copertina(6)Difficoltà e carenze di un profilo biografico”. Inizia con questo titolo, non del tutto confortante, il primo paragrafo del ponderoso volume che Nicola Spinosa ha dedicato a Bernardo Cavallino (vedi l’intervista all’autore su News-art: https://news-art.it/news/una-grande-monografia-per-bernardo-cavallino.htm). Un testo imponente (oltre 530 pagine) nel quale, confessa l’autore, “i dati documentari disponibili per tracciare del pittore un adeguato profilo biografico … sono rimasti sostanzialmente gli stessi”, vale a dire quelli, “già allora insufficienti”, della mostra del 1984-85, quando un’intraprendente ricercatrice statunitense, Ann Percy, realizzava quello che è il sogno di tutti gli studiosi: mettere in scena un’esposizione partendo da una tesi di laurea.


L’autore - da tutti conosciuto come uno dei massimi esperti di pittura napoletana del Sei e Settecento, e non solo - ha il grande merito di aver raggomitolato nel modo più conforme possibile gli esili ed avviluppati fili di quanto già conosciuto sull’artista, in forza di un’attenta rilettura di alcune opere-chiave, attraverso nuove aggiunte o sottrazioni al catalogo dei suoi lavori, nonché tramite “una più accorta valutazione dei caratteri stilistici”. Insomma, un lavoro certosino, che pur a volte senza il conforto delle conferme documentarie, sicuramente aggiunge non poco alla conoscenza di un autore di gran rilievo come Cavallino.

cavallino 1Va detto che forse da un libro di questo tipo (che si avvale, è il caso di sottolinearlo, di un apparato fotografico di prim’ordine, non da oggi punto di forza dell’editore Ugo Bozzi), proprio perché firmato da un conoscitore del prestigio e della personalità di Nicola Spinosa, il mondo degli studiosi poteva attendersi qualche novità più dirimente. E tuttavia il testo costituisce un passaggio fondamentale per chi in futuro, com’è auspicabile, vorrà provare a sciogliere i quesiti che ancora emergono intorno alla vicenda esistenziale ed artistica del pittore partenopeo: del quale rimane ignota perfino la data di morte, se si esclude quella del “principio del 1654”, causata dalla gonorrea secondo l’indicazione del biografo De Dominici, mentre invece è quasi certamente collegabile con la micidiale pestilenza del 1656, che fece decine di migliaia di vittime tra la popolazione partenopea, tra cui non pochi artisti.

Fino ad allora Napoli stava crescendo enormemente soprattutto perché si inurbavano tanto i baroni quanto gli abitanti delle province, spinti dal comune interesse ad usufruire delle immunità fiscali.  Tramandano i cronisti del tempo che le case - come non accadeva neppure a Londra o a Parigi - venivano su “di sei sette piani” per dare risposta alla fame abitativa di una metropoli popolata come poche altre del mondo occidentale;  quando nel 1614 il vicerè Fernando de Castro, conte di Lemos, ordinò un censimento, risultò che Napoli contava 167.972 anime, un numero enorme per quei tempi, destinato peraltro più che a raddoppiare nel breve volgere di pochi anni.

Anche Spinosa fa cenno alla “fitta rete di interventi nei settori dell’edilizia pubblica e privata, civile e religiosa”, ma è curioso notare come a Napoli ciò avvenisse in modo assai peculiare: in effetti, “per essa Bramante e Michelangelo, Bernini, Borromini e Pietro da Cortona potevano anche non essere mai esistiti”. Anthony Blunt, autore a suo tempo di questi rilievi, notava ancora come gli architetti napoletani, “sebbene abbiano preso in prestito motivi da artisti romani, piemontesi e addirittura francesi, ne hanno fatto però un uso che avrebbe fatto inorridire i loro ispiratori” (A.Blunt, Architettura barocca e rococò a Napoli, ed. italiana a cura di F. Lenzo, Milano-Napoli, 2006, pp. 18, 20; ed. originale, London, 1975).

