Giovanni Cardone Novembre 2021
Fino al 22 Gennaio 2022 si potrà ammirare presso il Museo Diocesano di Napoli la mostra “Aniello Falcone, il Velázquez di Napoli” a cura di Pierluigi Leone de Castris.
La mostra è stata inaugurata alla presenza di SER Monsignor Domenico Battaglia e del Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Come afferma SER Monsignor Domenico Battaglia che dice :“Nell’accingermi a salutare questa prestigiosa iniziativa, il mio primo pensiero è per il Cardinale Crescenzio Sepe, a cui va il mio ringraziamento, e la gratitudine di noi tutti, per l’opera svolta in tutti questi anni. Opera di cui questo complesso Monumentale, e il ruolo consolidato che ormai svolge nell’ambito della proposta culturale della nostra città, sono uno dei frutti più belli ed importanti. Bello perché ci mette in contatto diretto con l’arte ispirata dalla fede e dalla devozione, importante perché si pone come strumento di rinascita e di valorizzazione della nostra terra, con le sue innite risorse ed eccellenze.
A partire dal restauro appena concluso di una delle opere più importanti conservate al Museo Diocesano, il Riposo nella fuga in Egitto di Aniello Falcone, si sono riunite, per la prima volta in un’unica esposizione, oltre 20 opere del grande maestro del Seicento napoletano, famoso per le sue “battaglie” ma anche per le nature morte e per altri soggetti, ancora presenti, tra l’altro, in molte chiese napoletane. Un duplice percorso, quindi, nel museo e nelle chiese che ospitano i suoi capolavori, per recuperare la gura di un vero caposcuola, ispirato dal
genio di Caravaggio e di Velázquez, e maestro a sua volta di artisti come Salvator Rosa e Micco Spadaro, e ingiustamente trascurato dagli studi.

Ringrazio quindi tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo importante evento. Spesso, conosciamo la nostra città per gli slogan negativi e i luoghi comuni. Dobbiamo riscoprire la complessa ricchezza di Napoli e dei napoletani: la generosità, lo spirito di accoglienza, la creatività e la resilienza. Napoli è una città bellissima, che con i suoi limiti e le sue possibilità, rappresenta un tesoro per tutto il Meridione italiano. Mi auguro quindi che questo sia uno dei tanti eventi capaci di riaccendere la fiamma della Speranza e ritessere i li della Fiducia, perché la nostra comunità possa finalmente lasciarsi alle spalle la sciagura della pandemia, con le tragedie umane ed economiche che ha generato, e possa impegnarsi nella costruzione di un futuro più equo e solidale”. Mentre il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca dice : “La realizzazione di questa nuova importante esposizione, dedicata ad uno dei protagonisti assoluti del secolo d’oro della pittura napoletana, rende giustizia ad un artista che ha avuto un peso indiscusso nella storia dell’arte del Seicento. Ad Aniello Falcone, infatti, non era ancora mai stata dedicata una mostra importante e neanche uno studio monograco organico. Prendendo spunto dal restauro appena concluso del suo capolavoro, il Riposo nella fuga
in Egitto, opera tra le più importanti della collezione permanente del Museo Diocesano di Napoli, la mostra propone per la prima volta insieme Ventitrè opere del maestro, dalle tele di soggetto sacro, alle battaglie e alle nature morte; riproponendo attraverso un percorso di scoperta, all’interno delle chiese di Napoli che ancora conservano – sconosciute ai più – le opere di Falcone, la statura e la grandezza di questo straordinario artista. Un’altra iniziativa di grandissimo valore culturale e di grande valenza sul piano dell’o?erta turistica della nostra Regione, che suggella l’ormai consolidato rapporto di collaborazione che ha prodotto nel corso degli anni le tante iniziative fortemente volute dal Cardinale Crescenzio Sepe prima, e dall’Arcivescovo di Napoli Mons. Domenico Battaglia oggi e da noi caldamente sostenute, che hanno portato, nella splendida cornice del Complesso Museale di Donnaregina, i capolavori di maestri quali Michelangelo, Leonardo da Vinci, Rubens e Brueghel. Oggi più che mai questa logica propositiva si inserisce perfettamente nello sforzo che la Regione Campania sta compiendo per creare le condizioni di una decisa ripartenza, dopo i drammatici problemi dell’emergenza