L’evento è accompagnato da un volume,
Post-classici. La ripresa dell’antico nell’arte contemporanea italiana (Electa, 2013, 29 euro), che ambisce ad essere qualcosa di più del convenzionale catalogo della mostra. Il libro, in effetti, offre un ventaglio di saggi che prendono in esame il
rapporto tra classicità e contemporaneità in diversi contesti disciplinari. Al curatore,
Vincenzo Trione, è affidato il dominio dell’arte,
Marcello Barbanera affronta l’archeologia,
Alessandro Piperno considera la letteratura,
Maurizio Bettini attraversa la mitologia e
Gianni Canova si occupa del cinema.
Emanuele Trevi, da ultimo, delinea un itinerario ideale nei luoghi della Roma antica, tra passato e presente.
In questa sede, anziché esaminare le opere, si prenderà in considerazione brevemente il contributo di Trione (
A futura memoria, pp. 12-26) che, in un fiorire ipertrofico di citazioni più o meno esplicite, espone in termini (quasi) programmatici il senso della rassegna e il tipo di operazione culturale di cui la mostra è il prodotto. Con ciò si desidera offrire una bussola per orientarsi nel progetto espositivo patrocinato dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici, ma anche per ragionare, eventualmente, sull’
ossatura teorica del progetto stesso.

Del resto l’esposizione, che non è una semplice rassegna retrospettiva, si regge su una vera e propria
proposta critica. Il progetto, infatti, non si limita a chiedere ad alcuni artisti di confrontarsi con il classico, ma opera la sua peculiare selezione sulla base di una ipotizzata comune inclinazione concettuale delle personalità invitate. Merita pertanto attenzione e certamente anche discussione.
Chi sono, dunque, i post-classici e in cosa consiste il pensiero che li accomuna? Detto che la scrittura assai colta e molto “continentale” di Vincenzo Trione rende non sempre agevole districarsi nei percorsi della sua riflessione, alcuni punti salienti possono pur tuttavia essere elencati.
Anzitutto, il
post-classicismo non è una corrente compatta e autocosciente, bensì una
tendenza (un «
movimento implicito», p. 18) riscontrabile nel lavoro di alcuni artisti italiani attivi nell’ultimo mezzo secolo. Tale tendenza si concretizza in un certo modo di intendere la storia e di riprendere il classico. La
concezione della storia (anch’essa, beninteso, implicita) diffusa tra i post-classici è illustrata da Trione attraverso la metafora della spirale: la figura dà corpo all’idea che il passato di tanto in tanto si riaccosti al presente e non sia qualcosa di irrimediabilmente lontano. Ciò determina, nell’ottica del curatore, la ricorrente attualità dell’antico.
Il
termine “
classico”, in ogni caso, non designa alcun periodo particolare. Nel saggio si parla, in effetti, tanto dell’antichità greco-romana, quanto di Rinascimento e Barocco. Il concetto, d’altra parte, non si riferisce neppure ad uno stile o ad un canone specifico di opere. Dalle pagine dello studioso sembrerebbe comunque che sia il mondo greco-romano ad emergere come orizzonte di riferimento prevalente per i post-classici.
Resta però da capire come vada compresa esattamente la nozione di classicità. L’espressione che pare avvicinarsi maggiormente ad una definizione è la seguente: la classicità – sostiene il curatore (p. 16) - è da intendersi «come
arsenale di valori metafisici», una «
miniera di categorie assolute (bellezza, sapienza, perfezione, misura, simmetria, armonia), da reinterpretare in un’ottica fino in fondo moderna».
Qual è il rapporto degli artisti con questo ventaglio valoriale? La risposta non è delle più semplici. In linea di massima, si direbbe che i post-classici si accostino all’“arsenale” descritto nella più assoluta libertà. Prendiamo il caso della
bellezza, su cui Trione si sofferma, sia pure in modo piuttosto oracolare. «La bellezza antica non è mimeticamente replicata. Piuttosto, è dissolta. Si disintegra in mille pezzi, in una meravigliosa diaspora. Si fa asimmetrica e disarmonica. Spezzata, irrimediabilmente disintegrata. Viene negata. Subisce sfregi [...] (p. 18)». In proposito verrebbe da chiedere, se non altro, in quale maniera si conservi il carattere metafisico della bellezza come valore dopo aver subito un processo di dissoluzione e disintegrazione per giunta irrimediabile (per non parlare dello sfregio). Ma eviteremo qui di sottilizzare. Del resto, lo si è visto, i post-classici sono propensi a reinterpretare l’assiologia classica «in un’ottica fino in fondo moderna». Constatiamo, allora, che la relazione è molto flessibile, per così dire, e procediamo nell’esplorazione delle coordinate progettuali.
Sin qui si è parlato di alcune delle premesse ideali del post-classicismo.
Nel concreto, invece, come funziona il lavoro degli artisti? I post-classici – ci viene detto – prediligono la
pratica del prelievo, assoggettando gli elementi desunti dal passato ad un meccanismo di
straniamento deputato a rimodularne il senso (si noti: il termine straniamento è da intendersi nell’accezione definita dai formalisti russi e in particolare da Slovskij).

