Pasquino, la celebre statua romana, implacabile, aveva parlato: «Si vedono più teste in Ponte che meloni in piazza». La testa "spiccata" più celebre è quella di Beatrice Cenci e il cappio meno misericordioso si cinge attorno al collo di Giordano Bruno, tenace fino all'ultimo col dire al papa: «Io non mi pento di nulla perché ho nulla di cui pentirmi». Sono di tal fatta gli eventi della Roma allo scoccare nel 1592 del papato di Clemente VIII. Caravaggio, ventenne, vi è appena giunto e, a detta di Roberto Longhi, verosimilmente ha modo di assistere anche ad altri fatti meno truci, quali i funerali del Tasso, il ritrovamento del corpo incorrotto della martire Cecilia e il "chiudersi" della cupola di San Pietro. E mentre il papa Aldobrandini è "sovranamente" occupato a salvaguardare la fastosità della città eterna inaugurata dal suo predecessore Sisto V (allontanamento da Roma di vagabondi e zingari, reclusione all'Ortaccio di prostitute, divieto alle donne di entrare nelle osterie e di uscire dopo il suono dell'Ave Maria, divieto agli stessi giovani di gironzolare in gruppo di notte, proibizione del gioco a carte e dadi), l'artista, secondo le cronache più accreditate, s'ingegna in tutto e per tutto a contravvenire a quegli illuminati e santissimi propositi. È di casa nelle osterie frequentate dai tipi meno raccomandabili, bighellona di notte a giocare e a menar le mani, affronta tutti con la spada e, stando a quanto si racconta sul suo conto, si prende pure un paggio incaricato di portargliela. Non ci si meraviglierà per tutto ciò dell'esito a cui condurrà una vita così spericolata.
Caravaggio giunge comunque a Roma già ”provveduto” d'una idea fissa: la ”fedeltà al reale”, neppure minimamente scalfita dalle estenuazioni leonardesche in terra lombarda alle quali dovette pure guardare. I ritratti agiografici del Moroni, la sorprendente e per qualche verso estemporanea Annunciazione del Lotto, le pur mirabili composizioni sacre del Savoldo e le rare raffigurazioni di genere del Moretto non gli avevano procurato che iniziali suggestioni, subito fugate dalla sua talentuosa vena di artista insofferente di fronte alle piaggerie manieristiche allora per la maggiore.
In particolare, però, e grazie alla mole di risultati della ricerca critica più recente, non pare corretto trascurare la l'indubbia influenza che sull'apprendistato artistico di Caravaggio esercitò la cultura pittorica della Lombardia e dintorni. Insieme con le opere degli appena citati pittori vanno infatti annoverati gli affreschi dei fratelli Campi presenti nella chiesa sconsacrata di San Paolo Converso a Milano. Così anche la vista del Merisi poté egualmente posarsi, sempre a Milano, sulle tele di Vincenzo Foppa ospitate nel Castello Sforzesco, sulla Deposizione di Callisto Piazza in San Martino e, naturalmente, sugli affreschi del suo primo maestro Simone Peterzano, campeggianti nelle chiese di San Barnaba e Santa Maria della Passione. Dovettero altresì interessarlo gli affreschi del Luini alla Pelucca di Monza, i ritratti del Cavagna e del Salmeggia detto il Talpino.
 
