Il fenomeno delle aste online s'inserisce, accanto alla realtà delle case d’asta tradizionali, nel più ampio sistema del commercio di beni culturali. Il continuo sviluppo di nuove tecnologie e la progressiva diffusione di internet hanno generato nuovi strumenti di vendita rivolti al mercato dell’arte e, contestualmente, anche il meccanismo dell’asta per portare a termine transazioni relative alla compravendita di produzioni artistiche ha guadagnato una certa notorietà sulle nuove piattaforme elettroniche, sfruttando la rete per avvicinare nuovi utilizzatori.
È dunque ormai possibile distinguere tra due diversi luoghi di operatività delle aste, pur basati sui medesimi sistemi di vendita: un luogo fisico, la tradizionale sede dove si svolge l’asta, e un luogo virtuale, il cosiddetto e-market place. Se oggi nessuno pare nutrire dubbi circa il fatto che le aste online, nei limiti che individueremo, siano lecite, in passato i profili di legittimità di questi nuovi canali hanno fatto nascere non poche perplessità in giurisprudenza e in dottrina creando un intenso dibattito intorno al tema.
Le perplessità principali prendevano le mosse dalla manifesta incongruenza rilevabile tra due disposizioni normative: l’art. 18 c.5 della “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio della legge 15 marzo 1997, n. 59” contenuta nel D.lgs n.114 31 marzo 1998, in cui si prevede il divieto di vendita all'asta tramite mezzo televisivo o altri sistemi di comunicazione, e l’art. 2, lett e) del D.lgs n. 185 22 maggio 1999, recante disposizioni per l’“Attuazione della direttiva 97/7/CE relativa alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza”, poi abrogato dall'art. 146 del Codice del Consumo, che escludeva la possibilità di ricorrere al decreto nel caso di contratti conclusi per vendita all’asta.
In sostanza, vietando l’art. 18 del D.lgs 114/98 in via assoluta la vendita all'asta mediante televisione o altri sistemi di comunicazione, e dunque anche mediante internet, non si capiva il motivo per cui poi l’art. 2, lett. e) del D.lgs 185/99 tenesse a precisare l’impossibilità di applicare la disciplina sulla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza alle vendite all’asta.
L’entrata in vigore del Codice del Consumo, istituito col D.lgs. n. 206 6 settembre 2005, abrogando il D.lgs. 185/99, è intervenuta a sanare l’apparente conflitto di norme, eppure i motivi alla base dell’appena citata incongruenza paiono in realtà ancora attuali. Infatti, il vigente Codice del Consumo contiene due articoli, ovvero l’art. 14, c. 5, lett. b), sull’indicazione dei prezzi per unità di misura, e l’art. 51, c. 1, lett. e), sui contratti a distanza, che, sottraendo esplicitamente i prodotti offerti nelle vendite all’asta e i contratti conclusi tramite vendita all’asta all’applicazione del Codice del consumo, si esprimono non diversamente dall’abrogato art. 2 lett e) del D.lgs 185/99 che aveva per l'appunto generato i richiamati dubbi di legittimità per le aste online, creando non poca confusione.
Al fine di venire a capo della questione pare innanzitutto necessario mettere brevemente a fuoco i profili caratterizzanti rispettivamente l’asta in senso proprio, l’asta online e il contratto concluso a distanza. Al di là di alcuni riferimenti rinvenibili all'art. 115 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, nella Circolare del Ministero dell'Interno del 16 gennaio 1952 oltre che nel Codice di Procedura Civile, l’ordinamento italiano non disciplina in modo sistematico la vendita all’asta in senso proprio, né definisce compiutamente cosa debba intendersi per “asta”.
Per precisare dunque quali siano i tratti salienti della vendita all’asta occorre rivolgersi alla teoria economica, per cui l’asta viene comunemente qualificata come quel “meccanismo di allocazione delle risorse caratterizzato da un particolare insieme di regole che presiedono allo scambio”. In quest’ottica gli elementi essenziali che caratterizzano l’asta “tradizionale” sono enucleabili in: un soggetto che organizza e gestisce professionalmente la vendita, ovvero la casa d’aste; un prezzo base d’asta per ciascun bene in vendita; un sistema di offerte, per esempio al rialzo o al ribasso, rispetto al prezzo iniziale del bene, entro un arco di tempo limitato; l’aggiudicazione finale del bene.
