copie caravaggioIl volume che da pochi giorni è in libreria per i tipi di una giovane quanto meritevole casa editrice, la etGraphiae di Foligno ("Caravaggio tra originali e copie. Collezionismo e mercato dell'arte a Roma nel primo Seicento"), non è l'ennesimo pretenzioso libro sulla figura o sull'opera di Michelangelo Merisi, come tanti ce ne sono stati e certo ancora ce ne saranno, capaci ormai di generare perfino fastidio se non proprio “malumore” perché divenuti 'eccessivi', come nota Claudio Strinati nella sua breve ma attenta Prefazione. In realtà il libro è un utile repertorio, giovevole non solo a studiosi e addetti ai lavori, e le lodi che l’esimio studioso dedica al libro e all’autrice Barbara Savina non paiono di circostanza.

 
Il volume, in effetti, non presenta alcuna eccezionale scoperta di opere o documenti inediti, né clamorose novità di altro tipo. Esso si propone un obiettivo all’apparenza semplice (tanto da chiedersi come mai nessuno tra i tanti esegeti del Merisi l’abbia fin qui affrontato) e nello stesso tempo ambizioso: chiarire la differenza che, nella produzione dell’artista, intercorre tra un’opera originale e un’altra di derivazione, che sia di sua o di altra mano, che possa essere giudicata replica o semplice copia, che nasca - per motivi di studio o commerciali- dalla sua cerchia o piuttosto da un mero imitatore che sull’originale si sia esercitato. Sono molte e complicate, come si vede, le variabili sul campo e le questioni da dirimere.

Si può del resto dire che, da quando è nata la storia dell’arte come disciplina a se stante, il riconoscimento di un’opera con la relativa attribuzione ad un artista piuttosto che a un altro è una questione - in assenza di dati certi - che quando non resta completamente irrisolta genera fisiologicamente scontri diatribe e polemiche: non esistono infatti criteri validi erga omnes per definire in modo dirimente una questione attributiva, non ci sono corsi di studi in proposito, né materie ad essa inerenti.

In certi casi si ritengono determinanti le fonti, ed è considerato prioritario il ‘documento’, che però deve trovare riscontro anche in una certa tipicità di ‘stile’, e in questo senso ci si avvale dell’ ‘occhio’ dello studioso e dell’esperto, che consente di riconoscere i tratti peculiari di un autore, ma non tutti ne sono dotati. Si conoscono casi di grandi studiosi bravissimi a reperire le fonti negli archivi o a interpretare i documenti, ma poco capaci di ‘guardare’ un dipinto; altre volte, e più spesso, dato che il lavoro di archivio è sicuramente faticoso, ci si affida quasi esclusivamente alla presunta qualità dell’opera; sono numerosi coloro che inclinano a credere che i documenti siano un optional e si fidano forse eccessivamente delle proprie a volte millantate competenze visive.

fig 2(3)Il tema, insomma, è già di per sé scabroso, se poi riguarda in particolare la figura e l’opera di un artista sommo come Caravaggio, se ne può facilmente capire tutta la delicatezza. Eppure Barbara Savina mostra di approcciarlo con sicurezza, in forza di un impegno protrattosi per anni, da quando cioè aveva affrontato la questione discutendo la tesi di dottorato presso l’Università la Sapienza di Roma.

Spetterà naturalmente ai lettori giudicare se l’obiettivo che il volume si prefigge sia stato centrato e in quale misura. A noi preme dire che l’autrice ha affrontato il tema con umiltà e coraggio, ponendoci davanti agli occhi una realtà che si conosceva, ma che appare davvero sorprendente a vederla nella pur non completa riproposizione; una realtà sulla quale finora non era stata fatta luce se non saltuariamente e non certo nella maniera metodica con cui l’autrice ha lavorato, riordinando una incredibile messe di materiale letterario e figurativo assai disomogeneo, composto di saggi, monografie, schede di esposizioni e cataloghi d’asta, incrociando i dati a disposizione con altri reperiti negli archivi, addirittura analizzando i dati stilistici e perfino - laddove possibile - la tecnica dei dipinti.

E’ chiaro che una mole di lavoro del genere non poteva riguardare l’intero corpus caravaggesco, e dunque se c’è un limite in questo lavoro consiste nell’aver sottoposto ad analisi solo una parte di quanto attiene alla riproduzione delle opere del grande maestro, cioè “I soggetti più replicati del periodo romano”, come annuncia l’autrice nel Repertorio, magari quelle più strettamente connesse con le vicende del mercato antiquario, dove in effetti si sono succeduti nel corso del tempo revisioni e aggiornamenti, con aggiunte e sottrazioni attribuzionistiche, con proposte di nuovi dipinti, o ripensamenti su altri.

copie caravaggioUltimo in ordine di tempo sul versante ‘restrizionista’  è stato il caso della sorprendente derubricazione a favore di Bartolomeo Cavarozzi, in una recentissima asta londinese, del Sacrifico d’Isacco della Barbara Pianecka Collection (fig. 2), pure a suo tempo ritenuto da molti esperti la versione ‘in notturno’ originale del noto dipinto degli Uffizi; mentre sul versante opposto si è registrata la comparsa, in un volume di Emilio Negro e Nicosetta Roio dedicato alle influenze caravaggesche in Emilia (vedi su News-art https://news-art.it/news/l-ambigua-ombra-di-caravaggio-in-emilia.htm), di un san Giacomo minore (fig. 3) già studiato e periziato a suo tempo da Maurizio Marini, ma che pochi riscontri positivi pare aver ottenuto tra gli addetti ai lavori.

