Giovanni Cardone Settembre 2024
Fino al 16 Febbraio 2025 si potrà ammirare a Museo Macro di Roma la mostra Yard di Allan Kaprow . L’esposizione promossa dall’ Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo. Yard è un’opera realizzata originariamente nel 1961 in occasione della collettiva Environments, Situations, Spaces presso la Martha Jackson Gallery di New York. Nel cortile della galleria Allan Kaprow dispose in modo casuale centinaia di pneumatici usati dai quali emergevano cinque cumuli di carta catramata che coprivano delle sculture della collezione di Martha Jackson. I visitatori erano incoraggiati a camminare sugli pneumatici e a lanciarli liberamente. Yard, come gli altri Environments, è concepita come un’opera in trasformazione, una partitura concettuale da riallestire in diversi spazi adattandosi ogni volta alle peculiarità del luogo. In occasione della sua prima presentazione a Roma, Yard è installata nel cortile del MACRO in un ideale richiamo a quello della galleria newyorchese. Yard è ancora oggi il manifesto di un’arte capace di fondersi con gli spazi esistenti e i contesti sociali in cui è situata, criticando l’idea del potere individuale dell’artista a favore della collettività, e negando l’idea che l’opera debba necessariamente aspirare a una condizione definitiva. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Allan Kaprow apro il mio saggio dicendo : Che le avanguardie storiche incendiano la storia dell’arte del primo Novecento.
La critica della performance RoseLee Goldberg riconduce con chiarezza alle sperimentazioni di Futurismo, Costruttivismo, Dada, Bauhaus e poi Surrealismo l’origine della storia della Performance Art nel XX secolo. Nel corso del secolo scorso il corpo dell’artista e la sua azione acquisiscono una centralità nella pratica artistica dal vivo, trovando progressivamente un proprio vocabolario nel termine performance. Il rapporto dal vivo tra l’artista, il fare artistico e il pubblico, nonché le istituzioni che ne ospitano l’azione non è un novità nella storia dell’arte, ma si può ricondurre fin dai racconti attorno al fuoco dei nostri antenati, passando per i rapsodi e il teatro greco, attraverso i giochi medievali, il teatro rinascimentale e barocco, l’Opera, fino agli eventi Futuristi e ai cabaret Dada. Nel corso del Novecento il performer non rappresenta più i miti degli dei, una maschera o un personaggio, ma è l’artista e la performance ne stabilisce la presenza all’interno della società. Per Goldberg la performance elude per sua natura una precisa definizione all’infuori della semplice descrizione che ne dà nel suo saggio: “live art by artists”. Per Marina Abramovic, la performance si distingue dalla rappresentazione tipicamente teatrale: “l’unico teatro che faccio è il mio, la mia vita è l’unica che posso recitare”. Ma per l’artista stessa questa affermazione non implica che la performance rifiuti il teatro come spazio per le proprie azioni, anzi, RoseLee Goldberg evidenzia come essa abbia influito al rinnovo del linguaggio teatrale stesso. Per la critica di origini sudafricane, la perfomance è tendenzialmente un’espressione visuale, che non necessita di traduzione e pone al centro il corpo; si serve delle tecnologie più aggiornate, ha una vocazione all’effimero e ai gesti universali, ha una durata breve o molto lunga e costruisce iconografie molto complesse, che spaziano dalla critica sociale, ai riti antichi, da elementi autobiografici, a critiche metartistiche. Goldberg pubblica uno dei primi studi sulla storia della performance nel 1979, quando il resto della critica d’arte aveva iniziato a riconoscere la performance come un’espressione artistica non intermittente, ma un’espressione tangibile delle riflessioni dell’arte concettuale. Nel suo saggio riconduce le radici della storia della performance nel Novecento ai circoli dove gli artisti d’avanguardia sperimentavano le idee dei propri manifesti, prima di creare le rispettive espressioni visive tramite la pittura