cavallino 2Nondimeno, le cronache dell’epoca descrivono la città come un autentico luogo di sogno per come si presentava al forestiero. “Si rende assai celebre questa città per le tante belle e sontuose chiese”, così i cronisti dell’epoca. Non a caso, agli inizi del Seicento si contavano la bellezza di duecentotrentacinque luoghi sacri, con un vero esercito di religiosi, cui però non era forse estranea la circostanza che molti giovani membri della borghesia cittadina potessero chiedere ed ottenere di essere ammessi al primo grado di sacerdozio: un modo fin troppo scaltro per venire esentati dal pagamento delle imposte, con grave nocumento per le entrate fiscali; non a caso nel 1625, in un “Trattato dell’abbondanza”, il reggente, marchese Carlo Tapia, denunciava proprio come nel Viceregno fossero “più li clerici che li laici”, invocando la corte affinchè “supplicasse sua Santità (perché) frenasse detto numero di clerici”.

Dal canto loro le casate nobiliari - tutte più o meno collegate tra loro o con la Real corte tramite apparentamenti - ostentavano un lusso smodato che non si rifletteva certo solo negli addobbi delle chiese; le loro dimore infatti si mostravano come veri e propri gioielli di architettura. A tale rigoglio contribuivano anche le aspirazioni del ‘popolo grasso’ in ascesa, costituito in buona parte da una ‘borghesia compradora’, che si arricchiva speculando sulle rendite fondiarie. L’altra faccia della medaglia era costituita dalla massa sterminata di derelitti, compressa dentro vicoli oscuri e fatiscenti, ai limiti della sopravvivenza; non era raro che orribili cortei di “scartellati, cecati, ‘nzullanuti“  comparissero improvvisamente dai ‘vasci’, addensandosi come nugoli di mosche intorno a qualche carrozza  da cui sovente piovevano manciate di spiccioli, proprio per il sadico gusto di veder scatenarsi le risse più furibonde per agguantarne qualcuno, con esiti quasi sempre tragici.

cavallino 3Bernardo Cavallino nacque nell’agosto 1616, giusto due anni dopo quel censimento, in una città contrassegnata dunque da enormi contraddizioni. Si sa effettivamente con certezza solo la data di nascita e che fu secondo di sei fratelli, null’altro. Qualche ulteriore dato poco influente ricompare dopo venti o trent’anni, mentre  sul versante della committenza artistica l’unico punto di riferimento è la famosa tela del 1645 con l’Estasi di Santa Cecilia (fig. 1), per le monache francescane di sant’Antonio a Port’Alba, ed ora a Capodimonte. Davvero poco per ricostruire in modo plausibile il complesso sviluppo di una vicenda ancora tanto indeterminata. E però, essendo quella l’unica opera firmata, ed a fronte della permanente sostanziale inconsistenza documentaria, anche Spinosa è “costretto” a partire da lì per ricominciare a delineare l’iter artistico del pittore, proprio come quando, agli inizi dello scorso secolo, critici del valore di Voss o Hermanin iniziarono a ricostruirne il catalogo.
E se pure è vero che per un critico, infine, è l’opera d’arte che ‘parla’, tuttavia, come diceva Pirandello, “il male è proprio tutto qui, nelle parole … crediamo d’intenderci e non ci intendiamo mai”; ed in effetti, ‘mutatis mutandis, è pur sempre problematico il fatto che ci si intenda coram populo sulla base del mero dato dello stile quando si ricostruisce un percorso artistico: tanto che lo stesso Spinosa, ben cosciente di muoversi entro confini assai stretti, evoca a più riprese  “persistenti limiti e difficoltà insuperate” quando prospetta i suoi nuovi spunti d’indagine.
Allo stesso modo, egli sembra prendere con le molle l’idea di “provare a riproporre una nuova ipotesi di successione cronologica dell’intera produzione cavalliniana”, che anzi, sottolinea, “andrà ulteriormente precisata” e fors’anche “accresciuta e corretta”, visto che “non può configurarsi in termini di assoluta certezza”. A cominciare, evidentemente, da una parziale ricollocazione delle opere che segnarono  i probabili inizi dell’attività autonoma di Bernardo Cavallino, che egli situa  “dopo l’apprendistato iniziato forse nel ’26”, vale a dire “alla data del 1630 o subito dopo”.

