Un fenomeno del genere non si era ancora  manifestato sotto il cielo dell’arte: ci sono le sue opere ma l’autore non c’è. Parrebbe un classico della letteratura gialla: la vittima è lì, immota, ma l’assassino occorre scovarlo, per dargli un nome e un volto. Nel nostro caso, per fortuna, il nome l’abbiamo; non così il volto. È la prima impertinente sgarberia del pittore di Bristol: la sua identità è un geroglifico ancora da svelare. Nell’età dell’”immagine”, per l’affermazione della quale pare si sia pronti a vendere anche l’anima, la sua, di immagine, rappresenta un’arcana diavoleria, un nome sotto copertura, un’identità inabissata nel mondo degli stilemi, sempre nuovi, imprevedibili  e a volte misteriosi dell’arte contemporanea.
Banksy – accettiamo questo nome per quello che può valere – è dunque l’epigono elevato al massimo grado di chi, in vista del successo, si arrovella fino allo spasimo nella ricerca operativa di una “cifra” che funga, poi, da apripista alle affermazioni e ai lauti compensi del mercato artistico. Da questo punto di vista, la “trovata” di Banksy – occorre ammetterlo – ha alcunché di geniale. Tanto geniale, o almeno sorprendentemente intelligente, da indurre i critici più sbarazzini a cercare e trovare un parallelo, addirittura, con l’”Arte della guerra” del cinese Sun Tzu (VI-V sec. a.C.). Questo teorico della strategia e delle tattiche delle battaglie pone come principio fondamentale e vincente, nelle controversie belliche tra i popoli, la conoscenza dell’avversario. Da qui tutta l’importanza attribuita allo spionaggio. Nel caso del “nostro”, mentre rinunciamo alla possibilità di essersi avvalso in qualche modo di spie per irrompere nello spazio della critica d’arte, è però possibile ammettere che, forse del tutto “creativamente”, egli sia pervenuto a trovare nel “nascondimento ad oltranza” la chiave della sua affermazione, e della sua vittoria, a livello planetario.
Non occorre, però, di grazia, smarrirsi nelle galassie del tempo più antico per scoprire “maestri” di tutto rispetto non propriamente nell’”arte della guerra” bensì nell’arte di proporsi all’attenzione generale. Non vogliamo volgere il guardo, per esempio, ad un certo Warhol? E perché no a un certo altro Duchamp?  Costoro, con tanto di nome e cognome in tutte le loro “gesta”, hanno saputo costringere - novelli imprenditori nella conoscenza dei codici comunicativi della cultura di massa - le menti dei critici a volgersi alle loro opere, che, dell’arte accademica non conservavano e non ripetevano neppure l’ombra dell’idea: era il viatico che artisti d’avanguardia pagavano sull’altare della caduta dei miti non solo dell’arte, ma, forse, con l’avanzare del tempo moderno, di tutta la storia degli accadimenti umani.
Warhol (1928-1987), a dispetto dell’unicità dell’opera d’arte sino ad allora considerata l’effige originale e insostituibile del “capolavoro”, riproduceva (è qui la “trovata”) un numero esorbitante della stessa immagine, alterandone solo i colori. Non si sottrassero a questo “trattamento”, pur di avere un tale “suo” ritratto,  le personalità più eminenti del suo tempo. Esito: le quotazioni delle sue opere raggiunsero  le stesse cifre dell’artista allora più venduto, Picasso. E fu tale il successo della tecnica pittorica di Andy Warhol che, come narrano le cronache, un suo cognato si accaparrò somme da capogiro facendo camminare delle galline su delle tele dopo averne intinto le zampe nei colori acrilici (indiscutibilmente, altra “trovata” di successo).
Che cosa si può altrettanto dire di Duchamp (1887-1968), in quanto a capacità di escogitare una più di Satana pur di arrivare sugli spalti del successo? Affaccendato come altri mai, come vero e importante artista del XX secolo, tra le correnti del fauvismo e del cubismo, per non dire successivamente del dadaismo e del surrealismo, trasse la sua idea più originale dalla necessità di distruggere l’”immagine” che la pittura, ancora ai suoi tempi, traduceva come “copia”  più o meno deformata e ricomposta della realtà. Insomma quella che Duchamp novellava come “arte retinica” poteva andare a farsi seppellire nei sepolcri del passato per lasciar posto alla “pittura concettuale”, alla “pittura-idea”. Sorgeva così l’alba di tutte le manifestazioni dell’”arte astratta”, che più pittura concettuale e pittura-idea  di così non poteva e non può essere. A supporto di tale affermazione è forse il caso di rammentare gli esempi di tale arte “non retinica”, ma “concettuale”: può bastare l’orinatoio “Fontana” (1917) o la “Monna Lisa” con baffi e pizzetto (1919)?
Torniamo, è il caso, da Banksy. A parte le ragioni che lo fanno “unico” nella scena dell’anonimato artistico, è altrettanto “unico”, se non proprio originale, nei contenuti delle sue opere. Il caleidoscopio della sua espressione pittorica vanta, anche su questo aspetto, indubbie “originalità”.  Prima i “graffiti”a mano, poi gli “stencil”. Prima le “tele”, poi (letteralmente) i “muri” delle città (Bristol, Los Angeles, New York, Londra, Cisgiordania… ). Qui si coglie l’ennesima “cifra” banksyana: la celerità dell’esecuzione (indispensabile per il lavoro “clandestino”) e la necessità di rendere quanto più democratica la fruizione dell’opera d’arte, non più appannaggio di gallerie e musei. Quest’ultima esigenza, che pare a lui più congeniale, non gli ha lesinato una delle sue più classiche “irriverenze” e, al minimo, atti di pura disobbedienza civica: vere e proprie incursioni nei musei (2005, Metropolitan di New York: ritratto di Dama che indossa una maschera antigas), negli zoo e a Disneyland (2006: scultura raffigurante un Detenuto di Guantanamo).
La parte più notevole delle opere di Banksy è però da vedersi  nelle sue “denunce”, a monito e certamente “per la riflessione” del passante casuale: una vena “pedagogica” non sempre tenuta nella debita considerazione e variamente coniugata in pungente ironia (2006, Well Hung Lover), in critica politica (2005, Boy at the Beach), sfida all’ordine costituito (2004, Kissing Coppers), di struggente poesia (2002, Girl With  Balloon), di denuncia delle iniquità dei conflitti (2008, Betlemme, Dove of Peace: la colomba della pace vola ma con giubbotto antiproiettile).
Se, allora, è possibile, tra le tante opere di Banksy, una che le comprenda tutte e che a tutte dia maggiore significato, questa è senza meno “Sweeping It Under the Carpet” (2006): una cameriera, agghindata di tutto punto, paletta in mano, nasconde la polvere sotto il lembo di un muro. Quale che sia quella “polvere” è dato a ciascuno di arguire o indovinare: le nefandezze dell’evo contemporaneo sono così tante (atrocità delle guerre, inquinamento, consumismo, dittature, droga, ecc.) che non costerà fatica venirne a capo.
Banksy, dunque, con la sua potenza etica, va ben al di là della Pop Art di Warhol e della pittura-concettuale di Duchamp. L’artista di Bristol, nella sua simbolica “assenza” (che vuole mettere in secondo piano l’artista e, in primo piano, l’osservatore-fruitore) si pone come una formidabile “presenza”, pregna di valori etici ed evocativi, nel panorama più significativo dell’arte contemporanea.
 
 
 
Luigi Musacchio giugno 2022