Giovanni Cardone Marzo 2023
Fino al 7 Maggio 2023 si potrà ammirare a Palazzo Barolo Torino la mostra Da Monet a Picasso Capolavori della Johannesburg Art Gallery a cura di Simona Bartolena. A Palazzo Barolo un racconto visuale in sessantatre opere, una collezione che sarà un viaggio composito nella storia dell’arte internazionale, ma anche una suggestione culturale su una scena artistica e realtà museale poco conosciuta, come la Johannesburg Art Gallery. La mostra evento che racchiude le opere originali dei maggiori protagonisti della storia dell’arte di tutti i tempi: Monet, Signac, Courbet, Degas, Cézanne, Sisley, Van Gogh, Derain, Picasso, Matisse, Rossetti, Modigliani, Bacon, Warhol, Lichtenstein, Kentridge. L’esposizione riflette, di fatto, proprio il percorso di crescita artistico-culturale della città di Johannesburg e in particolare della JAG, Johannesburg Art Gallery, fondata nei primi anni del 1900 dalla collezionista Dorothea Sarah Florence Alexandra Ortlepp Phillips, meglio nota come Lady Florence Phillips, con l'intento di trasformare un centro minerario, cresciuto intorno alla ricchezza dei suoi giacimenti, in una città improntata sui modelli delle capitali europee, con un museo che non fosse solo uno spazio nel quale raccogliere opere d’arte ed esporle, ma un luogo per la società civile, dove fare e promuovere cultura; un riferimento per tutti, non solo per gli appassionati d’arte.

L'obiettivo di lungo termine era quello di preparare la strada per la crescita di una Scuola d’Arte Sudafricana, incentivando gli artisti locali, per una crescita culturale di tutta la popolazione. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla nascita della Johannesburg Art Gallery e sull’arte africana apro il mio saggio dicendo : Fino all’inizio dell’Ottocento la presunta incapacità a governarsi e a svilupparsi autonomamente attribuita alle popolazioni africane, costituì la giustificazione morale della sua riduzione in schiavitù, quando poi gli interessi della rivoluzione industriale europea prevalsero, l’Africa venne considerata alla stregua di “terra bruciata” su cui costruire le fortune della civiltà europea. Nei confronti del Continente Nero continuarono ad essere espresse forme di condanna e di rifiuto verso il diverso, come ad esempio nel caso delle dichiarazioni fatte da G.W. Hegel in Lezioni sulla filosofia della storia (1837). Le parole di Hegel costituiscono quindi un caso esemplare di quella doppia morale, caratterizzante la comune coscienza ideologica di quei secoli, che guardava con occhi diversi le violenze esercitate attraverso la schiavitù da parte dalla “civiltà” europea, rispetto allo stile di vita barbaro e primitivo delle tribù selvagge. A questa chiave di lettura e di interpretazione fortemente negativa dell’alterità culturale si affiancò, fin dall’inizio delle conquiste europee, la prospettiva – altrettanto distorta – che invece tendeva all’idealizzazione esotica e utopistica delle culture cosiddette “primitive”. L’immagine che si tende a rappresentare in questo caso è invece quella, come scrisse Hegel, di un «mondo naturale, semplice, genuino, armonioso, scevro di corruzione e dotato di un’originaria virtù e nobiltà, che ritrova un automatico riscontro nella stessa immagine fisica del “selvaggio”» . Anche questo tipo di atteggiamento era viziato da una prospettiva distorta e culturalmente determinata, dal momento che poco importava se questo “selvaggio” provenisse dall’America, dall’Asia o dall’Africa, tutti si assomigliavano purché non fossero europei. Tale visione si concretizza dunque nel “mito del buon selvaggio”, ossia una narrazione che raffigurava un’umanità primitiva e incorrotta, primordiale e innocente, che evocava atmosfere idilliache e pacifiche in cui l’uomo era in armonia con la natura. Esemplare è il brano tratto da una delle lettere di Paul Gauguin alla moglie: Possa venire il giorno (e forse sarà presto) in cui andrò a rifugiarmi nei boschi di un’isola dell’Oceania, a vivere là di estasi, di calma e d’arte.
