lucio Del Pezzo, Bruno Di Bello e Sergio Fergola ed inizia a collaborare con «Documento sud», rivista dell’avanguardia napoletana diretta dallo stesso Luca. Negli anni Sessanta si trasferisce a Parigi, pur continuando a mantenere serrati rapporti con l’Italia, ed in particolare con Napoli e Milano. In questi anni partecipa alle attività del gruppo Phases, collaborando con l’omonima rivista, e scrive per la rivista belga «Edda». Espone in numerose e prestigiose collettive, come Surrealist Intrusion in the Enchanters’ Domain, curata a New York da André Breton e Marcel Duchamp nel 1960, mentre tiene esposizioni personali in tutta Europa (Basilea, Francoforte, Amburgo, Colonia, Londra, Parigi, Bruxelles, Amsterdam, Stoccolma, Grenoble, Malmoe). Nel 1972 partecipa alla Biennale di Venezia ed è invitato ad esporre anche alla Quadriennale di Roma. Sempre nello stesso anno è invitato presso la Biennale Internazionale di San Paolo. Della sua arte si sono occupati critici come Barilli (Bologna, Galleria De' Foscherari arte contemporanea, 1966; Le museologie di Guido Biasi, Milano, Galleria Blu, 1977), Crispolti (Torino, Galleria il Punto, 1963), Fagone (Milano, Galleria Blu, 1974; Brescia, Galleria San Michele, 1975), Varga (Milano, Studio Palazzoli, 1975). Con Edoardo Sanguineti ha realizzato il testo di poetica Restaurazione e rivoluzione, compreso nel catalogo della prima mostra personale dell’artista (Napoli, Galleria Il Centro 1964).
Luca ( Luigi Castellano )
Consegue la laurea presso la Facoltà di Architettura di Napoli. Sorretto da un’intensa tensione politico-ideale, è stato uno degli artefici e protagonisti dell’avanguardia artistica napoletana, svolgendo un’intensa attività nel campo delle discipline della comunicazione. Il percorso artistico di Luca si dispiega in un ampio ventaglio espressivo non solo nella produzione propriamente artistica. I suoi multiformi interessi hanno dato vita ad una serie ininterrotta d’iniziative sostenute da un costante impegno volto al superamento della stanca tradizione artistica napoletana, in una visione di più ampio respiro nazionale. Verso la fine degli anni Quaranta segue le mostre del “Gruppo Sud” mentre nel ’50 si avvicina al gruppo d’arte Concreta. Come artista, nel ’58, espone “Omaggio ad un vecchio samurai”, opera che aprendosi all’incontro con la pittura nucleare, è, al tempo stesso, all’origine del “Gruppo 58” fondato insieme a Biasi, Del Pezzo, Di Bello, Fergola e Persico. Nel ’59 partecipa al Manifeste de Naples, redige il manifesto nullista e crea la rivista “Documento Sud”, da lui diretta fino al ’61. Nel primo editoriale ne sono enunciati i principi: la volontà di divulgazione delle nuove esperienze dell’arte e quella di operare per un migliore futuro del Sud. Negli anni Sessanta realizza la serie degli arcipelaghi con l’inserto materico di reti da pesca. Dal ’65 crea collage con immagini e parole prelevati dalla carta stampata, come nell’opera Advenia del 1973 i cui risultati formali richiamano il linguaggio e le tecniche della Pop Art. Tale opera segna l’inizio di un arricchimento espressivo attraverso una ricerca integrata tra immagine e parola, che giungerà negli anni novanta alle “prove” di poesia visiva e alle sue variazioni segniche. Ha realizzato e diretto numerose edizioni di stampa alternativa, tra cui “Linea Sud” (1963-1967), “No” (1969-1971), “Città & Città” (1983-1984), ed ha promosso, oltre il “Gruppo ’58”, l'”Operativo 64′; il “Gruppo di Linea Sud”, “l’Operativo gruppo studio P. 66”, gli “Attivi di Prop, Art”, “La cellula grafica campana della Comune Sud”.
