Ogni quadro racconta la sua storia    

 
1) GIOTTO E BOTTICELLI,  L’ADORAZIONE DEI MAGI
 
Se v’è  un modo plausibile per tentare di mettere a confronto due mondi, non solo pittorici, ma anche storici (cioè sociali, religiosi, filosofici e politici), lontani tra loro, ma in fondo contigui, è bello pensare ad un parallelo inusuale: disporre su una immaginaria parete due quadri, anzi un affresco e una tempera su tavola, del medesimo soggetto, ad esempio l’’Adorazione dei Magi’ di Giotto (Padova, Cappella degli Scrovegni) e quella di Botticelli (Firenze, Galleria degli Uffizi)
 
La differenza d’ambientazione, d’atmosfera, di figurazione e paesaggio è palpabile. La clessidra del tempo, infatti, tra i due dipinti, ha segnato la bellezza di centosettant’anni. È un’età frenetica, ricca di accadimenti piuttosto significativi tanto da far sfumare l’etichetta, per questo stesso periodo (1300-‘500 ca.) di “autunno del Medioevo”. È l’età attraversata dalle prime forme di partecipazione democratica al tempo dei Comuni, tuttavia subito attenuata dall’insorgere delle Signorie e, quindi, dei Principati. È il “ciclo” che attraversa di frequente la nostra storia sociale e politica. Ancora oggi non ne siamo immuni, nella ricerca d’un “contratto sociale” che sia fondamentalmente libero e giusto.
 
Ma torniamo nella nostra galleria ideale. Quali suggestioni ne ricaviamo? L’impressione dello scarto pittorico e del gap scenografico è impressionante. La tavolozza cromatica di Giotto, che indulge su colori tenui, anche se magnificamente armonizzati e illuminati dall’azzurrite del cielo, non può certamente competere con la multiforme e variopinta scala coloristica di Botticelli. L’accentuazione del chiaro-scuro, in questo secondo caso, scolpisce quasi a tutto tondo le sagome dei personaggi, che vogliono rendere omaggio al divino Bambino. Non si discorra, poi, dell’ abbigliamento di questi ultimi. Le loro vesti presumibilmente influenzate dalla “moda” fiamminga che, proprio in quegli anni, aveva cominciato a diffondersi in Europa, esibiscono una preziosità più che ricercata nel dettaglio e nel panneggio; a differenza di quello che si può cogliere spostando lo sguardo  nel riquadro giottesco: siano essi re magi, angeli,  o cammellieri, il loro vestiario si riduce ad un unico, uniforme e informe indumento: una sorta di saio, né più né meno.
 
Tutto si chiarisce, ovviamente, e si spiega, non appena si sposti il pensiero all’anzidetta clessidra del tempo. La sabbia non  l’attraversa impunemente. Giotto obbedisce alla “consegna” francescana della povertà e dell’umiltà, anche se non è insensibile alla perentorietà della Chiesa, che, sottotraccia, intende guadagnare alla sua causa un santo per troppi versi ‘fastidioso’ o, addirittura, ‘rivoluzionario’1). La semplicità del santo d’Assisi è tuttavia fatta salva anche in questo riquadro, come in tutti i restanti della cappella patavina. La scena è impregnata di misticismo: il cielo stesso, grazie anche alla cometa che l’attraversa, fa presagire una  ‘commozione’ e una partecipazione allargate all’inverosimile nel momento in cui il Bambino è presentato al ‘mondo’. È lo stesso misticismo che, specialmente in Francia, ispira il sorgere di cattedrali che non mancheranno di affermarsi, tra l’altro,  come sedi deputate al potere e alla cultura.
 
Nulla di tutto ciò, ma ben altro, nella tavola di Botticelli. Qui il Bambino non viene presentato ad un’accolita mistica di angeli e magi, ma ad una corte ben presente con tanto di nome e cognome per ciascun figurante. La cortigianeria assume una delle forme che, a tutta prima, si direbbe delle più sfacciate: si ha l’ardire di presentare il primo re magio, genuflesso davanti alla sacra famiglia, niente meno che nei panni di Cosimo il Vecchio. Il secondo magio, in abito rosso, è il suo primogenito Piero il Gottoso. Il magio a lui accanto, in abito bianco, suo fratello Giovanni di Cosimo. Non mancano ovviamente i più illustri rappresentanti medìcei: un impeccabile, elegantissimo Lorenzo il Magnifico, a sinistra, con la spada, in primo piano, e Giuliano, a destra, di profilo, con veste nera e rossa. Alcuni vi hanno visto anche il poeta Poliziano e il filosofo Pico della Mirandola. E non manca, tra cotanto convito, neppure lui, paludato nella sua tunica arancione, un po’ defilato, ma pur sempre presente, il Maestro, Botticelli.
 