Circondato da una nuova famiglia, lungi da questa lotta europea per il denaro, là a Tahiti potrò, nel silenzio delle belle notti tropicali, ascoltare la dolce musica mormorante dei battiti del mio cuore in armonia amorosa con gli esseri misteriosi che mi circonderanno. Libero finalmente, senza preoccupazioni di danaro, potrò amare, cantare e morire». Si tratta di atteggiamenti e stati d’animo presenti in larghi strati della sensibilità europea di fine Ottocento e inizio Novecento, ma che si trascinano fino ad oggi ed emergono soprattutto nell’industria turistica moderna che tende a recuperarli e a riproporli. Attraverso le guide di viaggio, precisi stereotipi simbolici volti ad esaltare il pittoresco vengono promossi. Si pensi ad esempio al cosiddetto “mal d’Africa”, ossia il «fascino irresistibile, vissuto e raccontato in chiave esotica, del Continente Nero» , che una volta visitato non si può che desiderare di tornarci o di restarci per la vita. I paesi in via di sviluppo si presentano quindi, ancora oggi, come serbatoi di esotismo e mete di consumismo vacanziero grazie a cui il turista occidentale riesce a vedere solo ciò che si aspetta e che gli si vuol far vedere, confermando così nuovamente l’esistenza di un’immagine simulata che si sovrappone ad una realtà celata o ignorata. In conclusione l’immaginario del “selvaggio”, oscillante tra l’esaltazione e la condanna a seconda dell’osservatore e della teoria da dimostrare ha costituito un’importante strumento funzionale agli obbiettivi e alle strategie dell’espansionismo politico ed economico europeo, e ha contribuito sostanzialmente alla creazione di un repertorio di temi, immagini e stereotipi, un filtro incorporato attraverso cui spesso e inconsciamente la mentalità occidentale si rapporta con le culture “altre”. Anche per quanto riguarda le arti estetiche in generale si registra, nei confronti dell’art négre, la persistenza di un sistema di opposizioni paradigmatiche, di luoghi comuni e di un certo immaginario stereotipato, che ha funzionato a lungo ed è stato l’origine di quel fenomeno di fascinazione e riappropriazione artistica conosciuto come primitivismo , che ha influenzato buona parte delle avanguardie artistiche della prima metà del Novecento. Le origini di questo fenomeno, si possono far risalire ben prima; infatti, i primi a portare in Europa i cosiddetti feticci furono i marinai portoghesi verso la fine del XV secolo. Li troviamo raccolti e ammassati soprattutto nelle Wunderkammern ), letteralmente “camere delle meraviglie”, ambienti di una residenza in cui erano collezionati e disposti senza regola artefatti rari e curiosi di tipo esotico prodotti dall’uomo (artificialia) o presenti in natura (naturalia) portati in patria da viaggiatori ed esploratori . Soltanto più tardi, a partire dal XIX secolo, questi bizzarri manufatti (exotica) verranno riconosciuti e definiti come oggetti etnografici prima, e come arte africana poi. Subirono, infatti, un vero e proprio processo di estetizzazione, dal momento che furono considerati come arte in quanto venne riconosciuto loro un carattere estetico che, con ogni probabilità, non avevano nel loro contesto nativo. Si tratta di un’operazione di riappropriazione di oggetti, come maschere, feticci, statue, o addirittura di pratiche rituali come le pitture corporali, che vennero decontestualizzati e fantasticati, trasformando i creatori in artisti sotto l’azione rivelatrice di un agente esterno .

Si pensi all’operazione che 16 venne compiuta da Jean-Hubert Martin con la grande mostra “Les Magiciens de la Terre” (1989), in cui alcuni artisti africani sono stati letteralmente “rivelati” da demiurghi esterni occidentali, come l’etnologo Jacques Mercier, artefice della trasformazione dei fabbricanti di talismani etiopi Gera e Gedewon in artisti, o il ricercatore e curatore André Magnin, che ha tramutato il profeta e inventore di un sistema di scrittura Frédéric Bruly Bouabré in uno degli artisti africani contemporanei più conosciuti. L’origine di questo cambiamento di sguardo nei confronti dei manufatti africani si può far risalire, più precisamente, ad una certa perdita di forza dell’arte europea della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, a cui gli esponenti delle correnti fauve e cubismo risposero dando inizio alla cosiddetta “rivoluzione primitivista” . Questo fenomeno affonda le radici in certe teorie del romanticismo che promuovevano un’espressione artistica libera e istintiva, immediata e al di fuori dei vincoli della tradizione. In un passo del 1846, Charles Baudelaire aveva sostenuto che l’arte (e in particolare la pittura) per muoversi verso la perfezione doveva tornare alla propria infanzia, al suo essere ingenua e spontanea .