pandemica, che hanno messo in ginocchio non solo la vita sociale e culturale, ma l’intera economia regionale. Quello della cultura è un comparto che anche in questa particolare contingenza rappresenta uno straordinario volano di sviluppo, che darà un contributo fondamentale al rilancio anche economico della Regione e della città di Napoli. E il Complesso Monumentale di Donnaregina è una delle strutture di eccellenza a cui va tutto il nostro sostegno, convinto e determinato, nella valorizzazione di un’area fondamentale come quella di via Duomo, strada sui cui insistono ben 10 siti museali di assoluta rilevanza, che spaziano dall’arte antica a quella contemporanea con il nostro museo “Madre”. Il cardo maior, con la sua Cattedrale, merita quindi decisamente l’attenzione che la Regione Campania ha già messo in campo per le politiche di promozione culturale e turistica, anche attraverso un processo di digitalizzazione per l’intera area. La battuta di arresto dovuta all’emergenza pandemica non deve farci dimenticare i lusinghieri risultati di crescita registrati negli ultimi anni in termini di presenze e di sviluppo dell’o?erta turistica, frutto concreto della programmazione Regionale, che attraverso una regia attenta e qualificata, ha valorizzato ogni tipo di eccellenza espressa dal territorio: dall’o?erta monumentale alla produzione artistica, dagli itinerari religiosi alla promozione dell’enogastronomia locale, in un processo virtuoso che sviluppa ulteriormente l’economia regionale anche attraverso le opere di promozione, di restauro e di messa in sicurezza di siti, palazzi, chiese e aree archeologiche
di pregio, che possono e devono aggiungersi alla straordinaria varietà e quantità di attrattori turistici che la nostra regione può vantare”.

Infine come afferma Pierluigi Leone de Castris : “Le prime opere note di Aniello Falcone , la Maestra di scuola oggi al Museo di Capodimonte e la Battaglia del Museo del Louvre a Parigi, datata 1631, lo mostrano a quella data protagonista di una pittura schiettamente naturalista, capace di recuperare la lezione di Caravaggio e di applicarla – sulla scorta forse di contatti coi pittori amminghi “bamboccianti” attivi a Roma – alla pittura appunto “di genere”; ma lo dimostrano anche capace di intessere rapporti con il naturalismo più aperto e colorato dell’altro grande spagnolo Diego Velázquez, che proprio in quegli anni tra il 1630 e il 1631 soggiornava per la prima volta in Italia, tra Roma e la capitale del Viceregno spagnolo di Napoli.
Più avanti nel corso della sua breve ma intensa carriera Falcone arricchirà ancor di più e renderà più complessa e moderna la sua pittura assorbendo l’in?uenza della pittura neoveneta e classicista e prestando attenzione, sempre tra Napoli e Roma, alla lezione di Nicolas Poussin, del genovese Castiglione e di scultori come François Duquesnoy. Le sue opere mature, dallo splendido Riposo dalla fuga in Egitto dipinto per Gaspare Roomer (1641) sino agli affreschi realizzati per lo stesso Roomer nella villa poi Bisignano a Barra (1640-43) e alle tante Battaglie oggi disperse tra i musei e le collezioni private d’Europa e d’America, sono la migliore testimonianza di questo straordinario equilibrio e capacità di sintesi tra naturalismo, classicismo e aperture pittoriche che fanno di Falcone uno degli artisti più originali della Napoli del Seicento, il vero “Velázquez di Napoli”. Prendendo spunto dal restauro appena concluso del suo capolavoro, il citato Riposo del Museo Diocesano di Napoli, ambisce a riunire attorno ad esso oltre Venti opere di questo protagonista del “secolo d’oro” dell’arte napoletana, dalle tele di soggetto sacro alle battaglie e alle nature morte, e a proporre inoltre un percorso esteso alle chiese di Napoli che ancora conservano sconosciuti ai più dipinti a fresco di Falcone, da San Giorgio Maggiore a San Paolo Maggiore al Gesù Nuovo”. In una mia ricerca storiografica e scientifica fatta sul Seicento a Napoli per capire meglio la vastità della produzione artistica del momento, essa è divenuta una monografia ed un seminario universitario dato che questa mostra su Aniello Falcone ci deve far riflettere che non esistono pittori minori oppure maggiori ma esiste ‘l’Arte’ e la produzione pittorica del maestro.
