971932_10151563293960275_116891090_n"L'opera artistica, in definitiva, è un prodotto a due poli: quello di colui che la realizza e quello di chi la osserva. Attribuisco la stessa importanza allo spettatore e all'artista. Naturalmente nessun artista accetterebbe questa conclusione. Ma in fin dei conti cos'è poi un artista?", Marcel Duchamp(1)


Le interviste rilasciate da Marcel Duchamp, e a maggior ragione le sue opere, continuano a fornirci delle tracce preziose non soltanto per possibili letture dell’arte della prima metà del Novecento, ma soprattutto, direi, del panorama attuale.

“L'uomo più intelligente del XX secolo” – come lo aveva definito Breton – e che “per molti è il più imbarazzante”(2), continua, infatti, a costituire un paradigma di riferimento(3), anche se molti artisti guardano al suo lavoro spinti soltanto dalla necessità di superarne le premesse, per chiudere definitivamente la sua parabola. Emblematica, al riguardo, è per esempio Das Schweigen von Marcel Duchamp Wird Überbewertet (Il silenzio di Marcel Duchamp è sopravvalutato), opera di Joseph Beuys del 1964, che intendeva aprire nuove prospettive all'arte contemporanea liquidandone una parte che, invece, era ancora rigogliosamente vitale e tutta da approfondire.

935667_10151563293880275_789697147_nL'artista francese rappresenta un polo costante di attrazione anche per Ivan Moudov, che instaura con lui un confronto ravvicinato. A volte il rapporto non è esplicitamente dichiarato, ma più spesso Moudov lo chiama in causa direttamente, con citazioni dei suoi lavori o dei titoli (che sappiamo quanto fossero importanti), seppur ovviamente in contesti, con riferimenti e intenti diversi. La distanza che li separa è lunga esattamente cento anni(4): nel 1913, infatti, Marcel Duchamp, fissando per gioco sopra uno sgabello una forcella capovolta con una ruota di bicicletta, costruiva il suo primo readymade. Il chiaro rimando a tale operazione è dimostrato, in modo inequivocabile, dalla serie di lavori intitolati Already Made(5), in cui l'artista bulgaro assembla degli oggetti trovati (n. 1 e n. 2), si appropria, trasformandoli, di progetti altrui (n. 4), realizza il proprio autoritratto con i fondi del caffè (n. 5) e, infine, rimette al suo posto una Fontana di Duchamp (n. 3).

942266_10151563293895275_1610064219_nSe in tutte le opere di questa serie c'è una riproposizione dei problemi toccati dall'operazione originaria (la paternità dell'opera, l'identità dell'artista, il valore artigianale, ecc.), in quest’ultima Moudov radicalizza il problema. L'artista espone, infatti, un orinatoio firmato “R. Mutt” nel bagno del Moderna Museet di Stoccolma collocandone al di sotto un recipiente pieno di un liquido giallo (che ci fa supporre o l'uso improprio dell'opera d'arte o quello corretto dell'oggetto reale). Accanto ad esso si trova della carta igienica, sempre firmata, pronta all'uso. Already Made n.3 lascia dunque intendere allo spettatore che si può effettivamente utilizzare quel “plain piece of plumbing” (sempre citando Duchamp)  per le funzioni a cui sarebbe preposto(6).
È chiaro, tuttavia, che in gioco, assieme all'opera dell'artista francese, ci sono l'istituzione museo e i confini dei suoi spazi. Sono da considerarsi spazi espositivi i bagni del museo? Esiste una sacralità dell'opera anche in quel luogo? L'opera che invita lo spettatore ad essere usata e attivata, con un meccanismo ben sperimentato nell'arte contemporanea, è davvero ciò che sembra? L'Institutional critique e l'ironia trovano qui un punto di incontro e di equilibrio.

431966_10151563297195275_898078128_nDuchamp, quindi, non è solo lo spunto, ma anche un'autorità che per suo stesso volere necessita di essere messa in discussione. Senza la perentorietà delle parole di Beuys - ma forse dimostrando di averne capito meglio l'intenzione rivoluzionaria, nonché l'apertura di certi atteggiamenti - Moudov sembra voler riportare dentro la realtà gli oggetti che Marcel Duchamp ha defunzionalizzato (oltre che arricchito di un significato estetico), esponendoli nei luoghi destinati all'arte. In tal modo, nuovamente, mette alla prova gli oggetti, e le operazioni duchampiane, ridiscutendo linguaggi, confini e valori.

