Giovanni Cardone Gennaio 2023 
 
Fino al 28 Giugno 2023 si potrà ammirare all’Accademia di San Luca  presso Palazzo Carpegna Roma la mostra Canova . L’Ultimo Principe a cura di  Claudio Strinati, Serenita Papaldo, Francesco Cellini, Laura Bertolaccini, Carolina Brook, Elisa Camboni, Fabrizio Carinci, Giulia De Marchi, Fabio Porzio. L’esposizione è promossa e organizzata dall’Accademia Nazionale di San Luca sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica  nel quadro delle celebrazioni per il bicentenario della morte di Antonio Canova.  In una mia ricerca storiografica e scientifica fatta sulla figura di Antonio Canova e sul Neoclassicismo che divenne modulo monografico e furono fatta lezioni seminariali per confrontare questo grande artista con la contemporaneità. La vicenda del neoclassicismo inizia alla metà del XVIII secolo per concludersi con la fine dell’impero napoleonico . Ciò che contraddistingue lo stile artistico di quegli anni fu l’adesione ai principi dell’arte classica. Quei principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità, che erano presenti nell’arte degli antichi greci e degli antichi romani che, proprio in questo periodo, fu riscoperta e ristudiata con maggior attenzione ed interesse grazie alle numerose scoperte archeologiche. I principali protagonisti del neoclassicismo furono il pittore Anton Raphael Mengs , lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann , che furono anche i teorici del neoclassicismo, gli scultori Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, il pittore francese Jacques-Louis David i pittori italiani Andrea Appiani  e Vincenzo Camuccini . Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen, operarono tutti a Roma, che divenne, nella seconda metà del Settecento, la capitale incontrastata del neoclassicismo, il baricentro dal quale questo nuovo gusto si irradiò per tutta Europa. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. L’Italia nel Settecento fu la destinazione obbligata di quel «Grand Tour» che rappresentava, per la nobiltà e gli intellettuali europei, una fondamentale esperienza di formazione del gusto e dell’estetica artistica. Roma, in particolare, ove si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori. Tra questi vi fu anche il David che rappresentò il pittore più ortodosso del nuovo gusto neoclassico. Con l’opera del David il neoclassicismo divenne lo stile della Rivoluzione Francese ed ancor più divenne, in seguito, lo stile ufficiale dell’impero di Napoleone. E dalla fine del Settecento la nuova capitale del neoclassicismo non fu più Roma, ma Parigi. Il neoclassicismo tende a scomparire subito dopo il 1815 con la sconfitta di Napoleone. Nei decenni successivi venne progressivamente sostituito dal Romanticismo che, al 1830, ha definitivamente soppiantato il neoclassicismo. Tuttavia, pur se non rappresenta più l’immagine di un’epoca, il neoclassicismo di fatto sopravvisse, come fatto stilistico, per quasi tutto l’Ottocento, soprattutto nella produzione aulica dell’arte ufficiale e di stato e nelle Accademie di Belle Arti. E questa sopravvivenza stilistica, oltre ai consueti limiti cronologici, è riscontrabile soprattutto nella produzione di un artista come Ingres, la cui opera si è sempre attenuta ai canoni estetici della grazia e della perfezione, capisaldi di qualsiasi classicismo. Uno dei motivi di questo rinato interesse per il mondo antico furono le scoperte archeologiche che segnarono tutto il XVIII secolo. In questo secolo furono scoperte prima Ercolano, poi Pompei, quindi Villa Adriana a Tivoli e i templi greci di Paestum; ed infine giunsero dalla Grecia numerosi reperti archeologici che finirono nei principali musei europei: a Londra, Parigi, Monaco. Negli stessi anni si diffusero numerose pubblicazioni tra cui Le rovine dei più bei monumenti della Grecia, 1758, del francese Le Roy, Le antichità di Atene, 1762, degli inglesi Stuart e Revett, e le incisioni di antichità italiane del romano Piranesi che contribuirono notevolmente a diffondere la conoscenza dell’arte classica. Questa opera di divulgazione fu importante non solo per la conoscenza della storia dell’arte ma anche per il diffondersi dell’estetica del neoclassicismo. In particolare, con queste campagne di scavo, non solo si ampliò la conoscenza del passato, ma fu chiaro il rapporto, nel mondo classico, tra arte greca e arte romana. Quest’ultima rispetto alla greca apparve solo un pallido riflesso ed un epigono, se non addirittura una semplice copia. La vera fonte della grandezza dell’arte classica venne riconosciuta nella produzione greca degli artisti del V-IV secolo a.C. Quel periodo eroico che vide sorgere la plastica statuaria di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele, fino a Lisippo. E la perfezione senza tempo di questa scultura influenzò profondamente l’estetica del Settecento, divenendo modello per gli artisti del tempo. Il neoclassicismo nacque come desiderio di una arte più semplice e pura rispetto a quella barocca, vista come eccessivamente fantasiosa e complicata. Questo desiderio di semplicità si coniugò alla constatazione, fornita dalle scoperte archeologiche, che già in età classica si era ottenuta un?arte semplice ma di nobile grandiosità. Il barocco apparve allora come il frutto malato di una degenerazione stilistica che, pur partita dai principi della classicità rinascimentale, era andata deformandosi per la ricerca dell’effetto spettacolare ed illusionistico. Il barocco è complesso, virtuosistico, sensuale; il neoclassicismo vuole essere semplice, genuino, razionale. Il barocco propone l’immagine delle cose che può anche nascondere, nella sua bellezza esterna, le brutture interiori; il neoclassicismo non si accontenta della sola bellezza esteriore, vuole che questa corrisponda ad una razionalità interiore. Il barocco perseguiva effetti fantasiosi e bizzarri, il  neoclassicismo cerca l’equilibrio e la simmetria; se il barocco si affidava alla immaginazione e all’estro, il neoclassicismo si affida alle norme e alle regole. Il principio del razionalismo è una componente fondamentale del neoclassicismo. È da ricordare che il Settecento è stato il secolo dell’Illuminismo. Di