Nel 1503 gli spagnoli si impossessarono del Regno di Napoli. I continui tentativi di conquista della Francia furono resi vani dalle vittorie di Consalvo, dalle campagne contro il papa Paolo IV nel 1556 e infine, a metà seicento, dalla pronta difesa contro i tentativi di sbarchi nel golfo di Napoli. Il nuovo potere riuscì subito a domare il baronaggio con forza e audacia. Gli spagnoli trovarono due partiti nelle terre napoletane: uno era quello aragonese che era piuttosto borghese o intellettuale, composto da uomini legati alla vecchia dinastia tra i quali c'era anche Iacopo Sannazaro; questa fazione però perse il suo punto di riferimento alla morte di Ferdinando il cattolico e scomparve ogni desiderio di indipendenza. L'altro partito era quello Angioino che per i primi tempi combatterono ancora a fianco dei francesi; in seguito, però, i suoi membri fecero pace con gli spagnoli che li utilizzarono per svolgere faccende di governo o di guerra. L'ultimo scontro con il regno risale alla
guerra del Lautrec del 1528 Dove i baroni si unirono all'esercito francese che stava assediando Napoli. Alla fine della battaglia alcuni di questi furono uccisi, mentre altri mandati in esilio in Francia. Le ribellioni dei baroni diventarono sempre più rare e in questa classe sociale nacque un nuovo sentimento di fedeltà nei confronti del sovrano portando invece gli altri ceti alla reazione contraria. Le ribellioni ci furono comunque, come per esempio nel 1547, ma i baroni napoletani non si ribellarono mai al re, ma soltanto al viceré il cui potere non veniva riconosciuto.
Infatti Carlo D'Angiò nonostante le proteste diede sempre alla città l'etichetta di "fedelissima" che mostrò questa qualità anche nel 1707 molti baroni napoletani corsero in aiuto del Regno di Filippo V, occupato dagli austriaci. Il rapporto con la Spagna significò, inoltre, una forte intensificazione dei rapporti economici e finanziari con i genovesi, principali banchieri della monarchia madrilena. La città era diventata da tempo l'emporio che praticamente monopolizzava il movimento commerciale con il mezzogiorno, di cui rappresentava di gran lunga il principale accesso. Essa stessa, per la sua dimensione demografica, era diventata un grande mercato di consumo e un centro ragguardevole di produzione artigiana, all'interno della quale prese un forte spicco l'arte della seta. N
ella capitale si raccoglievano pure la ricchezza e il risparmio del sud, che un evoluto sistema bancario metteva a disposizione del pubblico e del governo. La diminuzione dell'afflusso di metalli preziosi americani e l'esaurimento delle risorse finanziarie della Castiglia rimisero in discussione i rapporti tra la corona e le colonie. In tutta l'Europa la guerra sollecitava un repentino accentramento del potere così da lasciare più autorità ai rappresentanti di uno stato nelle province. Un tentativo viene fatto a Napoli dal duca di Olivares tra il 1620 e 1647, tanto il sovrano stesso gli suggerisce di agire indipendentemente dalle magistrature locali. Questo però portò alla rottura di quei principi che potevano garantire la fedeltà al regno e la grande pressione fiscale rende carente il potere e l'autorità degli organi di governo. Infatti in quel periodo i quattro viceré che governarono il regno incontrarono grosse difficoltà nell'esercitare le loro funzioni; essi commisero l'errore di concentrare tutti gli sforzi nella ricerca di denaro per la guerra e rimasero impotenti di fronte allo stato di caos ed