1(2)Recensione di: Vincenzo Pacelli, Gianluca Forgione (a cura di), CARAVAGGIO. Tra Arte e Scienza, Paparo Editori, Napoli 2013.

Si è svolta a Roma, il 24 aprile, presso la sala Pietro da Cortona della Pinacoteca Capitolina la presentazione del libro a cura di Vincenzo Pacelli e Gianluca Forgione, Caravaggio. Tra Arte e Scienza.


Trattandosi non dell’ennesimo, scontato testo sulla figura e l’opera del Merisi ma di un complesso lavoro interdisciplinare, che ha visto il contributo di importanti studiosi di discipline distanti dalla storia dell’arte, l’evento era molto atteso, anche per la presenza di un parterre di prestigiosi ‘presentatori’: Francesca Cappelletti, Sergio Guarino, Arnauld Brejon de Lavergnée e Vittorio Sgarbi, coordinati da Claudio Strinati.
Non mancavano inoltre tra il numeroso pubblico, altri studiosi di primo piano, come Stefania Macioce, Gianni Papi, Francesco Petrucci, Cristina Terzaghi, Rossella Vodret, Alessandro Zuccari ed altri ancora.
Il dibattito è stato pari alle attese, registrando notevoli spunti di approfondimento ed anche di polemica. Né poteva essere altrimenti, trattandosi di una pubblicazione assolutamente nuova ed originale, come ha chiarito Brejon de Lavergnée, “lontana anni  luce da pubblicazioni recenti abbastanza strampalate …” e “a distanza siderale dal sensazionalismo di incaute operazioni editoriali e giornalistiche”.

Ed in effetti il ponderoso volume - in cui Vincenzo Pacelli, noto studioso della pittura barocca napoletana, nonché grande conoscitore della vita e delle opere di Caravaggio, è autore e curatore, si è fatto affiancare da un giovane e valente ricercatore come Gianluca Forgione - è ispirato a tutt'altri criteri. Vi hanno contribuito, infatti, esperti di medicina, anatomia e in genere di scienza medica, ma anche un musicologo e un filosofo assai affermati; professionisti di primo piano, insomma, capaci di analizzare nel dettaglio, in chiave prettamente scientifica, elementi particolari della pittura caravaggesca a cui non sempre gli storici d’arte hanno creduto di dover rivolgere la loro attenzione.

2(1)Ne è un esempio la disamina proposta da Carla Cante e Giovanni di Minno (il consulente medico-scientifico del volume) nel loro saggio “Anatomia, Fisiologia, Fenomenologia della morte nelle opere di Caravaggio” dove si avanza la tesi che “le immagini anatomiche dipinte dal Merisi siano frutto di studio piuttosto che di osservazioni occasionali” .
Lo dimostrerebbe, ad esempio nell’Incredulità di san Tommaso, capolavoro ora a Postdam, il modo in cui è dipinta la ferita nel costato di Cristo: “La forma della ferita - suggeriscono Cante e di Minno - varia a seconda del modo di penetrazione ed estrazione della lama: se penetra obliquamente e ne esce con un’azione sulla lama, si produce una ferita ad asola con due codette; tutti questi aspetti sono visibili …- secondo i due studiosi -  … [proprio nella] ferita asciutta, senza sangue, come quelle che si osservano nelle sale settorie in corpi ormai senza vita” (fig. 2).

3(1)E più avanti, analizzando la Decollazione del Battista dipinta da Caravaggio nel suo soggiorno maltese, “con l’occhio del chirurgo, cancellando dalla mia mente ogni riferimento alla tradizione storico artistica” il chirurgo Gennaro Rispoli chiarisce perché debba parlarsi di “sgozzamento” e non di “decollazione” (figg. 3 e 4).
Ma molti altri sono gli approfondimenti proposti dal volume, in virtù dei contribuiti del musicologo Dinko Fabris, o del filosofo Biagio De Giovanni; né vanno trascurati gli spunti di natura storico-medica di Feliciano Baldi, Nicola Ferrara e Vincenzo Esposito, o le relazioni accademiche indagate da Arturo Armone Caruso.