Il dilemma se l’artista lombardo abbia mai replicato i suoi lavori e come eventualmente riconoscerli, insomma, riemerge continuamente; dunque questo libro capita a proposito, ed infatti ne esce meglio definita - ancorchè non sciolta - la vexata quaestio inerente la prassi operativa del sommo milanese, imitata, copiata e riproposta, per così dire, già quando egli era in vita – nonostante se ne conoscesse il carattere non certo accomodante e si sapesse soprattutto quanto egli disprezzasse gli imitatori - e ovviamente ancor più dopo la sua tragica quanto ancora misteriosa morte, allorquando nacque un vero mercato relativo alla sua produzione, vera, presunta o addirittura falsa che fosse.

La studiosa pubblica ben 7 versioni del Ragazzo morso dal ramarro (noto in due esemplari ritenuti di mano del maestro, fig. 4) e addirittura 13 del Ragazzo che sbuccia un melangolo (ovvero il Mondafrutto, su cui torneremo), dipinti dal Merisi agli inizi del suo esordio romano, quando “era poco conosciuto e pressato dalle ristrettezze economiche”.
 
fig 4(3)
 

Si tratta dei primi esempi di una sorta di produzione seriale che, con la progressiva prorompente affermazione dell’artista, avrebbe interessato molti altri suoi lavori, tanto profani - come ad esempio i Bari, su cui pure torneremo, e del quale vengono catalogate 18 versioni - quanto religiosi, come la Cena in Emmaus (fig. 5) ora a Londra, con le sue 13 repliche pubblicate ed altrettante citate, per non dire della Incredulità di san Tommaso (fig. 6), forse l’opera più replicata con le sue 15 versioni pubblicate e addirittura 22 citate.

fig 5(2)Va detto che era praticamente scontato che questo accadesse, se si considera l’enorme impatto che ebbe la prorompente prassi del Merisi con le sue novità, capaci di richiamare così tanti artisti da ogni parte d’Italia e d’Europa. Per rendersene conto, basta scorrere i registri parrocchiali con gli stati delle anime che, a partire dal Giubileo del 1600, marcano una crescita esponenziale a Roma di maestranze di ogni tipo, soprattutto pittori, dalla Toscana dall’Emilia e dalla Lombardia, dalle Fiandre dalla Francia dalla Spagna ed anche dalla Germania, come dimostra la recente monumentale ricerca coordinata da Rossella Vodret (vedi Alla ricerca di Ghiongrat. Studi sui libri parrocchiali romani 1600-1630, Roma  2011).

Si trattava di generazioni di artisti che non avevano vissuto direttamente l’esplodere dei conflitti religiosi e che incrociavano nella città eterna i colleghi eredi delle grandi imprese sistine; su tutti costoro la novità del verbo caravaggesco ebbe effetti deflagranti, spaccando letteralmente in due il campo. Lo spiega con assoluta efficacia lo storiografo seicentesco Giovan Pietro Bellori, quando racconta che i vecchi pittori   “rimanevano sbigottiti per quello novello studio di natura, né cessavano di sgridare Caravaggio e la sua maniera…”;  viceversa, “i giovani presi dalla novità concorrevano a lui e celebravano lui solo come unico imitatore della natura”.

Per costoro, come scrive la Savina,  “le cappelle Contarelli in san Luigi dei Francesi e Cerasi in santa Maria del Popolo dovettero trasformarsi in luogo d’incontro … per completare la loro formazione attraverso la visione diretta ed il confronto con le tele del grande maestro”.
Ma certo oltre alle straordinarie “novità” da dover apprendere e studiare de visu, una forte attrattiva erano anche le ricche committenze di papi, cardinali, nobili e ricchi borghesi. Non parliamo, infatti, di come l’arte del Merisi impattasse - nel bene e nel male - in generale sui fruitori, sui collezionisti e sugli addetti ai lavori, oltre che sulla psicologia del pubblico.
 
fig 6(2)

Oggi possiamo solo immaginare quale trascinamento empatico si dovesse realizzare  nei fedeli trepidanti allorquando in Santa Maria in Vallicella, ad esempio, nella cappella Vittrice  - quando la pala di Caravaggio si trovava ancora in situ - l’officiante, pronunciando le parole della Preghiera eucaristica: “Hoc est enim corpus meum…” , che realizzano la transustanziazione, innalzava l’ostia consacrata e questa si allineava in perfetto asse con lo spigolo della biblica “pietra scartata, divenuta testa d’angolo” dipinto in uno scorcio così audace quanto geniale, e in primissimo piano, dal grande maestro nella sua straordinaria Deposizione (fig. 7).
Era una allusione sicuramente voluta alla “identità tra Cristo e la pietra angolare su cui viene identificato il tempio santo che è la Chiesa” (vedi A. Zuccari, Caravaggio controluce. Ideali e capolavori, Milano, 2011, p.101), in cui l’artista esprimeva a pieno quella “sensibilità espressiva richiesta da Filippo Neri”, per il quale, la pittura doveva essere di complemento rispetto alla predicazione, e dunque in un ruolo “secondario, ma non forzatamente subordinato”. Le immagini, infatti, secondo le idee del prelato fiorentino, erano destinate “ad infiammar l’affetto et la volontà” oltre che ad “illuminar l’intelletto”.

fig 7(3)Molti studiosi peraltro affermano - ed è cosa perfettamente credibile - che, nel dipingere il corpo esanime di Cristo, il genio lombardo si fosse ispirato a quello della Pietà (fig. 8) della Basilica vaticana, certamente uno dei capolavori dell’arte di tutti i tempi, realizzato da Michelangelo Buonarroti nel 1499.
E’ del tutto plausibile, infatti, quello che è stato da molti ipotizzato, vale a dire che Caravaggio, frequentando il palazzo del cardinale Del Monte, possa aver letto nella ricca biblioteca del porporato il passo con cui Giorgio Vasari, nelle sue Vite, commentava quel capolavoro con parole divenute famose “ … non pensi mai, scultore né artefice raro, potere aggiungere di disegno né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, politezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelagnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell'arte”.
Un vero e proprio sturm und drang, quello provato e descritto dallo storico aretino, capace di trasmettere ancor oggi l’ineffabile sensazione ricevuta da quel capolavoro; la stessa sensazione che dovette provare anche Michelangelo Merisi, che certo ebbe modo di ammirare più di una volta a Roma l’opera del suo grande omonimo: la stessa sensazione, c’è da credere, che con tutta probabilità dalla sua pala alla Chiesa Nuova pareva ora trasmettersi nell’animo degli astanti.

