Recentemente mi sono occupato più estesamente, in un dossier pubblicato su questa rivista , della questione cronologica della
Natività di
Caravaggio[1].
Il capolavoro purtroppo sottratto alla collettività era tradizionalmente datato al 1609, ma recenti acquisizioni hanno portato ad affermare che, in realtà, esso fu realizzato a Roma, nel 1600, e da lì spedito in Sicilia
[2]. Naturalmente, come ogni (relativamente) fresca novità, occorrerà lasciare alla comunità scientifica il tempo di riflettere – lasciando sedimentare estese e talvolta complesse argomentazioni –, prima di riprendere a freddo una certa questione ed esprimersi a riguardo più consapevolmente, in un senso o nell’altro. Eppure, nel caso del dipinto palermitano, vi sono stati già significativi pronunciamenti, tra convinte adesioni e importanti aperture verso la proposta di datazione romana
[3].
Tra gli elementi che ponevo all’attenzione nel mio dossier, peraltro, inserivo la congruenza tra la modella romana che aveva posato per la Vergine con quella che aveva vestito i panni dell’eroina biblica nella
Giuditta e Oloferne dipinta per
Ottavio Costa[4] [fig. 2]. È pur vero che alcune tipologie fisiognomiche caravaggesche ricorrono in luoghi e tempi diversi, ma qui l'identità dei due volti potrà sorprendere in molti, anche chi non necessariamente avvezzo agli studi caravaggeschi
[5]. Al di là della diversa espressività imposta da situazioni e sentimenti contrapposti (spossatezza-serenità da un lato, tensione-orrore dall'altro), difatti, corrispondono tutti i tratti somatici: ovale del volto, capelli nel colore e nella pettinatura (legati, con riga centrale e ciuffi ai lati), piramide nasale, taglio degli occhi, fino alla convessità della fronte (la si nota appena grazie all’ombra: la luce peraltro batte sui volti e li modella con lo stesso gioco chiaroscurale).
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2. Caravaggio,
Natività, 1600, (part.) Già Palermo, oratorio di S. Lorenzo.
Giuditta e Oloferne, 1602 c. (part.) Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma - Palazzo Barberini.
Colgo qui l’occasione per soffermarmi ed esplicitare una mia proposta sul quadro di
Palazzo Barberini [fig. 1], più comunemente datato intorno al 1599 e talvolta con riferimento puntuale a tale anno
[6].
Al di là che, più in generale, solo su base stilistica e in assenza di utili riferimenti in documenti e fonti (ma vedi
infra), comporta pur sempre dei rischi datare le opere a un preciso anno e senza margini di approssimazione, tanto più che la cronologia del pittore ha visto e vede ancora considerevoli slittamenti in relazione all’avanzare degli studi
[7], non mi ha mai troppo convinto una collocazione della tela in oggetto antecedente ai laterali
Contarelli – e trovo confortante che ora qualcun altro creda che si debba posticiparla rispetto ad essi
[8] –: me lo fanno pensare l’accentuato plasticismo e l’uso sapiente della luce (che si possono arrivare a confrontare con il secondo
San Matteo del 1602), la tavolozza impiegata, e una certa teatralità e tensione drammatica che si riconoscono in una fase più matura degli anni romani. Lo scenografico drappo rosso sul fondale è poi un elemento più frequentemente utilizzato intorno allo scadere del soggiorno nell'Urbe, vedi la
Morte della Vergine databile al 1604-1606 e la
Madonna del Rosario del 1606-1607
[9].
Personalmente, già nel
dossier datavo la
Giuditta al 1599-1601 c., mantenendo più prudentemente il riferimento al ben radicato 1599. Ora, riflettendo sull’utilizzo considerevole e complesso delle incisioni, che è sostanzialmente estraneo ai dipinti
ante Contarelli, ritengo con più convinzione di poter spostare l'esecuzione più avanti. In attesa che un’importante pubblicazione in corso di stampa
[10], dedicata alla diagnostica sulle opere del maestro presenti a Roma, possa fare maggiore chiarezza su tale aspetto, è da registrare una più esplicita posizione che riconduce il quadro più avanti nel tempo, al 1601 c.