4(1)Ovviamente, per quel che riguarda il contesto che più ci compete, un’attenzione particolare meritano i saggi di operatori maggiormente impegnati sul terreno della tecnica, contigui alle problematiche artistiche legate alle opere di Caravaggio, esperti di diagnostica e radiologia artistica e restauratori di dipinti caravaggeschi come Giantomassi e Zari, Silvano e Maria Sasso, Bruno Arciprete, Anna Maria Marcone, Daila Radeglia, Carla Mariani.
Hanno anche collaborato studiosi come Gianni Papi, con un contributo su “Caravaggio e i ritratti del potere romano”, dove si propongono aggiunte e sottrazioni al catalogo del Merisi che hanno fatto e faranno discutere, e Roberta Lapucci, da tempo impegnata a proporre metodologie di indagine per il riconoscimento delle opere del Merisi, non certo stravaganti, ancorchè discutibili per gran parte degli esperti.
Oppure come Claudio Falcucci, uno dei maggiori esperti di diagnostica artistica, autore di un saggio che Francesca Cappelletti, nel suo contributo al volume, segnala “per la lucidità e il coraggio dell’intervento”, sottolineando come “nel suo scritto si leggono considerazioni che circolano spesso fra gli studiosi ma che nessuno ha avuto ancora l’ardire di rendere ufficiali”, relative alle incisioni e ai ‘pentimenti’ che consentono di avallare o meno l’autenticità di un’opera di Caravaggio.

Ma in quale misura la scienza e in particolare la scienza medica può contribuire a sciogliere almeno alcuni degli enigmi che, dopo tanti anni e tanti studi, ancora avvolgono la personalità, oltre che l’opera, del  Merisi?

5Certamente va rilevato che non è la prima volta che i dipinti del genio lombardo offrono il destro per studi ed analisi al di là di quelli che competono agli storici dell’arte, almeno da quando Ruskin vi scorse e ne denunciò - è il caso di dire - “i segni risoluti di malvagi desideri malamente repressi”.
In un documentato saggio di qualche anno fa (cfr. Storia dell'arte, 1999) lo studioso statunitense John Varriano dava conto di come, con l’avvento delle ricerche freudiane sul subconscio, le opere caravaggesche fossero state lette come mero riflesso delle sue vicende esistenziali, in chiave cioè di una vera e propria patologia della psiche.
Un primo esempio di questo tipo di esegesi critica era stato il testo di Mariano Luigi Patrizi, Un pittore criminale: il Caravaggio. Ricostruzione psicologica e la nova critica d’arte, pubblicato a Recanati nel 1921, seguito poi, in tempi più recenti da vere e proprie “psycobiographies” - come le chiama Varriano - che hanno descritto il Merisi come “phallo-narcisistic, self-destructive and sadomasochistic” (H. Roettgen, 1974) oppure “haunted by 'castraction anxiety” (L. Schneider, 1976), oppure ancora “fascinated with figures who are killed because they interfered in the sexual relationship of a powerful male authority” (C. Lewis, 1986).

Certo è che sugli esordi romani di Caravaggio, sui suoi atteggiamenti e sui temi violenti di tanti suoi dipinti molto è stato detto e scritto, soprattutto considerando quanto la normativa controriformista tridentina in materia di arte abbia influenzato, ed anzi determinato, comportamenti e scelte collettive e individuali.
Nel suo esauriente saggio, Vincenzo Pacelli ripercorre da par suo “aspetti e problemi della vicenda artistica” di Caravaggio, esponendo peraltro tesi nuove ed originali, che mettono in discussione elementi non secondari - umani e professionali - concernenti l’artista e che certamente faranno discutere.
Ma prima di addentrarci in questa disamina, occorre necessariamente dare conto, per quanto possibile in questa sede, anche di altri aspetti - oltre quello per così dire normativo - del contesto in cui si determinarono le scelte artistiche del Merisi, quanto meno per quel che riguarda la scelta e l’uso delle immagini.
6E’ noto, ad esempio, che nel saggio Degli errori dei pittori  di Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, che vide la luce appena un anno dopo la chiusura del Concilio di Trento, veniva raccomandato che Cristo e i martiri non fossero dipinti in pose ed espressioni idealizzate, ma “afflitti, sanguinanti, crocifissi, coperti di sputi, con la pelle strappata” ed altre piacevolezze del genere.
Inoltre appena qualche anno prima dell’arrivo di Caravaggio a Roma, era apparso - oltre all’evocativo Martyrologium Romanum (1586) di Cesare  Baronio - il Trattato degli strumenti di martirio (1591) di Antonio Gallonio, con le grandguignolesche illustrazioni di Giovanni Guerra, incise da Antonio Tempesta, di cui riportiamo solo un paio di esempi (figg. 5 e 6) a dimostrazione che ben poco spazio lasciavano alla fantasia di chi avesse dovuto confrontarsi con quella materia.
Anche Giovan Battista Lomazzo, nel suo notissimo Trattato dell’arte della pittura scoltura e architettura, pubblicato a Milano nel 1584, esortava gli artisti ad “osservare i gesti dei condannati … per annotare l’inarcarsi delle sopracciglia e i movimenti degli occhi”. Ed infine nel suo Tractatio de poesia et pictura (1595) il gesuita Antonio Possevino, inflessibile alfiere della lotta antiprotestante, consigliava addirittura che i pittori provassero l’orrore su se stessi, se fosse servito a meglio commuovere lo spettatore.