cavallino 4Infatti, pur accettando l’idea di un assai precoce esordio a 14 anni, non sarebbe la Salomè (fig. 2) come alcuni credono, la tela realizzata a questa età - visto l’impianto compositivo evidentemente troppo accurato, che ne consiglierebbe lo spostamento “in un arco di tempo più dilatato” - bensì “le tre tele superstiti della serie raffigurante gli episodi della vita di Cristo” e altre opere a soggetto religioso, “esempi evidenti di un giovane che sebbene dotato di notevole sensibilità … mostra ancora un bagaglio di esperienze limitate” (fig. 3).
Si tratta, in effetti, del momento in cui il giovane artista si istruisce studiando i grandi maestri e, com’era uso in periodo di apprendistato, copiandone le opere; in particolare, come racconta De Dominici, “alcune mezze figure di Guido Reni … imitando il bel girare degli occhi usato da quell’ammirabil maestro” (cfr. B. De Dominici, Vita di Bernardo Cavallino pittore, in Vite di Pittori Scultori Architetti napoletani, I, a cura di F. Scricchia Santoro, A. Zezza, Napoli 2008, p. 69).
Per un lungo periodo saranno solo i soggetti religiosi dominanti nella produzione del giovane artista; e non poteva essere altrimenti, considerate le stringenti normative in vigore in tempi come quelli, ovviamente fatte proprie dalla diocesi partenopea e ribadite nel sinodo del 1623, allorquando l’Arcivescovo della città, Diego Carafa, emise un decreto di condanna contro “le effigi lascive, procaci o disoneste di immagini sacre”.

cavallino 5Vero è che qui le consuetudini religiose si intersecavano strettamente, fin quasi a modellarcisi, con gli intendimenti e gli interessi della politica del “re cattolicissimo”, presentando quindi una certa loro tipicità che in qualche misura differenziava la capitale del Viceregno rispetto alle altre metropoli. Del resto, in nessuna città, forse neanche a Roma, vi erano così tante reliquie di santi; in ogni luogo sacro facevano bella mostra di sé almeno un pelo o un dito di martire, o magari un braccio di san Taddeo, o addirittura il “bastone di san Pietro che guarì sant’Aspreno” (cfr G. Campolieti, Masaniello, Novara 1989, p. 12); ed è probabile che anche qui avvenissero lotte furibonde tra i fedeli per accaparrarsene qualcuna, come accadde varie volte a Roma, ad esempio dopo la morte - in odore di santità - di fra’ Felice da Cantalice, quando i fedeli, come narrano le testimonianze del tempo, arrivarono , “per divotione”, a strappare al cadavere alcuni ciuffi della barba, due denti e perfino “un poco della carne della testa” (cfr. M. Gotor, I beati del papa, Firenze 2002, p. 43).

Ma questa particolare forma di venerazione era evidentemente collegata ad un fenomeno sociale più complesso che non è stato bene esplorato dalla pur vasta letteratura sulla Napoli seicentesca, e che rifletteva la necessità del patriziato urbano di collegare le proprie origini proprio a culti e santi cittadini, ovvero a corpi o reliquie particolarmente venerati. In un saggio di qualche anno fa, la storica Maria Antonietta Visceglia, rielaborando i dati di una ricerca secentesca, ha sostenuto che “nella logica della propria proposizione ad elemento cardine della vita cittadina, la nobiltà ha bisogno di testimonianze precise: cosa meglio che rendere esplicito un rapporto delle famiglie con il culto di un santo?” (M.A. Visceglia, Identità sociali. La nobiltà napoletana nella prima età moderna, Milano 1998, p. 35).

cavallino 6 velasquez part_Non mancavano naturalmente in un contesto del genere svariate pubblicazioni sulle pratiche religiose, insieme ad opere di poesia e musica sacra, a rime dedicate al culto mariano, e così via; tutto quanto insomma rientrasse nella logica della “educazione popolare tramite l’arte” e che ha fatto parlare di Napoli come della vera ‘capitale ‘ della controriforma (cfr. V. Maderna, L’Immacolata Concezione di Bernardo Cavallino, in Brera mai vista, Milano 2008).