Se accettiamo le tesi espresse da tempo da Maurizio Calvesi, e fatte proprie e approfondite da una buona parte degli studiosi, secondo cui sarebbero i temi oratoriani l’origine ed anche la spiegazione delle iconografie caravaggesche, si deve credere anche “al ruolo avuto dai filippini nella decorazione della Chiesa Nuova” ed anzi ad “un loro diretto intervento nella realizzazione della tela caravaggesca” (Zuccari).

fig 8(2)Nondimeno, tutti conoscono le difficoltà e addirittura le censure cui il Merisi si imbatté in varie circostanze quando alcuni suoi dipinti vennero contestati e talora perfino rifiutati con l’accusa di non rispettare alla lettera le indicazioni imposte dalle regole dell’iconografia tridentina, basate sulla convenienza e sul decoro.
Non è certo questa la sede per riaprire un dibattito su cui si sono esercitati con differenti punti di vista studiosi di tutto il mondo (un sintetico riepilogo in Zuccari, cit., p. 98), vale però la pena di ripercorrere sia pure in breve il ‘caso’ dei capolavori componenti il ciclo di san Matteo, nella cappella Contarelli in san Luigi dei Francesi: non certo per ripetere le cose stranote del rifiuto del primo san Matteo e l’Angelo (fig. 9), dell’aggiunta del san Pietro nella Chiamata, o, ancora, dei cambiamenti (apparsi ai raggi infrarossi, fig. 10) operati nel Martirio; ma perché la vicenda presenta a guardar bene dei lati su cui non si è fatta ancora piena luce e quindi, nonostante l’opera sia stata studiata ed analizzata sotto tutti i punti di vista dai migliori esegeti di Caravaggio, forse non è inutile qualche ulteriore osservazione, che si presta anche ai fini del nostro discorso.

Molto è stato detto riguardo alle implicazioni teologiche affrontate nella cappella; come ha scritto Bert Treffers fu sufficiente una parola per convertire all’istante Matteo: “Uno Verbo convertit”,  tramandano le fonti sacre, per cui il publicano “non ebbe alcun dubbio quando sentì le parole ‘Sequere me’ …  certo Matteo sarebbe rimasto tale se non fosse stato chiamato dalla grazia di Cristo … (egli) risponde e viene chiamato all’apostolato ...” (vedi Storia dell’Arte, 1989, p. 248).

fig 9(2)Il tema, com’è agevole capire, è quello della Grazia che promana direttamente da Dio e riscatta dal peccato; ma l’atteggiamento bensì inerte di Matteo, che stupisce - non si interroga, come pure qualcuno ha creduto di leggere nel suo gesto - per essere stato prescelto, richiama in effetti troppo da vicino alcune parole di Lutero: "Tutto, nell'evento salvifico, è affidato all'iniziativa di Dio in Cristo soltanto (…) Dio fornisce tutto il necessario per la salvezza e l'essere umano compie solo l'atto passivo di riceverla”.
Sembra proprio quello che stia avvenendo nella scena dipinta dal Merisi (cioè quel contatto diretto tra l’uomo e Dio, che è quanto di più distante dai dettami tridentini), se accettiamo - come pare a molti - che sia colui che compie il gesto l’usuraio da redimere.
Ma a questo aspetto poi si congiunge strettamente l’altro, quello della sequela, collegato alla Fede, e dunque a san Paolo il difensor fidei, l’apostolo che rivestì un ruolo determinante per Lutero quando, probabilmente intorno al 1515, nella torre del convento in cui era solito recarsi a studiare, il monaco agostiniano fece la famosa ‘scoperta’ dell’altrettanto famosa  Lettera ai Romani, traendone una rivelazione sconvolgente : “Ora mi sentivo come fossi subito rinato … da quel momento il volto della Scrittura mi divenne chiaro” .

Cosa ebbe a leggere, dunque, Lutero? Precisamente che il Vangelo “è una forza di Dio per la salvezza di chiunque crede; in esso si rivela la giustizia di Dio per mezzo della fede e continuando nella fede, secondo quanto è scritto:’ Il giusto vivrà per mezzo della Fede’ ” (Lettera di san Paolo ai Romani, I, 16-18). Era la base su cui pochi anni dopo il monaco della bassa Sassonia avrebbe elaborato la sua Teologia della Croce, fondamento della dottrina protestante e in qualche modo anche dell’insorgere delle altre confessioni condannate come eretiche dalla Chiesa di Roma.
È allora lecito credere che fu a questo punto che i committenti maturarono delle forti remore; non era assolutamente possibile che apparisse in qualche modo pur  solo il sospetto di un richiamo a Lutero, il “figlio del Demonio”, nato, come spesso si diceva, “dall’amplesso tra una donna e un diavolo ‘incubo’ “. E dunque, come scrive Treffers, “i committenti e i loro consulenti vigilarono affinchè fosse tradotto il più esattamente possibile in immagini quello che veniva da loro considerata l’essenza del tema prescelto. In tal modo, lo spazio per una interpretazione personale da parte del pittore veniva fortemente ridotto”.

