Breve storia della pittura sui muri

di
Giorgia TERRINONI
 
Si narra che anticamente nella città greca di Corinto vivessero un vasaio di nome Butade e sua figlia. La fanciulla aveva un fidanzato del quale era perdutamente innamorata, al punto da non poter sopportare che questi dovesse allontanarsi da lei per qualche tempo. La sera prima della partenza dell'amato, che giaceva addormentato al suo fianco, la giovane, inconsolabile, faticava a prendere sonno. Ma, durante quelle lunghe ore di veglia, ella si accorse che il profilo del ragazzo, se illuminato da una lanterna, proiettava la propria ombra sulla parete della stanza. Fu allora che la fanciulla di Corinto prese uno dei pennelli che il padre usava per decorare i vasi e tracciò la sagoma dell'amato sulla parete. Per conservarne la presenza durante la sua assenza. È la nascita della pittura. La pittura, dunque, ha origine da una serie di linee tracciate sulla parete di una stanza. Il racconto prosegue con il vasaio Butade che, su quelle linee impresse l'argilla, riuscì a riprodurre il calco del volto dell'innamorato di sua figlia. Attraverso un ulteriore passaggio nasce anche la scultura.
 
La pittura è traccia, è impronta. È presenza necessaria, per un'assenza che si prospetta insuperabile.
 
Tutti i racconti sulle origini dell'arte hanno qualcosa di struggente. L'arte sembra essere sorta da un'esigenza disperata, eppure estremamente vitale. La fanciulla di Corinto e il vasaio Butade, Narciso e il suo doppio, gli uomini anonimi imprigionati nella caverna platonica.
 
La nascita dell'arte ha parecchio a che fare con l'ombra, la proiezione, l'immagine speculare e il muro. Sono tutti aspetti parimenti fascinosi e importanti (anche tutti correlati). Ma ciò che qui interessa è il legame sentimentale tra l'arte e il muro.
 
La magia delle immagini sulle caverne preistoriche fa pensare a un'insopprimibile esigenza di rappresentare. Manca la luce e mancano i mezzi, eppure il primo uomo si ostina a tracciare dei disegni, a comunicare con l'al di qua e l'al di là, con la realtà e la superstizione, col presente e il futuro.
 
C'è poi la lunghissima storia dell'affresco che dal Medioevo arriva fino a Jasper Johns. Quel genio ottuso americano che mima su tela la faticosissima tecnica a encausto; il tutto per rappresentare la banalità della bandiera americana!
 
Dopo secoli e secoli di una pittura murale grandissima, pur al servizio della Chiesa, arriva il momento in cui gli artisti europei si misurano con l'irrappresentabile. La morte truce e inutile imposta dalle guerre moderne. La strada la apre, al solito, Pablo Picasso. La guerra in questo caso è quella civile spagnola (1936-39), oscuro preludio al dominio incontrastato e funereo che, ironia della sorte, un imbianchino sta per imporre su un'Europa inerme. Il quadro è Guernica (1937) ed è una tela ma, per gli uomini a venire, avrà la potenza simbolica di un muro. La morte dei civili in guerra è pura crudeltà, lacerazione e, soprattutto, non è a colori.
Memore della lezione del genio spagnolo, l'Informale affida alla metafora della materia la necessaria e urgente rappresentazione dell'irrappresentabile. In rapidissima successione arrivano le superfici tattili di Alberto Burri, i muri di Antoni Tàpies e gli Ostaggi di Jean Fautrier, la cui materia accidentata e resistente vuol proprio ricordare quel muro che impedì all'artista di assistere con gli occhi a un'inutilmente crudele fucilazione. Tuttavia, quel muro non gli impedì di sentire, immaginare e rappresentare proprio quella fucilazione.
 
Un altro Jean che di cognome faceva Dubuffet arrivò a spezzare quel clima insostenibilmente tragico in cui si muovevano i suoi colleghi. Dubuffet è serio tanto quanto Fautrier, ma ha dalla sua un'arma che l'artista degli Ostaggi non possiede: l'umorismo.
Egli si è sempre interessato a tutto ciò che si trova ai margini storici e concettuali dell'arte. Oggi, lo si chiamerebbe un artista border line. Il segno e la materia bruti. Proprio dalla fascinazione per i marginali nasce l'art brut, mentre dall'oscenità gratuita del graffito nascono opere come la Métafisyx (1950).
 
Dall'arte parte dell'oceano un artista in tutto e per tutto bipolare, Cy Twombly amplifica e santifica lo sciocco graffito (Olympia, 1957), prendendosi gioco del grande muralismo messicano – rappresentato da una triade: Diego Rivera, Josè Clemente Orozco e Alfaro David Siqueiros – e dell' Espressionismo Astratto. Ma l'arte statunitense con la sfrontatezza politica dei muralisti messicani ha dovuto a lungo fare i conti.
 