Secondo il biografo De Dominici, gli esordi artistici di Cavallino sarebbero stati il frutto della frequentazione, già a dieci anni, della bottega di Massimo Stanzione e, poco oltre, di Andrea Vaccaro.  Ma Spinosa non ravvisa “alcuna traccia” della formazione presso Stanzione (il quale proprio in quegli anni si trovava a Roma), né ritiene che vi siano “segni di contatti formativi con lo stesso Andrea Vaccaro”; al contrario, a suo parere “non è infondato supporre che (Cavallino, ndA) si sia formato giovanissimo, forse appena quattordicenne, a diretto contatto con Aniello Falcone”. L’autore suggerisce l’idea che il rapporto docente-discente sia stato molto stretto e cita come “il riferimento più pertinente” di tale legame proprio la suddetta Salomè e il Cristo Flagellato (fig. 4), individuando stringenti rimandi ad un dipinto, la Tunica di Giuseppe (fig. 5), dall’iter attribuzionistico assai tormentato, ma per Spinosa (e non solo lui) da assegnare senz’altro a Falcone.
Cavallino, insomma, si sarebbe rifatto - nella figura del carnefice a torso nudo, “sebbene  diversamente disposta” - ad “uno dei fratelli di Giuseppe presente nella tela di Falcone”, influenzato quest’ultimo a sua volta da un notissimo capolavoro di Velasquez, la Fucina di Vulcano, realizzato dall’artista spagnolo al tempo del suo primo soggiorno a Roma, e che avrebbe ispirato al pittore partenopeo la posa del “giovane bellissimo a torso nudo, posto al centro” (fig. 6), riproposta appunto in uno dei fratelli di Giuseppe.

cavallino 7Può apparire arduo districarsi in mezzo a queste associazioni figurative, che tuttavia l’autore suggerisce con la sua ben nota accortezza; ma non minori complicazioni nascono quando si cerca di oltrepassare le ulteriori componenti che vi si ravvisano, dal momento che a “soluzioni che rinviano anche a Massimo Stanzione”, o ad Artemisia Gentileschi e ad altri pittori, come vedremo più oltre, come avevano fatto cenno a suo tempo lo stesso De Dominici, e poi De Rinaldis, Ortolani e Raffaello Causa, per citare solo quelli più in là nel tempo.
Vero è che in questo torno di anni, cioè nel periodo che vede il primo apprendistato e poi gli esordi di Cavallino, si confrontano a Napoli diversi punti di vista e differenti esperienze, frutto di un contesto storico, culturale, socio-economico più volte esplorato con molto acume dallo stesso Nicola Spinosa e da altri noti studiosi di altre discipline in varie pubblicazioni, e non è certo questa la sede per ritornarci.
Vale solo richiamare brevemente il contributo - pubblicato in occasione della mostra "Ritorno al Barocco", che proprio Spinosa ebbe a promuovere tra il 2009 e il 2010 - di Biagio de Giovanni, il quale, riproponendo l’accostamento tra la tragica vicenda di Giordano Bruno e quella di Caravaggio, al di là di un “indimostrabile rapporto diretto” notava invece  “una nascosta corrispondenza”  tra le ombre di Caravaggio e la ‘umbratile realtà’ di Bruno, entrambe ad indicare che “la vita non si dà mai nella sua trasparenza, nella sua pura luminosità, ma nasce dall’ombra e deve quasi riscattare se stessa attraverso le forme che da quell’ombra si dipanano” (cfr. B. De Giovanni, Napoli fra 1606 e 1750. La culture, le idee, pp. 35 ss). E in quel filone dell’universo culturale partenopeo che, secondo de Giovanni, “potremmo chiamare vitalistico, immerso nella dinamica della materia, dei corpi, delle alchimie…”, non è disagevole cogliere il forte legame che la cultura in genere, l’etica, la scienza, la filosofia, ebbero a Napoli con l’arte figurativa.