Altri precedenti sono ancor più indicativi se posti a confronto con l'intento del presente scritto che è quello di vedere dappresso la Conversione di San Paolo in Santa Maria del Popolo a Roma.
Alla Zecca di Milano - come suggerisce il Longhi - a Caravaggio giovane non deve essere sfuggita la Conversione di San Paolo di Alessandro Bonvicino, detto il Moretto (1498-1564).
 Indipendentemente da questa circostanza la Conversione del Moretto può essere presa come unità di misura per stabilire e capire la ”distanza” che separa le due opere. Quella di Milano è la stucchevole dimostrazione d'un dipinto marcatamente manierista, dove - tra l'altro - colui che diverrà Paolo per il culto cristiano non appare per nulla ”folgorato” dalla luce divina quanto piuttosto come sorpreso ad ammirare… la posa monumentale del suo destriero. Non vi è nulla di ”drammatico”. Il cielo stesso, benché attraversato da nuvoloni di passaggio, è spalancato su un paesaggio ostinatamente sereno e concorre a rendere men che mai perturbato il malcapitato e disarcionato Saulo.
Un'altra ”storia” invece racconta la Conversione di Caravaggio; il quale, da par suo, mostra subito di voler cambiare le carte in tavola. La vicenda, per secoli descritta pittoricamente sempre ”all'aperto” è qui raffigurata nel chiuso di una stalla. Non si tratta naturalmente di una trovata ”furbesca”. Il genio di Caravaggio lo si scopre anche nel dettaglio. Tutto deve concorrere a rendere l'evento eccezionalmente ”straordinario”: da qui l'idea del ”chiuso” che restringe il campo visivo, annullando i fronzoli paesaggistici e i numerosi personaggi che affollavano la prima versione Odescalchi dell'opera, destinata, insieme con quella della Crocifissione di Pietro, a comporre il magnifico dittico e ad abbracciare ai lati la Madonna del Carracci.
L'impressione, favorita dal taglio basso del punto di vista e dallo spazio lungo e stretto della cappella Cerasi, è allora quella di trovarsi al cospetto della scena e di quasi parteciparvi. Si scopre in tal modo che la posa molto scorciata di Paolo atterrato aumenta la potenza della chiamata dall'alto. Le braccia allargate di chi, coevo di Gesù, diverrà, se non il primo, il principale apostolo dei pagani greci e romani, paiono ”rispondere” alla luce fortissima che lo ha appena avvolto. Il cielo ha chiamato la terra, la misericordia divina chiama l'uomo sovrastato e annichilito dalla mole del peccato e ne fa suo seguace. E' questo, forse, il ”messaggio nascosto” del dipinto, il messaggio più in linea con i propositi della Controriforma in materia d'arte: la bellezza estetica al servizio della redenzione umana. E Caravaggio, nonostante contrarie apparenze, ”risponde” a suo modo e lo fa col gesto allegorico proprio della grande arte, che mostra il visibile e sottintende il significato più proprio. Colpisce l'immagine del cavallo, poderoso nella sua mole: trattiene la zampa per non calpestare il disarcionato padrone mentre gli rivolge uno sguardo quasi umano tra il calmo, il sorpreso e il compassionevole. Non si percepisce invece lo sguardo del palafreniere, estraneo all'evento, che si limita a trattenere il cavallo per le briglie.
La ”folgorazione” è già avvenuta e l'insieme raffigurato fa intuire che l'avversario della Chiesa cristiana stia ascoltando la reprimenda celeste: ”Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Stordito e cieco per tre giorni, Saulo vagherà per Damasco ove sarà guarito da Anania, capo della locale comunità cristiana. Inizia da qui l'evangelizzazione di Paolo apostolo e, ancor più, con le sue ”Lettere”, fondatore della teologia cristiana. A Roma, com'è risaputo, al pari di Pietro, Paolo soggiacerà al martirio.
Quei ”tre giorni” di buio segnano la ”metanoia” di Paolo, il suo capovolgimento ideale e l'abbraccio della fede cristiana: un buio singolarmente evocato nel dipinto di Caravaggio, infranto solo dalla luce divina che illumina e ”scolpisce” i personaggi in una resa plastica maestosa. Il dipinto è collocato a ragione al sommo dell'arte caravaggesca, forse ancor più della pressoché coeva Crocifissione di San Pietro.
 
È un tantino ”doloroso” staccarsi dalla visione di questo capolavoro, specialmente quando lo sguardo scopre per ultimo il luccichìo metallico della spada, il biancore sfumato dell'elmo, il verde dell'uniforme, colori magnificamente resi a contrasto con il buio dominante. E poi, finalmente, lo ”sguardo-non sguardo” di Saulo in procinto di divenire Paolo: gli occhi sono chiusi perché hanno visto la Luce. E resta la scena nel suo insieme. Lo spazio compreso e compresso dalle braccia allargate del disarcionato si apre a cono verso il cielo, fonte di quella folgorazione miracolosa. Il tutto torna ad apparire come sospesa in un'atmosfera prossima alla palingenesi universale, catturata dalla nuova Parola.
La cosiddetta ”rivoluzione” di Caravaggio è anche qui. Senza idealizzazione alcuna, ma, anzi, ricorrendo a scene, situazioni e personaggi del tutto comuni e prossimi alle classi sociali più emarginate se non reiette, egli ha saputo attingere e rappresentare il sacro per mezzo di un sillabario pittorico elementare: le sue figure sono reali, ”viventi”, perché sottratte alla strada e trasportate sulla scena della trasfigurazione estetica: nessuna idealizzazione s'è detto, ma quanto realismo e quanta verità.
La ”luce” infine, la luce di Caravaggio: quanto discorrere sul suo uso e sul suo significato! La luce vista come veicolo di conversione (l'episodio di Paolo), di grazia redentrice (la Vocazione di Matteo), di evento sacro insomma; ma anche come elemento con funzione costruttiva della sua arte. Del resto, è ormai acclarato: egli dipingeva ”solo” le parti in luce ”traendole” per lo più dal buio dei fondali. Il che gli ha permesso di abbreviare di gran lunga i tempi delle esecuzioni e di renderle anche su estesi supporti. Una trovata anche questa. Ma geniale.
In tutta la storia dell'arte sacra - a detta di Roberto Longhi - la Conversione segna un culmine oltre che una vera ”rivoluzione” e Caravaggio sarà studiato da Rubens e fornirà una nuova tavolozza a Velazquez, Hals, Vermeer, per non dire di Zurbaràn. Jakob Burckhardt, studioso del Rinascimento, non mancherà, per finire, di commentare che «il moderno naturalismo, stricto sensu, comincia con lo stile crudo di Caravaggio».
 
Luigi Musacchio