o la scultura, come il Cabaret Voltaire di Zurigo. Al fervore del Futurismo si dovrebbero, quindi, le prime scintille della performance del XX secolo, che transitano dall’Europa agli Stati Uniti attraverso gli artisti che cercano riparo dalla guerra. A partire dagli anni Quaranta, presso il Black Mountain College, John Cage e Merce Cunningham indagano sulle nozioni di caso e indeterminatezza, realizzando musica nonintenzionale e una nuova pratica di danza, simpatizzando per la filosofia orientale Zen ed elaborando le loro riflessioni riconducibili agli albori della performance. “L’arte non dovrebbe essere distinta dalla vita, ma dovrebbe essere un’azione all’interno della stessa. Come tutto ciò che accade suo corso, con i suoi accidenti dati dal caso, la sua complessità, il suo disordine e i suoi rari momenti di bellezza” riflette Cage, che nel 1952 presenta il suo celebre 4’33’’, senza produrre alcun suono al pianoforte e lasciando l’ascolto del pubblico concentrarsi sui rumori prodotti dall’ambiente. In riferimento a questo evento, Cage afferma “il mio brano preferito è quello che ascolto sempre tutt’intorno a me quando tutto è calmo” . Nel corso degli anni Cinquanta le classi di John Cage sono frequentate, tra i vari artisti, da Allan Kaprow, George Brecht, Dick Higgins, George Segal, Jim Dine, Claes Oldernburg e Robert Rauchenberg. Nel 1959 Kaprow darà vita ai 18 Happenings in 6 Parts , che probabilmente avrebbero ispirato le varie azioni del gruppo di artisti etichettati sotto il nome Fluxus dal critico George Macunias nei primi anni Sessanta e non solamente negli Stati Uniti. Nel 1954 in Giappone il gruppo Gutai realizza una serie di azioni i cui artisti sfondano tele e dipingono direttamente con il corpo; tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta in Europa Yves Klein e Piero Manzoni propongono anche loro delle azioni con lo scopo di impedire all’arte di essere relegata nelle gallerie o nei musei, i membri dell’Azionismo Viennese compiono le loro cruente performance e anche altri artisti come Jackson Pollok e Nam June Paik sperimentano l’azione del corpo nella rispettiva pratica artistica. Le azioni di questi anni, inoltre, non sono compiute solamente da artisti maschi: oltre ad Atsuko Tanaka del gruppo Gutai, nel 1961 Niki de Saint-Phalle presenta i suoi dipinti a sparo, nel 1963 Carolee Schneeman realizza la celebre azione Eye Body e l’anno seguente Meat Joy, nel 1965 Shigeko Kubota si esibisce con Vagina Painting a New York, stabilendo fin da subito la presenza femminile nella pratica performativa . I movimenti studenteschi del 1968 segnano l’arrivo degli anni Settanta, che porteranno al definitivo riconoscimento della performance all’interno della storia dell’arte. In questi anni il corpo e la presenza dell’artista, assieme all’esperienza dell’arte in simultanea con l’audience, assumono un ruolo centrale per la performance e alcuni artisti si dedicano completamente alla performance . Le azioni di questi performer erano anche molto diverse tra loro: potevano essere brevi o lunghe; potevano essere intime, oppure agire su larga scala; potevano essere programmate o improvvisate; potevano avere carattere autobiografico o essere scioccanti, esoteriche o satiriche; potevano occuparsi di critica sociale, parlare di gruppi emarginati, della diversità, oppure dell’arte stessa, del rapporto con il proprio mercato e del rapporto tra artista e pubblico. La performance è, quindi, un’espressione artistica complessa, che fatica a riconoscersi in una definizione più ampia da quella fornita da Goldberg. La presente tesi considera la performance del XX secolo come un’esperienza in cui il performer è l’artista, che stabilisce la propria presenza all’interno della società. Per la critica della performance, quando a inizio del XXI secolo il museo diventa anche un luogo d’intrattenimento, la performance diventa occasione per l’incontro diretto con l’artista e opportunità di conversazione sul ruolo dell’arte nel mondo .