illegalità nel quale si trovava il regno. Una parte considerevole della nobiltà, oltre che al clero, si sottrasse alla mano della giustizia e larghe zone del paese restarono fuori dal controllo statale. I feudatari di alto rango, aiutati da bande seguaci, approfittarono della situazione per compiere soprusi sul popolo. I comuni non potevano più contare sulla protezione del sovrano e spesso i suoi rappresentanti pagavano con la vita l'opposizione ai baroni. Alla fine gli stessi funzionari regi dovettero venire a compromesso con i signori per la riscossione delle imposte e la repressione del contrabbando. La pittura napoletana, che iniziò ad assumere le proprie caratteristiche già prima del medioevo, si sviluppò notevolmente a partire dal Seicento, soprattutto con il contributo della lezione Caravaggesca e la maestria di importanti pittori che se ne fecero eredi. Bisogna tenere presente che oltre alla presenza a Napoli del Merisi, tra gli anni 1607-10, c’è da aggiungere quella di altre figure di spicco della pittura, tra le quali ricordiamo Guido Reni e Giovanni Lanfranco. Fu proprio il territorio partenopeo a partorire il
caravaggismo, elemento di massima importanza per la nascita, lo sviluppo e, quindi, la diffusione della pittura napoletana in Italia.

Il primo artista a seguire la pittura caravaggesca fu Carlo Sellitto, un artista di origini lucane le cui opere di trovano in varie chiese partenopee nonché in diversi musei nazionali. Nonostante il breve periodo di attività del Sellitto, che morì prematuramente all’età di soli 33 anni, pervengono ai nostri giorni moltissimi suoi ritratti, quasi tutti commissionati tra i membri dell’aristocrazia partenopea. Sebbene l’artista fosse il “primo caravaggista”, quello che subì maggiormente gli influssi del Merisi fu il Caracciolo conosciuto anche come Battistello , già discepolo (forse) di Belisario Corenzio , un abilissimo frescante che realizzò moltissime opere in svariate chiese della città. Anche il Caracciolo seguì con decisione la nuova rivoluzione caravaggesca, soprattutto nelle tonalità rispettandone appieno l’impiego dei chiaroscuri per i caratteristici effetti di luminosità, anche se più tardi, secondo alcuni studiosi, in seguito ai viaggi a Roma e Firenze si allontanò gradualmente dal realismo del maestro per avvicinansi agli schemi idealizzati del classicismo. Di questo longevo artista, possiamo ammirare numerosissime opere, disseminate del territorio partenopeo ed in musei nazionali. Un altro importante esponente della pittura partenopea seicentesca da tenere presente, più o meno quanto il Caracciolo, è Jusepe de Ribera detto lo “Spagnoletto”, che dopo un soggiorno romano approdò a Napoli nel 1616, forse per sfuggire ai creditori ma, probabilmente, data la sua fama in continua ascesa, si pensa invece che fosse stato chiamato in città dal viceré. La sua pittura è fortemente realistica, addirittura violenta rispetto quella del Caravaggio (almeno fino al 1630, quando l’incontro con Velàzquez nella stessa Napoli lo portò ad un ripensamento schiarendo ed arricchendo il cromatismo), soprattutto nei vigorosi contrasti coloristici e chiaroscurali delle figure nelle sue composizioni, anche in quelle a tema classico (si pensi al “Sileno ebbro”, attualmente al Museo di Capodimonte. Più tardi il re di Spagna gli commissionò alcune opere, attualmente custodite al Prado ed all’Escorial. È da tenere presente che l’arrivo di una figura di grande calibro come lo Spagnoletto nella città partenopea coincise più o meno con la chiusura della stagione caravaggesca. Questo facilitò la nascita e lo sviluppo della pittura napoletana sulla scia artistica del Merisi. Infatti il de Ribera proprio nella sua bottega ebbe modo di costituire un’importante cerchia di seguaci caravaggeschi, tra i quali possiamo citare Luca