[11]. Idea non nuova, sebbene formulata a suo tempo su basi discutibili e rimasta isolata
[12]. A ogni modo ritengo sia questa la direzione giusta, mentre sembra quasi che le ipotesi cronologiche indirizzate al di là del volgere del secolo siano state finora guidate dalla prima proposta in assoluto, del 1592-1594, che avanzò l’autorevole
Longhi, o che troppo suggestivamente sia stata lanciata un’associazione con la decapitazione di
Beatrice Cenci del settembre 1599 (qualcuno spingendosi a ipotizzare che
Merisi vi avrebbe assistito, traendovi ispirazione). Naturalmente nemmeno il tenue accostamento, che pure è stato fatto, con gli orecchini della
Maddalena Doria, o quello appena più stimolante con le vesti damascate presenti nelle opere della fine del XVI secolo, dà motivo di ancorare il quadro alla produzione giovanile o comunque
ante Contarelli: sono, quelle, mode che non cadono certo in disuso da lì a breve e, piuttosto, la scelta di riprenderle sarà da porre in relazione alla volontà dell’artista di far risaltare l’aspetto seduttivo della bella eroina che ammaliò il generale assiro
[13].
Una datazione più tarda della
Giuditta peraltro spiegherebbe meglio lo stretto rapporto con la redazione napoletana, la cui iconografia è nota attraverso la copia rinvenuta recentemente a Tolosa – se questa, come temo giudicando da una foto e in attesa di poterla esaminare
de visu, non può essere ritenuta l’originale ma è forse attribuibile a
Finson (il che impone di derubricare la versione in collezione
Intesa SanPaolo dalla mano del fiammingo a quella di un ignoto copista). È pur vero comunque che
Caravaggio diede prova di affrontare iconografie simili anche a distanza di un lustro e in luoghi diversi: è il caso delle due versioni della
Cena in Emmaus, dipinte rispettivamente a Roma nel 1601 e nei feudi laziali dei
Colonna nel 1606.
Più in concreto, non mi sembra illogico pensare che il quadro di Palazzo Barberini sia quello, non meglio specificato, che
Caravaggio stava già dipingendo quando per esso ricevette un acconto da Ottavio Costa il 21 maggio 1602
[14]. Tale incarico è stato identificato deduttivamente con il
San
Giovanni Battista di
Kansas City [fig. 3], ipotesi plausibile – ma ammettendo che, stilisticamente più tardo, l'artista vi avrebbe messo mano più avanti – fintantoché fra tutti i dipinti Costa (il terzo è il
San Francesco di
Hartford, certamente giovanile) non si poteva pensare alla
Giuditta, ritenuta antecedente a quella data.
Peraltro il
Battista, prima del ritrovamento della ricevuta
Costa e dunque a prescindere dal supposto collegamento con essa che ha spinto taluni studiosi ad anticiparne la collocazione nel
corpus caravaggesco, era generalmente datato intorno al 1604 (1604-1605 in qualche caso)
[15].
3. Caravaggio,
San Giovanni Battista, 1604 c. Kansas Ciy, The Nelson-Atkins Museum of Art.
D’altro canto, in relazione alle vicende religiose interne al
feudo di Conscente, è stata datata
post 14 settembre 1603 e comunque a non più tardi del 1606 la copia di
Albenga, verosimilmente pressoché contestuale all'originale il quale, secondo alcuni, sarebbe stato ragionevolmente richiesto dal banchiere ligure per
l’oratorio di Conscente dedicato a San Giovanni Battista, che fu consacrato nel 1606
[16]. Per il prototipo americano, permangono ancora negli studi cronologie orientate verso il 1604-1605
[17]; nondimeno vi è anche chi, pur collegando al
Battista il pagamento del 1602 ma evidentemente riconoscendone e ammettendone lo stile più tardo, ne ha supposto l’avvio dell’esecuzione in un momento successivo, cosa che tuttavia non può essere visto che, come detto, il quadro nel maggio 1602 risulta già iniziato (nelle parole di
Caravaggio, egli riceve un acconto per “un quadro ch’io gli dipingo” [a
Ottavio Costa])
[18].
Quest’ultima osservazione depone più a favore dell’identificazione con la
Giuditta, che ipotizzo in corso d’opera a maggio 1602 sebbene non si possa sapere quando cominciata (né tanto più quando terminata).