7(2)Non va dimenticato che le torture e le punizioni corporali assumevano caratteristiche tanto sinistre quanto spettacolari che, proprio per il loro valore di exemplum, venivano date in pasto al pubblico, attirando masse enormi di persone soprattutto dei ceti più bassi. Non certo casualmente, perciò, tanto nel mondo cattolico quanto in quello protestante, le esecuzioni venivano iscritte entro un rigidissimo cerimoniale religioso. Nel suo Viaggio in Italia (1580-1581) Montaigne ne ha lasciato una puntuale testimonianza attraverso la descrizione di un avvenimento del genere che aveva visto coi suoi occhi, con un condannato a morte che prima di salire sul patibolo era forzato a baciare in continuazione un’immagine del Signore, fino al momento dell’impiccagione, alla quale faceva seguito il macabro rituale dello squartamento del corpo.
Era anche necessario, per la piena riuscita dell’esecuzione-spettacolo, che il criminale desse segno visibile del suo pentimento; un’idea piuttosto precisa di un simile rituale ci viene da un disegno ora al Windsor Castle attribuito ad Annibale Carracci, con ogni probabilità preso dal vero nel corso di una doppia impiccagione (fig.7) avvenuta a Roma sul finire del Cinquecento.
Va precisato, che questo dell’impiccagione era lo strumento di morte più comune riservato a ladri ed assassini; il rogo invece era meno usuale, riservato a sodomiti ed eretici; infine la decapitazione era lo strumento di morte privilegiato, se si può dire, riservato com’era ai condannati appartenenti alle alte sfere e alle donne.
8(1)E’ stato calcolato che nel periodo di tempo in cui Caravaggio visse nella città pontificia (1596 ? – 1606) si siano avute 621 esecuzioni capitali, la più parte delle quali nei primi anni del pontificato di Clemente VIII  Aldobrandini (1592 – 1605), quando la vox populi diceva “si vedono più teste al Ponte [il rione delle esecuzioni, nda] che meloni al mercato”.
E’ assolutamente impensabile che Caravaggio non abbia assistito ad eventi del genere, alcuni addirittura ‘storici’, come nel caso del rogo a Campo de’ Fiori di Giordano Bruno e, appena un anno prima, nel 1599, della decapitazione di Beatrice Cenci presso Ponte Sant’Angelo.
Proprio a questo  riguardo, un eminente studioso come Edward Safarik, in uno scritto di una quarantina di anni fa, ebbe l’intuizione di associare l’esecuzione della giovanissima quanto sfortunata nobile romana al capolavoro ora a Palazzo Barberini raffigurante la Giuditta che decapita Oloferne, dove un “uomo scannato” (fig. 8) viene raffigurato, come scrivono nel loro libro Pacelli e Forgione, “senza cesure o mediazioni ideologiche, ma con infinita dignità”  com’era costume del Merisi, anche quando la tragedia della vita reale assumeva “l’aspetto di un paralitico … del cadavere gonfio di una prostituta annegata nel Tevere …(fig. 9)”.