Ma c’è da pensare e da credere che Botticelli non soffrisse di quella malattia che si chiama piaggeria (del resto anche Giotto - a proposito -  come committente non aveva avuto la Chiesa?): era nel costume dell’epoca l’illustrazione delle glorie familiari, specialmente tra le casate più potenti, illustrazione che si esprimeva perlopiù nel genere del ritratto e nella decorazione dei palazzi nobiliari. Tuttavia, senza alcun dubbio, la tavola di Botticelli, a parte la sua geniale magnificenza, si può bene intendere come una sorprendente giustificazione, religiosa e filosofica, del principato dei Medici.
 
Un’ultima osservazione sulle due opere può, forse, e ancor più, spiegare gli intenti dei due artisti, pur visti a distanza di oltre un secolo e mezzo. Giotto riflette una religiosità insita nello spirito francescano, a contrasto in fondo con una Chiesa che vive uno dei suoi momenti più bui, dopo l’arresto di papa Bonifacio VIII, avvenuto nello stesso anno in cui il pittore affrescava gli Scrovegni, e con tutte le più nefaste conseguenze che si temevano con il papato avignonese. Botticelli, invece (la teniamo sempre presente la clessidra di cui sopra?), non illustra soltanto a suo modo la gloria della famiglia dei Medici, ma tradisce e raffigura quelli che erano i sintomi e i segni del suo tempo. Da un lato il rogo del Savonarola che denuncia la paganità e il peccato e, dall’altro, i discorsi dei neoplatonici che spingevano  a riproporre l’eticità come modello comportamentale degli antichi nella vita civile, soprattutto ispirandosi al mondo platonico e a chi quel mondo aveva preconizzato: non aveva Socrate, anche a sacrificio della sua vita, insegnato la virtù come frutto di chi vive secondo scienza o ragione? Ma quelle rovine che appaiono nel dipinto botticelliano non dicono, però, di un mondo pagano in decadenza inarrestabile? E quel pavone appollaiato su una di quelle rovine? Secondo la simbologia corrente, per via delle sue carni che sarebbero immarcescibili, rappresenterebbe l’immortalità. Ma quale immortalità? quella della storia del Bambino a cui pure la tavola è dedicata o quella della famiglia Medici?
 Forse a noi piace pensare all’immortalità della bellezza della ‘Nascita di Venere’ e della ‘Primavera’.             
 
             1)cfr. Chiara Frugoni, “Quale Francesco?”, Einaudi          

2) RAFFAELLO, LA FORNARINA (Roma, Galleria Naz.le d'Arte Antica di Palazzo Barberini)

