di
Giorgia TERRINONI
A cinquant’anni dalla scomparsa di Arturo Dazzi (1881-1966), la
Fondazione Villa Bertelli, il
Comune di Forte dei Marmi e il
Comune di Carrara, organizzano una mostra dedicata allo scultore toscano, promossa da Roma Capitale,
Assessorato alla Crescita Culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali.
Con il patrocinio del
Senato della Repubblica, del
MIUR, del
MIBACT e della
Regione Toscana, la mostra (16 ottobre 2016 – 29 gennaio 2017) è ospitata nel
Casino dei Principi di Villa Torlonia (via Nomentana, 70).
‘L’esposizione è unica nel suo genere’ – spiega la curatrice
Anna Vittoria Laghi – ‘ripercorre le tappe della vita dell’artista attraverso opere e documenti che escono per la prima volta dalle loro sedi. Disposti e organizzati secondo un percorso cronologico, le sculture, i modelli e i bozzetti in gesso, le lettere, gli articoli, i dipinti e i disegni disvelano con uno sguardo inedito
il dietro le quinte dell’universo di Dazzi’.
La mostra, intitolata
Arturo Dazzi 1881-1966, Roma – Carrara – Forte dei Marmi, intende raccontare un percorso attraverso i legami privilegiati che l’artista ha instaurato e coltivato, durante tutto l’arco della sua vita, con tre città italiane. Carrara, città natale di
Dazzi e molto importante negli anni della formazione – il padre è proprietario di alcune cave e di un laboratorio per la lavorazione del marmo; l’artista fa il suo apprendistato come scalpellino e sbozzatore nella bottega di uno zio; poi s’iscrive, nel 1892, all
’Accademia di Belle Arti, dove la sua presenza è documentata fino al 1899. Nel 1901 ottiene un pensionato artistico che gli permette di continuare a studiare a Roma, dove rimane fino al 1925. A Roma
Dazzi incontra popolarità e successo e coltiva importanti relazioni di amicizia e lavoro – in particolare, con
Marcello Piacentini. Infine, Forte dei Marmi, dove l’artista lavora ad alcune tra le sue più importanti opere monumentali e dove si scopre anche pittore (‘La Versilia che mi fece diventare pittore’).
A Roma sono molte le opere di
Arturo Dazzi che si conservano in collezioni pubbliche e private o si possono ammirare camminando per la città: dal

gruppo bronzeo de
I Costruttori (1907), alla statua del
Cardinal De Luca al
Palazzaccio (1908), arrivando alla
Stele a Marconi (1937-59), il grande
obelisco dell’Eur, passando prima per una serie di opere eseguite fra il 1922 e il 1930, tra cui
Antonella (1923),
Sogno di Bimba (1926) e
Cavallino (1928), in esposizione alla
GNAM e alla
GAM.
La mostra romana al
Casino dei Principi si articola in sei sezioni, con circa 60 opere dell’artista, tra sculture, gessi, dipinti e disegni e documenta l’attività di Dazzi tra il 1914 e il 1935. Alcune opere provengono da Carrara dalle collezioni dell’
Accademia di Belle Arti e della
Fondazione Cassa di Risparmio, altre sono state prestate dagli
eredi Dazzi. Il nucleo principale dell’esposizione, invece, è di proprietà del
Comune di Forte dei Marmi, a cui le opere sono state donate nel 1987 dalla
vedova Dazzi.
L’esposizione guida lo spettatore in un percorso che non comprende solo le sculture dal sapore classico, ma anche opere dalle forme più intimiste come
Sogno di Bimba (1926) e
Adolescente (1929).
Dazzi è spesso solo ricordato come un esponente di spicco del nuovo classicismo scultoreo del ‘900, con un’attitudine spiccata alla celebrazione dei fasti dell’epoca fascista! Si pensi alla vicenda dell’enorme
statua marmorea raffigurante un aitante giovane e intitolata
Era fascista (1932) che appariva in
piazza della Vittoria a Brescia. Già soprannominata in tono dispregiativo dai bresciani
Bigio, essa fu rimossa nel 1945 e trasferita in un magazzino comunale.
L’
Adolescente, che ritrae una fanciulla nuda a figura intera, pudica e allo stesso tempo sensuale, diventa immagine simbolo della mostra e manifesto della natura pure intimista della scultura di
Dazzi.
A questo gesso si affianca il modello originale del
Cavallino, la celebre scultura che l’artista espose alla
Biennale di Venezia del 1928 e che rappresenta in maniera esemplare la grande capacità di
Dazzi di ritrarre ‘le bellezze della natura’ con una sorprendente perfezione anatomica. In tal senso, vanno lette anche altre scene di natura, alcune scultoree, come l’immagine tenera e commovente del giovane capriolo morente, molte altre invece pittoriche.
Presenti anche i modelli e i disegni preparatori della monumentale
Stele a Marconi.
Una delle opere più interessanti presenti in mostra, che incarna sia l’attitudine da ritrattista di
Dazzi, sia il tratto da apologeta del fascismo, è il
Ritratto di Curzio Malaparte, noto anche come
Il poeta maledetto, esposto alla
Biennale di Venezia del 1952. L’opera è stata oggetto di una controversia legale che ha visto coinvolti l’artista,
Curzio Malaparte e
Indro Montanelli. Malaparte, infatti, non volle assolutamente riconoscersi nel ritratto, una statua in legno scuro, raffigurante un uomo nudo allampanato e magrissimo, le cui parti intime erano state coperte da un cane bassotto con la testa ciondoloni. A parere del poeta, non solo il colore della scultura identificava un uomo di colore, ma pure la rappresentazione dei tratti somatici rinviava direttamente a
Indro Montanelli. Il quale, dal canto suo, non volle avere nulla a che fare con la scultura, essendo chiaro di carnagione e biondo di capelli. La controversia si sarebbe potuta risolvere solo qualora i due presunti modelli si fossero prestati a posar nudi in tribunale! Al di là dell’aneddoto, a suo modo ridicolo ma carico anche di fosche tinte razziste, il ritratto di
Dazzi, con la sua lignea compostezza, attraversata però da una folle vena d’ironia, sembra proprio tratteggiare la figura esasperata di
Curzio Malaparte.
In conclusione, la mostra è buona, anche interessante e completa nel suo essere composta da un
corpus comunque ridotto di opere. Ma – mi si perdoni il gioco di parole – vi è una nota assolutamente stonata, ovvero l’intero allestimento! Troppi colori nei pannelli espositivi, se si considera che le

pareti del
Casino dei Principi sono decorate. Ne risulta un
patchwork fastidiosissimo che rende difficile apprezzare le opere pittoriche. Lo stesso dicasi per l’allestimento del
Sogno di Bimba e del
Cavallino, l’allestimento delle quali rasenta il
kitsch, senza tuttavia abbracciarlo. Una valorizzazione più minimalista dello spazio espositivo avrebbe comunque consentito d’identificarle come alcune delle opere cardine della mostra. Come dire? Le opere parlano da sole. Ma se intorno c’è troppo rumore, è difficile sentire cosa dicono!