cavallino 8Basti dire, usando un’espressione piuttosto abusata, che siamo al prologo del cosiddetto ‘secolo d’oro’ della pittura napoletana, allorquando nella città i grandi interpreti locali possono ammirare capolavori strepitosi di artisti straordinari, da cui apprendere e a cui suggerire, con cui confrontarsi e rivaleggiare - da Reni a Ribera, da Domenichino a Lanfranco, da Poussin a Velasquez e altri ancora - essenziali nella formazione del giovane Cavallino, ma che di certo non potevano non influenzare le scelte di qualunque altro giovane s’incamminasse allora sul terreno della pittura.
Appaiono particolarmente determinanti, nella riproposizione che ne fa Spinosa in questo libro, le esperienze di Simon Vouet, con tele come la Circoncisione (fig. 7), approdata da Roma nella chiesa di Sant’Arcangelo e oggi a Capodimonte, o del Maestro dell’annuncio ai pastori (Bartolomeo Passante?), per non dire di Ribera, “principale artefice della spinta al rinnovamento di quanto ereditato dalla tradizione  precedente”, con tele “segnate da un iniziale impreziosimento pittorico”.

Si capisce agevolmente - prendendo come esempio almeno un suo capolavoro come l’Immacolata Concezione (fig. 8) - quale importanza abbia rivestito in questi anni lo Spagnoletto, aggiornatosi sulle nuove tendenze con il breve ritorno a Roma nel 1626 e dunque capace di far tesoro tanto dei contatti con Velasquez (magari incontrato proprio a Roma o più probabilmente qualche anno dopo a Napoli), quanto delle “correnti neovenete mediterranee … da van Dyck a Grechetto”, ma soprattutto di “rileggere in chiave moderna il luminismo di Tiziano”.

cavallino 9“Impreziosimento cromatico” unito ad “esaltante bellezza pittorica e coinvolgente verità umana”. Sono questi i tratti tramite cui si esprime la ricezione a Napoli delle correnti artistiche ora all’avanguardia: classica, “neoveneta”,  “tra neovenetismo e classicismo”, in conseguenza dell’arrivo in città di opere e/o artisti i cui testi impongono letteralmente a chiunque la revisione e l’aggiornamento del proprio bagaglio culturale.
Lasciamo al  lettore, attraverso l’analisi delle opere, splendidamente fotografate e riprodotte, verificare quanto queste notazioni di Spinosa - insieme allo studio delle stampe ‘nordiche’, cui l’autore dedica un intero paragrafo - aiutino a definire l’influenza che ebbero sul Cavallino gli esempi sopra citati. Vero è che soprattutto nei dipinti successivi al 1640, secondo lo studioso, emergerebbe il “pittoricismo” di Cavallino, in forza dei “sicuri contatti con altre soluzioni di area ‘neoveneta’ e in particolare grechettiana”, soluzioni già elaborate dal Castiglione intorno al 1630 (fig. 9). Si tratta di un punto importante nella ricostruzione proposta da Spinosa, che proprio in questo modo spiega la ‘svolta’ di Cavallino verso “esiti di raffinata e impreziosita resa pittorica”.