La Fornarina: figura chiara su sfondo scuro. Il contrasto ‘di luce’ – quasi un presentimento caravaggesco – non potrebbe essere più evidente: in Raffaello ‘è di casa’ nei ritratti di contenuto profano: il medesimo che si può vedere, oltre che nel quadro in esame,  nella Velata, nella Muta, nella Gravida; ma che non si trova – se si fa eccezione della Madonna della seggiola – in nessuna delle tante altre raffigurazioni sacre dell’artista. La scelta non si può pensare casuale: pur nell’attenuazione della tinta più scura, in qualche caso, con la presenza appena avvertibile, come nel quadro ‘de quo’,  d’un cespuglio di mirto, o di altro minimo elemento, lo sfondo svolge un ruolo di primaria importanza. È evidente che esso, così uniformemente intenso, steso un po’ alla maniera del Quadrato nero di Malevic, accentua il color carne della figura semidiscinta, ne enfatizza la presenza del gioiello a fermaglio del turbante con pendente a ovoletto di perla, contribuisce a rendere ancor più trasparente il velo che la figura regge sul petto, lasciando belli, scoperti e sensuali i seni ( così soavi al pari di due cupolette dell’ormai non lontana età barocca), uno dei quali meravigliosamente avvolto  e come ‘sostenuto’ dalla mano destra. Il turbante è di una finezza esecutiva al cui confronto, per esempio, può essere forse evocato, anche se di diversa fattura, l’altrettanto famoso della Ragazza con l’orecchino di Vermeer. E tutto questo perché l’occhio dell’osservatore, non essendo distratto da altri elementi, è e resta tutto preso e concentrato (e qualche volta rapito) dalla figura in sé.
Ma perché conferire tutto questo rilievo allo sfondo? Non si tratta, in effetti, di una faccenda marginale. Lo sfondo,in questi casi, non ‘colloquia’ (come solitamente fa) col soggetto raffigurato, nel senso che lo circoscrive e lo chiude in uno spazio definito: la sua storia è tutta chiusa nell’arco spiovente di luce nel quale solitamente viene collocato. E lo sfondo, presentandosi con una coloritura neutra, crea, altresì, l’ambientazione più naturale: l’opera può essere collocata negli ambienti più vari, sempre ad uso privato, e fa sgranare gli occhi al suo fortunato proprietario. Tutto, infatti, risulterebbe  diverso se con l’intimità del  soggetto volesse cospirare, a mo’ di sfondo, un paesaggio sfarzoso: la visione privata verrebbe disturbata da questa apertura verso il mondo esterno e nessun ambiente, se non quello di una galleria o di un museo, riuscirebbe a renderlo ugualmente attraente.
Una volta, allora, che la si è resa più ‘familiare’ e più disposta a colloquiare con l’osservatore, e una volta che si è lasciato cadere il falso schermo dello sfondo che non esiste ( ma che, in verità, come si è cercato di dire, esiste e svolge regolarmente il suo compito) , è il caso di ‘ascoltarla’ la Fornarina e sentire quel che vuol dirci.
Le cronache raccontano gli sfracelli compiuti da Raffaello pur di averla con sé come modella, dopo averla vista una sola volta affacciata alla finestra della sua casa. Sarebbe la rispettabile e tanto virtuosa figliuola d’un fornaro, da qui – come si sa – il suo nome. Ma le male lingue, come comari malefiche, sputano il loro veleno sul rapporto tra il Maestro e la figlia del fornaro e quel che dicono, suffragato da quel benedett’uomo di Raffaello che non è proprio uno stinco di santo, è facilmente immaginabile. La bella signorina non si affacciava alla finestra per godere della frescura serale, quanto piuttosto per attrarre a sé i più facili e compiacenti … moscerini. Oh Dio! Ma qui la storia apre in subordine un’agenda che si tornerà a vedere, ancora più copiosamente illustrata, da un certo signor Michelangelo Merisi. Si lasci perdere, poi, più che l’agenda, il dossier amoroso di stampo picaresco, in tomi poderosi, di un cert’altro Pablo Picasso.
Resta, a totale indulgenza di questi tre assoluti Maestri, la mole meravigliosa, fatta a gradoni circolari come il Guggenheim di New York , delle loro opere. Forse l’essersi così intimamente e fortemente accostati alla natura femminile li ha predisposti a presagirne dentro di sé l’impareggiabile bellezza, e il segreto ineffabile che promana dai loro ritratti (che siano di sante o meno poco importa).
La Fornarina, checché ne dicano le buone e le male lingue, appartiene a questa ideale galleria di supreme femminee avvenenze. Lo sguardo che s’indovina, sereno e allusivo,  compreso nel turgido e paffutello volto cela la quintessenza dell’attrattiva femminile, fatta non soltanto a richiamo o al seguito dell’istinto amoroso, ma prodigiosamente portata a infondere semplicità e sincerità di propositi nei rapporti umani,  ‘ianua coeli’ praticamente  sconosciuta all’universo dell’altro sesso.
La perfezione dei tratti, l’omogeneità fresca e vellutata dell’incarnato, le sopracciglia curate da una super manicure senza un pilino fuori posto, gli occhi non ‘a mandorla’ ma quasi ‘a noce’, il naso perfetto quasi da atlante anatomico, la bocca supremamente e superbamente atteggiata ad un intimo sorriso, il petto che si può pure immaginare di delizie pieno,  la finezza del bracciale a metà braccio con firma dell’autore, conferiscono alla genialità pittorica dell’Urbinate un’accessoria patente di magia.

È vero. Ogni quadro narra la sua storia; ma, in certi casi, la storia  si fa poema, inno.   (Luigi Musacchio)