La rivoluzione copernicana dell'artista francese, che ha plasmato l'estetica contemporanea (anche quella che apparentemente non gli somiglia), viene sfruttata da Moudov non soltanto per riaprire un dibattito sulle leggi dell'arte, ma anche per riportare all'interno dei suoi confini una serie di quesiti politici: anche se, va sottolineato, Marcel Duchamp è sempre stato attento a non entrare, almeno in modo evidente, nel territorio della critica sociale o politica.
Di certo, comunque, alcune sue prese di posizione – la volontà di rifuggire da tutti i nazionalismi, il rifiuto di continuare a produrre lavori (anche quando alcuni collezionisti glieli chiedevano), la messa in discussione del valore dell'oggetto artistico e della sua unicità, il gioco con la propria identità – possono (devono?) essere lette come le premesse per un'arte che, occupandosi di realtà e di vita, inevitabilmente conduce a un'analisi critica quanto meno indirettamente politica.
970912_10151563294120275_1205166956_nContinuando a mettere alla prova Duchamp e le sue pratiche, Moudov in numerose occasioni ha abbandonato il confine protetto del mondo dell'arte, cercando di sperimentarne nella quotidianità le strategie liberatorie e anarchiche. Nel suo lavoro vengono infatti analizzate e sottoposte a una ferrea verifica le regole della convivenza.
Se il codice della strada stabilisce che le autovetture che viaggiano all'interno di una rotonda hanno la precedenza, cosa succede se alcuni automobilisti “impazziti” decidono di far valere indefinitamente il loro diritto ad avere la precedenza e a rimanere nella rotonda fino a creare un ingorgo, come accade in 14:13 Minutes Priority?
Un analogo esperimento sulla possibilità di infrangere le regole viene condotto con il progetto artistico Garbage: per soli dieci franchi svizzeri l'artista coinvolge i ligi e rispettosi cittadini svizzeri in un progetto artistico, permettendo loro, al contempo, di liberarsi della propria spazzatura che verrà lasciata nelle aree di sosta di un'autostrada tedesca.
Naturalmente viene vagliata criticamente anche la nostra tendenza ad affidarci (a volte con tranquillità, a volte con timore) alle autorità. Cosa succede se un uomo con la divisa della polizia di un altro Paese comincia a dirigere il traffico, come in Traffic Control?

942543_10151563297315275_257999179_nL'intento ironico – con il portato antigerarchico e anticonvenzionale che ne deriva – è, ovviamente, un tratto distintivo che l'artista bulgaro usa anche nel tentativo di coinvolgere e allo stesso tempo rendere vittima lo spettatore. Tale ambiguo atteggiamento mi sembra quasi una glossa all'imperfezione dei sistemi democratici che, se da una parte sono stati in grado di costruire la macchina di consenso più partecipativa che la storia recente ha conosciuto, a ben guardare relegano la maggior parte dei cittadini al ruolo di spettatori paganti, o, se si vuol essere più precisi, di semplici elettori. Si rimane nella platea pensando di partecipare e invece si può solo assistere a ciò che accade o, meglio, si può solo fruire dello spettacolo di ciò che viene messo in scena.
Parafrasando Walter Benjamin, all'estetizzazione della politica a cui (soprattutto in Italia) assistiamo quotidianamente, Moudov risponde con una politicizzazione dell'arte, corazzandosi, tuttavia, di tutto lo scetticismo con cui un uomo che ha trascorso la sua infanzia nel “marxismo reale” può leggere la politica. Un atteggiamento che ritroviamo in molti artisti che hanno condiviso con lui questo momento della storia recente, e anche della generazione precedente. Basti pensare, per rimanere in Bulgaria, ai lavori di Nedko Solakov, sempre segnati da una cifra umoristica in grado, comunque, di farci rileggere la realtà che abbiamo sotto gli occhi.
Ed è proprio perché Moudov condivide un territorio di sperimentazione con molti altri artisti che trovo interessante il suo continuo riferimento a Marcel Duchamp, in un certo senso alle origini della modernità. Probabilmente la sintonia che Moudov sperimenta alligna anche nel sorriso ironico e distaccato dell'artista francese, che abbiamo imparato a conoscere dalle foto che lo ritraggono, o dalle interviste televisive rinvenibili sul web; nel suo cinismo più apparente che sostanziale; nella ritrosia sempre dimostrata nei confronti di etichette o categorie che servivano a preservare un potere da cui, tutto sommato, si è sempre sentito distante.
Roberto Pinto, 20/06/2013

934138_10151563294495275_1682381669_nLa mostra Stones dedicata a Ivan Moudov, curata da Daniele Capra e terminata da pochi giorni presso Casa Cavazzini a Udine, ha rappresentato il motivo generatore di queste riflessioni. La mostra ha raccolto una dozzina di opere degli ultimi anni dell’artista, nonché alcune installazioni site specific realizzate appositamente per il museo.