Al termine del primo decennio del nostro secolo, la mostra del 2009 al MoMA 100 Years of Performance Art mostra su un centinaio di monitor la storia della Performance Art a partire dal Manifesto Futurista del 1909, testimoniando il ruolo della performance nella storia dell’arte del secolo precedente e la retrospettiva la performance di Marina Abramovic The Artist Is Present8 del 2010 presso lo stesso museo conferma la centralità della presenza dell’artista nell’arte contemporanea. Una presenza sempre complessa nella relazione che intesse con il pubblico, le istituzioni e il proprio mercato di riferimento. Avvicinandoci agli anni Venti del XXI secolo, la performance continua a essere un’espressione utilizzata dagli artisti per indagare le complesse relazioni tra la pratica artistica, coloro che ne sono coinvolti e la vita quotidiana, affrontando argomenti centrali nel dibattito internazionale attraverso azioni che ancora continuano ad essere anticonvenzionali e anarchiche. La costante attenzione sociale da parte della performance sembra mantenere viva la ricerca sul rapporto tra la pratica artistica e la vita quotidiana, ma qual è il rapporto che viene a instaurarsi tra arte e vita quotidiana attraverso la performance? Prima di indagare questo quesito, si andranno a considerare brevemente alcune caratteristiche della performance dagli anni Sessanta ad oggi, cercando di ricostruire brevemente la complessità della materia. Affermo in questo saggio che il rapporto dal vivo tra il performer, la performance e lo spettatore non è una novità per la storia dell’arte fin dagli albori dei racconti dei nostri antenati attorno al fuoco. Nel XX secolo, tuttavia, la performance acquisisce un’identità e un vocabolario propri all’interno della storia dell’arte, identificandosi come una pratica artistica durante la quale il performer è l’artista e stabilisce la sua presenza nella società, oltre che nella storia dell’arte. Le avanguardie storiche sperimentano le idee dei loro manifesti attraverso eventi durante i quali il corpo e la presenza dell’artista iniziano a essere protagonisti. Nel 1954 in Giappone un gruppo di artisti composto, tra gli altri, da Jiro Yoshihara, Kazuo Shiraga, Shozo Shimamoto, Saburo Murakami, Shigeko Kubota e Atsuko Tanaka si riunisce sotto il nome Gutai , ovvero “concreto”, che aveva lo scopo di superare ogni forma d’astrazione in virtù di un’arte nuova, libera e originale. Oltre a intervenire nello spazio attraverso installazioni e ambienti in cui lo spettatore entrava nell’opera d’arte, i Gutai organizzarono delle serate durante le quali gli artisti compivano delle azioni, anticipando gli Happenings di Kaprow. Nel 1955 in Six Holes, Murakami perfora delle grandi tele gettandosi dentro; Shiraga lotta con il fango in Challenging Mud e poi espone le tracce lasciate dal suo gesto e in altre occasioni usa il suo corpo per dipingere; Yasuo Sumi frappone fra sé e il pubblico un vetro trasparente, lanciando verso di questo del colore. È il critico francese Michel Tapié a contattare il gruppo giapponese tra il 1956 e il 1957, organizzando una mostra a New York l’anno successivo, un’altra a Torino nel 1959 presso la galleria Notizie e contribuendo a far conoscere il gruppo giapponese in Europa e Stati Uniti. Nel 1948 Eugen Herrigel pubblicò il libro di successo Lo zen e il tiro con l’arco, enfatizzando l’importanza della concentrazione nella calligrafia e nelle arti marziali orientali e contribuendo a diffondere in Occidente questa dottrina orientale, che aveva lo scopo di celare il rigore della pratica dietro a un’apparente naturalezza. Rispetto a questa filosofia, l’azione del Gruppo Gutai diventa particolarmente interessante non solamente perché dialoga con la disciplina e la spontaneità del gesto artistico, ponendo in risalto il ruolo del caso e dell’indeterminato, ma anche perché evidenzia lo slancio creatore dell’artista, che attraverso il proprio gesto guadagna una certa presenza rispetto alla tecnica. Il peso della presenza dell’artista sarà come vedremo un elemento fondante della performance. La filosofia orientale Zen e l’interesse per le nozioni di disciplina, caso e indeterminatezza furono fonti d’ispirazione anche in Occidente, sia per Cage e Cunningham presso il Black Mountain College, ma anche per le pratiche artistiche degli artisti europei, tra cui Yves Klein, che era anche praticante di Judo. Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta, l’artista francese con le sue Antropometries dipingeva le tele attraverso il corpo delle sue modelle, dirigendole come fosse un direttore d’orchestra, mentre alcuni musicisti suonavano la Monotone Symphony. Nei primissimi anni Sessanta Klein conduceva una serie di azioni chiamate Immaterial Pictorical Sensitivity Zones, durante le quali l’artista gettava nella senna della foglia d’oro, mentre l’acquirente bruciava la sua ricevuta, dopo averla comprata dall’artista. Tutto quello che apparteneva alle sette transazioni condotte tra artista e acquirenti è stato distrutto, lasciando nella storia dell’arte e tra i due soggetti della transazione una “qualità immateriale” dell’azione. Queste azioni conferiscono al gesto artistico un carattere effimero, che si concentra sulla relazione tra l’artista e l’acquirente, in quest’ultimo caso, oppure tra l’artista e il gesto del dipingere, nel primo. Oltre all’intrinseco carattere spirituale, le opere di Klein non sono prive di sarcasmo e ironia, soprattutto nei confronti del mercato dell’arte. Il rapporto tormentato tra artisti e mercanti d’arte non è sicuramente una novità nella storia dell’arte, ma -come avremo modo di approfondire- i performer rifletteranno in molte occasioni sul rapporto tra artisti, arte, pubblico, mercato e contesto di riferimento attraverso azioni violente, spirituali o anche ironiche .
Con una sensibilità analoga a Klein e un’ironia simile all’azione di Paik del 1961, l’italiano Piero Manzoni s’inserisce nel solco della nostra riflessione sui germogli della performance, legandosi anche alle avanguardie storiche. Nel 1961 inaugurava a Milano una mostra intitolata Living Sculpture , che esponeva modelle firmate dall’artista con tanto di certificato d’autenticità, considerandole “opere d’arte reale”. Manzoni, inoltre, imbottigliava in palloncini il proprio fiato e inscatolava le proprie feci, rendendo questi scarti del proprio corpo opere d’arte in virtù del proprio gesto. Attraverso il richiamo all’arte di Manzoni evidenziamo come le azioni appena descritte, attraverso il corpo e il gesto dell’artista, diventino le prove di autenticità affinché il risultato venga considerato “opera d’arte”. Sicuramente non siamo lontani dal ready made e dall’ironia nei confronti del mercato dell’arte di Marcel Duchamp, che nel 1919 aveva imbottigliato l’aria di Parigi in una piccola boccetta, tra i suoi tanti readymade. Ora, tuttavia, non è solamente il gesto dell’artista e la sua firma a rendere l’opera d’arte “arte”, ma il corpo dell’artista diventa un elemento centrale, che caratterizzerà la definizione stessa di performance. Grazie a questi tre brevi esempi abbiamo potuto riscontrare nella storia dell’arte degli anni Cinquanta tre elementi che saranno fondamentali per il vocabolario della performance nel proprio periodo di maturità inaugurato con i performer degli anni Settanta: l’uso del corpo dell’artista, il carattere effimero dell’azione artistica -che si traduce con spiritualità o ironia a seconda dell’artistae la presenza dell’artista. Semplificando, potremmo riconoscere il merito a Manzoni di a aver utilizzato il corpo dell’artista per compiere l’opera d’arte, a Klein di aver enfatizzato la natura effimera del gesto artistico e al gruppo Gutai di aver stabilito un nuovo peso per la presenza dell’artista rispetto