una corrente filosofica che cerca di «illuminare» la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza, della superstizione, dell’oscurantismo, attraverso la conoscenza e la scienza. E per far ciò bisogna innanzitutto liberarsi da tutto ciò che è illusorio. E l’arte barocca ha sempre perseguito l’illusionismo come pratica artistica. Il neoclassicismo ha diversi punti di similitudine con il Rinascimento: come questo fu un ritorno all’arte antica e alla razionalità. Ma le differenze sono sostanziali: la razionalità rinascimentale era di matrice umanistica e tendeva a liberare l’uomo dalla trascendenza medievale, la razionalità neoclassica è invece di matrice illuministica e tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dalla ignoranza e dalla falsità barocca. Il ritorno all’antico, per l?artista rinascimentale era il ritorno ad un atteggiamento naturalistico, nei confronti della rappresentazione, che lo liberasse dal simbolismo astratto del medioevo; per l’artista neoclassico fu invece la codificazione di una serie di norme e di regole che servissero ad imbrigliare quella fantasia che, nell’età barocca, aveva agito con eccessiva licenza e sregolatezza. Il Massimo teorico del neoclassicismo fu il Winckelmann. Nel 1755 pubblicava le Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, nel 1763 pubblicava la Storia dell’arte nell’antichità. In questi scritti egli affermava il primato dello stile classico soprattutto greco che lui idealizzava al di là della realtà storica, quale mezzo per ottenere la bellezza «ideale» contraddistinta da «nobile semplicità e calma grandezza». Winckelmann considerava l?arte come espressione di «un’idea concepita senza il soccorso dei sensi». Un’arte, quindi, tutta cerebrale e razionale, purificata dalle passioni e fondata su canoni di bellezza astratta. Le sue teorie artistiche trovarono un riscontro immediato nell’attività scultorea di Antonio Canova e di Thorvaldsen. La scultura, più di ogni altra arte, sembrò adatta a far rivivere la classicità. Le maggiori testimonianze artistiche dell’antichità sono infatti sculture. E nella scultura neoclassica si avverte il legame più diretto ed immediato con l’idea di bellezza classica. Una pittura classica, di fatto, non esiste, anche perché le testimonianze di quel periodo sono quasi tutte scomparse. Le uniche pitture ad affresco, a noi note, comparvero proprio in quegli anni negli scavi di Ercolano e Pompei. Esse, tuttavia, per quanto suggestive nella loro iconografia così esotica, si presentavano di una semplificazione stilistica definita compendiaria inutilizzabile per la moderna sensibilità pittorica. Così che i pittori neoclassici dovettero ispirarsi stilisticamente più alla pittura rinascimentale italiana, in particolare Raffaello, che non all’arte classica vera e propria. I caratteri della scultura neoclassica sono la perfezione di esecuzione, la estrema levigatezza del modellato, la composizione molto equilibrata e simmetrica, senza scatti dinamici. La pittura neoclassica si riaffidò agli strumenti del naturalismo rinascimentale: la costruzione prospettica, il volume risaltato con il chiaroscuro, la precisione del disegno, immagini nitide senza giochi di luce ad effetto, la mancanza di tonalismi sensuali. I soggetti delle opere d’arte neoclassiche divennero personaggi e situazioni tratte dall’antichità classica e dalla mitologia. Le storie di questo passato, oltre a far rivivere lo spirito di quell’epoca, che tanto suggestionava l’immaginario collettivo di quegli anni, serviva alla riscoperta di valori etici e morali, di alto contenuto civile, che la storia antica proponeva come modelli al presente. La storia antica, quindi, divenne un serbatoio di immagine allegoriche da utilizzare come metafora sulle situazioni del presente. Ciò è maggiormente avvertibile per un pittore come il David nei cui quadri la storia del passato è solo un pretesto, o una metafora, per proporre valori ed idee per il proprio tempo. Il neoclassicismo, nella sua poetica, invertì il precedente atteggiamento dell’arte rococò. Questa, nella sua ricerca della sensazione emotiva o sensuale, sceglieva immagini che materializzavano l’ “attimo fuggente”. Il neoclassicismo non propone mai attimi fuggenti, ma, coerentemente con la sua impostazione classica, rappresenta solo “momenti pregnanti”. I momenti pregnanti sono quelli in cui vi è la maggiore carica simbolica di una storia. In cui si raggiunge l’apice di intensità psicologica, di concentrazione, di significanza: il momento in cui, un certo fatto od evento entra nella storia o nel mito. Il ruolo svolto dall’Italia nella nascita del Neoclassicismo fu determinante. In Italia vennero effettuate le maggiori scoperte archeologiche del secolo: Ercolano, Pompei, Paestum, Tivoli, che si aggiunsero alle già imponenti collezioni di arte romana che, dal Cinquecento in poi, si erano costituite un po’ ovunque. Roma divenne la capitale del neoclassicismo e fu un ruolo centrale che conservò fino allo scoppio della Rivoluzione Francese. A Roma operarono i maggiori protagonisti di questa fase storica: Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi che, con le sue stampe, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. Un gusto, che presto suggestionò soprattutto gli spiriti romantici che nella «rovina» rintracciavano un sentimento che andava al di là della testimonianza archeologica. Ed a Roma giungevano gli altri artisti ed intellettuali di Europa. I primi grazie alle borse di studio messe a loro disposizione dalle scuole ed accademie d’arte, i secondi per quella moda del Grand Tour che imponeva alle persone di un certo rango di effettuare almeno un viaggio in Italia per conoscerne le bellezze e i tesori d’arte. L’Accademia francese assegnava una borsa di studio per un soggiorno di alcuni anni a Roma, chiamata «Prix de Rome». E, grazie a questa borsa di studio, anche David giunse a Roma soggiornandovi in più occasioni. E, proprio a Roma, compose il suo quadro più famoso di questo periodo: «Il giuramento degli Orazi». A Roma un altro personaggio svolse un ruolo fondamentale per il neoclassicismo: il cardinale Albani. Cultore di antichità classiche e mecenate, iniziò la