Non mi è ancora del tutto chiaro cosa vada considerato prioritario, anche perché
le didascalie dovrebbero essere un aiuto per lo spettatore e descrizioni troppo lunghe e dettagliate, o troppo tecniche, per addetti ai lavori, distraggono l'attenzione spostandola dall'opera alla sua interpretazione e non agevolano la fruizione del percorso espositivo. Mi sembra però importante che, alternate a notazioni estese e particolareggiate, presenti sui pannelli all'entrata o all'ingresso delle singole sale, in cui poter descrivere al visitatore le motivazioni generali che sottostanno alle scelte curatoriali, siano presenti
didascalie che entrino nello specifico dei lavori, dell'intenzione dell'artista e del suo percorso.
Alla
Biennale di Venezia in corso uno degli aspetti che ha messo (quasi) tutti d'accordo è il notevole salto di qualità nell'allestimento e di conseguenza nella leggibilità dei lavori; anche le informazioni, molto accurate, poste accanto alle opere sono sicuramente un prezioso aiuto nel percorso dei visitatori.
Mi ha lasciato veramente sorpreso che in una mostra, forse discutibile, ma indubitabilmente sensata, quale
The Desire for Freedom - proveniente dal Deutsches Historisches Museum di Berlino e curata da Monika Flacke, Henry Meyric Hughes e Ulrike Schmiegelt - fossero presenti schede informative paradigmatiche di ciò che non si dovrebbe fare e di (quasi) tutti gli errori in cui si può incorrere.
Le didascalie erano estrapolate dal testo in catalogo, ma, come vedremo, non sempre estrapolare un frammento di un discorso più ampio garantisce la salvaguardia della narrazione del discorso complessivo (in questo caso la mostra), o, nello specifico, fornisce utili chiavi di lettura dell'opera del singolo artista.
Faccia

mo qualche esempio. Damien Hirst, è presente con
Dead End Jobs in cui l'artista allinea in una vetrina una serie di mozziconi di sigaretta.
A parte l'uso della domanda retorica, troppo didascalico, in una spiegazione, va rilevato che frasi quali "La globalizzazione e la new economy hanno reso instabile il mercato del lavoro" risultano poco attinenti al lavoro dell'artista britannico.
Peraltro, anche il riferimento virgolettato all'ultima sigaretta (rimando implicito a La coscienza di Zeno?) non è privo di ambiguità. Di sicuro allo spettatore non viene fornita alcuna indicazione sull'artista e la sua poetica, e neanche sul lavoro che gli si sta presentando.


Leggendo la didascalia del lavoro di
Richard Hamilton si ha l'impressione che chi si è occupato di redigerla non avesse né visto la mostra né l'opera in oggetto; si descrivono, infatti, tre lavori (probabilmente presenti nella versione berlinese della mostra) e ne abbiamo davanti uno soltanto,
Lo Stato. Disarmante quindi che ci si soffermi soprattutto su quello in cui "un militante dell'IRA incarcerato è ritratto come un santo sullo sfondo della sua cella ricoperta di feci" che, per l'appunto, non è neanche esposto.
Nello spiegare il lavoro di
Calderara, invece, si ricorre a un unico supporto per segnalare due opere,
Senza titolo (case) del 1958 e
Spazio Luce, datato 1961. Peccato che la spiegazione sia la medesima, ripetuta identica per entrambe le opere.
L'ultimo esempio che vorrei segnalarvi (smetto solo per non tediarvi) è la descrizione dell'opera di
Niki de Saint Phalle, che oltre a risultare difficilmente comprensibile (la traduzione e la punteggiatura non aiutano) è anche scritta ignorando cosa sia l'accento.
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Ovviamente errori così grossolani non sono imputabili soltanto o prioritariamente ai curatori della mostra (che probabilmente non sanno l'italiano e sono arrivati solo per l'inaugurazione), ma principalmente alla struttura di Palazzo Reale a Milano e agli organizzatori di 24 ore cultura - Gruppo 24 ore.
Nonostante
The Desire for Freedom sia stata realizzata su iniziativa del Consiglio d’Europa, con il sostegno finanziario della Commissione Europea (programma «Cultura» 2007-2013) e sotto l'alto patronato del Presidente della Repubblica italiana, la mostra risultava sciatta e, in parte, poco comprensibile, perché ad organizzarla non sono stati un museo o figure professionalmente capaci.
Fare le pulci a una mostra contestando l'uso degli apparati informativi è ovviamente un pretesto, anche se certamente significativo, per constatare una volta ancora che il sistema espositivo italiano non si fonda su istituzioni in grado di lavorare scientificamente, ma solo su organizzatori bravi (forse) a procurarsi dei soldi, ma non altrettanti competenti sul piano museale e storico-critico.
Vorrei ricordare che pur essendo importante la qualità del prodotto culturale di una città (a maggior ragione di una città fondata anche sulla cultura) ancora si trascurano aspetti fondamentali del problema. Non ci sono soldi, lo so, ma molti giovani laureati avrebbero saputo fare di meglio. Mi piacerebbe che qualche politico italiano si rendesse conto che se non si costruiscono istituzioni culturali autonome, in grado di alzare il tasso qualitativo delle proposte espositive, forse è meglio smettere di destinare soldi alle mostre. Come cittadino mi sono stancato di spendere 13 euro (consegnati a una istituzione privata che pur è ospitata all'interno di strutture comunali) per essere preso in giro.
Roberto Pinto, 11/06/2013