alla tecnica. Il gruppo Gutai, inoltre, sembra interessarsi anche al rapporto tra la presenza dell’artista e il pubblico, sia attraverso azioni come quella di Yasuo Sumi, sia attraverso la creazione di ambienti in cui gli spettatori s’immergono nell’opera d’arte . Questi ambienti interessano la storia della performance soprattutto per l’interesse da parte degli artisti all’esperienza vissuta dal pubblico, che viene inteso come una parte attiva e non passiva nella co-creazione e non solo nella fruizione dell’opera d’arte . Nel 1959 Allan Kaprow coinvolge gli spettatori con i suoi 18 Happenings in 6 Parts. A differenza degli esperimenti del Black Mountain College come il celebre Untitled Event del 1952, il pubblico non è più seduto, ma riceve delle precise istruzioni direttamente dall’artista. L’inizio e la fine di ciascuna parte dell’happening viene segnata dal suono di una campanella e il pubblico è invitato a non applaudire alla fine di ciascun episodio dell’accadimento. Le azioni che vi si svolgevano non avevano alcun significato apparente, così come il nome stesso “happening” accennava semplicemente a qualcosa di spontaneo che accade e basta. Tuttavia la situazione veniva provata nelle due settimane precedenti alla realizzazione con il pubblico e i performer avevano imparato a memoria le indicazioni di Kaprow. Dal punto di vista performativo gli Happenings erano attentamente costruiti e lasciavano veramente poco al caos e all’indeterminatezza cari a Cage, ma hanno un duplice interesse per la storia della performance. In primo luogo testimoniano l’interesse per il coinvolgimento attivo del pubblico, che diventa parte dell’azione e dell’opera d’arte stessa; in secondo luogo testimonia il rigore metodologico che sarà caro ad alcuni performer degli anni Settanta. È importante sottolineare a questo proposito il carattere contraddittorio della performance rispetto anche alla sua stessa definizione e identità. Se, infatti, per alcuni artisti la performance è pura improvvisazione, per altri deriva da un metodo, che comporta un’azione “addestrata”, sebbene non predeterminata e per altri ancora viene studiata ed eseguita rispettando fedelmente un programma, è evidente come essa si sottragga alle definizioni, alle convenzioni e rimanga sempre imprevedibile e provocatoria, mantenendo inalterata la natura eversiva contro le convezioni prestabilite dal sistema dell’arte e dalla società con la quale è nata. Nel suo saggio, Susan Sontag sottolinea come l’happening nasca per scioccare l’audience.
La sua durata inaspettata, così come il suo contenuto altrettanto imprevedibile, mantengono nel pubblico quella tensione che, in mancanza di narrazione e climax, riesce a destare l’attenzione e la partecipazione. Le origini dell’happening sono riconducibili all’action painting degli anni Cinquanta e alla pittura americana di quel periodo, che produceva grandi tele, iniziando a usare materiali altri dalla pittura. L’esempio più celebre sono i fotogrammi scattati da Hans Namuth a Jackson Pollock nel 1950, che immortalano il pittore nell’atto di dipingere, fumare e inserire oggetti nella tela. Il pittore afferma di trovarsi a proprio agio nel dipingere su vaste tele, appoggiate a terra, attorno alle quali può girare, osservare il dipinto da più angolazioni e sentirsi all’interno del quadro. Sucessivamente, gli assemblages di Robert Rauschenberg e di altri artisti sperimentano molti oggetti nella pittura (vetri, parti di macchine, indumenti ecc.) o come nuovi supporti della pittura in alternativa alla tradizionale tela, celebre rimane Bed di Rauschenberg (1955). Per la Sontag, quindi, il passo successivo a questo “teatro della pittura” è l’happening stesso, dove il quadro si fa ambiente, carico di oggetti caotici, provenienti soprattutto dalla spazzatura della civilizzazione urbanaindustriale, tra i quali ci sono anche i partecipanti.