costruzione di una villa-museo che divenne uno dei luoghi più simbolici del nuovo stile. Il suo salotto divenne luogo di incontro per gli artisti e gli studiosi che, a Roma, furono i protagonisti della vicenda neoclassica. Ed infine Roma fu anche la città ove lavorò il maggior artista italiano neoclassico: Antonio Canova. Ma intanto, alla fine del secolo, Roma cedeva la sua centralità a Parigi e, nel contempo, un’altra città italiana divenne importante nella vicenda del neoclassicismo: Milano. Nel capoluogo lombardo il centro della vita artistica divenne l’Accademia di Brera, fondata nel 1776. Da Milano proviene il principale pittore neoclassico italiano: Andrea Appiani , che fu anche ritrattista ufficiale di Napoleone. La sua opera, in parte distrutta dai bombardamenti del 1943, si affida a temi mitologici quali «La toeletta di Giunone», il «Parnaso» o la «Storia di Amore e Psiche». Un altro pittore romano, Vincenzo Camuccini  visse in gioventù la fase del neoclassicismo proponendo quadri di derivazione davidiana quali la «Morte di Giulio Cesare». Il neoclassicismo, come fatto stilistico, è sopravvissuto nell’arte italiana per buona parte dell’Ottocento. Anche pittori, che per i soggetti vengono considerati romantici, quali Hayez o Bezzuoli, continuano a praticare una pittura con quei connotati stilistici neoclassici che tenderanno a scomparire solo dopo la metà del secolo. Antonio Canova  è il maggior artista italiano ad aver partecipato alla vicenda del neoclassicismo ed è anche l’ultimo grande artista italiano di livello europeo. Dopo di lui, per tutto il corso del XIX secolo, l’Italia ha svolto un ruolo molto marginale e periferico nell’ambito della formulazione delle nuove teorie e pratiche artistiche. Formatosi in ambiente veneziano, le sue prime opere rivelano la influenza dello scultore barocco del Seicento Gian Lorenzo Bernini. Trasferitosi a Roma, partecipò al clima cosmopolita della capitale in cui si incontravano i maggiori protagonisti dell’arte neoclassica. A Roma svolse la maggior parte della sua attività, raggiungendo una fama immensa. Fu anche pittore, ma produsse opere di livello decisamente inferiore rispetto alle sue opere scultoree. Nelle sue sculture Canova, più di ogni altro, fece rivivere la bellezza delle antiche statue greche secondo i canoni che insegnava Winckelmann: «la nobile semplicità e la quieta grandezza». Le sculture di Canova sono realizzate in marmo bianco e con un modellato armonioso ed estremamente levigato. Si presentano come oggetti puri ed incontaminati secondo i princìpi del classicismo più puro: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna. I soggetti delle sue sculture si dividono in due tipologie principali: le allegorie mitologiche e i monumenti funebri. Al primo gruppo appartengono: «Teseo sul Minotauro», «Amore e Psiche», «Ercole e Lica», «Le tre Grazie»; al secondo gruppo appartengono i monumenti funebri a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria Cristina d’Austria. Nei monumenti di soggetto mitologico i riferimenti alle sculture greche classiche è scoperto ed immediato: le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Il momento scelto per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», evidente ad esempio nel gruppo di «Teseo sul Minotauro». Canova, invece di rappresentare la lotta tra Teseo e l’essere metà uomo e metà toro, sceglie di rappresentare il momento in cui Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, ha scaricato tutte le sue energie offensive per lasciar posto ad un vago senso di pietà per l’avversario ucciso. È un momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre. È quello il momento in cui la storia diventa mito universale ed eterno. Nei monumenti funebri Canova parte dallo schema classico a tre piani sovrapposti. Nei monumenti dei due papa Clemente XIII e XIV al primo livello ci sono le immagini allegoriche che rappresentano il senso della morte; al secondo livello vi è il sarcofago; al terzo livello vi è la figura del papa. Questo schema, che dal Trecento aveva caratterizzato tutta la produzione di monumenti funebri, venne dal Canova variata con il monumento a Maria Cristina d’Austria m in esso un corteo funebre si accinge a varcare la soglia dell’oltretomba raffigurata come una piramide m e nei monumenti a stele in cui è evidente il ricordo delle tante stele funerarie provenienti dall’antica Roma. I monumenti funerari rappresentano un tema molto sentito dagli artisti neoclassici. Da ricordare che, negli stessi anni, l’importanza dei «sepocri» veniva affermata anche dal poeta Ugo Foscolo. Per il Foscolo il sepolcro doveva conservarci la memoria dei grandi personaggi della storia esaltandone il valore quali esempi di virtù. La morte, che nella precedente stagione barocca veniva visto come qualcosa di orrido e di macabro, dall’arte neoclassica era vista come il «momento pregnante» per eccellenza. Il momento in cui si scaricano tutte le contingenze terrene per entrare nel silenzio assoluto ed eterno. Il Canova nel periodo napoleonico divenne il ritrattista ufficiale di Napoleone producendo per l’imperatore diversi ritratti, tra cui quello in bronzo, ora collocato a Brera, che fu rifiutato dall’imperatore perché Canova lo aveva ritratto nudo. Tra i ritratti eseguiti per la famiglia imperiale famoso rimane quello di Paolina Borghese semidistesa su un triclino, seminuda e con una mela in mano, secondo una iconografia di chiara derivazione tizianesca, pur se caricata di significati mitologici. Oltre all’attività di scultore, Canova fu anche impegnato nella tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. Nel 1802 ebbe l’incarico di Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa. Nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, ottenne di riportare in Italia le tante opere d’arte che l’imperatore aveva trasportato illegalmente in Francia. Morto nel 1822, il suo sepolcro è a Possagno, il paesino in provincia di Treviso dove era nato, e dove egli, a sue spese, fece erigere un tempio dove nel 1830 furono traslate le sue spoglie. Il monumento funerario a Maria Cristina d’Austria rappresenta una grossa novità nella tipologia dei monumenti funerari. Il