Lucio Del Pezzo
Lucio Del Pezzo è nato nel 1933 a Napoli, dove si è formato presso l’Accademia di Belle Arti e l’Istituto d’Arti Applicate. Nel 1958 partecipa alla fondazione del
Gruppo 58, d’impostazione neosurrealista e neodada, assieme ad artisti quali Guido Biasi, Bruno Di Bello, Sergio Fergola, Luca (Luigi Castellano) e Mario Persico. La storia del gruppo è strettamente legata al Manifesto nuclearista del 1952 redatto da Enrico Baj e Sergio Dangelo a Milano, del quale decidono di seguire le tracce, promuovendo un’arte che contenga una ripresa della tradizione iconologica locale rompendo però gli schemi figurativi tradizionali. Sotto la guida di Luca, il Gruppo 58 si dota della rivista
Documento –
Sud come mezzo di promozione del proprio lavoro ed espone a Napoli, Firenze, Roma e Milano. Del Pezzo inizia qui a elaborare il proprio linguaggio artistico, attraverso pitture-oggetto, assemblage in cui un tono ludico si contrappone con un sentire mistico, oltre a rapporti cromatici e formali. Il collage tra
objet trouvé e stampe di provenienza popolare dà alle sue opere la valenza di pittura e scultura allo stesso tempo: nei suoi lavori i tratti pop, inseriti nel tempo presente – si mescolano con una temporalità metafisica e personale. Nel 1959 Del Pezzo firma il
Manifeste de Naples, che raggruppa i componenti della neoavanguardia napoletana, di quella milanese e altri esponenti della cultura dell’epoca come Nanni Balestrini, Paolo Radaelli, Leo Paolazzi, Sandro Bajini, Edoardo Sanguineti, Luca, Bruno di Bello, Mario Persico, Guido Biasi, Giuseppe Alfano, Donato Grieco, Enrico Baj, Angelo Verga, Ettore Sordini, Recalcati e Sergio Fergola. Nel 1960 si trasferisce a Milano su invito di Enrico Baj e, nello stesso anno, Arturo Schwarz ospita una mostra personale dell’artista nell’omonima Galleria Schwarz. A contatto con le opere di Sironi, Carrà, Morandi e soprattutto di De Chirico, Del Pezzo tende ad ampliare in modo sempre più evidente la componente metafisica nel suo linguaggio, affiancandolo con forme geometriche decontestualizzate. Conia anche la definizione di “
Visual Box”, per indicare i diversi piani sui quali si dispongono i propri lavori, a metà tra immagine e oggetto tridimensionale: il suo repertorio si distingue per i pannelli geometrici monocromi, sui quali sono inserite mensole o scavate concavità, che sostengono oggetti come birilli, uova di legno, bocce, manichini, talvolta molto colorati, con il consueto carattere ludico e metafisico. Intorno al 1965 l’artista si trasferisce a Parigi, dove occupa il vecchio studio di Max Ernst in rue Mathurin Régnier 58. Risale al 1968 la sua prima personale nella capitale francese. L’affermarsi della neoavanguardia
Nouveau Réalisme e del desiderio di “riappropriazione del reale” tanto divulgato lo influenza profondamente e lo induce a riflettere sull’elemento dello “scarto”, del rifiuto all’intero della nuova società di massa come dato poetico.Nel 1966 Del Pezzo si affianca ai maestri dell’astrattismo e concretismo italiano, in primis Eugenio Carmi, all’esperienza della
Cooperativa del Deposito di Boccadasse, dove tiene una mostra personale. Nello stesso anno gli viene dedicata una sala personale alla XXXIII Biennale di Venezia e Del Pezzo inizia ad ottenere numerosi riconoscimenti nell’ambito artistico internazionale. Negli anni Settanta collabora in veste di grafico con l’azienda Olivetti e con il gruppo automobilistico Renault Italia. Nel 1970 Arturo Carlo Quintavalle cura un’importante antologica dedicata all’artista al Salone dei Contrafforti della Pilotta di Parma, seguita, nel 1974, da una retrospettiva alla Rotonda di via Besana a Milano curata da Guido Ballo. Nel 1979 Del Pezzo rientra definitivamente in Italia e si stabilisce a Milano, dove diventa professore per la cattedra di “
ricerche sperimentali sulla pittura” alla nuova Accademia di Belle Arti di Milano al posto di Emilio Tadini. Stabilisce il suo studio sui Navigli di Milano, sua città di adozione. Il suo linguaggio artistico per tutto il suo percorso ha oscillato tra linguaggio pop, neorealista, dadaista e metafisico. Le sue opere, difficili da etichettare, sono delle “
Visual Box” in cui l’elemento architettonico e scultoreo, racchiude pittura, collage e oggetti. Un linguaggio ludico e sognante sempre usato da Lucio Del Pezzo come lente di ingrandimento per analizzare e criticare la società di massa e il suo consumismo. Le sue opere, tra quelle di altri artisti, al momento fanno parte di un’iniziativa di beneficenza lanciata dalla Fondazione Pomodoro assieme allo Studio Marconi, e vengono donate a chi sostiene l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri nella lotta contro il Covid-19.