Giordano detto Fa presto, il pittore napoletano tra i più prolifici e più importante, anche su scala mondiale, che fece pervenire ai nostri giorni circa tremila sue opere. Figlio d’arte, il Fa presto, dopo aver imparato le prime nozioni nella bottega paterna, proseguì la sua carriera artistica, come sopra accennato, con la lezione spagnolettesca che portò avanti per un certo periodo. Più tardi riuscì a superare definitivamente gran parte delle caratteristiche del barocco seicentesco, dando così una forte spinta all’arte del nuovo secolo con il suo vivace ed armonioso cromatismo, tratto soprattutto dai pittori veneti durante un soggiorno veneziano, nonché dall’assidua ricerca, mantenuta sempre viva, sull’arte dei grandi pittori del Cinquecento come Michelangelo, Raffaello ed il Carracci. Di Luca Giordano possiamo citare alcune opere di grande importanza a livello artistico nazionale, tra le quali spicca il ciclo di affreschi al palazzo Medici Riccardi di Firenze (Galleria di Luca Giordano). Moltissimi lavori di questo artista sono esposti, oltre che nelle chiese di Napoli, anche nei musei internazionali, tra i quali ricordiamo la National Gallery di Londra, il Prado di Madrid, il Louvre di Parigi, il Kunsthistorisches di Vienna e gli
Uffizi di Firenze.Come abbiamo visto, l’ultimo periodo del Seicento napoletano è dominato dall’arte del Fapresto, ma occorre tenere presente che contemporaneamente ad esso altri pittori in città stavano salendo alla ribalta. Fra questi
spiccano Mattia Preti detto il Cavalier Calabrese e Massimo Stanzione . Il primo, di origine calabrese, giunse a Napoli nel 1653, poco prima di quel terribile anno quando, tra il 1656 ed il 1657, la città fu colpita dalla peste. L’artista ebbe così modo di raffigurarla con affreschi votivi sulle quattro porte onorarie di Napoli, tra le quali quella dedicata a San Gennaro che mantiene ancora intatte le composizioni. Proprio in questa città il Preti incontrò
il Fapresto, il cui contatto fu di particolare importanza per entrambi i pittori, dati i vicendevoli interscambi nei consigli stilistici. Del Preti arrivano ai nostri giorni diverse opere, tra cui ricordiamo le tele custodite nel museo di Capodimonte e gli affreschi nella chiesa di San Pietro a Majella. Il secondo già allievo del
Fabrizio Santafede sviluppò il suo stile al di fuori dei canoni caravaggeschi grazie al soggiorno romano del 1617. Fu tra primi pittori del territorio partenopeo ad allontanarsi dallo stile del maestro lombardo, divenendo uno dei più ricercati frescanti di Napoli, le cui commissioni talvolta provenivano anche dalla Spagna. Con lo Stanzione, per un certo periodo, collaborava la
romana Artemisia Gentileschi altra grande figura della pittura napoletana che giunse in città nel 1630, della quale permangono nel territorio molti dei dipinti realizzati in loco fino agli ultimi giorni della sua attività artistica, interrotta con la sua morte avvenuta intorno al 1652-53. Infatti la pittrice, che conduceva una vita alquanto vessata e sofferente, decise di stabilirsi definitivamente nella città partenopea sentendosela come seconda patria, ove si sposò e vi concepì due figlie.