monumento funebre ha sempre avuto come centro compositivo il sarcofago o l’urna in cui materialmente venivano conservare le spoglie del defunto. Al di sopra dell’urna veniva collocata l’effige statuaria del defunto; di sotto o di fianco venivano poste immagini allegoriche sul significato della morte. Nel monumento a Maria Cristina d’Austria l’urna scompare per essere sostituita dalla immagine triangolare di una piramide. L’effigie statuaria viene sostituita da un ritratto di profilo a bassorilievo, inserito in un medaglione di chiara derivazione classica. Notevole importanza assumono le figure allegoriche che, nella intenzione dell’artista, non sono puri e semplici simboli ma devono commuovere per l’azione in divenire che stanno rappresentando. In questo caso, infatti, le figure compongono un singolare corteo funebre che si accinge a salire i gradini che portano alla porta della piramide. Da questa porta fuoriesce un tappeto che scorre sui gradini come un velo leggero e impalpabile. Il corteo è aperto da una giovane ragazza che ha già un piede oltre la soglia della tomba. È seguita da una donna che rappresenta la Pietà con in mano l’urna delle ceneri della defunta. Un’altra ragazzina la sta seguendo. Più indietro un?altra giovane donna avanza, aiutando un vecchio uomo a salire le scale. Sono rappresentate tutte le tre età della vita, dalla gioventù alla vecchiaia, a simboleggiare che la Morte non risparmia nessuno. Le figure procedono con incedere lento e mesto. Hanno tutti la testa chinata in avanti, a simboleggiare che nei confronti della Morte la superbia umana non può nulla. Di fianco la porta della piramide, che quindi simboleggia la porta di passaggio dal mondo terreno al mondo dei morti, c’è l’allegoria del Genio della Morte poggiato sul Leone della Fortezza. In alto, il medaglione con il ritratto di Maria Cristina d’Austria è circondato da un serpente che si morde la coda, simbolo quest’ultimo dell’Eterno Ritorno. Il medaglione è sostenuto dalla allegoria della Felicità, mentre un’altra figura angelica porge alla defunta una palma, simbolo della gloria. La piramide, come simbolo dell’Oltretomba, è decisamente una immagine neoclassica. Contiene la reminescenza delle antiche piramidi egiziane, i più grandi monumenti funebri mai realizzati dall’uomo, e si presenta con una forma geometrica semplice, il triangolo, ma carico di notevoli significati allegorici. La porta che si apre nella piramide assomiglia invece, per fattura, alle porte delle tombe etrusche delle necropoli di Tarquinia o Cerveteri. Ed anche questo riferimento etrusco, nell’immaginario collettivo, finisce per collegarsi al mondo dell’Oltretomba. Il senso della morte, qui rappresentato, ha la dignità profonda e nobile della concezione neoclassica. Tuttavia, la commozione che suscita il corteo funebre finisce per prendere un significato quasi tutto romantico. La scelta di anticipare il momento pregnante, non a quello eterno della Morte oramai sopraggiunta, ma al momento precedente in cui la Morte richiama a sé le persone che, a capo chino, non possono sottrarsi al suo invito, carica di profondo dolore la percezione della morte come azione in divenire. È il profondo strazio di chi, pur restando vivo, non può che guardare con senso di sgomento e di ineluttabilità l?avviarsi alla morte delle persone care. Questa inaspettata rappresentazione di un dolore, che deve suscitare compassione in chi guarda, è la prova della grandezza del genio di Canova che, al di là della facile etichetta di scultore neoclassico, per la inconfondibile fattura stilistica delle sue statue, si presenta come un artista capace di cogliere i fermenti più vivi e nuovi del suo tempo, ed anche anticiparli nelle sue opere d’arte. Il gruppo, oggi conservato al Louvre, appartiene alle allegorie mitologiche della produzione canoviana. Esso rappresenta Amore e Psiche nell’atto di baciarsi. Eseguita in marmo bianco, la scultura ha superfici levigate ed un modellato molto tornito. La composizione ha una straordinaria articolazione: la donna, Psiche, è semidistesa, rivolge il viso e le braccia verso l’alto e, per far ciò, imprime al corpo una torsione ad avvitamento; l’uomo, Amore, si appoggia su un ginocchio mentre con l?altra gamba si spinge in avanti inarcandosi e contemporaneamente piegando la testa di lato per avvicinarsi alle labbra della donna. Il soggetto è probabilmente tratto dalla leggenda di Apuleio, secondo la quale Psiche era una ragazza talmente bella da suscitare l?invidia di Venere, così che la dea le mandò Amore per farla innamorare di un uomo brutto. Ma Amore, dopo averla vista, se ne innamorò e, dopo una serie di vicissitudini, ottenne che Psiche entrasse nell’Olimpo degli dei, per restare con lui. Il soggetto è qui utilizzato come allegoria del potere dell’amore, visto soprattutto nell’intensità del desiderio che riesce a sprigionare: da qui la scelta di fermare la rappresentazione all’istante prima che il bacio avvenga ed il desiderio si consumi.  Per comprendere lo spirito della cultura neoclassica è utile confrontare il gruppo scultoreo di Amore e Psiche con un?altra famosa allegoria mitologia: l’«Apollo e Dafne» di Gian Lorenzo Bernini. Quest’ultimo gruppo scultoreo fu realizzato tra il 1622 e il 1625, agli inizi della diffusione del barocco, e rappresenta indubbiamente uno dei maggiori esiti di questo stile di cui Bernini fu uno dei maggiori rappresentanti. Dafne, secondo la mitologia, era una bellissima fanciulla di cui si era innamorato Apollo. Dafne, per sfuggirgli, scappò ai piedi del Parnaso e qui, nel momento in cui stava per essere raggiunta da Apollo, chiese aiuto alla madre che la trasformò in una pianta di alloro. Il gruppo del Bernini rappresenta indubbiamente un attimo fuggente: Dafne viene appena sfiorata da Apollo ed ha già i capelli che stanno divenendo dei rami di alloro. È giusto un attimo: l’istante successivo Dafne non ci sarà più. Per enfatizzare ciò Bernini dà al gruppo un’apparenza di equilibrio instabile, evidente soprattutto nella curva ad arco che forma il corpo di Dafne. Il gruppo del Canova ha invece una fermezza ed una staticità molto più evidenti. Lo si osservi soprattutto nella visione frontale. Il corpo