Sergio Fergola
Sergio Fergola (Napoli 1936-1996)Ha lavorato, vissuto ed esposto in varie città italiane ed estere tra cui Napoli, Milano, Torino, Venezia, Firenze, Parigi, Sidney e New York (sue opere al Museum of Modern Art). Nel 1972 è stato invitato alla Biennale di Venezia e nel 1974 alla Biennale d’arte di Milano. Nel 1950 si sente vicino al Movimento Nucleare con Enrico Baj, Joe Colombo, Mario Colucci, Sergio Dangelo, Lucio Del Pezzo, Bruno di Bello, Piero Manzoni, Mario Persico. Per poi fondare il Gruppo 58 insieme a Del Pezzo, Di Bello e Persico. In questo periodo esprime la possibilità della pittura di concentrarsi sui propri mezzi espressivi tra l’immaginario e il letterario, con richiami all’espressionismo, all’esperienza compiuta studiando la manualità di Calder e l’action painting di Pollock, e a tutti gli elementi della sua formazione classica da Van Eyck al poliedrico artista di corte Cosmè Tura.Fergola scrive e firma nel “Manifeste de Naples” a cui aderiscono anche Enrico Baj e Sanguineti, poi artisti che ritroviamo nel Gruppo 58 e altri.
Mario Persico
Nato a Napoli nel 1930. Si forma presso l'Accademia di Belle Arti di Napoli sotto la direzione di Emilio Notte e già nei tardi anni Quaranta espone alcune sue opere in mostre collettive nella città partenopea. Nel 1955 aderisce al movimento nuclearista firmando il celebre Manifesto dell'Arte nucleare di Enrico Baj e, tre anni più tardi, è, quindi, tra i fondatori del Gruppo 58 con Biasi, Del Pezzo, Fergola e Luca (Luigi Castellano). In questi anni diventa redattore della rivista «Documento Sud» e allestisce le sue prime mostre personali sia in Italia (Ischia, Milano, Roma, Viareggio, Genova, Napoli) che all'estero (Stoccarda, Ulm, Chicago, Tubinga, Colonia, ecc.). Dopo la chiusura di «Documento Sud» prosegue la sua attività editoriale collaborando a «Linea Sud», diretta e fondata da Luca nell'anno cruciale 1963. I suoi interessi sperimentali lo conducono, negli anni successivi, a molteplici collaborazioni artistiche, dalla realizzazione di Fogli sperimentali (Guanda 1966) alle illustrazioni per Ubu Cocu di Alfred Jarry, tradotto da Luciano Caruso; dalla realizzazione di scenografie e custumi per lo spettacolo Laborintus II di Luciano Berio e Edoardo Sanguineti, sino, nel 1995, alla stesura del Manifesto dell'Antilibro con Dorfles, Pirella e lo stesso Sanguineti. Tra gli anni Ottanta e l'inizio del nuovo millennio Persico collabora con la rivista «NDR» e con l'Ististuto patafisico partenopeo di cui diventa "Rettore Magnifico" nel 2001. Tra le collaborazioni editoriali, oltre a quelle con Sanguineti (Tecnomemoria, Il Laboratorio 1980; Libretto, Pirella 1995; Omaggio a Goethe, Sottoscala 2003; Patacofanetto, Socrate 2003; Omaggio a Shakespeare, Manni 2004), meritano di essere ricordate pure quelle con Jan Orto (Acqua dall'alto, Il Laboratorio 1983), con Franco Cavallo (Veroniche/Le sedie dell'isterismo, Il Centro 1972; L'anno del capricorno, Rossi & Spera 1985); con Giulia De Rosa (Ossi di pollo a Coney Island, Il Laboratorio 1992), e con Luigi-Alberto Sanchi (Contro la lingua di Orfeo, Socrate 2002). Numerose sono anche le pubblicazioni di cartelle grafiche, tra le quali ricordiamo almeno quella pubblicata a Stoccarda dalle Edition Galerie Senatore nel 1970 con testo di Luca.