L’arrivo di Artemisia, anch’essa legata alla pittura caravaggesca, contribuì molto alla sua notorietà, conquistando anche diverse committenze di altissimo prestigio. Fu questo il periodo delle pitture per la cattedrale di Pozzuoli (l’Adorazione dei Magi, il San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli ed il
San Procolo e Nicea), della famosa Annunciazione (attualmente ammirabile nel museo di Capodimonte) e del ciclo di dipinti realizzati in collaborazione con lo Stanzione e Paolo Finoglia, per committenze spagnole, del quale ricordiamo la sua composizione: La nascita di san Giovanni Battista. Gli artisti come il Battistello, il Fapresto, lo Spagnoletto, il Preti e lo Stanzione, insieme ad altre eminenti figure di passaggio nel territorio partenopeo nella prima metà del secolo tra cui di nuovo ricordiamo Giovanni Lanfranco, Guido Reni ed il Domenichino influenzarono le future generazioni dando un forte impulso allo sviluppo della pittura locale che si arricchiva con nuova linfa emiliana. Le permanenze in città del Lanfranco e del Domenichino, che vi soggiornarono per circa un decennio, arricchirono l’arte partenopea, fino ad allora del tutto incentrata attorno alla lezione del Merisi e dei suoi seguaci. A tutti questi pittori, vengono affiancati quelli le cui opere
sono attualmente custodite nei principali musei internazionali: Bernardo Cavallino, Micco Spadaro, Salvator Rosa, Andrea De Lione, Francesco Di Maria, Bernardo De Dominici, Giovanni Balducci, Paolo Finoglio, Andrea Malinconico, Lorenzo e Andrea Vaccaro, Onofrio Palumbo, Giacomo Farelli, Francesco Guarini, Giuseppe Recco, Giovan Battista Ruoppolo, Giuseppe Simonelli, Cesare e Francesco Fracanzano, Pacecco De Rosa, Giuseppe Marullo e Belisario Corenzio. Tra cui Aniello Falcone che nasce a Napoli il 15 dicembre del 1607 , il padre Vincenzo era benestante è più volte Console dell’Arte con una parentela ricca di pittori,artisti e artigiani . Con i proventi del suo lavoro acquista tutto un comprensorio di case in via della Selleria. Il giovane Aniello, indirizzatosi alla pittura, si trova ad operare in un contesto che vedrà sovrapporsi un crocevia, in epoche diverse, di grandi artisti che imprimono il tono di fondo delle diverse stagioni della scuola napoletana: dal passaggio epocale di Caravaggio che aveva lasciato al Pio Monte della Misericordia la portentosa tela con le Sette Opere di misericordia, un manifesto del suo straordinario realismo e della sua profonda religiosità pauperistica, fino alle documentate presenze ed opere di Velasquez, Jusepe Ribera, Luca Giordano, Mattia Preti, Domenichino, Artemisia Gentileschi, Guido Reni, per tacer d’altri. In mezzo a questi giganti del pennello Aniello Falcone fu pittore reputato e di successo, sensibile, nelle diverse fasi della sua pittura, ai diversi influssi che facevano moda ed
exemplum nel
milieu della ricca produzione artistica dell’epoca. Costante rimane però la coniugazione, nella sua opera, di un realismo delle figure, mediato dal maestro Ribera, detto
Lo Spagnoletto, ed un classicismo sobrio, monumentale dell’ambiente, alla maniera di Poussin.
Fu virtuoso nel disegno ed a riprova lo troviamo dal 1636, con due colleghi, a dirigere a lungo una Accademia di nudo. Dal 1638 è documentato che tenga bottega con tanto di assistente. L’anno successivo sposa Orsola,la figlia di Vincenzo Vitale, pittore anch’egli, da cui avrà quattro figli, tutti precocemente morti, se sappiamo dal testamento che suoi eredi sono solo i fratelli e la vedova dell’allievo di lustro Salvator Rosa. Nel 1647 ha parte e probabili simpatie nel moto di rivolta popolare guidato da Tommaso Aniello, Masaniello, contro il dominio spagnolo. Ma appare una leggenda che si sia fatto promotore della Compagnia della Morte, una ghilda armata dei pittori per sterminare gli spagnoli. Tale associazione, sembra di mariuoli, è documentata infatti dal 1650, quando gli spagnoli erano tornati al pieno dominio. Di sicuro questa rivoluzione locale è spartiacque tra un periodo di grande successo ed una eclisse successiva, nella quale a Napoli emerge la prolifica