9Come chiariscono i due studiosi, la sfida del loro libro consiste proprio nel “far interagire con la storia dell’arte un’altra branca del sapere, la medicina”, affinché sia possibile rintracciare “tutti i casi possibili di patologia, fenomenologia della morte, conoscenza di anatomia umana o di fisiologia animale constatabili nei dipinti del Merisi”, nella consapevolezza che alla storia dell’arte “spettino poi le riflessioni conclusive”.
E proprio in quanto tipico del lavoro dello storico dell’arte, conoscendo peraltro la totale idiosincrasia di Pacelli verso l’ ipotesi che Caravaggio replicasse i suoi dipinti - molto vicino in questo alle idee di Roberto Longhi - i criteri scelti per la catalogazione sono stati “particolarmente restrittivi”, privilegiando l’analisi di opere documentate o comunque “unanimemente attribuite” all’artista, isolando in un’apposita sezione del volume il problema “filologicamente assai spinoso dei doppi caravaggeschi”.
Nondimeno, e forse proprio per sgombrare il terreno dalle ipotesi ‘possibiliste’, lo studioso napoletano  propone un punto di vista personale in relazione al tema dei ‘doppi’.
10Faranno discutere a questo riguardo (ed in parte già lo fa proprio Francesca Cappelletti nel suo citato contributo al volume) alcune personali tesi che Pacelli espone. Come nel caso del declassamento o meglio del ritorno a copia della Cattura di Cristo di Dublino, un dipinto rinvenuto pochi anni fa in Irlanda (ed oggi fiore all’occhiello di quella Galleria Nazionale) dallo studioso Sergio Benedetti, con un’attribuzione non a Caravaggio ma a Gerrit van Hontorst (fig. 10) che Pacelli ora ripropone.
Mentre invece promuove ad originale la Cattura di Cristo, attualmente  in collezione privata a Roma, (fig. 11) che a suo tempo Roberto Longhi aveva considerato copia ma che oggi, in forza soprattutto dell’intuito e della competenza dell’antiquario romano Mario Bigetti, sostenuto da un restauro eccellente che ne ha ridelineato l’eccezionale qualità, è accettato come autografo del Merisi da quasi tutti gli esperti.
Ci sono poi altre novità che lo studioso napoletano propone, a partire dall’idea che Caravaggio abbia fatto tre tappe a Napoli, e non due come comunemente si crede, idea che si basa su informazioni che, dice Pacelli, “valgono quanto i documenti”.

11(1)”Nel settembre del 1607 - chiarisce infatti  lo studioso - da una lettera del pittore Franz Pourbus veniamo informati che sono in vendita a Napoli due opere di Caravaggio: una Madonna del Rosario e una Giuditta con la testa di Oloferne: dunque, “il pittore non aveva nessuna ragione di rimanere a Malta dal luglio 1607 al luglio 1608, aveva per contro più di un ragione per tornare a Napoli”.
Ma è alla fine del libro che Pacelli ribadisce le sue tesi più deflagranti, si può dire, circa la morte di Caravaggio, tema già affrontato alcuni anni fa in un volume di grande impatto intitolato “L’Ultimo Caravaggio. Il giallo della morte” dove si avanzava l’ipotesi dell’ “omicidio di Stato”  e ora brevemente riassunte contestando sia il luogo della marina toscana, Porto Ercole, dove il decesso, come pure comunemente si crede, sarebbe avvenuto, sia le cause (la sopraggiunta “febbre maligna” di cui parlano alcuni biografi).
Le sue tesi a questo riguardo sono - ancorchè discutibili - tutt’altro che cervellotiche; innanzitutto, circa il luogo del decesso, Pacelli rimarca “l’impossibilità di colmare a piedi e per lo più affebbrato, i 200 chilometri che separano il litorale romano dalla località toscana”.
In secondo luogo, sulla base di quanto compare su un manoscritto dell’epoca, peraltro già reso noto qualche anno fa, e relativo ad un compenso parzialmente già versato al Caravaggio da un ordine religioso per un dipinto  (“Il famoso pittore Michel’Angelo Caravaggio - recita il foglio - hebbe vicino a cento scudi per farci la pittura che aveva promesso…”) si deve credere ad una morte violenta del pittore ( “…ma perché fu ammazzato - continua il manoscritto - si perdè la pittura con i denari”) e non ad una morte ‘naturale’ .
Su questa ipotesi Pacelli lavora da almeno tre lustri, pur riconoscendo che “al pari della morte toscana dell’artista per febbre malarica, non si fonda su alcuna certezza documentaria “ .
Tanto meno ha un qualche valore documentario il “foglietto volante di Porto Ercole” come lo chiama Gerardo Maria Cantore nel suo bel saggio, che riporterebbe il “presunto atto di morte del Merisi”, “fortunosamente ‘ritrovato’ dal parroco della chiesa di Sant’Erasmo a Porto Ercole”, ma del quale “sono state già autorevolmente stigmatizzate le notevoli incongruenze che ne fanno verosimilmente un falso moderno”.
Insomma, alla fine occorre riconoscere, come giustamente scrivono Castaldo e Silvestri nel loro contributo che smentisce l’ultima ’scoperta’in ordine di tempo, cioè l’inverosimile ritrovamento delle ossa di Caravaggio, che “gli ultimi giorni di vita di Caravaggio, le cause della sua morte, il destino delle sue spoglie restano ancor oggi questioni mai del tutto chiarite”.

Pietro di Loreto, 26/04/2013