L’uso degli oggetti ready-made in modo non convenzionale e lo stravolgimento dei significati attraverso la giustapposizione tipica del collage deriverebbero, infine, dal gusto tipicamente surrealista per lo shock. Per muovere il pubblico dall’anestesia della propria esistenza, l’happening si serve di azioni essenzialmente anestetizzate, svolte con diligenza da persone che ripetono costantemente gesti futili e senza senso, spesso anche al rallentatore, con una scarna attenzione alla parola e un interesse spiccato per i suoni e soprattutto i rumori. Sontag sottolinea come l’osservazione di queste azioni provochi ilarità, così come siamo portati a ridere nella commedia mentre guardiamo i personaggi soffrire, sapendo bene che non possono realmente provare quanto stanno recitando: “as in tragedy, every comedy needs a scapegoat, someone who will be punished and expelled from social order represented mimetically in the spectacle in the happening this scapegoat is audience” . L’happening rende manifesta l’anestesia della vita e cerca di esorcizzarla assieme all’apatia del pubblico attraverso lo shock, la violenza e l’imprevedibilità della situazione. Questo gusto surrealista per lo shock sarà tipico anche della performance e si tradurrà nello spirito ribelle attraverso il quale i performer metteranno in discussione i valori politici, sociali e culturali dei propri sistemi di riferimento, affermando la presenza dell’artista nella società. Gutai, Klein, Manzoni, Kaprow sono stati scelti quali esemplificativi germogli della performance, poiché con le loro opere hanno sottolineato alcuni aspetti che saranno d’interesse per i performer dalla fine degli anni Sessanta a seguire. A partire dagli anni Sessanta nascono i performer che si occuperanno di performance con metodo, contribuendo a renderla non più un’esperienza isolata e intermittente all’interno della storia dell’arte, ma una definita pratica artistica, per quanto di natura sfuggente a recalcitrante alle definizioni. Per la presente argomentazione la performance può essere definita come un’esperienza nella quale il performer è l’artista, che stabilisce la propria presenza all’interno della società. All’interno di tale definizione sono comprese tutte le contraddizioni che porta con sé a causa del suo carattere libero e anticonvenzionale. I performer del XX e XXI secolo nel corso della storia si sono sempre confrontati criticamente con il mondo circostante attraverso la loro presenza, traducendo le loro riflessioni in azioni che sono state documentate, sono rimaste nella memoria dei partecipanti, oppure sono state destinate fin da subito all’oblio. Per tratteggiare la complessità della performance, procederemo a descrivere brevemente il rapporto che ha instaurato con la ritualità, la società e il sistema dell’arte dagli anni Sessanta, fino ad oggi. Questo excursus si prefigge lo scopo di abbracciare la complessità della performance, che tipicamente sfugge alle definizioni, evidenziando come la sua natura anticonvenzionale l’abbia mantenuta attuale fino alle soglie del secondo decennio del XXI secolo . Dagli anni Sessanta a oggi sono trascorsi oltre cinquant’anni. Qual è stato il percorso della performance?
La storia delle origini della performance è stata tracciata dalla letteratura di riferimento, più rari sono gli studi che indagano la sua storia negli ultimi cinquant’anni e che ne seguono il recente presente con lo scopo di accompagnarne il prossimo futuro. Attraverso questo breve excursus ho inteso dimostrare l’importanza di sviluppare un campo di ricerca che vada ad abbracciare la storia della performance al fine di evidenziarne l’importanza per il prossimo futuro. Questa mia ricerca vuole focalizzarsi sulla presente definizione di performance come esperienza, indagando il rapporto passato, presente e futuro tra la pratica artistica, la presenza dell’artista e la quotidianità.