bottega di Luca Giordano. Troviamo infatti A. Falcone a Roma dopo il 1647, dove incontra il Borgognone, con il quale è assai probabile un successivo breve soggiorno parigino. Tornato a Napoli, dove aveva sicure e fidate commissioni principesche, primi tra tutti i Caracciolo, il 14 luglio 1656 contrae la peste, morendo in breve tempo e seguendo la sorte di una intera generazione di pittori, le cui case e botteghe furono date alle fiamme risanatrici, con immensa distruzione di disegni, bozzetti ed opere. Aniello Falcone, in un ambiente cosmopolita come quello della pittura napoletana della prima metà del seicento, fu prolifico artista a tutto tondo: fu maestro di affresco e di pittura su tela ‘Le battaglie’. Ben presto, sulle orme di Belisario Carenzio, un pittore di origine greca attivo a Napoli, si specializzò nel tema delle battaglie, tanto da essere chiamato dai contemporanei “L’Oracolo delle battaglie” e da divenirne maestro nell’ambito della propria scuola di bottega, nella quale ebbe allievo ed emulo il più famoso Salvator Rosa. Il tema, in un secolo di guerre sanguinose e diffuse, prima tra tutte la Guerra dei Trent’Anni, si prestava ad una epopea variegata di episodi e varianti: l’assedio, lo scontro campale, la carica di cavalleria, l’agguato,
l’assalto, il saccheggio, l’inseguimento, la scarica di fucileria, l’artiglieria in azione. Tutti temi che piacevano molto sia alla nobiltà, guerriera per tradizione, sia a Santa Madre Chiesa, per ricordare i propri trionfi sugli infedeli e sugli eretici. La cifra originale di Falcone su questo tema consiste, come ha sottolineato il suo acuto biografo Saxl, nel produrre ” battle scenes without hero” cioè scene realistiche del corso di una battaglia di tipo corale, con minuzia di episodi, senza la centralità e glorificazione del condottiero che, se c’è, si perde nella massa in movimento (es.
Gustavo Adolfo alla battaglia di Lutzen) . La psicologia drammatica dei personaggi, le espressioni di paura, di aggressività, di furore, di dolore sono meticolosamente sottolineati nella pittura, dopo attento e meditato studio mediante il disegno. Abbiamo infatti numerosi studi di eccellente fattura di singoli personaggi, che sono stati riutilizzati in diverse opere. Quello che originalmente Falcone esalta nella scena è il terribile “sublime” della guerra come atto collettivo, che altera l’umanità e la stessa natura, attraverso le nuvole di polvere sollevate dai cavalli, attraverso gli spari dei cannoni e dei fucili ed i rumori ferrigni, le grida, le invocazioni che sembrano prorompere dalla tela. Le opere a fresco più significative si trovano a Napoli in San Paolo Maggiore, in San Giorgio Maggiore, nella Chiesa del Gesù Nuovo ed in una villa di Barra, appartenuta ad un suo generoso committente, il banchiere olandese Roomer. Qui la scena di battaglia ritorna, come nella biblica battaglia tra Amaleciti ed Ebrei, con i suoi caratteristici cavalli impennati, la criniera a treccine, i corpi dei guerrieri ben studiati nella dinamica anatomica, ma i temi si fanno più variegati comprendendo storie bibliche, miracoli e perfino un portentoso San
Giorgio ed il Drago, recentemente ritrovato in ottimo stato di conservazione. Nella sua versatilità Falcone si distinse anche nella pittura di figure, secondo la lezione naturalistica e realistica appresa da grandi pittori spagnoli come il suo maestro Ribera o come Velasquez. Veri capolavori come I Gladiatori, i soldati romani che entrano nel Circo, Cristo che scaccia i mercanti dal Tempio, commissionati da Filippo IV di Spagna, si trovano oggi al Prado. In varie collocazioni napoletane e romane traviamo le seguenti opere: L’Elemosina di Santa Lucia, Il Martirio di San Gennaro, Sant’Antonio Abate, L’Eremita, Il Banchetto di Erode. Tante altre opere potrebbero in futuro essergli attribuite, poiché Aniello Falcone era restio a firmare le proprie produzioni.Tra le opere di figura conservate al Museo di Capodimonte spicca, per eccellenza, la giovanile tela