Il fatto infine che, tra le ricevute del banco, delle tre pitture caravaggesche si sarebbe conservata documentazione solo per essa, l'unica peraltro ricordata dalle fonti letterarie (
Baglione e
Malvasia), sembra in qualche modo connesso con il legame affettivo e l’importanza che la stessa rivestì per Ottavio: egli vi riservò un posto d’onore nella sua collezione, dove era coperta da un drappo di seta, e dispose di non alienarla, più di ogni altro dipinto
[19].
Dovette inoltre esserne così geloso che, delle tre, la
Giuditta è l’unica di cui non si conserva nessuna copia.
Didascalie
1. Michelangelo Merisi (d’ora in poi citato come Caravaggio), Giuditta e Oloferne, 1602 c. Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma - Palazzo Barberini.
2. Caravaggio, Natività, 1600, part. Già Palermo, oratorio di S. Lorenzo. Giuditta e Oloferne, 1602 c. Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma - Palazzo Barberini (particolari).
3. Caravaggio, San Giovanni Battista, 1604 c. Kansas Ciy, The Nelson-Atkins Museum of Art.
Note
[1] M. Cuppone,
Caravaggio. La Natività
di Palermo: un quadro del 1600 o 1609?, www.news-art.it, 1 gennaio 2016 (dicembre 2015).
[2] M. Calvesi, Caravaggio, i documenti e dell’altro, in “Storia dell’Arte”, 2011, 128, pp. 22-51, in part. 25-26 (la datazione del quadro al 1600, qui ipotizzata, diventa certezza per lo studioso in Id.,
Punture caravaggesche, in “Storia dell’Arte”, 2011, 129, pp. 19-28, in part. 23);
M. Cuppone,
Dalla cappella Contarelli alla dispersa Natività
di Palermo. Nuove osservazioni e precedenti iconografici per Caravaggio, in
«L'essercitio mio è di pittore». Caravaggio e l'ambiente artistico romano, a cura di
F. Curti-M. Di Sivo-O. Verdi, Roma 2012 (= «Roma moderna e contemporanea», 2011, 2), pp. 355-372;
G. Mendola,
Il Caravaggio di Palermo e l’Oratorio di San Lorenzo, Palermo 2012;
E. Giani-C. Seccaroni,
Le radiografie della perduta Natività
di Caravaggio, in “Bollettino ICR”, 2014, 28, pp. 35-46; Cuppone,
Caravaggio. La Natività cit.
[3] Uno tra i più autorevoli e chiari riscontri positivi viene da
Claudio Strinati: “prima dell’omicidio Tomassoni, Caravaggio esegue anche la sublime e dolente
Adorazione del Bambino già nell’Oratorio di S. Lorenzo a Palermo”, cfr.
C. Strinati,
Il mistero del primo Caravaggio, in
Caravaggio Vero, a cura di C. Strinati, direzione scientifica di M. Cuppone, Reggio Emilia 2014 pp. 23-62, in part. 61; in occasione successiva lo studioso ha per così dire 'giocato' a fare l'avvocato del diavolo, lasciando cioè tirare le somme sulla questione cronologica al lettore, dopo aver comunque elencato molti più elementi a favore della datazione romana, cfr. Id.,
Cronologia della Natività
di Palermo, in
C. Strinati-L. Scarlini-P. Glidewell-A. Lowe,
Operazione Caravaggio, Milano 2015, pp. 11-21. Per altri significativi pronunciamenti, cfr.