fig 10(1)Così, dopo essere stato costretto a rifare ex novo il san Matteo e l’Angelo, Caravaggio venne in qualche modo richiamato all’ordine e probabilmente convinto da loro ad aggiungere la figura di Pietro nella Chiamata della Contarelli per non compromettere anche in questo caso la ortodossia del racconto raffigurato.
Scrive Zuccari che l’opera, in buona sostanza, “risente di un circostanziato impegno nella lotta all’eresia” che, su un  fronte squisitamente teologico “è condotta dagli ambienti ecclesiastici più illuminati con sottili armi culturali, compresa la pittura”. Il che, per tornare al tema affrontato dalla Savina, pare anche confortare la tesi, avanzata da alcuni studiosi, dell’esistenza in palazzo Madama (la residenza del cardinale Del Monte, al quale come si sa si deve l’intervento di Caravaggio in san Luigi dei Francesi) di “una ben organizzata bottega di Caravaggio … preposta alla realizzazione di copie”, considerato che proprio da originali del maestro già in collezione Del Monte sono pervenute numerose copie o ulteriori versioni di originali.
Sarebbe tutto giusto se alla vicenda non se ne collegasse un’altra poco nota con elementi ancora avvolti nel mistero, ma che vale la pena ripercorrere perché probabilmente la censura ecclesiastica vi ebbe un ruolo ancor più determinante.

Si sa che uno dei commentatori del vangelo di Matteo era stato il francescano Angelo dal Pas; è noto, infatti, come l’evangelista Matteo ricoprisse un ruolo fondamentale nella vita di san Francesco, che proprio dalla lettura del suo testo fu ispirato nel rispondere alla chiamata di Dio e dedicarsi all’apostolato (la sequela e la missio apostolorum).
Ma chi era Angelo dal Pas? Il frate, nativo della Catalogna, detto appunto ‘lo spagnolo’, apparteneva ai minori francescani (recolletti, in Spagna) e fu ai suoi tempi uno straordinario predicatore, paragonato al più noto Francesco Panigarola dalle fonti dell’epoca. Era stato tra i più influenti francescani a Roma negli ultimi anni del Cinquecento ed era morto in odore di santità : durante l’escussione dei testi nel corso del processo di canonizzazione, fu riferito infatti che aveva operato numerosi miracoli, tra cui “l’aver guarito toccandolo e benedicendolo col segno della Santissima Croce” un arto “stroppiato” del giovane Federico Cesi, il futuro fondatore dell’Accademia dei Lincei, che invece perfino Filippo Neri non era riuscito a risanare.
Dal Pas morì nel convento di san Pietro in Montorio nell’agosto del 1596, e nonostante il suo corpo rimanesse esposto alla calura per alcuni giorni onde consentire l’omaggio della folla, pare che “i suoi arti si conservassero così morbidi e maneggevoli come se ancora vivesse”; il cadavere però non uscì del tutto indenne dall’assalto dei fedeli che, a caccia di reliquie, riuscirono a strappargli le unghie e brandelli di carne, oltre alla veste funebre.

Va detto per inciso che questo costume di raccogliere resti di ogni tipo che evocassero eventi miracolosi, strettamente collegato al culto dei santi, non riguardava solo le plebi cittadine; molte famiglie aristocratiche ne facevano vanto (ed anche commercio), e si sa che lo stesso Filippo Neri considerava le reliquie “incomparabili ricchezze”, tanto che dopo la sua morte nelle sue stanze ne vennero catalogate più di un centinaio.
In ogni caso, era stato Sisto V a suo tempo ad affidare proprio al Dal Pas l’incarico di commentare il vangelo di san Matteo (l’evangelista per il quale il pontefice pare avesse una speciale predilezione) ed allo stesso modo egli aveva commentato anche i vangeli di Giovanni, Marco e Luca. Ma mentre di questi si conosce il testo, l’altro non è mai pervenuto e risulta misteriosamente scomparso, e siccome è improbabile –come ritiene invece Treffers - che solo questo possa essere andato perduto, si può credere che sia stato bloccato a causa del suo contenuto, così come bloccato fu l’iter della canonizzazione del frate catalano, per quanto fosse spinto dalla famiglia Cesi, non certo tra le casate meno potenti all’interno della città e della Curia, e per le quali la promozione e il successo di una beatificazione comportava certamente un accrescimento del proprio prestigio, o viceversa.

La vicenda - efficacemente ricostruita da Miguel Gotor (vedi I Beati del Papa, Firenze 2003), da cui abbiamo preso le citazioni che seguono, e che inserisce il frate spagnolo nel capitolo del suo libro dedicato ai cosiddetti “Beati perdenti” - va infatti collocata nel contesto dello scontro interno all’ordine francescano tra minori e osservanti, quando non ci si faceva scrupolo di lanciarsi perfino accuse di scarsa ortodossia. Il Dal Pas più di una volta in effetti si era espresso contro “la vida relassata” degli osservanti, accusandoli di “essere proprietari la più parte” nonché, in una lettera al segretario della Congregazione dei Regolari, di utilizzare le confessioni allo scopo di incamerare beni e denari; non proprio l’esempio di povertà umiltà e dedizione predicati e praticati a suo tempo dal fraticello di Assisi.
Alla sua morte gli osservanti - che tra l’altro avevano mal tollerato la scissione dell’ordine - colsero l’occasione per vendicarsi, dapprima schernendo i suoi poteri taumaturgici, poi cercando di far seppellire nell’anonimato il suo corpo, infine col tentativo di  “diminuirli la devozione”.
Un lavorio che mise in sospetto la Congregazione dei Beati davanti alla quale si discuteva la causa di canonizzazione del frate catalano, che infatti, a partire dal 1602, fu rallentata, fino ad essere cancellata del tutto, soprattutto perché si ritenne che “l’uso sregolato dei poteri profetici” da parte del Dal Pas - altro e forse principale motivo di accusa nei suoi confronti - avesse assunto la valenza di una critica politica, e in particolare di una critica politica nei confronti della Spagna.