di Psiche insieme alla gamba e alle ali di Amore formano uno schema ad X simmetrico. Al centro di questa X le braccia di Psiche definiscono un cerchio perfetto che inquadra al centro il punto focale della composizione: quei pochi centimetri che dividono le labbra dei due. In quei pochi centimetri si gioca il momento pregnante, ed eterno, del desiderio senza fine che l’Eros sprigiona. La differenza tra le due sculture non è da ricercarsi sulla differenza stilistica o formale, risultando entrambe di notevolissima fattura per tecnica esecutiva, ma sulla diversa cultura che le ispira. Lo sforzo del Bernini è di cogliere la vitalità della vita in continuo movimento, e per far ciò cerca di annullare la materia per lasciare solo la sensazione del divenire. Canova mostra invece tutta a tensione neoclassica di giungere a quella perfezione senza tempo in cui nulla più può divenire, e per far ciò pietrifica la vita dando alla materia una forma definitiva ed eterna. Il gruppo scultoreo è una rappresentazione del mito di Teseo e si pone come una delle opere più esemplari del concetto di arte neoclassica. L'eroe ateniese, aiutato da Arianna, penetrò nel labirinto di Creta, ove era rinchiuso il Minotauro, mostro metà uomo e metà toro, e riuscì ad ucciderlo. L'episodio si prestava a molteplici possibilità: uno scultore barocco come il Bernini ne avrebbe probabilmente approfittato per cogliere il momento di massimo sforzo nello scontro tra Teseo e il Minotauro e scolpire un gruppo di grande dinamicità e tensione. Invece Canova, da artista neoclassico, cerca il momento della quiete e non dell'agitazione. E così preferisce sintetizzare la storia al momento della vittoria di Teseo, quando la tensione si è oramai sciolta e un profondo senso di pace pervade l'eroe. In questo istante si coglie anche un senso di umana pietà che Teseo prova verso il mostro sconfitto, in quanto la sua nobiltà d'animo gli impone di non odiare il nemico. Tutto il gruppo scultoreo trasmette quindi un senso di profonda calma: è il momento in cui l'agitazione delle passioni e delle azioni si spegne e si trasferisce all'eternità del mito. Da un punto di vista stilistico il gruppo ha equilibri molto classici e le forme anatomiche di Teseo richiamano direttamente le inespressive ma perfette fattezze di tante statue dell'antica Grecia. Il gruppo è quindi una espressione paradigmatica delle nuove esigenze estetiche dell'arte neoclassica. Il gruppo monumentale raffigura un episodio mitico legato a Ercole. L'eroe delle dodice fatiche era sposato a Deianira ed insieme a lei si recò dall'amico Ceice in Trachine ai piedi del monte Oeta. Dovendo lungo il tragitto traversare il fiume Eveno, incontrarono il centauro Nesso che si offerse di traghettare la moglie di Ercole. Ma il centauro, innamoratosi della donna, cercò di rapirla, ma fu ucciso da una freccia scagliata da Ercole. Il centauro, per vendicarsi, prima di morire diede alla donna un po' del suo sangue dicendole che con esso avrebbe potuto preparare un unguento che le avrebbe permesso di conservare l'amore di suo marito. In un successivo episodio Ercole, dopo una spedizione vittoriosa contro Eurito di Ecalia, conquista Iole, la figlia di Eurito. La moglie Deianira saputo di Iole, cercò di riconquistare il marito con un unguento preparato con il sangue del centauro Nesso. Intrise una bianca veste con questo unguento, e diede l'indumento a Lica per consegnarlo ad Ercole. In realtà il sangue che Nesso aveva dato alla donna era velenoso e quando Ercole indossò la veste il veleno cominciò a penetrargli nella pelle infiammandola e quasi rendendolo pazzo dal dolore. Cercò di strapparsi la camicia di dosso, ma senza riuscirci. Preso da violenta ira Ercole afferrò l'innocente Lica e lo scagliò così lontano che cadde in mare e si trasformò in scoglio. La storia giunge all'epilogo con Deianira che, saputo cosa aveva prodotto il suo unguento, si suicida mentre Ercole, dopo aver dato in sposa Iole a suo figlio, si porta sul monte Oeta per finire le sue sofferenze tra le fiamme di un rogo. E qui, mentre le fiamme cominciano a lambirlo, giunge Atena con un cocchio a prendere l'eroe e portarlo con se sul monte Olimpo, dove Zeus gli fa dono dell'eterna giovinezza. Il gruppo scultoreo di Canova, conservato alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, è di grande monumentalità ma tuttavia non trasmette un'impressione di grande potenza, come la rappresentazione del gesto di Ercole richiederebbe. Il tutto rimane troppo bloccato in una ricerca di equilibrio che finisce per stemperare la potenza dell'azione. In questo caso appare evidente come la norma stilistica neoclassica mal si adatta a rappresentare il movimento e l'azione. Il gruppo delle tre Grazie era uno dei temi più in voga nel periodo neoclassico, ed ovviamente non poteva mancare nel repertorio di Antonio Canova. Le tre figure di Aglaia, Eufrosine e Talia erano le protettrici degli artisti, in quanto da loro proveniva tutto ciò che vi è di bello nel mondo umano e naturale. Canova le raffigura nella posizione più canonica, ovvero abbracciate e disposte a circolo. Sono nude, così come le ritroviamo nella tradizione ellenistica, e vengono rappresentata dall'artista nella classica posizione a chiasma. L'incrociarsi delle membra serve qui a dare un molle abbandono alle figure che, nel sostenersi a vicenda, formano quasi un unico gruppo di affetti e sensualità corrisposte. L'immagine è quindi concepita come esaltazione di perfezione e bellezza, sommi canoni estetici per il gusto neoclassico. Il tema della sepoltura, abbiamo visto, è stato uno dei più praticati da Antonio Canova, che nei suoi monumenti funebri tende alla consacrazione della memoria del defunto, secondo le esigenze tipiche della cultura illuministica e neoclassica. Il veneziano Carlo Rezzonico è stato papa con il nome di Clemente XIII dal 1758 al 1769. Di personalità molto amabile e caritatevole interpretò su queste basi la funzione del suo apostolato mostrandosi quale «buon pastore» e non come statista interessato agli affari politici e diplomatici internazionali. Il monumento eretto dal Canova si trova in San Pietro in Vaticano. Questo sepolcro è stato concepito dallo