La Galleria Nazionale d'Arte Moderna e i nuovi allestimenti

di
Giorgia TERRINONI

Avrei scritto prima circa la riapertura della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma ma ero in attesa di una risposta alla mia richiesta di un incontro con la direttrice Cristiana Collu. Mi sarebbe piaciuto rivolgerle alcune domande. La risposta non è arrivata, l’appuntamento nemmeno. Nel frattempo, io sono stata già due volte alla GNAM e, quindi, posso scriverne lo stesso.
 
C’è da precisare che, a quanto pare, non potremmo più chiamarla GNAM. Sarà più corretto chiamarla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea!
 
La Galleria ha riaperto al pubblico il 10 ottobre scorso – era stata chiusa nell’aprile precedente per consentire il riallestimento – con una grande mostra dal titolo denso di riferimenti Time is Out of Joint. Il titolo è una citazione dall’Amleto di William Shakespeare, già ripresa dallo scrittore di fantascienza Philip K. Dick e, allo stesso tempo, un rimando alle riflessioni dello storico dell’arte Hans Belting (La fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte, 1983).
La traduzione migliore è probabilmente quella meno letterale, ovvero tempo fuor di sesto. Un’espressione che fa riferimento all’elasticità del concetto di tempo, alla sua fluidità o non linearità. Un concetto ampiamente dibattuto, a cavallo tra il tardo Ottocento e il primo Novecento, per esempio, dalla storia dell’arte (Aby Warburg), dalla filosofia (Henry Bergson) e dalla fisica (Albert Einstein). Quindi, un concetto senz’altro affascinante, ma tutt’altro che nuovo!
 
Certo è che l’idea di un tempo scardinato – altra traduzione poco letterale – è applicata molto letteralmente in questo riallestimento. Si potrebbero fare moltissimi esempi. Prendiamo, però, il più scenografico, quello che chiunque sia recentemente passato per la nuova GNAM ha forse ancora in mente. L’acme del riallestimento vede dialogare, attraverso il tempo, i 32 mq di mare circa (1967) di Pino Pascali – poesia pura - il celebre gruppo di Ercole e Lica scolpito da Antonio Canova (1795-1815) e la monumentale Spoglia d’oro su spine d’acacia (2002) di Giuseppe Penone. Indubbiamente, l’accostamento – volutamente indifferente al tempo e ai generi – è di grande impatto, ha una qualità estetica notevole ed è apparentemente molto contemporaneo. Ma Penone, dietro Ercole e Lica, si può vedere solo in diagonale e la visione frontale nasconde la foglia d’oro. L’opera risulta travisata. In questo caso, la spettacolarità dell’allestimento surclassa il rigore scientifico.
 
Non è un mistero che gli storici dell’arte Jolanda Nigro Covre e Claudio Zambianchi, due membri del Comitato scientifico del museo, abbiano inviato le proprie dimissioni al ministro Dario Franceschini perché in totale disaccordo sui numerosi ‘accostamenti senza senso’ e sulle clamorose esclusioni di artisti importanti operati, a loro avviso, senza aver ascoltato il parere del comitato.
 
Inoltre, entrando nella sala, non ho potuto fare a meno di chiedermi perché in una siffatta operazione curatoriale, non abbia più trovato posto Passi, l'installazione site specific che la Galleria commissionò ad Alfredo Pirri nel 2011. Era un pavimento di specchi infranti che – valorizzando la Sala delle Colonne e accogliendo dei visitatori che restavano regolarmente a bocca aperta – restituiva un riflesso volutamente frammentario delle statue riemerse dai depositi. In fondo, l’opera di Pirri, tra l’altro intrisa di romanità, è stata la prima in Galleria a sfidare la linearità del tempo e la planarità dello spazio. In questo secondo caso, infatti, realizzava un antico desiderio, quello di mettere simbolicamente – e praticamente – in relazione le sale espositive e gli ingombri magazzini. Portando a visibilità una parte del mondo sotterraneo della GNAM! Se non sbaglio, è anche questo uno degli obiettivi condivisi dalla nuova direzione. Non stupisce che Pirri non abbia preso bene lo smantellamento di Passi, anche se un nuovo step del ciclo è ora in opera all’ex Centrale Daste Spalenga di Bergamo.
 
Attualmente, la Sala del Colonne, nonostante la furniture sia d’epoca e l’accesso alle corti esterne di nuovo praticabile, somiglia al foyer di un teatro di provincia dalle grandi pretese! A smitizzare la sacralità d’epoca è stato chiamato a intervenire il designer spagnolo Martí Guixé, che ha progettato la piccola caffetteria chiamata Trojan, l’assai misero bookshop e, si presume, anche gli armadietti dell’ingresso. Legni chiari e design dal tocco minimale che, in questo caso, sembra voler essere un semplicistico sinonimo di contemporaneo. Il tutto ha una parvenza etica, da materiale riciclato o riciclabile (indipendentemente dal fatto che lo sia o meno). Io, che amo molto il design e l’architettura, ho idea che siano altre le produzioni etiche e contemporanee. Ad esempio, lo studio sui materiali e sui colori che, ormai parecchio tempo fa, fece Alvar Aalto era molto etico e contemporaneo.
 
Altri due accostamenti mi hanno colpito molto e, lo ammetto, non positivamente. In una sala s’incontrano tre modi diversi di rappresentare i fiori di ninfea. Ci sono le Ninfee rosa di Claude Monet (1897-1899), la loro rielaborazione, a base di materiali extrapittorici, fatta da Stefano Arienti (1991) e la loro versione modaiola, in forma di light box (Luca Rento, 2004). Un’assonanza di soggetto o una rielaborazione tecnica sono davvero sufficienti a sostanziare la creazione di una sala espositiva?
 
In un’altra sala L’ultima cena di Mario Ceroli (1965) guarda in direzione di un suggestivo tavolo di gessi. L’accostamento è affascinante, ma l’opera di Ceroli finisce per sembrare l’arredamento di un cinema dismesso e il tavolo di gessi un mucchio di prototipi da laboratorio artigianale. In pochi sanno che sul tavolo c’è un gesso di Canova, perché non è scritto da nessuna parte.
 
In definitiva, mi sembra che la nuova Galleria di contemporaneo abbia solo il nome. Esistono una curatela e una museografia realmente contemporanee nel mondo, alle quali sarebbe stato doveroso guardare. Un modo lieve, ludico o accattivante di esporre l’arte vecchia e nuova è certamente possibile e auspicabile! Ma questo non può andare a scapito del rigore scientifico. Mi piace pensare che il museo possa avere ancora una funzione educativa. Il pubblico va accompagnato attraverso un percorso di conoscenza. Non va solo compiaciuto. E si sa, i percorsi di conoscenza, alle volte, sono  anche un po’ ostici e noiosi!
di
Giorgia TERRINONI                                  Roma 8 / 1 / 2017