L’autore si  muove agevolmente su questo terreno; si tratterebbe infatti di esiti dove “il debito con Vouet è evidente”, ma che, “specie nei dipinti tra il ’45 e il ’50 … richiamano alla lezione reniana filtrata attraverso … Vaccaro e Pacecco”, certamente “mediata anche da Stanzione”, e però - sempre tra il ’45 e il ’50 - con “inclinazioni vieppiù accentuate verso il neovenetismo”, per arrivare a metà del quinto decennio, quando Cavallino, infine, “matura orientamenti e scelte in direzione moderatamente classicista”, tuttavia non scissi dalle “sempre più raffinate soluzioni in chiave intensamente pittoricista”.
cavallino 10La ricostruzione, come dicevamo, consente all’autore di impiegare tutte le sue profonde conoscenze della materia, sebbene, tuttavia, possano percepirsi poche autentiche novità in questa esauriente serie di rimandi, oltre alla concreta possibilità di allargare per quanto possibile la curvatura delle relazioni stilistiche, spiegando “l’orientamento (di Cavallino, ndA) tra ‘neovenetismo’ e classicismo”, con la “probabile dipendenza da esempi e modelli di Poussin”, salvo specificare opportunamente che i due “avevano una diversa concezione ideale e culturale del ‘fare pittura’ [e] della traduzione pittorica del dato reale”. E lo stesso vale per il richiamo “moderatamente classicista” alla “lezione reniana”, non certo indicativo - come invece in Reni - di “un colto ideale di bellezza femminile inteso sia come espressione di nobiltà d’animo, sia come sintesi di classicità e modernità”.
Ma se è vero, infine, che vari artisti di estrazione diversa furono partecipi dell’ adeguamento del linguaggio pittorico di Bernardo Cavallino, tuttavia va riconosciuto come le caratteristiche di  molti di loro, spesso interpreti di storie di grande formato e di imponente impianto, non abbiano potuto avere sempre un marcato rilievo nel determinare le sue personali attitudini, essendo egli, com’è noto, piuttosto incline ai testi di piccolo formato, come peraltro già annotava il De Dominici - con cui Spinosa pare concordare: cioè che, “accortosi Bernardo di questa sua vocazione, o vogliam dire abilità alle figure mediocri, non si appassionò per le grandi”, onde “la macchietta finita viene da ognuno stimata migliore”, come dimostrano in effetti le numerose figure “o meglio ritratti femminili”, come giustamente li chiama Spinosa, che egli realizzò “per colti ed esigenti collezionisti fino ai tardi anni Quaranta” (Fig. 10).

cavallino 11Ha poi certamente ragione lo studioso nel rimarcare il cambiamento del gusto collezionistico dopo i tragici eventi degli anni Quaranta, che segnarono sicuramente i destini della città per un lungo periodo della sua storia. Proprio agli inizi di quel quarto decennio, infatti, la flotta francese era apparsa all’imbocco del porto di Gaeta e poi direttamente di fronte a Napoli con lo scopo di impedire che armi e uomini - che gli spagnoli ricavavano dalla città - arrivassero a Filippo IV impegnato a difendere l’Impero nella Guerra dei Trent’anni; e se fino a quell’anno l’andamento del conflitto aveva avuto un iter sostanzialmente favorevole agli imperiali, l’entrata in guerra della Francia - proprio per contrastare la ripresa dell’egemonia asburgica in Europa - ne capovolse progressivamente le sorti, fino alla decisiva vittoria francese a Rocroi (1643).
Ma il grande impero stava precipitando nel marasma interno già da tempo, in primis a causa della politica di oppressione fiscale che il conte duca Olivares stava imponendo. Quando questi decretò che dal napoletano dovessero arrivare 9 milioni di ducati, oltre a 12 mila fanti e a 2500 cavalli, l’allora vicerè don Alonso Perez de Guzman, duca di Medina, scrisse a Madrid che non sapeva neppure “da quale pensiero umano questi aiuti si potessero cavare”.
Nel dicembre del 1646 il nuovo vicerè, don Rodrigo Ponz de Leon, era stato fatto segno di un tentativo di aggressione mentre procedeva in carrozza in piazza Mercato, da popolani esasperati che protestavano contro la tassa sulla frutta e verdura. Erano i primi segnali dell’insorgenza contro l’oppressione fiscale che di lì a poco, al grido di ‘fora la gabella’, sarebbe sfociata prima nella rivolta dei ‘lazzari’ di Masaniello e poi nella Repubblica napoletana dell’armaiolo Gennaro Annese. In quella situazione di vera e propria guerra civile, s’inserì, com’è noto, il tentativo - fallito nel giro di poche settimane - del duca di Guisa di sfruttare la sollevazione popolare per farsi proclamare re. Gli spagnoli riuscirono a ripristinare spietatamente l’ordine solo dopo il  ’48 al prezzo di una feroce repressione, con decine di condanne a morte e decapitazioni, oltre che di popolani anche di quei baroni che pur avendo parteggiato per loro erano comunque politicamente sotto l’alea del sospetto.