scultore secondo il classico schema a tre piani sovrapposti. Sul primo livello, quello basamentale, poggiano le figure allegoriche: due leoni, simbolo della forza, che proteggono la porta che da accesso al sepolcro, il genio della morte e la figura femminile con la croce in mano simbolo della Religione. Al secondo livello è posto il sarcofago, di forme ovviamente classicheggianti. Al terzo livello vi è la statua a tutto tondo del papa, che il Canova, interpretandone il carattere, ci rappresenta in atteggiamento umile, il triregno simbolo di potere è posto a terra, inginocchiato a pregare. Il monumento è collocato nella Basilica dei Santi Apostoli a Roma, ed è stato realizzato per ricordare la memoria del papa che nel 1769 successe a Clemente XIII. Lorenzo Ganganelli, nativo di Sant'Arcangelo di Romagna, è stato papa con il nome di Clemente XIV dal 1769 al 1774. La decisione più importante presa da Clemente XIV è stata la soppressione dell'Ordine dei Gesuiti nel 1773. La questione dei gesuiti era in quegli anni la più scottante nei rapporti tra gli stati europei e il papato. La nuova cultura illuministica affermatasi nella seconda metà del Settecento aveva preso di mira questo che tra gli ordini religiosi appariva il più potente ed influente. Da ricordare che in quegli anni i gesuiti detenevano quasi il monopolio dell'educazione dei giovani grazie ai numerosissimi collegi che essi avevano fondato a partire dalla metà del Cinquecento in tutta Europa. L'ordine veniva anche stimato come dotato di favolose ricchezze, e la prospettiva di incamerarne i beni era un obiettivo condiviso da molti regnanti europei. Se Clemente XIII riuscì ad arginare i tentativi di soppressione dell'ordine, Clemente XIV ne fece invece una sua questione programmatica riuscendo a divenire papa proprio sulla base di questo suo atteggiamento. Papa quindi dalla personalità volitiva e portata alla gestione del potere, viene infatti rappresentato da Canova assiso in trono, con il triregno in testa, e in atteggiamento severo. Il braccio destro proteso in avanti diviene quindi simbolo della sua capacità di prendere ed imporre decisioni anche di grande portata storica. Il monumento, come quello realizzato per Clemente XIII si svolge su tre livelli. Sulla parte basamentale vengono collocate due figure femminili, allegorie dell'Umiltà e della Temperanza, al secondo livello viene posto il sarcofago, infine a coronare il monumento la statua del papa. La grande fama acquisita da Antonio Canova, fece sì che tra i suoi committenti ci fosse anche Napoleone Bonaparte. Per Napoleone Canova eseguì diversi lavori che immortalarono non solo la figura dell'imperatore ma anche dei suoi familiari. Uno dei ritratti più famosi è sicuramente questo dedicato a Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, e moglie del nobile romano Camillo Borghese. La rappresentazione segue ovviamente i precetti neoclassici. Innanzitutto Paolina è raffigurata idealisticamente nuda, e con in mano un pomo. La sua immagine richiama quindi quella di Venere vincitrice, con il pomo di Paride in mano, attestato di superiore bellezza. La figura è adagiata mollemente su un triclino, richiamando un po' la tipologia dei ritratti semidistesi presenti sui sarcofagi etruschi (ad esempio, il "sarcofago degli sposi" conservato a Villa Giulia). Tuttavia, a dispetto di questo richiamo un po' funereo, la notevole abilità tecnica di Canova riesce ad infondere quasi un palpito di vita all'immagine di marmo, risultando così verosimile l'intera scultura da suscitare apprezzamenti più che entusiastici nei numerosi estimatori di questa opera. Il vasto influsso esercitato da Antonio Canova, massimo interprete del Neoclassicismo, può essere riassunto nei due termini antitetici scelti per il titolo. Innocenza e peccato sono due caratteri che attraversano sia l’opera di Canova, sia la selezione di opere moderne e contemporanee poste in dialogo con le sculture provenienti dalla Gypsotheca di Possagno. Da tale confronto scaturiscono affinità e contrasti, facendo emergere diverse declinazioni del concetto di bellezza, in sintonia con i principi di armonia, equilibrio e grazia che contraddistinguono la scultura neoclassica o, all’opposto, apertamente in conflitto con essi. Protagonista della mostra è il corpo umano, raffigurato plasticamente nella scultura o attraverso l’uso sapiente della luce nelle immagini di alcuni dei maestri della fotografia del XX secolo. Da una parte il corpo perfetto e divino delle opere di Canova, a cui sembrano guardare alcuni scultori del nostro tempo e i fotografi che hanno saputo esaltare le linee e le forme statuarie del corpo nudo. Dall’altra gli artisti che hanno “tradito” Canova preferendo indagare l’espressività di corpi imperfetti, ma non per questo privi di fascino. Dopo la morte di Antonio Canova, le opere che si trovavano nel suo studio romano vengono trasferite a Possagno, nella casa natale dell’artista e in un nuovo edificio fatto costruire dal fratellastro, il vescovo Giuseppe Sartori.  Nella galleria progettata dall’architetto veneziano Francesco Lazzari trovano posto soprattutto i modelli in gesso e i calchi delle opere spedite ai committenti: una collezione che testimonia, così, gran parte della produzione canoviana. La mostra rievocherà anche le vicende di alcune importanti commissioni, come il “Damosseno” e “Creugante”, l’“Ercole e Lica”, il Monumento funerario per Orazio Nelson e quello per Papa Clemente XIII, il monumento equestre a Ferdinando IV di Borbone e quello per Napoleone; racconterà i rapporti con i mecenati, pontefici, principi e nobili, dai Falier ai Rezzonico, da re Giorgio IV ad Alexander Baring, da Papa Pio VII a Francesco I d’Austria, da Josephine de Beauharnais a Paolina Bonaparte, fino a Napoleone. Evocherà infine le relazioni che Canova ebbe con artisti, e letterati coevi, come Angelika Kaufmann, Anton Raphael Mengs, Carlo Albacini. Un evento eccezionale è rappresentato dall’arrivo a Bassano del Grappa, dall’Inghilterra, del grande marmo riscopero solo di recente - dopo quasi due secoli in cui se ne erano perse le tracce - e mai esposto prima in una mostra: la “Maddalena giacente”, l’ultimo capolavoro di Canova.