Questo esercizio, tuttavia, è notoriamente abbastanza diffuso nel contemporaneo: l’appropriazione rielaborata, infatti, non è estranea a certe correnti del
postmoderno, all’
anacronismo e ai
neo-neoclassicisti. A differenza soprattutto di questi ultimi, però, i post-classici sarebbero dotati del «
senso del tragico» (p. 17), una facoltà in grado di elevare le loro opere oltre la banalità di calchi e plagi e di trasfigurare qualsiasi lavoro di “seconda mano” – per dirla con Antoine Compagnon – in un sofisticato prodotto dell’ingegno. Cosa sia esattamente il suddetto senso del tragico, però, non è spiegato mai nel testo, dando adito giusto a qualche perplessità sull’effettiva capacità discriminante della nozione.
Ad ogni modo, per definire lo schema operativo dei post-classici viene chiamato in causa anche il
concetto di archeologia, naturalmente declinato nel senso messo a punto da
Michel Foucault. Pertanto, come l’archeologia del sapere delineata dal filosofo francese, il post-classicismo non ripete mai pedissequamente le forme dell’antico, ma le riscrive. Trione qualifica il “movimento implicito” da lui teorizzato attraverso le parole con le quali Foucault caratterizzava la disciplina che intendeva fondare: il post-classicismo, dunque, «non pretende di nascondersi nell’ambigua modestia di una lettura che lasci ritornare, nella sua purezza, la luce lontana, precaria, quasi spenta, dell’origine», ma insiste sulla continua rielaborazione dei frammenti prelevati dall’antico (la citazione di Foucault dall’
Archeologia del sapere è a p. 20 del saggio del curatore).
Insomma, i post-classici lavorano «come
archeologi inintenzionali». Nei confronti delle rovine, ad esempio, essi le «ammirano. Poi le recuperano (o le evocano). Infine, le immettono in altri circuiti. Le acquisiscono – e le risementizzano» (p. 21). Gli artisti racchiusi entro l’etichetta coniata da Trione si comportano, dunque, secondo lo studioso, in modo analogo a quello dei progettisti dell’
Arco di Costantino, desiderosi di appropriarsi del passato, di piegarlo ai propri fini (celebrativo – propagandistici) attraverso la modifica sensibile degli oggetti desunti dalla storia. Anzi, i post-classici sono persino «forse influenzati» dall’esempio del monumento costantiniano, nell’opporsi al «vuoto progressismo» largamente diffuso nel mondo dell’arte (p. 21).

L’atteggiamento intellettuale del post-classicismo, infatti, nasce dall’
insoddisfazione nei confronti di certe tendenze attuali. Il recupero archeologico-foucaultiano è motivato dalla volontà di «
opporsi a certo fragile post-duchampismo imperante», desiderio che spinge a reclamare «nuova serietà», ad invocare niente di meno che la necessità di «ripristinare regole», «a sentire l’arte come esperienza dotata di una grammatica precisa» (p. 13). Contro le «mitologie del presenteismo [sic]» si mobilita dunque la memoria dell’antico, per sottrarsi alla «dittatura del presente» e all’idolatria del nuovo. L’assetto post-classico, d’altra parte, è funzionale anche a disattivare, o perlomeno a narcotizzare, le insidie poste dai soliti «critici anti-moderni, che accusano l’arte di oggi di inconsistenza» (p. 15).
Ora, che il mondo dell’arte (e, spesso, anche quello della critica) abbia bisogno di regole, sembra a chi scrive un dato di fatto, con buona pace di coloro che salutano con favore l’assenza di principi normativi dovuta alla “
fine dell’arte”. Pare invece assai meno evidente che l’onda lunga post-duchampiana si possa arginare con il post-classicismo, o che la soluzione all’inconsistenza di certo presente risieda nel programma proposto nel contesto della mostra romana. Sfugge, del resto, in che modo l’antico, assunto come una «
geografia dell’incertezza e della precarietà», possa davvero costituire lo «
strumento per guarire dalle tante ubriacature della modernità» (p. 17).
Francesco Sorce, 5/8/2013