), l’artista che più fu vicino a Michelangelo nella sua esperienza creativa e umana.
Sono tanti i motivi per recarsi in
Galleria Corsini a Roma, a partire dalla sua collezione scrigno di capolavori raccolti per lo più dal
cardinal Neri, che vanno dalle rare ma importanti presenze caravaggesche al classicismo, in particolare quello marattesco, ai pochi ma selezionati fondi oro.
Vi si può andare per la sua posizione che la colloca ai margini di
Trastevere, dove non mancano tesori e preziose reliquie, come in
santa Cecilia, in
san Francesco a Ripa, in
santa Maria in Trastevere o nella
Madonna della Scala da dove si può raggiungere
Ponte Sisto prima di oltrepassare
porta Settimiana e raggiungere la villa che fu di
Agostino Chigi, la
Farnesina.
Non mancano poi le trattorie tipiche ed è consigliato prenotarne una dato che gli orari di apertura non coincidono più, con la
Galatea di
Raffaello visibile di mattina e la collezione corsiniana che apre nel pomeriggio
A questi elementi di attrazione si aggiunge da oggi e fino al 7 maggio l’allettante possibilità di ammirare due dei pochi dipinti amovibili di
Daniele Ricciarelli da Volterra: una tela e una tavola della collezione senese dei
Conti Pannocchieschi d’Elci, dove furono riunite al più tardi alla metà dell’Ottocento, provenienti da
Casa Ricciarelli. Se ciò non bastasse le due opere vantano, oltre ad una invidiabile condizione conservativa e a un livello qualitativo eccellente, una lunga e consolidata attestazione critica all’interno del
corpus del pittore, cui giunge da ultimo l’attento studio a firma di
Vittoria Romani e
Barbara Agosti che le accompagna in mostra. Per l’occasione si è anche proceduto a una indagine non

invasiva che ha dato risultati interessanti in particolare grazie alle analisi riflettografiche eseguite dalla
dottoressa Cerasuolo a
Capodimonte: si è così evidenziata la lunga e attenta progettazione messa in opera dal pittore, di cui peraltro sono note le notevoli capacità grafiche, che rivela varie fasi e diverse tecniche nel disegno preliminare.
Volterrano di nascita il pittore è romano d’adozione poiché giunto nell’Urbe poco più che ventenne negli anni del
pontificato Farnese, gli stessi che videro
Michelangelo all’opera sul
Giudizio Universale il cui “restauro”, quasi cinque lustri dopo, avrebbe affibbiato a
Daniele il nomignolo di
‘Braghettone’ che non rende giustizia del suo talento artistico.
Pochi altri artisti erano stati d’altra parte in grado di entrare nella cerchia più ristretta degli amici d
i Buonarroti e l’intervento censorio era probabilmente l’unico che potesse preservare quell’opera così rivoluzionaria le cui novità non traspaiono ancora nel più antico dei due dipinti esposti, l’
Elia nel deserto, una tela che rivela invece l’ascendete esercitato su
Daniele da
Perin del Vaga, altro protagonista degli anni di
Paolo III e ultimo erede di
Raffaello a Roma, col quale collaborava ad esempio nella
cappella del Crocifisso a
San Marcello al Corso, e che richiamava nei suoi ‘cartoni’ la plasticità eloquente della volta della
Sistina.
La forza scultorea degli
Ignudi michelangioleschi si ritrova intatta anche nell’
Elia, e vi si accompagna la “umanità malinconica e più quotidiana” dei
Progenitori, cui rinviano inoltre gli aciduli cangiantismi delle vesti che traggono una vitalità nuova dai diversi riverberi dei tessuti al sole.
Dove l’esempio di
Michelangelo non poteva essere d’aiuto,
Daniele da Volterra faceva invece affidamento sugli esempi di
Polidoro da Caravaggio per dar vita a un bel paesaggio all’antica i cui toni tendenti al verde e all’azzurro ne fanno quasi un tutt’uno col cielo ceruleo. La tela mostra il
profeta Elia nel deserto quando, piegato dagli stenti, si preparava alla morte e fu invece salvato dal Signore con pane e acqua: questi elementi ben in evidenza potrebbero alludere al dogma della transustanziazione, in vari modi contestato dalla dottrina protestante, ma promulgato di lì a poco nel
concilio di Trento quale fulcro dell’ortodossia cattolica, legando strettamente il dipinto agli avvenimenti di Controriforma.
Se una datazione agli inizi degli anni Quaranta del Cinquecento sembra calzare meglio all’
Elia nel deserto rispetto ad una più attardata, che pure era

stata proposta, una cronologia più inoltrata nel corso del decennio, quando il confronto con la spazialità prorompente del
Giudizio e dei suoi scorci non poteva più essere evitato, sembra più consona per la
Madonna col Bambino San Giovannino e Santa Barbara. Se quella proposta al 1548 è corretta, come pare, la tavola seguirebbe la decorazione della
cappella Orsini in
Trinità dei Monti che, come testimonia l’affresco superstite della
Deposizione, seppe mettere a frutto la conoscenza del capolavoro sistino. Medesimo è l’affaticarsi senza tregua dei personaggi attorno alla figura centrale del C
risto, che da giudice implacabile si fa qui Salvatore sulla croce, così come si ispirano a quel modello le gestualità eloquenti e le espressioni malinconiche dei volti.
La composizione studiata e meditata raggiunge nel dipinto in mostra l’agognata simmetria contrapponendo alla coppia formata da Gesù e San Giovannino la santa Barbara che sulla destra si sbilancia verso la spada con un gesto inconsulto che ne lascia scorgere il seno, cosa inconsueta per una santa che faceva della verginità il suo vanto. La fortuna del dipinto si può infine evincere dalla presenza di copie e versioni variate, di cui la scheda in catalogo dà conto, così come dall’importanza che opere di tal genere mostrano di aver avuto nella formazione di altri artisti tra i quali si deve ricordare
Pellegrino Tibaldi che, ancor giovane, intraprese un breve ma importante soggiorno romano.
Le due opere vengono poi idealmente accolte in galleria Corsini da altri dipinti manieristi,particolarmente intrisi di michelangiolismo, già presenti nelle collezioni stabili, tra cui si segnalano un’
Annunciazione di
Marcello Venusti e una
Sacra Famiglia di recente assegnata a
Jacopino del Conte.
Come
Michelangelo anche
Daniele da Volterra fu coinvolto nella
vexata quaestio del paragone delle arti che, si sa, nel Cinquecento godeva di rinvigorita fortuna, va letta in questo senso la pittura doppia su ardesia del Louvre, con i due punti di vista contrapposti del
Davide e Golia: sarebbe stato interessante in questo caso confrontare con questi due capolavori la versione del dipinto parigino di recente rintracciata da
Andrea G. De Marchi nelle collezioni delle stesse
Gallerie Nazionali Romane, se non fosse che, come scrive
Vittoria Romani, “non sembra raggiungere il livello qualitativo del pittore”.
Roma 17 / 2 /2017