Nell’estate 2012 Ivan Moudov ha trascorso alcune settimane in Friuli, a Trivignano Udinese, ospite di RAVE Residency presso una fattoria in cui vivono in libertà animali sottratti all’industria alimentare. In quell’occasione l’artista ha progettato l’opera Stones, collocata nel giardino di Casa Cavazzini fino a dicembre.

Tutto il museo è stato protagonista degli interventi dell’artista bulgaro, il quale ha immaginato una ricollocazione dei propri lavori in modo di innescare con particolare forza il cortocircuito tra contesto espositivo e le proprie opere.

Ivan Moudov (Sofia, BG, 1975) è uno dei più importanti artisti bulgari. Lavora prevalentemente utilizzando il video, la fotografia, l’installazione e la performance. La sua opera, caratterizzata da una stringente forza concettuale, indaga con particolare attenzioni i rapporti di potere e i vincoli di forza tra le persone e le istituzioni, mettendo in luce le trappole nascoste dietro alle convenzioni e alle regole sociali.
Sue mostre personali sono state ospitate presso il Moderna Museet di Stoccolma, il Kunstverein di Braunschweig, Stacion Center for Contemporary Art di Prishtina, Il W139 di Amsterdam, il Centre for Contemporary Art di Plovdiv, il Cabaret Voltaire di Zurigo, l’ATA Center for Contemporary Art ed il Goethe Institut di Sofia, lo Studio Tommaseo di Trieste.
Tra le esposizioni collettive si possono ricordare quelle al Ludwig Museum of Contemporary Art, Budapest, all’ICA di Sofia, al FRAC Ile de France Le Plateau, Parigi, alla 2a Biennale di Antiochia, al Mart a Rovereto, al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid, all’Ujazdowski Castle Centre for Contemporary Art di Varsavia, Kunstverein Harburger Bahnhof, Hamburg, al Salzburger Kunstverein di Salisburgo, alla 52ma Biennale di Venezia, alla 2a Biennale di Bucarest, alla Secession a Vienna, alla Kunsthaus di Dresda, al Wurttembergischer Kunstverein di Stoccarda, alla Kunsthalle di Vienna, alla 1a Biennale di Mosca, al KW di Berlino, al Musee d'Art Moderne et Contemporain di Strasburgo, al Fridericianum Museum di Kassel, a Manifesta 4 a Frankfurt am Main.

Note:
1. Marcel Duchamp, Ingegnere del tempo perduto. Conversazioni con Pierre Cabanne, Abscondita, Milano 2009, p. 76.
2. Ib. p.12 (Breton è citato da Cabanne).
3. La bibliografia al riguardo è sterminata, ed è utile partire da una conversazione tra esperti: Benjamin Buchloh, Rosalind Krauss, Alexander Alberro, Thierry de Duve, Martha Buskirk e Yves-Alain Bois, “Conceptual Art and the Reception of Duchamp”, in October n.102, Autunno 1994. L'intero numero di quella rivista, sottotitolata per l'occasione “Duchamp effects”, era dedicata a tale problematiche.
4. Risulta strano che in un periodo in cui le mostre storiche si fanno solo per celebrare le ricorrenze nessuno abbia preso a pretesto la nascita del primo readymade per una mostra che ricostruisse la parabola storica di questa nuova “tecnica”.
5. Anche in altri lavori Ivan Moudov fa esplicito riferimento a Duchamp. Per esempio con Fragments che riprende la Boîte-en-Valise, oppure Fresh Window che, ovviamente, dialoga con Fresh Widow.
6. Marcel Duchamp, “The Richard Mutt Case”, in The Blind Man, n.2, maggio 1917.
7. T.J. Demos interviene più volte a proposito: cfr. “Zurich Dada. The Aesthetics of Exile” in L. Dickerman (ed.), The Dada Seminars, National Gallery Washington, 2005; oppure in The Exiles of Marcel Duchamp, MIT, Cambridge 2007.
8. Devo confessare che la prima volta che ho visto questo lavoro mi è subito venuto in mente lo sguardo di Kathleen Turner che, nel film di John Waters (un regista/artista capace anche lui di mettere in discussione regole e preconcetti) Serial Mom, controllava il vicino di casa mentre ignorava ogni principio alla base della raccolta differenziata dei rifiuti e che, per tale motivo, poi lei decideva di uccidere.


CREDITS
per tutte le immagini:
Ivan Moudov, Stones, 2013, vista della mostra a Casa Cavazzini, foto Claudio Bettio © Claudio Bettio Taiabati