La mostra è suddivisa in otto sezioni :
Prima sezione– Canova in Accademia
Su proposta degli scultori Agostino Penna, Giovanni Pierantoni e Camillo Pacetti, Canova divenne accademico di merito il 5 gennaio 1800. Il suo lavoro era ormai ampiamente riconosciuto nell’ambiente romano quando venne votato all’unanimità dagli accademici seduta stante, senza dover attendere il consueto mese dalla proposta, come riportato nel Verbale della Congregazione presentato in questa sala. In seguito, lo scultore consegnò 30 scudi al Camerlengo e come dono di ingresso, richiesto dalle prescrizioni statutarie, inviò il bassorilievo in gesso Socrate che difende Alcibiade alla Battaglia di Potidea(1797), soggetto già trattato più volte seguendo i testi di Platone del Symposio e del Fedone, che qui viene proposto nell’accezione morale del maestro che combatte in favore dell’allievo. Allo studio dell’antico Canova si era dedicato fin dalla sua prima formazione, evidenziando nell’armonia delle forme la dimensione etica della cultura classica. Nel 1810 Canova, mentre si trovava a Firenze per la sistemazione del Monumento funerario di Vittorio Alfieri nella Basilica di Santa Croce, fu insignito del titolo di principe dell’Accademia di San Luca. Di nuovo nel 1814 l’Accademia, riconoscendogli “gli insuperabili talenti nell’arte... e gli innumerevoli servigi”, lo nominò principe perpetuo. Entrambi i momenti sono documentati in mostra. Con l’amico e compagno di studi Antonio D’Este, Canova condivise gli anni dell’Accademia di Venezia, dando luogo a un rapporto di collaborazione che sarebbe durato tutta la vita. Il ritratto del principe qui presentato, volutamente non idealizzato, rivela lo stretto legame che ha unito i due scultori.
Seconda sezioneI concorsi Canova: pittura e scultura
 
Fin dal XVII secolo l’Accademia di San Luca aveva organizzato dei concorsi nelle tre discipline della pittura, scultura e architettura, mediante i quali venivano valutati e riconosciuti i traguardi raggiunti dagli allievi delle scuole accademiche e verificati gli orientamenti trasmessi dai professori. Nel Settecento erano state istituite due importanti competizioni, il Concorso Clementino (1702) e il Concorso Balestra (1768) che, seppur irregolarmente, presentarono al mondo delle arti schiere di giovani artisti provenienti da tutta Europa, le cui opere premiate ancora oggi costituiscono gran parte del patrimonio dell’Accademia. Canova, durante il soggiorno in Francia presso la corte imperiale nel 1810, ottenne da Napoleone una riforma generale dell’Accademia e un incisivo sostegno per gli artisti. Nell’idea dello scultore, l’istituzione romana doveva diventare il centro di riferimento per tutte le attività culturali, dalla produzione e promozione dell’arte contemporanea, agli scavi, al restauro dei monumenti antichi, al riassetto urbano. Ma fu con la creazione di due importanti concorsi, finanziati dallo stesso scultore, il Concorso dell’Anonimo e il Concorso Canova, che l’Accademia poté offrire al pubblico e alla critica alcuni dei risultati più evidenti del processo di riforma in atto, come si può cogliere nella serie di grandi nudi dipinti, realizzati come un insieme di pose codificate da combinare nelle complesse impaginazioni del quadro di storia. La didattica venne riorganizzata sul modello francese, dove lo studio anatomico dipinto veniva inserito in uno spazio narrativo. L’osservazione dal vivo del modello si accompagnava ora a una rinnovata conoscenza della statuaria antica.
 
Terza sezioneCanova e Thorvaldsen
Lo scultore danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844) giunse a Roma nel marzo del 1797 e fu accolto come membro dell’Accademia di San Luca nel gennaio 1808 su proposta di Canova e degli scultori Francesco Massimiliano Laboureur e Carlo Marin. In breve s’impose come l’altro grande protagonista della ricerca scultorea, diventando con Canova uno dei due epigoni dell’arte contemporanea, nel solco dei quali si sarebbero suddivise le schiere di allievi e seguaci delle generazioni successive. Canova e Thorvaldsen trasformarono la Città eterna nella capitale della scultura moderna, dando luogo a una sorta di competizione ideale sui medesimi temi tratti dall’antico. Le differenze linguistiche si concretizzarono in una rilettura della tradizione classica come possibile paradigma storico del presente in Canova, definito al tempo “novello Fidia”, e in una ripresa delle forme più pure dell’arte greca in Thorvaldsen, come rivendicazione nordica della comune discendenza dal mondo antico. Le sculture in gesso, presenti nella galleria accademica, testimoniano le diverse declinazioni del linguaggio classico proposte dai due maestri. Visioni che, entrambe, hanno avuto notevoli ricadute sulla cultura accademica ottocentesca. I gessi di Antonio Canova presenti in mostra sono stati donati all’Accademia di San Luca in epoche successive alla presenza dello scultore.
Quarta sezione – La Religione
 
Canova, l’artista capace di interpretare l’antico con sensibilità moderna, l’uomo superiore a vincoli politici e di pensiero, dedicò la sua arte all’Allegoria della Religionein due momenti della sua vita. La prima statua della Religione all’inizio della sua carriera fa parte del monumento funebre di Clemente XIII Rezzonico in Vaticano: una matrona romana con la croce, che divenne emblema citato e ripetuto per decenni in altri progetti monumentali, come archi di trionfo o colonne celebrative. La seconda creazione, la più nota, del cui gesso faceva parte questo busto dell’Accademia, era il grandioso progetto degli anni 1814-1815 di una statua colossale, alta più di trenta palmi, circa il doppio del gesso, da porre in Vaticano, quale dono dello stesso Canova a Pio VII dopo il suo ritorno a Roma. La scultura in marmo, che l’artista aveva immaginato come memoria di sé ai posteri, non fu mai realizzata; le enormi dimensioni ne impedirono l’accettazione in Vaticano e in altre chiese. Il modello in gesso fu donato all’Accademia nel 1830 da Giovanni Battista Sartori, fratellastro di Canova, e sistemato prima nella Galleria, poi nella chiesa dei Santi Luca e Martina, dove nel 1926 un incidente occorso durante dei lavori di restauro lo ridusse in pezzi. Una versione molto più piccola di questa statua, con qualche modifica negli accessori, perché rappresentante la Religione protestante, fu eseguita in marmo per la tomba di Lady Sophia Brownlow nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Belton (Lincolnshire).