La Maestra di scuola. Questa tela, che si trova nella raccolta del Museo di Capodimonte a Napoli, deve essere stata dipinta prima della Battaglia del Louvre, che è del 1631, e rappresenta perciò la prima opera di figura ad olio documentata di Aniello Falcone. Infatti l’opera risente, pur nella sua originalità di soggetto e composizione, dell’insegnamento pittorico del maestro
Spagnoletto (Jusepe de Ribera) se non addirittura del virtuoso luminismo realistico di Velasquez. Nella scena verticale, all’interno di un ambiente ligneo in penombra, una violenta luce obliqua, dall’alto a sinistra verso il basso a destra, evidenzia plasticamente, per i forti contrasti chiaroscurali, quattro figure che compongono una piramide asimmetrica, il cui vertice è rappresentato dal copricapo della maestra. Tre quinti della scena infatti, secondo una regola della sezione aurea, sono occupati in altezza ed ampiezza dalla figura di una donna ormai matura, assisa di tre quarti in un tronetto di legno a braccioli, vestita classicamente con bianca tunica, rossa veste ed un manto arancio annodato sulla spalla destra. Si intravede un piede nudo forse calza sandali che ben appoggiato imprime stabilità alla figura. La donna tiene in grembo un enorme testo, come fonte di sapere un diligente allievo chinato si abbevera leggendo. Il braccio destro della donna è appoggiato al bracciolo ed impugna ostentatamente un flagellum, fatto di un bastone con funicelle nodose pendenti di cuoio. Il tronetto è l’unico elemento di mobilio presente. Davanti a lei i tre ragazzi, vestiti decorosamente e calzati, si affollano in piedi in un ridotto spazio della tela:
dicevamo che uno è chino sul testo in grembo alla maestra, un secondo volge le spalle ai due assorto, con un libro trattenuto aperto con la mano sinistra, mentre usa la destra come indice del rigo letto, un terzo allievo di cui si intravede solo il pallidissimo volto, perché è coperto dai corpi dei primi due, guarda con sgomento e timore l’espressione severa e corrucciata della docente, che con ira trattenuta è in procinto di comminare una punizione con la sferza. Ai piedi della maestra alcuni libri in pergamena sono appoggiati in disordine, con le pesanti coperte slacciate, pronti ad essere consultati al cambio di materia di insegnamento. La composizione è sapientissima perché riesce originalmente a coniugare la rappresentazione allegorica classica delle Virtù, che Falcone peraltro affrescherà nella villa di Roomer a Barra, con il realismo vivido e quasi fotografico dell’epoca. Protagonista assoluto è il manto arancione, classicamente drappeggiato ed insieme zuppo di calda luce propria, tale da conferire alla solenne figura dell’insegnante, assieme al copricapo che ricorda l’elmo di Minerva, autorevolezza, sapienza, forza, potere, insomma l’aura sacra della regalità e della divinità. Ma la forte valenza allegorica e classicheggiante della scena si ribalta in crudo realismo ad opera della forte carica psichica comunicata dalle espressioni dei personaggi : tensione severa e corruccio nel volto dell’insegnante, timore, paura, smarrimento in quello di un allievo, concentrazione estraniata negli altri due. Anche abiti e posture degli allievi, tutti maschi, riportano con realismo al momento storico e alla cruda verità della scena scolastica.
Nel Seicento, infatti, accanto alle scuole parrocchiali in cui veniva impartito l’insegnamento religioso, si cominciarono ad affermare scuole private, gestite sia da ordini religiosi che da laici e furono aperte perfino scuole comunali gratuite, in alcune città. Ma chiaramente erano rivolte alla componente maschile e benestante, essendo i figli degli umili privati del tempo dell’infanzia, avviati ben presto a compiere lavoro di utile servizio agli adulti, in qualità di garzoni, apprendisti, pastori, guardiani, praticanti. Quando non finivano, non sostenuti né materialmente né moralmente dalla famiglia, a vivere pezzenti in mezzo alla strada, come tanta magistrale e cruda pittura dell’epoca illustra.
Museo Diocesano di Napoli
Aniello Falcone, il Velázquez di Napoli
dal 27 Ottobre 2021 al 22 Gennaio 2022
Lunedì al Sabato delle ore 9.30 alle ore 16.30
Domenica dalle ore 9.30 alle ore 14.00- Chiuso il Martedì