Biografia di Allan Kaprow
Allan Kaprow nasce ad Atlantic City ed è notoriamente riconosciuto come il padre dell’happening, una forma d’arte viva e agìta, da lui stesso definita come “assemblage di eventi che si svolgono in più di una situazione spaziale e temporale e un lavoro artistico attivato da performer e dal pubblico”. Mutuata dall’esperienza del New Dada, l’idea dell’assemblaggio, riletto in chiave metropolitana da Robert Rauschenberg e Jasper Johns, approda negli happening (accadimenti) inaugurati da Kaprow con l’intento di abolire la distanza tra fruitore e autore dell’opera e avvicinare arte e vita. L’evento che segna la nuova attitudine dell’arte si apre a New York nel 1959 con il primo happening organizzato da Kaprow nella Reuben Gallery, 18 happening in 6 parts. L’artista spedisce ad amici e conoscenti un invito con l’annuncio dei diciotto happening, chiamandoli alla collaborazione diretta per la realizzazione degli eventi, scrivendo «Come ognuna delle settantacinque persone presenti, lei sarà simultaneamente spettatore e protagonista». L’abbattimento della barriera tra artista e pubblico è l’elemento caratterizzante degli happening in cui non esiste la categoria del palcoscenico, né una logica. Palcoscenico è la vita stessa, persone, appartamenti, appezzamenti di terreno, stazioni ferroviarie o aule scolastiche, come quelle usate durante il corso di John Cage presso la New School for Social Research di New York. La dissoluzione degli schemi si avverte anche nell’uso dei materiali, provenienti dalla quotidianità (frutta, fogli di carta, fiammiferi, strumenti giocattolo, sacchi di tela) e destinati a realizzare un ambiente globale, che con i performers e il pubblico, creano un environment disordinato. Il termine environment indica un’installazione ambientale che coinvolge l’intero spazio vissuto dallo spettatore, comprensivo di tutti gli oggetti presenti, dove l’azione si svolge senza un momento iniziale e uno conclusivo, spesso ripetendosi. Kaprow realizza i primi environments negli anni sessanta. Nel 1960 allestisce a Stoccolma Stockroom, una stanza in cui scatole di cartone, giornali, cartoncini e materiali simili, sono disposti e agitati in modo da creare uno sviluppo organico e non geometrico dello spazio, che si abbandona ad una dimensione completamente alogica. Le sue azioni, anche se programmate, si aprono a piccole variazioni, introdotte dal tempo e dal pubblico, principali materiali dell’opera, che rendono l’happening spontaneo. Grande è il numero di artisti che a New York in quel periodo si dedica agli happening, da celebri esponenti del New Dada, quali Rauschenberg e Dine, a membri della Pop Art, come Oldenburg, o della Minimal Art come Morris. Kaprow realizza happenings ed environments nelle principali istituzioni americane ed europee, partecipando alle più importanti manifestazioni internazionali come la Biennale di Venezia (1993) e Documenta (1977, 1987). Fra gli environments principali si ricordano Beauty Parlor (1957/58), Apple Shrine (1960), Stockroom (1960), Yard (1961), Words (1962), Eat (1963). Molti sono stati riprodotti in musei e gallerie, in particolare Yard, realizzato per la prima volta nel 1961 a New York, alla Martha Jackson Gallery, dove l’artista riempì il cortile retrostante la galleria con centinaia di copertoni usati, invitando i visitatori a camminare, sedersi, sdraiarsi e spostare i copertoni a piacimento. In Italia, viene presentata a Napoli nel 1992 presso lo Studio Morra e nel 2003 negli spazi di Castel Sant’Elmo nell’ambito della mostra-evento “Living Theatre – Labirinti dell’immaginario”.
Esplorando il concetto di arte per cui idea e processo sono più importanti dell’oggetto, già introdotto da Pollock, che della pittura sposta l’enfasi sul gesto anziché sul prodotto estetico. Kaprow diffonde una modalità di fare arte che smette di realizzare oggetti e diviene una libera indagine sulle relazioni che legano idee, gesti e mondo materiale.
Museo Macro Roma
Yard Allan Kaprow
dal 5 Settembre 2024 al 16 Febbraio 2025
dal Martedì al Venerdì dalle ore 12.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Allan Kaprow_Yard_Ph Agnese Bedini - DSL Studio