In effetti, il frate aveva profetizzato nel 1588 la disfatta della Invincible Armada, prevedendo “grandissimi travagli et guerre” nelle terre dei cristiani, nonché “grandissimi tradimenti”, con la conseguente rovina di un non meglio precisato “uomo tenuto per santo a Madrid”.
Non si sa se l’anodino riferimento alludesse - come è possibile - alla figura del Re Cattolicissimo; quello che è sicuro è che le gerarchie ecclesiastiche non potevano tollerare che si affermasse sia pure larvatamente una tendenza ad un profetismo contrario alla monarchia iberica, che sarebbe stato un ulteriore cattivo segnale nei confronti di Madrid, nel momento in cui a Roma era all’ordine del giorno la questione della riammissione nell’ambito della chiesa cattolica del nuovo sovrano francese Enrico di Navarra, fortemente contrastata dagli iberici.

fig 11(1)Tutto ciò poi, in un contesto particolare per la storia d’Europa, in cui la Chiesa romana cercava ad ogni costo di mantenere la sua forza contrattuale, certo uscita ridimensionata dopo la “pacificazione di Augusta” (1555) , ma ancora molto autorevole, come del resto le è stato riconosciuto tanto dalla storiografia protestante quanto dalla cattolica (vedi Leopold von Ranke e Ludwig von Pastor, nei rispettivi volumi sulla Storia dei Papi), e se è vero che comunque erano convinte di doverci fare i conti le maggiori personalità del tempo, come appare dalle raccomandazioni di Richelieu ai suoi ambasciatori :” Bisogna agire dappertutto, vicino e lontano, ma soprattutto a Roma!”

Tutta la vicenda, insomma, dimostra come fosse stretto il controllo delle gerarchie e in particolare come il buon utilizzo delle immagini - oltre che delle parole - fosse considerato prioritario.
Lo conferma ancora ciò che sarebbe accaduto di nuovo al Merisi di lì a poco per i dipinti per la cappella Cerasi, quando, come è noto, l’artista si vide rifiutare le prime versioni della Caduta di Saulo e del Martirio di san Pietro dal momento che, come scrive il Baglione,  “furono prima lavorati da lui in un’altra maniera  …. ma perché non piacquero al padrone se li prese il cardinale Sannesio”.
Anche in questo caso, dunque, “si vegliò scrupolosamente affinchè la rappresentazione dei temi affidati al Caravaggio fosse conforme al pensiero di fondo sul quale s’impostava l’intero programma decorativo” (Treffers), posto naturalmente che il “pensiero di fondo” s’inquadrasse dentro le regole dell’iconografia tridentina; in caso contrario alle opere toccava in sorte la damnatio memoriae.

Proprio questo peraltro ci aiuta a capire perché nella sua pur così scrupolosa ricerca Barbara Savina non abbia potuto catalogare alcuna copia dei due dipinti della Cappella Cerasi rifiutati dai committenti: non pare che esistano infatti ulteriori versioni né della Caduta di Saulo (oggi in collezione Odescalchi, fig. 11) né della Crocifissione di san Pietro, di cui ci è ignota perfino l’iconografia.

fig 12(1)Come scrive la studiosa,  “la diffusione di copie da dipinti di Caravaggio appare legata alle richieste dei collezionisti ed è spia di un gusto ben preciso”, al quale  evidentemente le opere del Merisi “lavorate da lui in un’altra maniera”, come notava Baglione, non andavano a genio.
Questo non esclude che, nell’ambito di un ritualismo più o meno codificato, Caravaggio non mancasse di reiterare le sue idee e il suo linguaggio figurativo che, mentre favoriva un pieno rinnovamento della cultura, tuttavia con le sue forzature stilistiche e iconografiche finiva inevitabilmente sullo sdrucciolevole terreno dell’ortodossia, non mancando però di fare comunque sempre più breccia nel pubblico.
Se consideriamo poi che ciò accadeva in contemporanea con le ricerche altrettanto rivoluzionarie e perfino trasgressive di personalità quali Della Porta, Galileo, Campanella e Giordano Bruno, si può comprendere come si sia potuto credere, da parte di alcuni studiosi, al formarsi di una tendenza culturale, magari in nuce, di “resistenza all’indirizzo della Controriforma”, alla quale per l’appunto anche il Merisi non sarebbe stato estraneo.
Forzata o meno che possa oggi apparire questa convinzione, comunque del contesto tracciato bisogna tener conto per meglio inquadrare il discorso che c’interessa, cioè quale tipo di ricezione critica potesse scaturire tra l’opinione pubblica (se così si può dire) davanti a certe novità che non potevano essere considerate solo come meri oggetti sacri o esclusivamente pale d’altare, come in questo caso.

È un aspetto, questo, poco trattato nella pur straripante messe di studi dedicati al gran pittore lombardo.  Eppure il fatto che a Roma il pubblico fosse piuttosto formato e scaltro, abituato alle novità e non ai semplici ‘ripassi’, non è un dato da trascurare. È infatti un approccio all’opera d’arte non certo omologato quello dello ‘spettatore’ capitolino, abituato ad assistere, in anni cruciali per la storia della pittura, in cui il linguaggio artistico conosce uno tra i più straordinari cambiamenti, tra i pontificati Aldobrandini e Barberini, alla nascita e allo sviluppo di scuole, tendenze e teorie che determineranno i percorsi dell’intera cultura figurativa occidentale; è un pubblico smaliziato ed attento, soprattutto interessato alle invenzioni, anche nel campo della pittura devozionale, che poi è quello predominante in un periodo dove, come si è detto, la lotta alle eresie - anche e soprattutto sul terreno della propaganda religiosa e dunque dell’uso e del significato delle immagini - rimaneva pur sempre all’ordine del giorno.