Negli ultimi anni dell’Ottocento, inoltre, l’incremento di studi e di collezioni di antropologia e di etnologia costituì una spinta importante per risolvere e superare la crisi del naturalismo. Infatti, l’associazione della libera espressività con l’idea di autenticità fece sì che avvenne una sostanziale rivalutazione delle immagini antinaturalistiche prodotte dalle culture tribali: fu così che la nozione di “arte primitiva” fece ingresso nella cultura figurativa del Novecento. L’infanzia dell’uomo venne identificata con quella delle civiltà , riconoscendo nelle forme artistiche primordiali e incontaminate l’espressione libera e istintiva dei fanciulli, rovesciando la sua consueta valutazione negativa e dispregiativa legata alla rozzezza dei manufatti e all’inabilità dei loro artefici. Come si è visto precedentemente, era comune prassi accostare l’uomo primitivo al “mito del buon selvaggio” o del “pagano cannibale”; allo stesso modo, nell’arte, prese forma un’interpretazione ideale e astratta della produzione africana, che privilegiava una lettura esclusivamente formalistica e orientata anche in questo caso a scopi utilitaristici rivolti a risolvere specifici problemi di pittura e scultura moderna . La semplificazione delle forme, l’assenza di impianti narrativi, l’enfasi sui valori plastici essenziali e il vivace uso del colore, erano gli elementi catturati dall’arte tribale e celebrati come origine di una nuova sintassi pittorica .

D’abitudine i libri d’arte identificano l’avvio di quel rinnovamento di gusto e di linguaggi che prese il nome di primitivismo con il viaggio che Paul Gauguin compì nel 1890, testimoniato da una lettera al pittore Émile Bernard in cui preannunciava la sua intenzione di trasferirsi a Tahiti «come un uomo che si ritira dal mondo cosiddetto civile per non frequentare che i cosiddetti selvaggi» . Ma la fortuna dell’arte africana in Europa nasce nell’anno 1905. L’aneddoto che ne consacra l’inizio riguarda l’acquisto, da parte dell’artista fauve Maurice de Vlaminck, di tre statuette africane viste in un bistro di Argenteuil e della cessione, poi, di una maschera bianca fang a Derain, scatenando l’entusiasmo e la folgorazione di Picasso e Matisse quando la videro appesa nel suo studio . Il discorso storico sul primitivismo, all’interno della storia dell’arte del primo Novecento, passa poi attraverso l’incontro dei surrealisti con gli antropologi negli anni Venti e arriva fino al recupero di queste esperienze da parte della New York School negli anni Quaranta . Il primitivismo nell’arte agì sostanzialmente su tre piani. Il primo riguarda il carattere ideale della rappresentazione del mondo primitivo, come paradiso perduto o universo idilliaco e atemporale, prospettiva ben esemplificata dai paesaggi tahitiani di Gauguin che restituivano l’immagine di una natura pura e incontaminata, o dalla pittura di Matisse quando nel 1906 lavorava a La gioia di vivere. Il secondo aspetto riguarda invece come già sottolineato quella che era stata identificata come soluzione a problemi espressivi della pittura tradizionale, ossia la semplicità formale e la libertà plastica dell’arte nera. Attraverso l’osservazione di sculture e maschere tribali, si giunse a riprodurre insiemi pittorici modellati sulla concezione della realtà più che sulla diretta visione del reale: questo risultato aveva segnato la nascita del cubismo. La rielaborazione dell’arte primitiva portò quindi, in una prima fase, all’estrema scomposizione analitica degli oggetti e poi, nella seconda fase, ad una sintetizzazione geometrica delle forme attraverso il collage. La tipologia delle maschere africane, comunque, ebbe una straordinaria fortuna anche al di fuori del cubismo; si pensi, ad esempio, a come si ritrovano nei volti della pittura di Derain le semplici geometrie delle maschere nigeriane ibo, oppure, come afferma Del Puppo (2003) a «quel genere di assonanze che di norma gli osservatori stabiliscono tra le sculture di Modigliani e le ampie convessità delle maschere guro della Costa d’Avorio» , o ancora ai dipinti di Matisse, come Ritratto di Madame Matisse (1913), che evocano la semplificazione formale delle maschere fang dal Gabon. L’espressionismo tedesco, invece, prima con il gruppo Die Brüke e poi con Der Blaue Reiter di Kandinskij, trasse dall’esperienza delle culture primitive, caratterizzate dalla spontaneità e dall’essenzialità, gli ingredienti per giungere ad un’astrazione pittorica. Discorso diverso si deve fare per il surrealismo di Breton che, nel 1926, dichiarò che «l’occhio esiste allo stato selvaggio», ossia che la visione, rispetto