Guido Tatafiore
Nato a Napoli da Achille e da Assunta Mancini il 19 settembre 1919, Tatafiore si diplomò presso l’istituto d’arte e poi presso il magistero d’arte di Napoli. Partecipò con
Paesaggi e qualche
Figura alle mostre del Sindacato campano nel 1939 e negli anni 1941 e 1942. Dal 1938 al 1941 conseguì vari premi ai Prelittoriali e ai Littoriali della cultura e dell’arte: nel 1938 arrivò secondo nell’affresco ai Prelittoriali di Napoli con una
Composizione fascista, qualificandosi così per partecipare ai Littoriali dell’arte di Trieste nel 1939, dove si classificò di nuovo secondo con l’affresco
Partenza dei ventimila per la Libia; nel 1940 ottenne il II premio ai Prelittoriali di Napoli con l’affresco
I lavori per la Triennale d’Oltremare; mentre ai Prelittoriali di Napoli del 1941 arrivò quarto. In questa fase sperimentò l’olio, la tempera e l’affresco, tornato in auge dopo il
Manifesto della pittura murale del 1933. Con la caduta del fascismo, la ricerca di Tatafiore puntò a due obiettivi: un’indagine costruttiva sul colore fuori degli insegnamenti accademici; una dichiarata preferenza – dopo tante esteriori celebrazioni – verso soggetti ‘bassi’, addirittura ‘minimi’. Il risultato fu una produzione che passava da un tono ironico (soprattutto nei
Pretini, nelle
Monacelle) a una sorta di espressionismo lirico (ad esempio nell’
Autoritratto con giacca rossa, del 1946), a una ricerca formale pura, che ostentava il suo antinaturalismo negli interni e nei paesaggi, ossia nei soggetti ‘naturali’ per antonomasia. Nel 1945 Tatafiore partecipò al premio della galleria napoletana di Giulio Forti, con un
Autoritratto e con dei
Pretini. Nello stesso anno prese parte, sempre a Napoli, anche a una mostra al Museo Filangieri – dove è conservato un dipinto con delle
Monacelle – e al premio Improta, finanziato dal quotidiano
La Voce in polemica con il premio Forti. L’anno successivo presentò l’
Autoritratto con giacca rossa e alcuni
Interni nella sua prima personale a Napoli presso la galleria Al Blu di Prussia di Guido Mannajuolo, dove avrebbe tenuto un’altra personale nel 1949. Con l’
Interno con tavola e natura morta (1949) e con il
Paesaggio con barca, esposto, ma non premiato, a Formia (1948), Tatafiore si riallacciava al discorso cubista là dove era rimasto interrotto, pur rimanendo ancora all’interno di una rappresentazione figurativa: solidificando un elemento impalpabile come una nuvola, la assimilava a una lamiera sospesa o a un foglio di carta gualcito e riduceva il paesaggio a un puzzle di superfici a incastro. Intanto dal 1947 aderì al Gruppo Sud, insieme con Raffaele Lippi, Alfredo Florio, Renato De Fusco, Renato Barisani, Vincenzo Montefusco, Mario Tarchetti, Armando De Stefano e Raffaello Causa, che esponeva con lo pseudonimo di Domenico Gargiulo (ossia Micco Spadaro). I luoghi di riunione del gruppo erano il bar Moccia e la casa di Pasquale Prunas, fondatore e direttore dell’ambiziosa rivista
Sud, attiva dal 1945 al 1947 con lo scopo di riallacciare la cultura napoletana al contesto internazionale. Per tale periodico Tatafiore eseguì delle illustrazioni, mentre con gli amici del Gruppo Sud espose a Napoli nel 1947 presso il Collegio Ingegneri e Architetti, nel 1948 in due mostre della galleria Al Blu di Prussia e a Milano alla Casa della Cultura. Ma quando, fra il 1949 e il 1950, si delineò la contrapposizione fra realisti e astrattisti, uscì dalla compagine di
Sud, per fondare nel 1950 con De Fusco, Barisani e Antonio Venditti il Gruppo napoletano Arte concreta, che aderì successivamente al Movimento per l’arte concreta (MAC) milanese. Prese parte a qualche mostra internazionale di arte astratta (Principato di Monaco, 1951) e a tutte le più importanti esposizioni sia nazionali sia locali del gruppo concretista, figurando fra gli organizzatori della storica mostra
Arte astratta e concreta in Italia (1951), presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. Qui espose
Composizione verticale (1949-50), un’opera di passaggio al concretismo, ancora ricca di umori pittoricistici. Nel 1951, con dipinti come
Struttura su piano n. 1 (acquistato dal ministero della Pubblica Istruzione per la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, ora in sottoconsegna al CNR) e
Struttura su piano n. 2, cominciò a organizzare un suo linguaggio astratto-concreto, sulla scia di Alberto Magnelli ed Enrico Prampolini, fondato sulla dialettica dinamica fra pieno e vuoto, ‘positivo’ e ‘negativo’; finché nello stesso anno individuò come elemento architettonico del dipinto un’immagine-segno simile a una forchetta stilizzata (