 Due decenni di rabbia rivoluzionaria negli Stati Uniti producono un'arte grande, effimera, libera. L'urgenza della protesta conferisce all'arte di concetto una spontaneità e una freschezza urlate. Da brivido! Ma gli anni settanta si chiudono malissimo e gli anni ottanta si aprono ancora peggio. L’arte contemporanea non ha niente a che fare con il Michael Douglas di Wall Street né tantomeno con la follia yankee di Bret Breston Ellis. Gli afroamericani, gli immigrati dell'altra America, le donne e gli omosessuali sono ancora ghettizzati. Il genio di Warhol sta tramontando e l’artista fa appena appena in tempo a cedere il testimone a Jean-Michel Basquiat. Che prima ancora di diventare il re di Soho è stato l’indimenticabile poeta dei muri newyorkesi noto come SAMO©. I graffiti americani nascono nel 1971 grazie a un fattorino di nome Demetrios, che inizia a disseminare il suo nome d’arte – TAKI183 – nei luoghi in cui effettua le consegne. Il suo tag è scritto con il Magic Marker in semplici caratteri maiuscoli: l’importante è il tratto. Da questo momento, centinaia di seguaci inizieranno a tappezzare New York di scritte, dando vita a un vero e proprio mondo di writers.
‘Tu sei lì, sprofondato nel grigiore lugubre di una stazione della metropolitana ed ecco che all’improvviso arriva uno di quei treni colorati e pieni di tag a illuminare tutto, come un gigantesco bouquet dall’America Latina’. Questo lo dirà Claes Oldenburg nel 1973. Non esclusivamente una forma di sottocultura e di autorappresentazione, dunque.
 
Moltissime sono le vie prese dall’arte dei writers di tutto il mondo – che generalmente detestano espressioni quali street art e graffiti art. Difficile fare il punto su questa forma d’arte che, col tempo, è diventata planetaria e, in parte, è ancora illegale e clandestina. E soggetta a continue cancellazioni. Alcuni paesi, UK e USA in testa, hanno condotto una vera e propria guerra ai writers. Considerandoli dei criminali a tutti gli effetti.
Ma l’essenza stessa del writing risiede nel fatto l’arte non è eterna, che può essere cancellata, coperta o ridipinta. Si pensi solo a come sono cambiate nel tempo le immagini realizzate negli spazi messi a disposizione da John Nation a Barton Hill (Bristol), o alla guerra che, per anni, si sono fatti Robbo e Bansky. La maggior parte delle opere a stencil di Bansky, inoltre, non è più visibile. Non solo perché i suoi graffiti sono stati rimossi da qualche affarista dell’arte per far quattrini, ma soprattutto perché sono stati cancellati. I muri di una città cambiano in continuazione!
Nel 1986 Keith Haring realizzò un graffito lungo 300 metri sulla parte occidentale del muro di Berlino. Non potendo abbattere il muro, Haring poteva solo distruggerlo dipingendolo. Se pure il suo murale non fosse stato coperto dai graffiti di altri writers, non sarebbe comunque dovuto sopravvivere. Questo era ciò che si augurava Haring e che sarebbe successo solo tre anni dopo, emozionando persino la bambina di sei anni che io allora ero.
A distanza di vent’anni sono iniziate le incursioni di Bansky (e di altri) alla West Bank Barrier, l’immondo e moderno muro del pianto che Israele ha eretto in Cisgiordania. Anche in questo caso, non potendolo abbattere, Bansky ha tentato di minarlo, di aprirvi delle crepe. Questi non sono atti vandalici, questa è bellezza, è responsabilità, è speranza.

Ed è la stessa che hanno portato anche alcuni artisti nella meravigliosa, ma fatiscente e forse anche un po’ putrescente, Roma. I quartieri di Garbatella e San Saba rappresentano ancora oggi gli ultimi baluardi di un’edilizia popolare responsabile, decorosa e, proprio per questo, bella. È quella che fu promossa, in anni lontani, dall’Istituto Case Popolari (I.C.P.). Prima e dopo è arrivata l’ipocrisia urbanistica fascista delle borgate, una nave scuola per i palazzinari degli anni settanta. Anni settanta che, a Roma, non sembrano essere mai finiti. A sanare un poco questo lercio skyline di cemento ci hanno pensato, recentemente, alcuni artisti. Nessun contributo vada alla politica o alle archistar locali – troppo impegnate, queste ultime, a progettare avveniristici aeroporti in Estremo Oriente e musei immaginari per i signori del petrolio.

Ci hanno pensato gli spesso bistrattati artisti dei muri. I vandali che hanno portato a Tor Marancia o a Casal dei Pazzi di nuovo bellezza, responsabilità e speranza.
di
Giorgia TERRINONI                         Roma 10 / 1 / 2017