agli altri sensi, esiste in uno stato in cui non è contaminata dalla ragione e quindi può vedere attraverso l’inconscio in maniera immediata e profonda, attuando un’unione tra la sfera del reale e la dimensione onirica della surrealtà. L’ultimo piano, infine, riguarda il fatto che molti autori rimasero colpiti dalle deformità e dai caratteri grotteschi che sfruttarono per porre enfasi sull’aspetto magico e rituale: si pensi all’esemplare caso di Picasso, che, a partire dalle Demoiselles d’Avignon (1907), sfruttò l’aspetto mostruoso delle maschere africane come espediente simbolico, magico ed esorcistico. In particolare, questa lettura dell’arte primitiva costituì nel suo celebre dipinto il modello per le due figure deformi di destra, stratagemma stilistico che gli servì per raffigurare il timore della morte in contrapposizione con la seducente offerta della grazia femminile delle tre figure di sinistra. Dunque, il primitivismo è stato visto come un fenomeno unidirezionale e non reciproco. L’art négre, nel corso del XX secolo, venne proiettata a senso unico sull’arte europea per rigenerarla, senza mai considerare la possibilità di interpellare gli artisti viventi africani nei dibattiti dei colleghi europei sulla natura dell’arte moderna, concetto ben espresso dalle parole del critico e storico dell’arte africana Olu Oguibe. L’arte africana è stata a lungo considerata come un’arte atemporale, priva di tempo storico e priva di un’autorialità, se non quella di un’anonima produzione collettiva. Un simile approccio alla cultura materiale del Continente africano costituisce quello che Sidney Littlefield Kasfir ha denominato il paradigma «one tribe, one style» , un modello teorico che ha dominato gli studi di arte africana fino ad oggi, con la conseguenza di aver cancellato gli individui-artisti dagli spazi narrativi della storia dell’arte.

È soprattutto a causa di questa concezione che l’arte africana, rappresentata il più delle volte in maniera semplicistica e riduttiva sotto forma di maschere e sculture lignee, è stata vista come il prodotto di una realtà tribale esistente al di fuori della storia, anonima e immutabile, in cui l’individualità creativa del singolo artista veniva rifiutata e veniva ignorata la contemporaneità in cui i “primitivi” agivano, adottando un senso del tempo in cui il presente era reso passato . A partire dal secondo dopoguerra alcuni temi del primitivismo come scrive Del Puppo (2003) vennero usati e convertiti per rispondere a nuove urgenze espressive. Si fa dunque riferimento alla Land Art e a interventi come Spyral Jetty (1970) di Robert Smithson o come i rituali di tracciatura dell’ambiente operati da Richard Long camminando nel deserto o formando a terra grandi figure geometriche, che si ispirano deliberatamente a dispositivi arcaici utilizzati nei riti delle società “primitive”; si fa riferimento all’Arte Povera, alla Transavanguardia italiana, alla Performance Art di Marina Abramovi? che sperimenta rituali di induzione di dolore attraverso il ferro e il fuoco e situazioni per cercare di superare i limiti e le possibilità del corpo per raggiungere un livello di percezione eccezionale – e ad altre esperienze artistiche che hanno in comune un più reciproco e libero confronto con le tradizioni non occidentali. I processi storico-politici di decolonizzazione prima, e quelli culturali che andranno sotto il nome di postmodernismo poi, hanno consentito negli ultimi decenni un profondo riesame della vicenda del primitivismo. Attraverso grandi mostre come “Le Magiciens de la Terre” (Parigi, 1989), “Unpacking Europe” (Rotterdam, 2001) e “The Short Century” (New York, 2002) si è iniziato a riconoscere il valore di contemporaneità ad autori provenienti da culture a cui esso era sempre stato negato , a mostrare i tormenti della colonizzazione e le lotte portate avanti dal Continente africano per la liberazione; si è iniziato a considerare sotto una prospettiva diversa e più realistica l’Europa lontana dalla tradizionale visione evoluzionistica unilaterale di civiltà “bianca” e sviluppata che ha portato la democrazia e i diritti dell’uomo nel resto del mondo “nero” e primitivo come entità da sempre meticcia e al pari di qualsiasi altra realtà . Tutte queste considerazioni saranno poi alla base di una nuova interpretazione critica della storia e dell’arte africana, tesa a liberare il concetto di Africa da tutte quelle connotazioni etiche, religiose, filosofiche e politiche che hanno contribuito a crearne un’immagine inventata, con il risultato di chiudere l’orizzonte della storia più che di indagarne la realtà .