cavallino 12Rileva Spinosa che Cavallino fu tra gli artisti più pronti ad accogliere le esigenze che, anche in termini di gusto collezionistico, si andavano affermando dopo gli eventi drammatici della fine degli anni Quaranta; era come se  “passata la tempesta … anche in pittura al posto delle severe immagini di apostoli e filosofi sempre pensierosi e spesso minacciosi, o delle violente tetre rappresentazioni di efferati supplizi … ci fosse bisogno di veder trasferite sulla tela scene di temperata serenità”. Ecco allora opere  dove non ci sono segni di una “sia pure contenuta tensione drammatica o anche di allusione etica o moralistica”; così come nel Ratto di Europa, realizzata “verso o poco dopo il 1650” (fig. 11), niente più che “una fantastica avventura amorosa tra campi fioriti e fanciulle in festa”, o come nella Cantatrice che sembra modulare “chissà quali strofe d’amore” (fig. 12).
E’ probabilmente il momento in cui Cavallino esprime in pieno la sua personalità, quando cioè il talento si nutre di sensazioni proprie, originali, nel senso che appaiono giuste per se stesse, che si concretizzano in un concetto di bello tutto individuale, anche al di là delle stesse regole dell’estetica classica tradizionale. Non a caso De Dominici annotava - come unico limite degno di critica - il fatto che “alle donne non diede bellezza di volto che costituisca l’idea della perfezione”. Ed in effetti questo pare doverci restituire un artista che, pur senza scelte narrative insolite, riesce però a spostare in avanti i confini della sua arte, unendo il suo ideale di bello all’inedito: un tratto questo che ne testimonia il superamento della maniera tradizionale, ma che da parte della critica appare quasi unicamente in relazione alle determinanti influenze esterne di altri pittori.

cavallino 13Spinosa ne suggerisce l’approdo: adesso è soprattutto il Simon Vouet “degli ultimi anni romani“ il vero punto di riferimento dell’artista partenopeo, secondo una tesi già avanzata dallo studioso in lavori precedenti; si sa che il maestro parigino  era rientrato in patria nel 1627, e tuttavia sarebbe proprio lui “a connotare la produzione finale di Cavallino “.
Certo resta arduo, come riconosce l’autore, spiegare perché  “Cavallino sia tornato a meditare dopo il 1645 sugli esempi finali del pittore francese, per poi rielaborarli appartato e quasi in solitudine”. E tuttavia è proprio Vouet, “rivisitato e corretto”, che suggerì al napoletano come “elaborare le raffinate soluzioni dei suoi ultimi anni di vita”, rimanendone influenzato al punto da essere ribattezzato dallo studioso come il “Vouet dei napoletani” e non il “Poussino de’ napoletani”, come lo aveva soprannominato invece un grande contemporaneo come Mattia Preti.

Si può dire che la figura di questo “infelice pittore” (fig. 13), grande artista “idoneo a ristorar le nostre arti e non solamente illustrar la patria … se più fosse vissuto”, come scriveva De Dominici, emerge, in effetti, dal lavoro di Nicola Spinosa come una tra le più singolari: quasi come punto di convergenza di tutte le esperienze che si confrontano in quel periodo, vale a dire fino al momento in cui, con la presenza a Napoli di Mattia Preti (1653), e con la “svolta del giovane Luca Giordano verso Pietro da Cortona, Rubens e Tiziano” dopo il 1655, “nascono le condizioni per quella che sarebbe stata la nuova dilagante e luminosa stagione del barocco napoletano”.
Bernardo Cavallino questa stagione non l’avrebbe vissuta. La sua scomparsa lasciò Napoli “priva del più raro artefice di pittura che mai fusse stato veduto insino a’ giorni suoi”, come annotava il De Dominici rimpiangendone la morte; e non aveva torto: l’artista dalla “sventurata virtù”, era forse stato l’unico capace di mettere “Grazia e tenerezza in posa”.
Pietro Di Loreto, 03/03/2014