Uno dei primi e più autorevoli tentativi di ricostruzione dei profili giuridici salienti delle aste online si deve in particolare alla Court of Appeal Californiana, che, nella ormai celebre sentenza Gentry vs eBay, individua eBay, la più nota piattaforma per le aste online, quale mero luogo di negoziazione laddove precisa che “it is the individual defendants who sold the items to plaintiffs, using eBay as a venue”.
Le aste online si sostanziano dunque in luoghi virtuali di scambio dove una comunità di utenti, senza aver necessariamente requisiti di professionalità, compra e vende beni attraverso piattaforme elettroniche concepite ad hoc e gestite da soggetti che ormai la dottrina giuridica all’unanimità definisce hosting providers. In pratica questi soggetti mettono a disposizione degli utenti l’e-market place, ovvero lo spazio virtuale ove si realizza lo scambio per la compravendita dei beni, che autorevole dottrina è giunta a definire come “il programma software che consente a molteplici venditori e acquirenti di svolgere le loro attività di vendita su Internet” o anche “un ambiente di interazione commerciale (…) su Internet”. L’hosting provider, in qualità di gestore dell’e-market place, si limita a ricoprire il ruolo di intermediario, del tutto estraneo alle negoziazioni tra venditore e acquirenti: difatti non ha il potere di controllare la veridicità delle informazioni fornite dagli utenti sulla qualità, la sicurezza e la legalità del prodotto offerto, né possiede strumenti per garantire e/o costringere gli utenti a comprare e/o vendere all’esito dell’aggiudicazione; può solo pubblicare le informazioni fornite dagli utenti, dalla fase di registrazione alla fase di vendita o acquisto, e consentire lo scambio di queste informazioni all’interno della comunità. Pertanto, nel caso in cui acquirente e venditore decidessero di rivolgersi ad una “casa d’aste online” tradizionalmente intesa e definita per concludere una transazione si troverebbero in realtà a concludere un altro tipo di contratto di compravendita, a formazione progressiva e multilaterale, senza porre in essere un’asta in senso proprio.
Il contratto a distanza, sulla scorta di quanto già stabilito all’art. 1 del D. Lgs. 185/99, viene invece definito dall’art. 50, c.1, lett. a), del vigente Codice del Consumo come quel contratto “avente per oggetto beni o servizi stipulato tra un professionista e un consumatore nell'ambito di un sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza organizzato dal professionista che, per tale contratto, impiega esclusivamente una o più tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso”; la seguente lett. b) precisa poi anche cosa debba intendersi per tecnica di comunicazione a distanza, ovvero “qualunque mezzo che, senza la presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, possa impiegarsi per la conclusione del contratto tra le dette parti”.
Fatte queste precisazioni è ora possibile fare un po’ di chiarezza e ricostruire il dibattito circa la liceità e le condizioni di ammissibilità delle aste online, anche a partire da due circolari intervenute nel merito della questione per risolvere gli iniziali dubbi prima dell’entrata in vigore del Codice del Consumo: la n° 3487/C del 1 Giugno 2000 approntata dal Ministero dell’Industria e la n. 3547/C del 17 giugno 2002 ad opera del Ministero delle Attività Produttive. La prima circolare, conosciuta anche come circolare e-commerce, precisava che “l’attività svolta nella rete Internet mediante l’utilizzo di un sito web (e-commerce), ove sia svolta nei confronti del consumatore finale e assuma la forma di commercio interno, è soggetta alla disciplina dell’art.18 del D. Lgs 31 marzo 1998, n. 114”.
La seconda circolare lasciava in sostanza intendere che le contrattazioni abitualmente individuate come aste online, discostandosi del tutto dalle aste tradizionali, rappresentassero fattispecie di compravendita a prezzo dinamico alle quali fosse applicabile la disciplina dei contratti a distanza e dunque anche il diritto di recesso a favore del consumatore. La presunta illegittimità delle contrattazioni portate a termine attraverso le aste in rete discendeva infatti anche dall’impossibilità per gli utenti di verificare la correttezza e la veridicità dei rilanci sul prezzo per poter eventualmente agire di conseguenza. Proprio la necessità di garantire la giusta imparzialità e correttezza dei procedimenti alla base delle aste ha contribuito a giustificare tale divieto. Non è dunque un caso che il legislatore italiano abbia scelto poi di confermare il divieto per le aste realizzate in modalità diverse da quelle tradizionali nella regolamentazione dei contratti stipulati a distanza.