Protagonisti di questo processo saranno critici e storici non occidentali, con la missione di dare voce a quella che è stata a tutti gli effetti la storia dell’arte del Continente africano che, fino a tempi recenti, è stata una disciplina prettamente occidentale, prodotto di una sensibilità euro-americana ed espressione delle riposte estetiche dell’Occidente alla cultura visiva dell’Africa. Ecco perché nel 1910 fu aperta al pubblico la Johannesburg Art Gallery è il principale museo d’arte del continente africano. Una serie inaspettata di capolavori che permettono di percorrere un vero e proprio viaggio nella storia dell’arte del XIX e XX secolo, spaziando dall’Europa agli Stati Uniti, fino al Sudafrica.Ma la vera protagonista dell’esposizione è Lady Florence Phillips, la fondatrice del museo, figura straordinaria, tutta da scoprire. Lady Phillips era nata il 14 giugno 1863 a Cape Town. Suo padre, Albert Frederick Ortlepp, è un naturalista, ispettore dei territori di Colesberg. Nel 1885 Florence aveva sposato Lionel Phillips, figlio di mercanti della lower middle-class londinese, e con lui si era trasferita a Johannesburg. Nel 1892 Lionel era stato eletto presidente della Chamber of Mines, acquistando sempre più potere e perseguendo interessi politici che sfoceranno nel coinvolgimento personale nel “Jameson Raid”, il fallimentare tentativo britannico di sovvertire il governo sudafricano, allora ancora in mano ai boeri. Consegnatosi alla giustizia per chiedere la grazia, Phillips venne invece condannato a morte, ma dopo sei mesi di prigionia venne liberato e costretto all’esilio in Inghilterra. Florence, che fino ad allora aveva viaggiato molto, torna in quell’occasione accanto al marito e lo segue a Londra. È in questo periodo che Florence comincia ad appassionarsi all’arte, prima timidamente, poi con sempre maggior convinzione, cominciando a maturare la convinzione che l’arte possa essere utile, farsi strumento di aiuto sociale, in particolare per le fasce di popolazione più bisognose. Tornata a Johannesburg nel 1906, comincia a dare corpo al suo sogno di realizzare qualcosa di importante per il Sudafrica. Guidata da uno straordinario filantropismo, oltre che dalla volontà di dare visibilità e credibilità culturale al proprio paese d’origine, Lady Phillips immagina una galleria pubblica di livello internazionale, con sede a Johannesburg. Ma il contributo di Florence per il proprio paese non si ferma alla creazione del museo. Collezionista di manufatti africani, Lady Phillips si prodiga nella divulgazione e protezione delle tradizioni dei nativi. Florence morì il 23 agosto del 1940, nella tenuta di famiglia nel West Somerset. Le sembianze di questa donna straordinaria sopravvivono in alcune immagini fotografiche e, soprattutto, in alcuni splendidi dipinti. Uno di questi è la tela di Antonio Mancini, che ritrae Florence a 46 anni, da cui prenderà avvio il percorso della mostra. Le sembianze di questa donna straordinaria sopravvivono in alcune immagini fotografiche e, soprattutto, in alcuni splendidi dipinti. La valorizzazione dell’arte e della cultura sudafricane ha quindi un ruolo importante nelle finalità dell’Art Gallery. Dopo un’introduzione alla figura di Lady Phillips, la mostra comincia il proprio percorso espositivo con la sezione dedicata all’Ottocento inglese, con opere del grande protagonista del romanticismo britannico Joseph Mallord William Turner, dei Preraffaelliti Dante Gabriel Rossetti e John Everett Millais e di Sir Lawrence Alma-Tadema.Un nucleo di opere francesi della seconda metà dell’Ottocento sono le protagoniste della sezione successiva: in esposizione la veduta