M. Di Mauro (a cura di),
Documenti, in
Caravaggio tra arte e scienza, a cura di
V. Pacelli e G. Forgione, Napoli 2012, pp. 422-447, in part. 427;
A. Zuccari,
Caravaggio controluce. Ideali e capolavori, Milano 2011, pp. 99-100, X – ma è ancora più propenso verso la datazione romana in
Id., Caravaggio e la questione del disegno, in “Atti e Memorie dell'Arcadia”, 2013, 2, pp. 101-120, in part. 105, 115-116;
G. Leone,
L'Adorazione dei pastori
di Messina di Caravaggio: un approfondimento, in
I Francescani in Liguria. Insediamenti Committenze Iconografie, a cura di
L. Magnani e L. Stagno, Genova, Università degli Studi di Genova, 22-24 ottobre 2009, Roma 2012, pp. 63-74, in part. 69;
F. Curti, Dalle botteghe d'arte al palazzo del cardinal Del Monte. I primi anni di Caravaggio a Roma, in
Caravaggio Vero cit., pp. 313-327, in part. 313;
F. Scaletti, Regesto delle opere originali,
ivi, pp. 128-267, in part. 261;
R. Vodret, Caravaggio, l'uomo e l'artista, in
Caravaggio e Mattia Preti a Taverna: un confronto possibile, a cura di
G. Leone e G. Valentino, Taverna, Museo Civico, 25 marzo - 3 maggio 2015, Roma 2015, pp. 76-91, in part. 88-89 – ma dà ancora più credito alla datazione romana in
Ead., Caravaggio “cervello stravagantissimo” in
Caravaggio and his Time: Friends, Rivals and Enemies, a cura di
R. Vodret e
Y Kawase, Tokyo, The National Museum of Western Art, 1 marzo - 12 giugno, 2016, Tokyo, pp.269 - 277, in part. 274;
M. Moretti-A. Zuccari,
Sulla pittura sacra di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Le “nuove” iconografie della Vergine e dei Santi,
ivi, pp. 295-300, in part. 296;
A. Spadaro,
Documenti e fonti sul soggiorno siciliano di Caravaggio. Qualità della produzione e autorevolezza degli studiosi, in “Agorà”, 2016, 56, pp. 12-16, in part. 16;
R.E. Spear, Dipingere con profitto. Le vite economiche dei pittori nella Roma del Seicento, Roma 2016, p. 129.
[4] A. Italiano,
Caravaggio in Sicilia. L’ultima rivoluzione, Terme Vigliatore 2013, p. 53;
M. Cuppone,
Vita di Michelangelo Merisi, in
Caravaggio Vero cit., pp. 329-337, in part. 334.
[5] Più in generale sulle somiglianze nei personaggi raffigurati a distanza di tempo, cfr.
V. Pacelli,
Caravaggio: aspetti e problemi della vicenda artistica, in
Caravaggio tra arte e scienza cit., pp. 231-327, in part. 261, 300. D’altro canto, la forte somiglianza che vi è tra la Vergine palermitana e Giuditta, non la vedo intercorrere anche tra Giuditta e la
Fillide nota dalla fotografia a colori del ritratto disperso; quest’ultima è stata peraltro un po’ forzatamente, ritengo, accostata ad altre donne raffigurate da Merisi (Santa Caterina d’Alessandria, e Maddalena nel quadro di Detroit) con le quali ella non ha molto da spartire, e non solo per quanto attiene ai lineamenti: diverso a ben vedere anche il colore dei capelli, più scuro nella Fillide, che è pettinata anche in altra maniera (assente la riga centrale, i capelli sono portati su). Sulla questione cfr. anche
C. Cerati,
Volti e corpi di Caravaggio. La natura dei modelli, in
Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, a cura di
M. Di Sivo e O. Verdi, Roma, Archivio di Stato di Roma, 11 febbraio - 15 maggio 2011, Roma 2011, pp. 137-142, in part. 138.
[6] Per un consuntivo, cfr.
M. Marini,
Caravaggio «pictor praestantissimus». L’iter artistico completo di uno dei massimi rivoluzionari dell’arte di tutti i tempi, Roma 2005, pp. 424-426 e
J.T. Spike,
Caravaggio, New York, London 2010, pp. 106-111.