Tutte le fonti concordano nel delineare come particolarmente duro e irto di difficoltà l’arco di tempo che si prolunga dalla metà del cinquecento fino ai primi decenni del seicento. Non è questa la sede per riprendere la questione e tuttavia non va dimenticato che in tutti quegli anni la Francia e i Paesi Bassi furono sconvolti dalle guerre di religione seguite all’insorgere del protestantesimo, che queste attanagliarono anche i territori tedeschi devastati dalla Guerra dei Trent’anni e dove rivolte popolari e carestie furono all’ordine del giorno, come pure sempre incombenti rimasero epidemie e pestilenze.
La peste del 1592, ad esempio, ridusse quasi di un terzo la popolazione di Roma che, da una statistica del 1590, risultava costituita da “116698 bocche” . Il tragico evento, peraltro, pare fosse stato accompagnato da un oscuro presagio, vale a dire la morte in giovanissima età, a soli 13 anni, della nobile Elena Massimo, figlia del principe Fabrizio e della seconda moglie Violante Santacroce.
Devotissimi agli oratoriani di Filippo Neri (il quale aveva miracolosamente richiamato brevemente in vita il giovane Paolo, figlio di primo letto del principe) i Massimo avevano di nuovo affidato loro la sorte della giovanissima inferma; ma al momento del trapasso e della somministrazione dell’estrema unzione, officio cui era stato chiamato Cesare Baronio, la fanciulla ebbe come un soprassalto esclamando “Quanto sangue ! … se ne vedeva inondata!”, come riporta un altro noto filippino, Antonio Gallonio, che ne trascrisse la commovente storia (vedi Historia della divotissima et spiritualissima vergine di Giesù Christo Elena nobilissima romana, in A. Cistellini, Brescia 1989, p. 878n).
Non è difficile credere che questa serie di eventi segnassero in vario modo la psicologia collettiva e che su tali basi anche nel mondo della la cultura si delineasse un dominante spirito pessimista, che si alimentava - in campo figurativo - con immagini, come Vanitas e Memento mori, che prefiguravano quale fosse il vero destino dell’uomo, e che la chiesa non faceva che alimentare in quanto funzionali al suo messaggio di ribadimento dei valori del pentimento e della sottomissione alla gerarchia.

fig 13(1)Si racconta che Filippo Neri, il quale com’è noto aveva incitato il cardinale Baronio a “raccontare l’historia ecclesiastica” (redatta nei noti Annales Ecclesiastici), sentì il bisogno di intervenire presso il confratello per esortarlo a scrivere omettendo “quelle cose spaventose di morte, di inferno et giudizio” cui il cardinale pare ricorresse troppo di frequente.
Del resto nelle travagliate vicende che la chiesa di Roma attraversò, tra Riforma e Controriforma, un ruolo molto importante fu assunto dalla congregazione dell’Oratorio e dal suo fondatore; nella sua predicazione è ricorrente infatti il richiamo alla probità e alla purezza della chiesa delle origini, contro la decadenza e la malvagità dei tempi.
“Nulla trovo in questo mondo che mi piaccia , e mi piace che nulla mi piaccia”, soleva dire il prete fiorentino quando deprecava l’attrazione dell’uomo verso le cose materiali (“vanità, vanità, ogni cosa è vanità…” recitavano i suoi adepti negli itinerari penitenziali) esprimendo così anch’egli a suo modo la convinzione, affermatasi invero fin dagli inizi dell’età moderna, che l’uomo fosse un essere fragile, atto ad essere travolto dal peccato, ma che comunque avrebbe potuto redimersi e salvarsi, dentro le regole dell’obbedienza e del rispetto delle gerarchie, grazie ad un impegno riversato nel secolo, sposando "Madonna Povertà", come fece San Francesco, per acquisire la vera sapienza, la "sapientia cordis" che si realizza al servizio della chiesa.
Una prospettiva sicuramente integrale ma certo meno opprimente di quanto invece andavano teorizzando altri esponenti ecclesiastici, per i quali tutta la vita, fin dal concepimento, sarebbe stata per l’uomo un inevitabile calvario, anzi una vera e propria “educazione al patibolo”, come era solito ribadire senza perifrasi il gesuita Roberto Bellarmino: ”Vix homo conceptus in utero es, et jam ad mortem condannatus est. Cum vero ex utero egreditur, ex carcere egreditur, non ut sit liber, sed ut patibolum educatur”.

In una condizione del genere, tanto più in costanza delle eresie, la sola àncora era la chiesa, la chiesa cattolica, e dunque la sola possibilità per l’essere umano consisteva nel riconoscere il suo come l’unico magistero dispensatore di verità e salvezza (che, in ogni caso, Bellarmino più di una volta indica riservata “a paucissimi”), garante della vera fede mediata dalla legittima autorità gerarchica storicamente costituita e rappresentata dal papa: solo su ciò poteva contare il credente, la cui sicurezza non poteva che basarsi sulle certezze rappresentate da un’autorità a lui esterna.
Si andava affermando insomma la convinzione di Bellarmino dell’infallibilità papale, espressione di una concezione gerarchica del potere ecclesiastico che avrebbe progressivamente preso il sopravvento nella curia: ”Sebbene il papa si elegge dai cardinali - sosteneva il porporato gesuita - nondimeno non ha la potestà dai cardinali ma da Dio, il quale disse a san Pietro ed in lui ai suoi successori Pasce oves meas”.