delle falesie normanne di Étretat di Gustave Courbet e opere di François Millet e Henri-Joseph Harpignie. Il percorso prosegue con la straordinaria novità del linguaggio impressionista delle opere di Monet, Sisley, Degas e Guillaumin e con alcuni protagonisti della scena postimpressionista. Notevole spazio ha in mostra il pointillisme grazie alla presenza di due capolavori di Paul Signac, un paesaggio di Lucien Pissarro e un importante lavoro di Henri Le Sidaner. Segnano, invece, il passaggio al XX secolo i disegni di due grandi scultori: Auguste Rodin e Aristide Maillol. In mostra, al rigore di André Derain fanno da contrappunto l’approccio già avanguardista di Ossip Zadkine e l’inconfondibile eleganza del segno di Amedeo Modigliani e dello sguardo di Henri Matisse. Quattro grafiche e una significativa Testa di Arlecchino a pastello raccontano la ricerca di Pablo Picasso.
La collezione storica dedicata al secondo Novecento è testimoniata da un tormentato ritratto maschile di Francis Bacon, un intenso carboncino di Henry Moore, e due capolavori pop di Roy Lichtensteine Andy Warhol. L’ultima sezione della mostra è dedicata all’arte africana e si chiude con tre splendide opere di William Kentridge, il più noto rappresentante dell’arte sudafricana nel mondo contemporaneo.
La mostra è suddivisa in tre Sezioni :
La prima sezione della mostra è dedicata alla scena inglese dell’Ottocento, molto presente nella collezione del museo non solo per il legame strettissimo della società che ha dato vita alla Art Gallery con gli ambienti britannici, ma anche perché alcune donazioni hanno ulteriormente arricchito la collezione con opere vittoriane e preraffaellite.
La seconda sezione, invece, ripercorre la scena francese del XIX secolo, dall’esperienza dei barbizonniers ben rappresentata da un poetico paesaggio di Corot al realismo di Courbet presente in mostra con uno splendido scorcio delle falesie di Étretat , per arrivare, passando da Monet, Sisley e Degas, fino alle generazioni del postimpressionismo. Una sezione eterogenea, che comprende pochi decenni di pittura ma una sorprendente varietà di linguaggi, suggerendo un percorso molto noto ma sempre interessante, che prende avvio dalle ricerche sul vero dei grandi padri del movimento, prosegue negli anni d’oro dell’impressionismo per arrivare a coloro che, forti delle sperimentazioni formali e delle conquiste della nouvelle peinture, si sono spinti più in là, aprendo le porte al XX secolo. Presenti nella sezione, oltre alle personalità cardine di questa epocale svolta quali Cézanne e Van Gogh anche artisti come Signac, Le Sidaner, Vuillard, Bonnard e altri.
La terza sezione è occupata dal più recente nucleo novecentesco del museo, dove sono rappresentati i protagonisti della scena del primo Novecento: da Derain a Picasso, da Modigliani a Matisse, con un Rossetti, perla della collezione. Il percorso prosegue poi nel secondo dopoguerra, con opere di importanti maestri della scena internazionale, tra cui spicca un doloroso ritratto di Francis Bacon e il trittico omaggio a Beuys di Andy Warhol.
Un'ulteriore sezione è dedicata alla scena sudafricana, l’arte del mondo di Lady Phillips, dove di enorme valore sono le tre opere di Kentridge. Le opere esposte sono firmate da artisti ben rappresentativi di un contesto che da sempre si dibatte tra culture diverse, diviso tra tradizioni locali e influenze europee.
Palazzo Barolo Torino
Da Monet a Picasso Capolavori della Johannesburg Art Gallery
dal 4 Febbraio 2023 al 7 Maggio 2023
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 17.30
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.30
Lunedì Chiuso