Segno-struttura ovvero immagini iconografiche, 1951), più volte paragonata ai ‘pettini’ di Giuseppe Capogrossi, che però hanno una differente natura di elementi linguistici appartenenti a una scrittura astratta. Nel 1952 conseguì un premio indetto dal ministero della Pubblica Istruzione per giovani artisti. Da quell’anno si delineò in maniera decisa il suo interesse per le arti applicate e in generale per il concetto di ‘arte totale’ di matrice futurista e ancor più costruttivista: progettò
dépliants, locandine e allestimenti espositivi, come quello della collettiva alla galleria Medea (1954), dove, in omaggio alla «sintesi delle arti» invocata nel manifesto
Perché arte concreta, da lui firmato, si riallacciava a Vladimir Evgrafovi? Tatlin, utilizzando tutte le superfici dell’ambiente, compresi il soffitto, i pavimenti e gli angoli, oltre alle pareti. Successivamente collaborò con gli architetti Roberto Pane e Massimo Nunziata per vari interventi decorativi nella Triennale d’Oltremare a Napoli e in alcuni locali pubblici cittadini; mentre con Barisani e Venditti intraprese lo stampaggio di stoffe e gonne femminili con motivi astratto-concreti, che per un breve tempo furono oggetto di un progetto imprenditoriale, poi fallito. Appassionato di fotografia, serigrafia e xilografia, dal 1954 Tatafiore sperimentò, insieme con Barisani, sulla scia di Man Ray, László Moholy-Nagy e Christian Schad, i cosiddetti
Fotogrammi, ossia la stampa fotografica diretta di impronte di oggetti, senza negativo; con tale tecnica indagò la scansione dei piani con un riferimento alla profondità virtuale dello spazio attraverso la dialettica fra elementi grafici a puro contorno, griglie e figure piane, in continuità con la ricerca pittorica di opere come
Composizioni per superfici modulari n. 1,
n. 2,
n. 3 (1952), un trittico esposto a Milano nel 1953 allo Studio B-24 nella mostra
Collezione ambientata. Nel 1955, dopo la mostra
Le arti plastiche e la civiltà meccanica alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, il MAC napoletano si sciolse. A cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta Tatafiore intraprese per breve tempo delle ricerche informali: fu la serie degli
Icaro e dei
Paesaggi mentali dei primi anni Sessanta; la natura, messa da parte negli anni del MAC, riaffiorava prepotentemente con i suoi umori. Consapevole di trovarsi in un periodo di transizione, Tatafiore preferì interrompere la sua attività con un lungo silenzio, dedicandosi alla costruzione di barche. Ricominciò a esporre la sua produzione concretista nel 1974 in tre mostre collettive presso il Centroarte Multiplo di Marigliano, nelle gallerie napoletane Lo Spazio e Visual Art Center, e a Bormio presso il Centro di arti visive 2DS. Tornò in piena attività nel 1975 con una personale allo Studio Ganzerli di Napoli, dove presentò pannelli di legno grezzo o di tela dipinta con una o due campiture su cui sovrappose delle scritte in rilievo (ad esempio,
Tata 50;
Concretismo, Purismo, Astrattismo;
Vesuvio 70). Emergevano tangenze vagamente concettuali per l’uso di scritte – ma con i caratteri commerciali in voga nella pop art –, un’organizzazione spaziale geometrica, l’uso del legno grezzo che ricordava il materismo dell’arte povera, le campiture pittoricistiche tipiche della cosiddetta ‘nuova pittura’: tutti riferimenti precisi alle varie tendenze di moda negli anni Sessanta e Settanta, ma con un abbinamento ironico a un vissuto autobiografico, oltre che a una città, Napoli, vittima di tanti luoghi comuni. Queste opere e i rilievi geometrici con la combinazione di forme positive e negative costituirono il suo apporto a Geometria e Ricerca (1976-80), un gruppo cui aderirono anche Barisani, Gianni De Tora, Carmine Di Ruggiero, Riccardo Alfredo Riccini, Giuseppe Testa e Riccardo Trapani. Si delineava una ripresa della tradizione geometrica astratto-concreta, arricchita tuttavia da istanze analitiche indirizzate a uno studio della convenzionalità del linguaggio artistico. Mostre di Geometria e Ricerca si tennero nel 1976 allo Studio Ganzerli, nel 1977 all’American Studies Center di Napoli e presso la galleria Il Salotto di Como, nel 1978 allo Studio 2 B di Bergamo, nel 1980 al Museo del Sannio di Benevento. Morì a Napoli il 23 novembre 1980. Due sue ampie retrospettive sono state organizzate a Napoli presso la Casina Pompeiana nel 1998 e nella sede dell’Accademia di belle arti nel 2010.
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Per tutte le foto opere, credit ©Pina Della Rossa, Courtesy Galleria Area24Space – Napoli