La Nave di Teseo 2016
Vittorio Sgarbi non finisce mai di stupirci. A cominciare dalle capre (
sic), quelle che figurano in primo piano sulla copertina del suo ultimo libro
Dall'ombra alla luce. Non sono gli animali di
Fedro o di
Esopo, né quelli di
La Fontaine con il loro carico moraleggiante, ma bestiole dallo sguardo pressoché antropico, interrogativo e - si direbbe - alquanto perplesso sul conto della condizione umana, se è vero come scrive lo stesso
Sgarbi, che nei loro occhi “
c'è una verità dolente, un'alternativa coscienza del mondo, un'umanità mascherata”.
Ma lo stupore che il critico riesce a suscitare nel lettore amante dell'arte non è - naturalmente - in questa, in fondo, arguta trovata; ma in tutte le pagine godibilissime del suo ultimo lavoro, una sorta di avventura alla Indiana Jones, alla scoperta di tesori nascosti in questo Paese, dove non puoi fare un passo che scopri l'impronta di un passato comunque memorabile e le tracce, i segni dello stile inconfondibile di artisti, che al
Bello hanno destinato la miglior parte della propria genialità.
Il critico ferrarese, novello
Longhi, sta compiendo un'opera esplorativa della pittura italiana, un
grand tour alla maniera antica entro i confini nostrani, riuscendo a scoprire e “sistemare”, sottraendole ad un indecoroso oblio, opere di eccezionale fattura che non è esagerato, il più delle volte, paragonare a quelle già celebri degli artisti più grandi.
Sgarbi non è parco nel fare riferimenti spiazzanti ma sempre obiettivamente calibrati sulle evidenti “attinenze“ e motivazioni, che, al di là della categoria temporale, mettono in maggior luce e in maggiore “significazione“ opere e/o artisti di epoche anche lontane tra loro. Succede, così, di poter addirittura leggere, a proposito dell'evoluzione pittorica dell'ultimo
Caravaggio - mentre
Rubens cavalca ormai l'onda del trionfo barocco - un sintomo anticipatore della “sensibilità dei
vinti di
Malavoglia”. E il quadro d'insieme, in tal modo, non sfoca pericolosamente in un riferimento diacronico apparentemente esagerato o fuori luogo, ma si precisa, si mette a fuoco, e, dentro di te, tra allusioni e collusioni letterarie e pittoriche, avverti l'acume e l'infallibilità del critico navigato e sapiente.
E così, seguendo la mappa delle argomentazioni sgarbiane, sempre puntigliosamente e precisamente documentate, è dato di individuare quasi il
certificato anagrafico del barocco con tanto di luogo e data di nascita. Luogo: Italia centrale, tra Roma e Fermo. Data: 1608. È l'ultimo anno di
Rubens in Italia, il magniloquente, sontuoso, geniale pittore fiammingo, che, proprio nel Paese di
Raffaello e
Michelangelo (grazia e potenza dell'arte figurativa nostrana), s'invola metaforicamente, come dire?, nell'universo della grande pittura, auspici - sul versante veneto -
Correggio, Tiziano, Pordenone, Tintoretto, Veronese, e - sul versante romano -
Carracci e
Caravaggio, quest'ultimo soprattutto per la fama di pittore “maledetto”.

A Rubens (1577-1640) i frati Filippini avevano commissionato, per la
chiesa di S. Filippo a Fermo e dopo i lavori romani in
S. Maria in Vallicella, una
Natività che - secondo Sgarbi -
Longhi nel 1927 non tarderà a riconoscere, in maniera definitiva, di mano del fiammingo e che intitolerà la
Notte santa (fig. 1). In questo dipinto,
Sgarbi scorge alcune “suggestioni” che
Rubens avrebbe subìto nel suo soggiorno veneto e romano e che si riverberano, in particolare, nella
luce e nel sovrastante coro degli
angeli.
La
luce - se non per l'impossibile visione diretta da parte di
Rubens ma per il gran parlare che se ne faceva a Roma tra gli artisti in visita e per l'enfasi che si poteva scorgere nelle opere di
Gherardo delle Notti - parrebbe risentire dei riflessi di quella di
Caravaggio e, più precisamente, della luminosità che emana dalla sua palermitana
Natività coi santi Francesco e Lorenzo. Qui la luce è parimenti diffusa su tutti i personaggi che popolano il quadro e, proveniente da sinistra, colpisce soprattutto l'angelo annunciante, blandisce il volto seriamente compunto della Madonna e pare appena sfiorare il divino Bambino, che giace disteso a terra, nudo come la Madre l'ha generato e adagiato su un piccolo giaciglio di paglia. Tutt'intorno incombe, a contrasto, il buio caravaggesco, così importante per la profondità e la prospettiva più atte a restituire l'impressione del “naturale”.
L'
angelo, a sua volta, è il personaggio caratteristico di questo dipinto e, come in un volo a planare, srotola e sbandiera un nastro con la scritta delle parole di lode a Dio. Non c'è la moltitudine dell'esercito celeste di cui narra l'evangelista Luca e l'audio del coro degli angeli si è concretato nel video, altrettanto suggestivo, della scritta veliforme; e la composizione del dipinto, pur nella compostezza ieratica dei personaggi, crea e conserva l'atmosfera tipica di tutte le “adorazioni” e di tutti i “presepi” che arricchiscono la tradizione del culto natalizio in Italia
(fig. 2).
A fronte dell'opera di
Caravaggio, la marchigiana
Notte santa di
Rubens, e sempre con riferimento all'elemento “luce” - come
Sgarbi suggerisce di vedere - tradisce forse una più marcata ascendenza, quella di
Correggio (1489-1534). Nel suo viaggio in Italia (1600-1608),
Rubens s'era recato a Reggio per ammirare la sua tela, la
Natività, già famosissima e tanto da far dire al
Vasari:

«
È in Reggio medesimamente una tavola, drentovi una Natività di Cristo, ove partendosi da quello uno splendore, fa lume a' pastori e intorno alle figure che lo contemplano; e fra molte considerazioni avute in questo suggetto, vi è una femina che volendo fisamente guardare verso Cristo, e per non potere gli occhi mortali sofferire la luce della Sua divinità, che con i raggi par che percuota quella figura, si mette la mano dinanzi agl'occhi, tanto bene espressa che è una maraviglia. Èvvi un coro di Angeli sopra la capanna che cantano, che son tanto ben fatti che par che siano più tosto piovuti dal cielo che fatti dalla mano d'un pittore».
La luce, dunque, genitrice primigenia dell'arte pittorica, qui - e per tutto il periodo barocco - sprigiona tutto il suo incantamento, che, evidentemente, non lasciò indifferente
Rubens. La luce, ancora, come aveva ben sottolineato Vasari, è la protagonista di questa opera meravigliosa ed è essa stessa motivo di dinamismo all'interno di una scena che, altrimenti, sarebbe risultata piuttosto statica. La naturale pacatezza di
Correggio lo portò a mitigare l'esuberante colorismo veneziano: il suo cromatismo si sviluppa sulla scala armonica della morbidezza e l'elemento prospettico (che non si ritrova, per esempio, in
Caravaggio se non nel
Riposo durante la fuga in Egitto) si apre in profondità, sullo scorcio d'un'alba imminente.
La luce, infine, in quest'opera di
Correggio prende scaturigine dal Dio-bambino, s'irradia sul contesto inondandolo d'una luminosità pressoché accecante: solo la Madre, senza farsene schermo alcuno (come, invece, accade ad una delle donne più vicine), riesce a eluderla, divinamente presa dal fulgore del suo pargolo. Il Bambino si fa, in tal modo, centro propulsore di chiarore mistico e centro di una immaginifica “X” formale in cui si incontrano e si incrociano, per la prima volta, umanità e divinità
(fig. 3).
Gli
angeli che compaiono in questa tavola di Dresda, avvolti in una nube, paiono anticipare le corone gaudiose di creature celesti che si ammirano nella
Vergine con gli angeli di
Rubens nella chiesa romana di
Santa Maria in Vallicella e che torneranno nella
Notte santa di Fermo dello stesso

autore
. Ma, ancora una volta, è la luce che torna a prendere il sopravvento e che segnerà gli esiti più convincenti della montante stagione barocca. Il pittore di Siegen raccoglie il testimone, tutto italiano, d'una pittura colma di premesse e prerequisiti tali da avvalorare sviluppi omnidirezionali: lo sbocco, alla fine, prenderà il nome di barocco e sarà proprio
Rubens a diffonderne in tutta Europa, le forme, le suggestioni, la luce e l'acceso colore.
In altri termini, il “putto allevato a Roma”, secondo la definizione di
Padre Ricci, crescerà e si farà strada, con un'intrapresa di tipo imprenditoriale, percorrendo gli itinerari, anzi, i corridoi e le stanze delle più ricche corti e dimore europee (Mantova, Genova, Anversa e Francia, Spagna, Olanda, Inghilterra). Preceduto e rincorso da una fama inusitata,
Rubens non si periterà di fare sul proprio conto un'affermazione a suo modo altrettanto barocca: « Il mio talento è tale che nessuna impresa, per quanto vasta di dimensioni, mai supererà il mio coraggio». La sua pittura fu vittoriosa in forza d'una vitalità nuova, che restituì vigore alle tramontanti conquiste rinascimentali, vitalità declinata in tutte le variegate tonalità coloristiche e nella preziosità fulgente dei panneggi, magistralmente calibrate e chiaroscurate: il tutto concepito e “contenuto” in uno spazio-non spazio, nell'esplosione di una dimensione illimitata. L'
“horror vacui”, tipico di questo movimento, tradiva, forse, in un tempo non alieno da contrasti politici e dissidi religiosi (
Guerra dei Trent'anni e
Controriforma) il bisogno di nuovi equilibri e nuovi traguardi, non solo nel campo dell'arte, ma anche in quello storico e civile.
di
Luigi MUSACCHIO Roma 11 / 2 / 217