fig 14(1)Era come un continuo richiamo al credente: su questo terreno la chiesa non ammetteva dubbi o critiche, al contrario, rivendicava “obbedienza e sottomissione”. È necessario insomma avere la capacità di immergersi nel comune sentire del tempo per avere un’idea delle reazioni, delle sensazioni che si venivano a creare davanti alle immagini di certe rivoluzionarie pitture che rompevano schemi e tradizioni consolidate, occorre saper fare mente locale per percepirne fino in fondo gli effetti e, inevitabilmente, anche quelli inerenti lo sfruttamento su base commerciale.
Come scrive la Savina : ”A partire dal secondo decennio del seicento Roma si configura come luogo di confluenza di artisti specializzati nella copia, o che affiancavano questa attività a quella ufficiale” .

L’autrice ripercorre, sulla base delle più recenti scoperte archivistiche, i modi e i luoghi deputati al traffico di opere d’arte, riportando anche i nomi dei copisti e i prezzi delle loro opere. “Le botteghe erano cruciali luoghi d’incontro … i dipinti circolavano sul mercato insieme ad altra merce e addetti alla vendita erano per lo più rigattieri barbieri orefici”; sappiamo ad esempio  che  “nella zona della Scrofa … i quadri venivano esposti alle pareti alla vista dei clienti” ; e che nella sua bottega in via dei Condotti un tal barbiere Dotti intratteneva stretti legami di affari “con il caravaggista francese Trophime Bigot e con Antiveduto Gramatica”, il quale “operava in una vasta rete commerciale includente appunto la vendita di copie” prodotte in serie.
Molti studiosi ritengono che, per quanto riguarda soprattutto le opere del Merisi, questa attività fosse stata inaugurata proprio da uno dei suoi sodali più stretti, cioè Prospero Orsi, il suo “Turcimanno”. Scrive infatti la Savina che proprio “nella sua azienda-bottega si realizzavano molto probabilmente copie dal Merisi, oppure riproposizioni di sue invenzioni”.

Ma non sono solo i tre sopra citati gli artisti ancor oggi conosciuti - oltre ad altri passati nel dimenticatoio - coinvolti in una simile attività e che l’autrice passa in rassegna nel corposo capitolo “Copisti, conoscitori ed esperti attivi sul mercato romano. Produzione di copie nelle botteghe caravaggesche”.
Tra i più attivi viene registrato Bartolomeo Manfredi (sul quale è da poco uscita una monografia a firma di Gianni Papi, vedi News-art ….), al quale “era stata commissionata una copia dello Sdegno di Marte di Caravaggio” (l’originale è disperso): una vicenda che l’autrice giudica “emblematica della situazione del mercato romano dopo la partenza di Caravaggio”, dove “i grandi collezionisti continuavano a richiedere opere del Merisi ed alcuni artisti si erano specializzati nelle repliche dei quadri caravaggeschi”.

“Agostino Tassi - scrive la studiosa - ebbe un ruolo molto attivo sul mercato e all’interno della sua bottega fu elaborato un metodo di produzione delle copie da cui ricavare profitto (…) Regnier, che faceva da consulente agli acquirenti, comprava dipinti in proprio per poi rivenderli ed era disposto a fornire opere di qualsiasi pittore, perfino dei falsi”. Anche nella bottega del Cavalier d’Arpinio “in cui orbitarono (oltre a Caravaggio, ndA) anche Prospero Orsi e Andrea Sacchi … i giovani apprendisti erano spesso esecutori di copie che è oggi difficile distinguere. Lo stesso Cavaliere copiava i maestri del Rinascimento…”.
È altresì noto e documentato da tempo il ruolo determinante come copista che ebbe Angelo Caroselli, il quale, come scrive la studiosa “frequentava la Roma dei rigattieri ed era molto vicino al mondo mercantile di copisti e falsari  … fu attivo come pittore, copista, falsario, restauratore e consigliere in merito all’acquisto di opere d’arte”, tanto che “molte sue riuscite imitazioni trassero in inganno i contemporanei”. Come ebbe a capitare ad Orazio Borgianni dal quale “fu preso un suo quadro per lavoro del Caravaggio, dal che Angelo pigliò grand’animo”. A tutt’oggi, nota la studiosa, “le copie di Caroselli da Caravaggio non sono state identificate in modo certo”; a lui forse si deve tra l’altro anche il San Giovannino della Galleria Doria Pamphili (fig. 12).
fig 15(1)

Anche Giovanni Antonio Galli, detto lo Spadarino, era “specializzato nelle repliche”, al punto di essere  ritenuto - ma è un’ipotesi molto contestata - perfino autore di un quadro di Caravaggio, il famoso Narciso della Galleria di Palazzo Barberini (fig. 13). Come pure Bartolomeo Cavarozzi “era sicuramente esperto nell’esecuzione di copie” (oltre al Sacrificio d’Isacco ‘notturno’ di cui si è già detto, potrebbe essere di sua mano anche il san Giovannino ora a Toledo e ritenuto di Caravaggio, fig. 14).
È noto che Cavarozzi era intimo del marchese Crescenzi, presso la cui Accademia “era largamente maturato l’esercizio delle copie”, a dimostrazione di come fossero proprio le grandi famiglie, i grandi collezionisti, i più desiderosi di possedere originali caravaggeschi accontentandosi anche di copie in mancanza di questi
 
fig 16

Il tema è affrontato con chiarezza in un capitolo dedicfig 17ato proprio a “I copisti di Caravaggio al servizio dei collezionisti”.
Il marchese Vincenzo Giustiniani e suo fratello, il cardinale Benedetto, ad esempio, furono come è noto tra i più grandi e appassionati collezionisti di Caravaggio (di cui possedevano ben 15 quadri); è del tutto evidente che la loro logica collezionistic - ma il discorso non vale solo per questa casata - oltre ad un’autentica comprovata passione, intendesse anche sottolineare il raggiungimento di un certo status, fosse cioè un segno di distinzione, il ribadimento di un peso politico che nella capitale del cattolicesimo assumeva un significato più che simbolico.
Tra i numerosi artisti che furono ospiti del palazzo Giustiniani stette anche Francesco Parone, “assai abile  - scrive la Savina - nella produzione di repliche”; ma il marchese Vincenzo ebbe a commissionare varie copie di originali caravaggeschi anche a pittori come Regnier e Caroselli.