 
Quinta sezioneL’Accademia al tempo di Canova
 
Il “tempo di Canova” in Accademia è costituito da una parabola lunga e densa di avvenimenti, che va dalla sua elezione (1800) - qui ricordata nella parete dei ritratti dalle effigi di alcuni dei protagonisti che lo hanno eletto - sino alla sua morte (1822). Nei tre registri di dipinti si susseguono i volti di coloro che costituivano negli anni canoviani la compagine accademica, all'interno della quale lo scultore di Possagno divenne presto un punto di riferimento imprescindibile, come testimonia la spinosa vicenda del Concorso Balestra del 1801 in cui ha dovuto assumere il ruolo di giudice e paciere. La nomina ricevuta da Pio VII di Ispettore Generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato Pontificio (1802) pose Canova al centro di tutte le attività culturali dell’Urbe, posizione che negli anni del dominio napoleonico venne confermata, permettendogli di accentrare sull’Accademia la direzione dei principali progetti relativi alla città. Fra i diversi nuclei di ritratti qui proposti, sono presentati i busti marmorei di Canova e del cardinal Pacca, cui si è voluto affiancare le effigi di Pio VII e di Giuseppe Valadier, quest’ultimo architetto protagonista, insieme a Giuseppe Camporese e Raffaele Stern, dei grandi cantieri romani del tempo. Canova ha rappresentato per l’Accademia anche l’espressione di una nuova libertà artistica, qui testimoniata dall’eterogeneità stilistica dei manufatti donati dai pittori durante gli “anni canoviani”. Lo scultore veneto si è altresì speso per l’ingresso e il riconoscimento degli incisori all’interno della compagine accademica. Per questo una piccola sezione ricorda gli artisti che hanno avuto un ruolo fondamentale per la trasmissione del mito dello scultore veneto dopo la sua morte. Chiudono questa sala due “casi studio”: uno vede esposta la Maddalena penitente ad olio su tela, unica testimonianza pittorica attribuita a Canova all’interno della collezione Accademica; l’altro riguarda l’inedito modello ligneo di arco trionfale dedicato a Francesco II d’Asburgo Lorena, del quale per l’occasione è stato ricostruito il contesto di appartenenza.
 
Sesta sezione– De’ Monumenti Antichi
 
«Coerentemente alle intenzioni di S. M. l’Imperatore e Re [...] il Consiglio [dell’Accademia] avrà cura de’ Monumenti antichi [...] e provvederà alla conservazione de’ medesimi con i fondi destinati [...]. Nominerà fra i suoi Membri due Architetti, che saranno specialmente incaricati di [valutarne] lo stato attuale, e le riparazioni, [...] darne un calcolo approssimativo della spesa. I suddetti architetti saranno obbligati di dirigere le accennate riparazioni, e prestarvi tutta la necessaria assistenza». Con queste parole l’Accademia si assume una diretta responsabilità operativa e Canova ne è garante, in piena coerenza col proprio impegno contro la dispersione dei beni artistici, assunto fin dal 1802 come Ispettore generale di tutte le Belle Arti. Sarà poi il delicatissimo ruolo svolto nel 1815 per il rientro in Italia delle opere prelevate dai francesi a confermarlo come una figura fondamentale nella formazione di una coscienza relativa alla tutela e alla conservazione del patrimonio culturale. Ma questi restauri si inquadrano anche nel crescente fervore archeologico che si verifica a Roma fra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento (vedi, al Colosseo, gli scavi di Carlo Fea e i restauri di Raffaele Stern); e questo, che era inizialmente animato dallo spirito e dal gusto illuminista e/o giacobino, ora, col Governo francese, lo è dalla ragion di stato.
Settima sezione – I concorsi Canova: architettura
Nel 1817 viene bandita la prima edizione del Concorso Canova. A differenza del precedente Concorso dell’Anonimo, questa nuova competizione, aperta ora anche ai giovani architetti, prevedeva un pensionato della durata di tre anni durante il quale il vincitore avrebbe ricevuto la somma di 20 scudi al mese. Allo scadere di ogni anno il vincitore avrebbe dovuto dar conto dei progressi della sua formazione attraverso l’elaborazione di altri temi assegnati di volta in volta dai docenti della classe. Del Concorso Canova verranno bandite due edizioni, nel 1817 e nel 1820: è significativo che in entrambe le prime prove di ammissione al pensionato il tema scelto per la classe di architettura riguardasse la progettazione di un edificio per “una accademia di Belle Arti a vantaggio della pubblica istruzione” (1817) e di una “Fabbrica da potersi adattare in locale opportuno all’Accademia di San Luca” (1820). La riforma statutaria del 1812, confermata dal nuovo Statuto emanato proprio nel 1817, prevedeva infatti il moltiplicarsi degli insegnamenti e non è improprio immaginare che per l’Accademia fosse sempre più impellente la necessità di reperire e organizzare spazi per la didattica, al punto da ritenere che potesse divenire tema di riflessione anche attraverso il contributo e la sensibilità dei più giovani.
 
Ottava sezione –  La Scuola del Nudo 1801-1812
 
La Scuola del Nudo capitolina, gestita dall’Accademia, fu fondata da Benedetto XIV nel 1754. Il principe dell’Accademia sceglieva ogni anno gli accademici pittori e scultori per dirigere lo studio alternandosi mensilmente, con interruzioni nei mesi di ottobre e nel mese del carnevale. A Roma l’apprendistato degli artisti si svolgeva negli studi privati e la Scuola del Nudo offriva la preziosa possibilità di usufruire degli insegnamenti di diversi maestri e di stabilire nuovi contatti. Era una scuola maschile pubblica e gratuita, aperta quotidianamente a studenti di ogni nazionalità e religione. I concorsi, di disegno e di scultura (su tavolette in creta), venivano indetti a marzo per il nudo e a settembre per il panneggio. Le prove venivano giudicate da una commissione formata anche da direttori degli altri mesi. In Accademia si conservano solo disegni. Canova fin dal suo ingresso in Accademia si dedicò alla Scuola del Nudo; nel 1802 fu nominato Ispettore generale delle Antichità e delle Accademie di Belle Arti; nel 1804 l’attribuzione di una nuova sede nell’ex convento delle Convertite al Corso e nuovi progetti per la Scuola furono legati al prestigio, a sovvenzioni e a specifiche responsabilità di Canova.
 
Accademia Nazionale di San Luca – Palazzo Carpegna – Roma
Canova. L’Ultimo Principe
dal 17 Dicembre 2022 al 28 Giugno 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 17.30
Lunedì Chiuso