[7] M. Cardinali-M.B. De Ruggieri,
Attraversando la pittura di Caravaggio. Novità e scoperte sui procedimenti e sulla tecnica del ciclo Contarelli, in
Caravaggio. La cappella Contarelli, a cura di
M. Cardinali-M.B. De Ruggieri, Roma, Palazzo Venezia, 10 marzo - 15 ottobre 2011, Roma 2011, pp. 25-33, in part. 30. Resta ancora da fare molta luce sull’
iter artistico del milanese, specie dopo che le scoperte sul soggiorno presso Petrignani prima, non anticipabile oltre l’aprile 1597, e quelle sull’arrivo a Roma poi (più tardo, anche se non è dato sapere ancora quanto, rispetto al tradizionale 1592) assieme alla scansione temporale di alcune circostanze tra 1596 e 1597, invitano a riconsiderare, posdatandola, parte della cronologia, spesso ancorata più a supposizioni che a saldi appigli. Su tutto, cfr. da ultimo,
F. Curti-M. Di Sivo-O. Verdi,
Introduzione, in Curti-Di Sivo-Verdi 2012, pp. 151-165, in part. 155-165;
M. Moretti,
I Petrignani di Amelia. Fasti, committenze, collezioni tra Roma e l’Umbria, Isola del Gran Sasso 2012, pp. 63-64 e sua recensione,
M. Cuppone, I Petrignani di Amelia. Fasti, committenze, collezioni tra Roma e l'Umbria, in “Predella”, 2014, 35, pp. 249-251, in part. 250.
[8] G. Papi, Spogliando modelli e alzando lumi. Scritti su Caravaggio e l’ambiente caravaggesco, Napoli 2014, p. 84.
[9] L’opera è variamente inserita tra l’ultimo periodo romano e il primo napoletano, e per l’attribuzione a quest’ultimo cfr.
M.C. Terzaghi,
Tanzio, Caravaggio e compagni tra Roma e Napoli, in
Tanzio da Varallo incontra Caravaggio. Pittura a Napoli nel primo Seicento, a cura di
M.C. Terzaghi, Napoli, Gallerie d’Italia, Palazzo Zevallos Stigliano, 24 ottobre - 11 gennaio 2015, Cinisello Balsamo 2014, pp. 19-49, in part. 36.
[10] Caravaggio. Opere a Roma. Tecnica e stile, a cura di
R. Vodret-G. Leone-M. Cardinali-M.B. De Ruggieri-G.S. Ghia, Cinisello Balsamo 2016 (in corso di stampa).
[11] R. Vodret,
Caravaggio “cervello stravagantissimo”, cit. 270.
[12] M. Fagiolo dell’Arco, Le “Opere di misericordia”: contributo alla poetica del Caravaggio, Milano 1969, p. 69;
M. Fagiolo dell’Arco-M. Marini,
Rassegna degli studi caravaggeschi 1951-1970, in “L’Arte”, 1970, 1-2, pp. 117-128, in part. 121 (l’opinione è ancora di
Fagiolo dell’Arco).
[13] C’è da chiedersi comunque se il seno fosse stato rappresentato nudo e poi ricoperto non con fine morale, come è stato supposto, ma semplicemente per meglio individuarne l’ingombro nel dipingere più realisticamente la camicia, un po’ come avvenuto per altri personaggi caravaggeschi studiati dal vero a figura nuda per poi essere letteralmente rivestiti, cfr. Marini,
Caravaggio «pictor praestantissimus» cit., pp. 426.
[14] M.C. Terzaghi,
Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera & Costa, Roma 2007, pp. 298-299, 444.
[15] Per un consuntivo, cfr.
M.
Marini, Caravaggio «pictor praestantissimus» cit., pp. 483-486 e Spike,
Caravaggio cit., pp. 233-240.
[16] A. Vannugli, Enigmi caravaggeschi: i quadri di Ottavio Costa, in “Storia dell’Arte”, 2000, 99, pp. 55-83, in part. 66;
Terzaghi, Caravaggio, Annibale Carracci cit., pp. 121, 297-298.
[17] Del 1604-1605 è per
T.P. Olson,
Caravaggio’s pitiful relics, New Haven 2014, p. 105.
[18] Ivi, p. 444 (“Io Michel’Angelo Marrisi o riceuto di più dal Ill.re S.r Ottavio Costa a bon conto d’un quadro ch’io gli dipingo venti schudi di moneta questo di 21 maggio 1602 / Io Michel’Angelo Marrisi”); Spike,
Caravaggio cit., pp. 233;
M. Pupillo,
San Giovanni Battista, in
Caravaggio, a cura di
C. Strinati, Roma, Scuderie del Quirinale, 20 febbraio - 13 giugno 2010, Ginevra, Milano 2010, pp. 152-156, in part. 155.
[19] M.C.Terzaghi, Caravaggio, Annibale Carracci cit., pp. 145-146.
Roma, 4 giugno 2016 di Michele Cuppone