L’elenco della studiosa continua con i nomi del Caravaggino, alias Tommaso Dovini, caso unico di artista che poté avvalersi di tale prestigioso nomignolo, forse perché “si specializzò a tal punto nell’imitazione di Caravaggio da meritare il soprannome, unico a quell’epoca”; e poi con Antonio della Corna, Giuseppe Vermiglio, Baldassarre Aloisi e numerosi altri di minore caratura che l’autrice non tralascia di citare nella sua disamina.
Tra costoro una particolare attenzione viene riservata a Carlo Magnoni, “copista di Caravaggio al servizio della famiglia Barberini”, dagli archivi della quale, oggi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, risultano versamenti per 22 scudi al pittore per due copie di “due quadri del Caravaggio, uno con tre persone e l’altro che suona il liuto”; quest’ultimo soggetto, dipinto dal Merisi per il cardinale Del Monte, era passato poi ai Barberini ed oggi tutti lo identificano con quello in collezione privata a New York.

Anche l’altro dipinto, cioè I Bari, o meglio “Il Baro”, conobbe a suo tempo lo stesso iter, passando dal cardinale alla famiglia del papa, ma in questo caso la questione è assai più contorta. Ci informa infatti la Savina che “molto spesso gli indoratori esercitavano l’attività di copisti”, e tra costoro alcuni erano anche iscritti all’Accademia di san Luca, come Antonio Ursino, “padre del pittore Marzio Ganassini e specialista nel genere delle grottesche”, il quale “tenne una bottega in via del Corso per una decina di anni a partire dal 1610”.
Al nome di Ursino è collegata per l’appunto l’ingarbugliata vicenda che ha attirato l’attenzione degli studiosi fino ai giorni nostri, relativa a Il Baro, capolavoro di Caravaggio ora al Kimbell Art Museum (fig. 15), di cui esistono svariate quanto discusse versioni, alcune delle quali - come quella ex Mahon (fig. 16) - ultimamente ritenuta autentica. Ebbene, fu proprio Ursino che diede incarico al pisano Ercole Bazzicaluva di produrre un’altra copia dal quadro - anche questo copia da alcuni ritenuto autentico - in possesso del cardinale Giacomo Sannesio, una creatura di Clemente VIII Aldobrandini e grande appassionato d’arte.

fig 18 a, bNon è il caso di ripercorrere qui l’intero iter di una storia peraltro ricostruita più volte (da ultimo vedi P. L.Carofano, I bari a confronto, Pisa  2012) e che assunse a suo tempo i contorni di un autentico giallo con tanto di furto del quadro Sannesio e relativa lite giudiziaria. Interessa invece vedere come con essa “emerge uno spaccato della cultura e del mercato, in cui ritroviamo le figure caratteristiche che ruotavano intorno alle copie”; in effetti, come scrive l’autrice  “il traffico di opere ruotava intorno a collezionisti, esperti ed amanti di Caravaggio, e ad abili e spregiudicati mercanti-consulenti”.
La questione viene affrontata nella seconda parte del libro dedicata al “Ruolo delle copie nella definizione del corpus di Caravaggio”, dove vengono ripresi casi che hanno generato forti contrasti e polemiche tra gli studiosi, come quello della Flagellazione (fig. 17) su cui si scontrarono Roberto Longhi e sir Denis Mahon per stabilire se fosse originale il dipinto di Rouen, o non invece un esemplare in una collezione svizzera.

Ma per un problema risolto, su altri si registra ancora una forte incertezza con le inevitabili polemiche; come nel caso della Cattura di Cristo, su cui esiste una già vasta letteratura divisa nel riconoscere come originale la versione scovata da Sergio Benedetti, a seguito delle indagini di Francesca Cappelletti e Laura Testa, ora alla National Gallery di Dublino, ovvero quella di proprietà dell’antiquario romano Mario Bigetti che - per quanto purtroppo non ancora liberata da un’incredibile vicenda giudiziaria e quindi non fruibile - si conosce però del tutto rispondente ai canoni compositivi tipici del grande pittore lombardo (fig. 18a, b).
E’ la questione - che può valere anche per il Mondafrutto, nella doppia versione della Collezione Ishizuka di Tokyo, e di collezione privata romana, ed anche per la versione del Suonatore di Liuto ex Badmington - di come sia difficile far accettare a livello ‘istituzionale, per così dire, capolavori che reclamano l’autografia caravaggesca e per i quali perfino le indagini diagnostiche (cui l’autrice dedica un capitolo a parte, “Il ruolo delle indagini diagnostiche nello studio di Caravaggio tra originali e copie”) sono in grado di convincere tutti dell’autenticità ‘al di là di ogni legittimo dubbio’.

L’autrice ha preferito riportato i dati certi, senza pretese di esaustività ma senza disconoscere quelli passibili di nuovi riscontri, licenziando infine un lavoro sotto questo aspetto obiettivo, che ci si augura possa proseguire con il resto della produzione caravaggesca.
Pietro di Loreto, 05/08/201