La dottrina sul punto è ancora divisa: una corrente opera una sostanziale distinzione tra il negozio giuridico principale che viene a crearsi con l’asta online e i negozi giuridici a questo associati e complementari, come quello che il consumatore di fatto stipula con l’hosting provider per proporre il bene agli altri utenti, per cui solo il primo sarebbe soggetto al divieto normativo; un’altra corrente ritiene invece che a prescindere da quale sia il rapporto tra le due disposizioni in apparente conflitto sopra richiamate, esso comporti comunque il divieto delle aste online sul territorio nazionale; un’altra corrente ancora sostiene che non tutte le aste online siano da considerarsi illecite, ma solo quelle che in cui un soggetto acquisti professionalmente beni da destinare in via diretta al dettagliante, in nome e per conto proprio. In questo senso il divieto interesserebbe dunque solo le aste business to consumer (B2C), ovvero quelle nelle quali un imprenditore adoperi la piattaforma virtuale dedicata alle aste per vendere ai consumatori beni acquistati da produttori o da altri commercianti all’ingrosso.
Dunque, malgrado l’entrata in vigore del Codice del Consumo la questione a ben vedere presenta ancora alcune difficoltà oggettive, legate principalmente al tuttora basso livello di confidenza maturato nei confronti dei contratti posti in essere nell’ambito del commercio elettronico. Il dibattito sul tema proposto non pare essere ancora confluito in una soluzione del tutto univoca. Tuttavia, dalla lettura congiunta delle norme e dei documenti finora richiamati è comunque possibile affermare, pur senza alcuna pretesa di esaustività data la complessità del tema, che al momento nel nostro ordinamento le vendite all’asta online sono senz’altro consentite:
a. quando il soggetto venditore non è stabilito nel territorio dello Stato;
b. quando il soggetto venditore non svolge professionalmente l’attività di vendita;
c. quando il soggetto venditore, pur svolgendo professionalmente l’attività di vendita, è un grossista;
d. quando il soggetto venditore, pur svolgendo professionalmente l’attività di vendita, vende al dettaglio nei casi previsti all’art 4, c. 2 del D.lgs 114/98;
e. quando il soggetto venditore si configuri come produttore industriale e l’attività di vendita si concluda nei locali di produzione.
Anche se il legislatore italiano pare dunque essersi particolarmente preoccupato di dettagliare quantomeno la disciplina relativa agli obblighi di identificazione degli agenti economici coinvolti nelle aste online, lo stato d’incertezza della normativa nel complesso certo non contribuisce a far decollare in maniera adeguata questi meccanismi, in particolare quando oggetto della compravendita siano opere d’arte.
La dimensione globale di internet e la tendenziale transnazionalità degli scambi sulle piattaforme elettroniche sviluppate per le aste online rendono purtroppo insufficienti i presidi giuridici nazionali tesi a contrastare la diffusione di prodotti contraffatti attraverso i nuovi canali telematici, soprattutto se si considera come in alcuni ordinamenti giuridici non sia affatto garantita l’identificazione degli utenti; dunque l’eventuale repressione di fenomeni illeciti legati alla vendita o all’immissione nei mercati virtuali di prodotti artistici contraffatti o rubati risulta davvero ardua quando non impossibile. Alcuni importanti hosting providers come eBay assicurano severissime politiche contrattuali nel tentativo di designare limiti netti e precisi in relazione agli oggetti posti in vendita, utilizzando anche canali personalizzati per le case d’aste titolari di marchi registrati, proprio per ostacolare l’uso dei siti per la distribuzione di falsi o per il riciclaggio di oggetti rubati. Tuttavia, gli stessi gestori dei servizi online hanno più volte dichiarato quanto sia arduo monitorare e valutare preventivamente la natura di ogni inserzione, in particolare per le opere d’arte, soprattutto laddove il meccanismo di base delle aste online consente per natura l’offerta di prodotti a prezzi iniziali che non sono mai indicativi del vero valore economico dell’oggetto.
È tempo forse che l’Unione Europea spinga per un’armonica disciplina di questi nuovi canali di vendita, cercando di ridurre al limite i pericoli e le incertezze presenti in favore di un’implementazione delle opportunità.
31/12/2013
Dott.ssa Sara Peluso
Docente a contratto di Diritto dell’Economia
Università di Modena e Reggio Emilia
Lemme Avvocati associati
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